EVOLUZIONE SENZA
SELEZIONE NATURALE ?
Qualche
riflessione sulla crisi dell’evoluzionismo.
di Paolo
Pasqualucci§
Nota previa
L’evoluzionismo, nella sua ultima
incarnazione – il c.d. neodarwinismo, su base genetica – tiene sempre
ufficialmente banco nell’Accademia. Ma
non mancano le contestazioni ad alcuni suoi fondamentali dogmi anche se il
conformismo dominante impedisce una autentica revisione della teoria. Il presente scritto cerca di impostare un
discorso critico dal punto di vista dell’uomo di media cultura, illustrando una
teoria considerata eretica dal momento che essa nega validità al concetto di “selezione
naturale”. Pur dichiarandosi convinto evoluzionista, il prof. Antonio
Lima-de-Faria, illustre citologo portoghese, sostiene infatti che il concetto
dell’ordine deve prendere il posto di quello della selezione naturale, se si
vuole intendere correttamente il fenomeno dell’evoluzione. Il ricorso al
concetto dell’ordine, modo di essere della natura che si attua secondo
immutabili leggi fisico-matematiche, non può che aprire interessanti
prospettive, anche di tipo filosofico. Infatti, come si può avere un ordine nella
natura senza una mente ordinatrice, capace cioè di agire secondo il nesso causa
finale-causa efficiente? Può un ordine
scaturire dall’ordine, dal suo interno, e mantenersi, senza l’azione di una
causalità efficiente e di un disegno razionale, insomma senza l’azione di
quella Causa Prima assolutamente trascendente che chiamiamo Dio?
Il discorso sull’evoluzionismo va
riaperto. E proprio in base a
quell’esigenza di verità che dovrebbe sempre essere a fondamento della
scienza. Nonostante sia stato scritto
sedici anni fa, oso sperare che questo mio articolo possa dimostrarsi utile alla
ripresa di un sempre più necessario discorso critico. Pur senza condividere l’impostazione
materialistica ed evoluzionistica dell’illustre citologo portoghese, si deve
mettere nel dovuto rilievo, a mio avviso, l’importanza della sua critica al
principio della “selezione naturale”, del quale mostra non solo i limiti ma anche
la sostanziale incapacità a spiegare il fenomeno dell’evoluzione.
* *
Sommario
: 1. Introduzione: dal caso all’ordine. 1.1 La morfologia razionale contro il
neodarwinismo. 1.2 Le intuizioni di D’Arcy Thompson. 1.3 Al
posto del caso, l’ordine. 1.4 Implicazioni del principio dell’ordine. 2. Le
principali tesi del prof. Lima-de-Faria.
2.1 Il concetto di “selezione
naturale” deve esser espunto dalla scienza.
2.2 L’evoluzione non è un
processo unicamente biologico. 2.3
L’evoluzione è auto-evoluzione di “forma” e “funzione”. 2.4
Tutti i fenomeni sono omologhi.
2.5 “Forma” e “funzione” non sono
state create da geni e cromosomi.
2.6 L’elemento principale
dell’evoluzione è la costanza non la variabilità. 2.7 Non
si crea mai nulla di nuovo, l’ordine viene dall’ordine. 3.
Autoevoluzionismo contrapposto frontalmente a neodarwinismo. 4.
Qualche osservazione finale, ragionevolmente critica. 4.1
Sull’indimostrabilità dell’evoluzione.
4.2 Può esistere un ordine senza
uno scopo? 4.3 Milioni di anni o pochi giorni? 4.4
L’improbabile origine biologica dell’etica.
1. Introduzione
: dal caso all’ordine
Nel dibattito scientifico all’interno del campo
evoluzionista, hanno acquistato sicuro rilievo le tesi di chi ritiene ormai
inattuale il concetto stesso di “selezione naturale”, e ipotizza l’esistenza di
una evoluzione senza selezione. È questo il caso del prof. Antonio
Lima-de-Faria, illustre citologo portoghese[1].
Evoluzionista radicale, egli interpreta tutta la realtà
nella stessa ottica rigorosamente materialista degli evoluzionisti attuali, i
neodarwiniani, eredi, da questo punto di vista, del più vieto meccanicismo
positivista. “L’etica ha una base
fisico-chimica [non esita a scrivere] allo stesso modo di ogni altro fenomeno
biologico” (LF, p. 367). Tuttavia, pur
non ricorrendo affatto all’ipotesi del “disegno intelligente”, che implica
l’idea di un Dio creatore, egli nello stesso tempo impugna praticamente tutti i
dogmi dell’evoluzionismo neodarwiniano.
Ed è proprio questo, dal mio punto di vista, il motivo di particolare
interesse della sua concezione, che rappresenta un tentativo radicale di
svincolare l’evoluzionismo dal neodarwinismo, sempre più in crisi. La sua critica del neodarwinismo è capillare
e radicale. Il suo concetto informatore
è il seguente : non esiste una Selezione
Naturale che operi sulla spinta del caso e della necessità. Il caso in natura non esiste. Esiste invece l’ordine, che proviene sempre
dall’ordine. Tutto in natura è ordine,
l’evoluzione risulta da una combinazione intrinsecamente ordinata di “forma” e
“funzione”, dalla loro “autoevoluzione”.
Questo punto mi sembra molto importante. Il darwinismo, nelle sue varie forme, ci ha
abituato a concepire la natura in termini di cieco caso e cieca necessità
: in termini sostanzialmente irrazionali e contraddittori. Infatti, non
si comprende come l’ordine che pur esiste nella natura, e che i darwinisti non
negano di certo, possa essere scaturito dal
caso. Il buon senso e la recta ratio
ritengono che dal caos primigenio, se dominato dal caso, possa esser scaturito
ed essersi perpetuato soltanto il caos, poiché ciò che chiamiamo il caso è impossibilitato a dar vita
come tale ad un ordine checchesia. Il
regno del caso è quello dell’imponderabile ed accidentale, del tutto indeterminabile. Di esso, come ben disse Aristotele, non si dà scienza[2]. Da questo punto di vista, il libro del prof.
Lima-de-Faria rimette le cose a posto.
Esso dimostra con numerosi e convincenti esempi come l’ordine regni
sovrano nella natura, in modo tale da escludere l’intervento del caso. Assai meno convincente mi sembra invece il
suo ragionamento quando egli esclude implicitamene l’esistenza di un Creatore
di questo meraviglioso ordine, allorché nega che nella natura ci sia uno scopo
checchesia (LF, 331) e quando, perseguendo sino alle estreme conseguenze la sua
impostazione evoluzionistica, vuole ricomprendere anche l’uomo, l’uomo nella
sua globalità non la sola sua parte animale, nell’ordine universale delle leggi
fisico-chimiche, come se tra l’uomo e l’animale o l’insetto non ci fosse
differenza alcuna. Di questo aspetto mi
occuperò nella parte finale del presente lavoro, preceduta da un inquadramento
storico dell’opera del prof. Lima-de-Faria e dalla successiva, sintetica
esposizione delle sue tesi fondamentali.
1.1 La morfologia razionale contro il
neodarwinismo La
posizione ed il significato dell’opera del prof. Lima-de-Faria sono ben
delineati dal prof. Carrà nell’Introduzione. Essa si riallaccia alla scuola di pensiero
nota come morfologia razionale. “Sin dalla sua nascita la teoria
dell’evoluzione ha generato uno scontro fra la scuola di pensiero allora
dominante, chiamata morfologia razionale, che cercava nelle leggi fisiche la
spiegazione della tendenza della natura a generare alcune particolari
strutture, e quella che individua nella selezione una adeguata spiegazione
della loro esistenza. Con il passare del
tempo la seconda ha prevalso sulla prima”[3].
La scuola che ha prevalso, e che tuttora prevale, con gran
fracasso mediatico, è quella dell’evoluzionismo di tipo darwiniano, nota oggi
come neodarwinismo o nuova sintesi, che ha cercato di
adattare la teoria dell’evoluzione elaborata da Darwin alle successive scoperte
della scienza, che sembrano contraddire nettamente quella teoria su diversi
punti fondamentali. Come si è giunti
alla “nuova sintesi”?
Il “monaco moravo” Gregor Mendel, padre
della biologia moderna, concluse le sue esperienze nel 1865, sei anni dopo la
prima edizione di The Origin of Species.
Egli passò inosservato, per esser poi
riscoperto all’inizio del XX secolo.
Mendel dimostrò sperimentalmente che “i caratteri (p.e. fiori rossi o
bianchi) si incontrano negli incroci ma rimangono distinti, così che riemergono
puri nella discendenza degli ibridi [...] Egli calcolò anche che la frequenza
dei caratteri rimane costante nelle generazioni successive, cioè che la
struttura morfologica delle popolazioni è una invariante, salvo per alcuni
possibili fattori di disturbo [...]
Questa conclusione rese poco appetibile il pensiero di Mendel negli anni
in cui si affermava la Teoria dell’Evoluzione, il cui postulato
fondamentale era che la composizione
genetica delle popolazioni fosse variante generazione dopo generazione, e addirittura
che l’accumulo di quella variazione nei tempi lunghi fosse all’origine delle
specie, fosse l’Evoluzione stessa.
L’affermazione del Mendelismo corrispose, al principio del Novecento,
all’eclissi dell’Evoluzionismo, finché nel periodo tra le due guerre non si
giunse ad una composizione tra le due teorie, che si convenne di chiamare la
“Nuova Sintesi” (o Teoria Sintetica) dal titolo di un libro di Julian Huxley
[...] Darwin era convinto che l’eredità
risultasse dal mescolamento di liquidi seminali; ma il mescolamento, gli era
stato obiettato, ha l’effetto di dissolvere le variazioni. L’eredità mendeliana è un riassorbimento di
essenze che si associano ma non si mescolano, così che un carattere variato ha
sempre la possibilità di riemergere. L’idea
del mescolamento non era una visione peregrina in Darwin : era un necessario corollario della sua
convinzione che l’ambiente agisse direttamente sui fluidi germinali, quando
essi si preparavano nel corpo per riversarsi nel seme al momento dell’orgasmo. Le essenze di Mendel non si prestavano a
queste influenze e a questi trasferimenti.
Esse erano statiche, permanenti e astratte dall’ambiente. In certi circoli furono considerate
reazionarie e persino clericali, nate com’erano nell’orto di un prete [...] L’Evoluzionismo si risollevò aggrappandosi al
Mendelismo, ma di Darwin non c’era rimasto più nulla, salvo la Selezione
Naturale, che l’ultimo Darwin aveva alquanto ridimensionato, e che la genetica
ebbe sempre in minor conto.
L’accomodamento fu piuttosto equivoco perché le variazioni di Mendel
avevano poco a che fare con le variazioni richieste dalla Teoria
dell’Evoluzione. In realtà, per Mendel,
i caratteri si riassortivano ma non cambiavano, né di tipo né di frequenza
[...] Le variazioni di cui si interessano
gli evoluzionisti moderni derivano da un processo cieco, la “mutazione”, che
Darwin e Mendel ignoravano. L’accumulo
di mutazioni diverse è ciò che, secondo la Teoria Sintetica, produce la
differenza tra le specie. Naturalmente
ciò richiede tempi lunghi e l’opera della Selezione Naturale, che scelga tra le
mutazioni le rarissime vantaggiose, le più vitali”[4].
Ma le mutazioni avvengono improvvisamente e sono in genere
nocive o neutre, dal punto di vista dell’evoluzione. Quelle favorevoli all’evoluzione
devono esser in pratica inesistenti, se è vero che di esse non si offre mai
alcun esempio concreto. Nemmeno il
neodarwiniano Oxford Dictionary of
Biology riesce a mostrarcene uno :
“La maggioranza delle mutazioni sono dannose [sindrome di Down, emofilia,
cancro etc] ma una percentuale (proportion)
molto piccola [ma quali sono?] può incrementare la condizione dell’organismo,
espandendosi nella popolazione per generazioni successive grazie alla selezione
naturale. Le mutazioni sono pertanto
essenziali all’evoluzione, essendo la sorgente ultima delle variazioni
genetiche”[5].
L’esperienza ha poi accertato, che, in armonia con i
mendeliani princìpi dell’ereditarietà, “i caratteri “acquisiti” (o acquired variations) nella lotta con
l’ambiente non si trasmettono ereditariamente.
Il patrimonio ereditario dell’individuo non è determinato dall’ambiente
ma esclusivamente dai cromosomi[6]. Queste
scoperte hanno praticamente tolto ogni consistenza al principio fondamentale
del darwinismo, secondo il quale esiste un’evoluzione lentissima, continua ed
implacabile, prodotta dalla pressione dell’ambiente, che avrebbe conservato
solo le variations utili alla sopravvivenza
delle specie, rendendole ereditarie. Le
specie sembrano invece esser comparse all’improvviso (nel Cambriano, più di 500
milioni di anni fa) mentre non risultano con certezza da nessuna parte né i
famosi “antenati comuni” né le famose “forme intermedie”, note anche come missing links, tra una specie ed
un’altra, frutto logicamente necessario del concetto di un’evoluzione costante
e lentissima, coinvolgente tutte le specie e ritenuta addirittura capace di
produrre nuove specie[7].
Contro l’evoluzione gioca notoriamente anche l’esistenza dei cosiddetti
“fossili viventi”, quali ad es. il pesce tropicale celacanto, l’opossum, il
mollusco Lingula, sostanzialmente identici ai loro fossili, che si datano a
centinaia di milioni di anni fa[8].
Ciò che darwinisti e neodarwinisti hanno
presentato e presentano come “forma intermedia”, per esempio, tra il dinosauro
e l’uccello o la scimmia e l’uomo, risulta sempre da interpretazioni alquanto soggettive di
incerti reperti fossili o di esistenti strutture anatomiche di determinati
organi – l’ala, il braccio, la pinna, la branchia etc - incapaci come tali di dimostrare scientificamente alcunché, in
relazione alla supposta evoluzione da
una specie ad un’altra. I darwinisti non
sono affatto riusciti a dimostrare che certi rudimenti di organi che sembrano
presenti in certe specie, siano veramente tali, costituiscano cioè effettivi residui
di organi funzionanti in una specie anteriore, ipotizzata come antenata[9].
Per trarsi
d’impaccio, i neodarwinisti da un lato hanno elaborato, con S.J. Gould, la
complessa teoria degli “equilibri puntiformi”, che cerca di spiegare perché l’evoluzione, contrariamente al suo assunto
base, avverrebbe, come si è ricordato, per salti improvvisi[10].
Dall’altro, hanno voluto vedere nel gene
il centro dell’evoluzione stessa, giungendo ad affermare un vero e proprio determinismo genetico. Nel DNA ci sarebbe già tutto e tutto si
spiegherebbe deterministicamente (anche la cultura) secondo un’evoluzione
prestabilita nei nostri cromosomi, sempre ad opera della pressione casuale
dell’ambiente. Si tratta di una visione panevoluzionista, che si esprime nella
forma di un “riduzionismo radicale”, in particolare nelle opere dello zoologo
Richard Dawkins, celebre autore di bestsellers scientifici e non. Secondo Dawkins, “le forze evolutive
agiscono unicamente sul gene mentre la sua espressione fisica, il fenotipo, si
limita a veicolarlo” (LF, xix-xx). Il
prof. Dawkins sostiene che la selezione naturale, operando attraverso i geni,
mantiene una sorta di “manipolante controllo remoto” sul nostro organismo[11]. Certamente,
“non si può negare che questo scenario abbia la capacità di coordinare i
singoli fatti biologici in un insieme coerente, apparentemente tetragono alle
più valide obiezioni. E ciò anche se
sfuggono le ragioni in virtù delle quali dal materiale inorganico si siano
formate delle cellule che a loro volta si sono unite o coordinate in strutture
dotate di un livello sempre più elevato di organizzazione”[12].
Ma l’enorme
complessità della natura, svelata con impressionante dovizia proprio
dalla scienza moderna, non permette di accontentarsi di uno scenario fondato
sul semplice caso, all’opera ininterrottamente mediante la “pressione” della
supposta selezione naturale.
“L’automatismo dei processi evolutivi esclude [secondo i neodarwinisti] la presenza di un
progresso che tenda ad un fine ultimo della creazione che si identifichi ad
esempio con l’uomo e con le creature che lo circondano. A questa osservazione si può obiettare che,
senza appellarsi alle “cause finali” della teleologia, la differenziazione e
l’aumento di complessità che si riscontra nella articolata gerarchia di
strutture che presentano gli organismi viventi richiede una giustificazione che
vada al di là della semplice casualità”[13]. È proprio questa l’impostazione della
morfologia razionale (razionale, perché non fatta derivare dal
caso ma dalle leggi fisico-chimiche).
Essa si basa sul fatto che “l’osservazione delle forme naturali rivela
la presenza di alcune tipologie particolari, comuni ad oggetti inanimati e ad
organismi viventi, la cui formazione non può essere del tutto giustificata
attraverso un meccanismo selettivo [cioè ad opera del caso]” (Carrà, LF, xxi).
1.2 Le intuizioni di D’Arcy Thompson Una
prima, approfondita e geniale analisi sistematica di questo razionale disporsi
della forma nella natura fu fatta dallo zoologo scozzese D’Arcy Thompson nel
suo famoso libro del 1917, intitolato Growth
and Form, riedito dalla Cambridge University Press nel 1952[14].
“L’influenza di quest’opera, precisa il prof. Carrà, sul
panorama culturale scientifico si è affermata lentamente e solo oggi viene
adeguatamente riconosciuta. Il punto di
partenza della sua indagine nasce dal presupposto che per interpretare i
fenomeni naturali si debba applicare il rasoio di Ockham, facendo giustizia
delle ipotesi non necessarie. E poiché è
possibile constatare, o dimostrare, che molte forme naturali incluse quelle
biologiche, sono compatibili con le leggi della chimica fisica non dovrebbe
essere necessario ricorrere a meccanismi alternativi [come quelli rappresentati
dalla pressione di una selezione che opera
a caso]. D’Arcy Thompson era del
tutto consapevole che tale impostazione lo avrebbe collocato ai limiti
dell’eresia poiché si opponeva esplicitamente a quel dogma selettivo che veniva
considerato dal convenzionale darwinismo come la risposta universale a tutti i
problemi della biologia. Attualmente
egli dovrebbe combattere contro la più agguerrita forma moderna dell’idea
darwiniana, alimentata dalla genetica e dalla biologia molecolare” (Carrà, FA,
xxi).
Che D’Arcy Thompson fosse considerato un “eretico” dal
darwin-pensiero dominante, lo si deduce anche dal fatto che il suo capolavoro
sia stato riedito dalla Cambridge University Press in forma notevolmente
ridotta. In sostanza, sembra essersi
trattato di una sorta di censura da parte del curatore, giustificata con
l’argomento che le parti soppresse (centinaia di pagine, costituite da interi,
corposi capitoli) potevano considerarsi ormai superate. Il fatto è che l’impostazione di D’Arcy Thompson, volta “a spiegare in termini fisici
e matematici la crescita e la forma biologiche”, era considerata con ostilità. “Sono idee [quelle dello zoologo scozzese]
che nel 1917 erano eretiche, e si deve ammettere che, per ragioni in parte
diverse, ancora oggi [1961] lo sono [...] Egli non nega la selezione naturale,
ma suggerisce che essa operi soltanto a eliminare le forme non adatte, e non
che essa sia la spinta di progresso dell’evoluzione. Egli ritiene che soprattutto sia
ingiustificata e irragionevole l’idea che ogni struttura sia un adattamento
ereditario, sorto attraverso la selezione :
in molti casi egli preferisce considerare la struttura come originata da
dirette forze fisiche : molecolari,
nelle strutture molto piccole, e meccaniche nelle più grandi (e quindi
originata da “adattamenti diretti”). L’eredità
e l’azione dei geni sul processo di sviluppo sono completamente assenti dal
libro, eccettuati pochi occasionali accenni che, a quanto sembra, vogliono dire
che esse non entrano nel suo schema di cose”[15].
Non si può immaginare, nei fatti, una prospettiva più
antidarwiniana di quella dello scienziato scozzese. E difatti il curatore della sua opera si
preoccupava di cercare di dimostrare come e qualmente “le eterodossie di
D’Arcy Thompson possano venire
facilmente ricondotte all’ortodossia”, in una paginetta che mi sembra
abbastanza oscura, già per il fatto di presupporre e applicare il concetto di
“selezione favorevole”, il cui significato scientifico, da ipotetico che era,
sembra sia diventato del tutto nullo dopo la scoperta dell’esistenza delle mutazioni,
nessuna delle quali, come si è ricordato, sembra essersi mai rivelata favorevole alla asserita
evoluzione delle specie.
1.3 Al posto del caso, l’ordine Ma
in realtà l’opera di D’Arcy Thompson, qualsiasi cosa ne pensassero i
neodarwinisti, “ha aperto un programma di ricerche che ha acquistato un respiro
sempre più ampio coinvolgendo matematici, fisici, chimici e biologi, inteso ad
approfondire la natura di quei processi di auto organizzazione che riflettono
la capacità dei sistemi termodinamici aperti ad evolversi spontaneamente [senza
bisogno di supporre una “pressione selettiva”], in determinate condizioni,
verso stati con un più elevato grado di organizzazione” (Carrà, FA, xxi). I modelli matematici elaborati nel corso di
queste complesse ricerche sono giunti a descrivere “processi nei quali emerge un ordine
spaziale” (ivi, xxii). Questo, come ho
già detto, è un punto decisivo : il riapparire del concetto di ordine, in
sostituzione di quello del caso, dogma del darwinismo. Lo sviluppo stesso della scienza impone,
dunque, di tornare al principio secondo il quale la natura opera secondo un
ordine e nient’affatto casualmente.
Ma l’esser costretti dall’evidenza ad adottare il principio dell’esistenza di un “ordine
spaziale” per spiegare “l’auto organizzazione” della natura, implica un’altra
seria conseguenza per la teoria della selezione naturale : il venir meno della supposta, illimitata libertà di creazione di forme di vita da parte
di un’evoluzione affidata al principio del caso. Il caso, infatti, non può esser costretto
entro un numero finito di forme, che
si attuino in natura secondo precise leggi fisico-chimiche. Non può, altrimenti cesserebbe per l’appunto
di essere il caso e diventerebbe ordine.
Questo aspetto essenziale è illustrato con chiarezza dal prof. Carrà.
“È allora legittimo chiedersi se i risultati ottenuti da
tali indagini [dalle ricerche più recenti in tema di morfologia razionale]
possano avere una ricaduta sulla teoria dell’evoluzione poiché sembrano
indicare che la gamma delle variazioni a disposizione della selezione naturale
non è infinita, poiché i processi morfologici favoriscono lo sviluppo di
particolari e ben definite forme” (ivi, xxii).
Ciò significa che le supposte “illimitate possibilità” di evoluzione della
natura si ridurrebbero in realtà al “prevalere di alcuni comportamenti
privilegiati”. Ciò induce, allora, a
ritenere che “i genomi non si limitino a riflettere le pressioni dell’ambiente
ma possano anche generare mutamenti e strutture [produrli indipendentemente
dalla supposta pressione selettiva]” (ivi).
Di fronte alla divaricazione tra morfologia razionale e
teoria delle selezione naturale, sono all’opera oggi (ci ricorda infine il
prof. Carrà) varie ipotesi di ricerca volte o a sottomettere l’una all’altra o
a trovare un punto d’incontro, un coordinamento tra le due (ivi,
xxii-xxiii). Quest’ultima sembra essere
quella oggi prevalente nel dibattito scientifico. Tuttavia, essa non coincide con il punto di
vista del prof. Lima-de-Faria, il quale, “scienziato di riconosciuta fama e
convinto evoluzionista, ci offre con questo volume un contributo personale alla
teoria dell’evoluzione, nel quale, attraverso una analisi puntigliosa e
dettagliata di diversi fatti mette in profonda discussione il ruolo della
selezione naturale. La sua drastica
posizione, che rifiuta ogni compromesso dialettico fra strutturalismo e
selezione, ritenendola del tutto inutile, lo colloca però in una posizione
isolata nell’attuale panorama scientifico.
Pertanto non c’è alcun dubbio che quest’opera sia destinata a suscitare
discussioni. Tuttavia, proprio per il suo contributo anticonformista
essa merita un’attenzione libera da atteggiamenti pregiudiziali, intesa ad
evidenziare quegli spunti che possono contribuire al dibattito menzionato”
(ivi, xxiii).
1.4
Implicazioni del principio dell’ordine Ma la riscoperta o, se si vuole, la riappropriazione da
parte della scienza moderna del principio dell’ordine razionale nella natura,
mi chiedo, non potrebbe avere conseguenze dirompenti nei confronti delle teorie
evoluzionistiche in quanto tali,
anche di quelle che respingono l’irrazionale concezione della cieca selezione
naturale come agente fondamentale
dell’evoluzione stessa? Se infatti si
ammette che l’evoluzione dipende unicamente da leggi naturali immutabili, che
si ripetono nella combinazione fisico-chimica di “forma” e “funzione”, le
conseguenze quali possono essere? Due
solamente, a mio avviso, e tra esse contrapposte : o si postula una autoevoluzione della vita, in tutte le sue componenti, secondo le
leggi razionali che ordinano intrinsecamente la materia oppure, poiché l’idea
di un ordine che si costituisca da se
stesso senza un disegno e un fine appare inaccettabile, si postula
l’esistenza di un Creatore, che ha
pensato ed attuato l’ordine delle
leggi che governano la materia. La prima
via è quella imboccata dal prof. Lima-de-Faria.
Ma, da un punto di vista filosofico, essa ripresenta, a mio avviso, le tradizionali
aporie di una concezione materialistico-immanentistica della realtà, che
pretenda di spiegare tutto, anche la società e la morale, in termini di autoevoluzione fine a se stessa della materia. In tal modo, ci si manterrebbe sempre (mi
sembra) in una prospettiva
panevoluzionista, anche se diversa da quella dei neodarwinisti, perché
libera dall’ipoteca rappresentata dal principio della selezione naturale.
Ma a proposito dell’evoluzionismo, va ricordato che la
teoria della selezione naturale è solo uno
dei punti rivelatisi deboli nel suo confronto con l’esperienza. Il concetto di una selezione naturale riguarda
la causa dell’evoluzione, concepita
paradossalmente in modo acausale ossia fondata sull’azione del caso. Ma per ciò che riguarda la struttura, le interiori connessioni del processo evolutivo il quale, non dimentichiamolo,
vuole addirittura rappresentare l’origine delle
specie, dall’ameba all’uomo, che cosa
c’è di veramente dimostrato? Come si è ricordato, gli “antenati comuni” e
gli “anelli intermedi”, per quanto si affannino e strepitino i neodarwiniani, restano
del tutto aleatori. Restano delle ipotesi, delle ombre che non riescono a darsi un corpo. E del resto, se l’evoluzione è avvenuta per salti, come possono esserci stati
gli uni e gli altri? Le specie mostrano
un’origine improvvisa, ed una spiccata tendenza, ripetutamente dimostrata
sperimentalmente, non ad evolvere ma a mantenersi,
salvo poi estinguersi. In siffatto
quadro, la cosiddetta selezione naturale viene ad occupare una posizione del
tutto secondaria, di agente che eliminerebbe l’anormalità e la deviazione per
mantenere la specie nel tipo, nella norma e quindi in un ordine prestabilito, intrinseco alla specie stessa[16]. Tutto ciò, mi chiedo, non gioca piuttosto a
favore dell’ipotesi creazionista, del “disegno intelligente” di Chi ha voluto creare
un ordine stabile? Come si concilia,
infatti, l’idea stessa di evoluzione con la comprovata tendenza delle specie a
mantenersi stabili?
Quanto poi al venire
in essere dell’evoluzione dal caso, quanto al problema della sua origine acausale, quest’ultima risulta
notoriamente di difficile concezione dal punto di vista della corretta
applicazione del calcolo delle
probabilità[17].
2. Le principali tesi del prof. Lima-de-Faria
Tutto ciò visto, cercherò ora di illustrare sinteticamente
le tesi principali dell’autore. Come le
introduce l’autore stesso? Nella Prefazione
all’edizione italiana scrive di non voler presentare “una nuova teoria
evolutiva, al modo di altri lavori sull’argomento”, anche perché “al momento,
formulare una teoria dell’evoluzione risulta impossibile”. Infatti, da un lato, “pochi fenomeni in
biologia sono così ben stabiliti come il processo dell’evoluzione”, grazie
all’impressionante raccolta di dati ad opera di varie discipline. Si ritiene pertanto dimostrata “l’affiliazione
filogenetica fra gli organismi e la sua evidente relazione con un crescente
grado di complessità” (LF, xxxiii-xxxiv).
Tuttavia, e ciò non manca di stupire il profano, “questo risultato è ben
lontano dal chiarirci il meccanismo responsabile dell’evoluzione. Nonostante i dati recentemente raccolti a
livello molecolare e atomico su molti processi cellulari, ignoriamo ancora
quale meccanismo specifico abbia diretto la trasformazione biologica. Si spiega così perché, in realtà, non si è
mai avuta una teoria dell’evoluzione. La
teoria (come per es. in fisica o in chimica) implica predizioni esatte, ma al
riguardo del processo evolutivo non vi è alcun modo di realizzarne. Nessuno scienziato è capace di prevedere, o
almeno indovinare, quale specie seguirà a quella umana, oppure cosa emergerà da
un’aquila o da un giglio” (ivi, xxxiv).
Quale, allora, il contributo del prof. Lima-de-Faria? “In questo libro si è tentato di raccogliere
l’informazione che radica l’evoluzione biologica a quelle, previe, delle particelle
elementari, degli elementi chimici e materiali.
Punto centrale è che l’evoluzione biologica non va considerata
indipendente, quasi fosse un fenomeno sorto de
novo dal nulla, ma bensì il prodotto di tre evoluzioni precedenti, svoltesi
ai livelli elementari dell’organizzazione della materia. Tutto tende a far ritenere che l’evoluzione
della vita sia emersa come conseguenza
obbligata della costruzione originaria della materia. Di conseguenza la misura della sua
organizzazione come anche i suoi schemi di variazione devono essere stati disposti dalle interazioni fra le particelle
che hanno diretto le configurazioni atomiche negli elementi chimici, nei
cristalli e nelle macromolecole. In
realtà è evidente che cellula ed organismo seguono unicamente le leggi imposte
dalla loro ascendenza atomica, anche se al presente ce ne sfugge l’esatta
formulazione” (ivi; corsivi miei).
Come si comprende, quindi, che l’evoluzione della vita non
dipende dal caso ossia dalla Selezione Naturale? Dimostrando che tale evoluzione è una
“conseguenza obbligata della costituzione originaria della materia”, anche se
“l’esatta formulazione” delle leggi di questa “ascendenza atomica” non è ancora
possibile (ivi). Si resta perciò, annoto, ancora nel campo delle ipotesi
anche se suffragate da una messe imponente di dati. Sulla base di una sua precedente ricerca del
1995, l’autore è pertanto in grado di affermare che “la maggior parte delle
strutture e delle funzioni biologiche sono risultate obbedienti a una
periodicità, vale a dire che compaiono secondo determinati intervalli durante
la loro storia evolutiva. Inoltre esse
emergono : 1) all’improvviso, 2) in modo
non necessariamente correlato all’ambiente e 3) indipendentemente dal grado di
complessità dell’organismo in cui si manifestano. Questa osservazione l’ho verificata negli
schemi simmetrici dei fiori di molte piante che a intervalli regolari
riappaiono entro famiglie geneticamente estranee, ma anche in funzioni animali,
come la capacità di volare. Il volo
emerse fra gli insetti, i pterosauri, gli uccelli, certi pesci e i
pipistrelli. Quello che è significativo,
però, è che la medesima funzione ricomparve ogni volta senza che vi fosse una
diretta relazione ancestrale col gruppo animale che l’aveva esibita anteriormente;
i pterosauri non erano imparentati direttamente con gli insetti, gli uccelli
non sono derivati dai pterosauri ed i pipistrelli non hanno alcuna relazione
diretta con le precedenti specie volanti.
Anche altre funzioni e strutture esibiscono periodicità” (ivi).
Come si può spiegare la “ricorrenza improvvisa” della
medesima “funzione”? Dire che è dovuta
al caso sarebbe come dir nulla, tanto più che la “ricorrenza” del fenomeno è
“periodica” e quindi sembra mostrare la presenza di un ordine all’opera. La
“ricorrenza” può essere spiegata “in termini di riarrangiamenti molecolari di
cui si sa che ebbero luogo all’interno delle sequenze del DNA dei geni, e che
condussero al riapparire di proteine che erano state assenti per milioni di
anni”(ivi, xxxv). Ma questa
“periodicità”, che riguarda “i cambiamenti molecolari a livello genico” in che
rapporto sta “con la periodicità da lungo tempo ben nota degli elementi
chimici”? In altre parole : “attraverso quali meccanismi fisici gli atomi
continuarono a imprimere alle strutture viventi le stesse soluzioni di base che
avevano imposto ai livelli organizzativi antecedenti? Fra queste vi sono la ripetizione, nelle
piante e negli animali, delle medesime simmetrie trovate nei cristalli, e il
riapparire in tali organismi d’un tipo di periodicità uguale a quello degli
elementi chimici”(ivi). Lo scopo della
ricerca del prof. Lima-de-Faria è pertanto proprio quello di dare un contributo
a siffatta, fondamentale questione, e pertanto “di indicare un’intera area di
ricerca che si estende di fronte a noi”(ivi).
Vengo quindi alle principali tesi del libro.
2.1 Il concetto di selezione naturale deve esser espunto dalla scienza. Si tratta di una tesi concettualmente
preliminare e per così dire metodologica, tuttavia essenziale alla costruzione
dell’autore. Essa risulta dalla critica
del neodarwinismo da lui sviluppata nell’Introduzione
e nei primi due capitoli dell’opera (LF, xxxviii-xliii, pp. 3-21). La critica è puntuale e capillare. L’autore così riassume “la posizione attuale
della teoria sintetica” : 1. Il
gene è considerato l’esclusivo agente di evoluzione e differenziazione. L’intero sviluppo embrionale e l’intera
evoluzione biologica sono basati esclusivamente sui geni; 2. Il
gene è onnipotente, l’origine organica della vita interessa unicamente nei
limiti in cui chiarifica l’origine del gene;
3. Si ritiene che gli eventi
casuali ed i processi meccanici dirigano l’assortimento e l’associazione dei
geni; 4.
Si ritiene che la selezione agisca sui geni attraverso il fenotipo
dell’organismo [= le caratteristiche percepibili dell’organismo – ODB] e
scartando i gameti cui siano capitate le combinazioni “geniche” sbagliate; 5. Ci
si concentra solo sugli eventi che accadono a livello delle popolazioni e sullo
studio delle sequenze del DNA come livello evolutivo terminale; 6. La
casualità viene evocata ogni volta che un fenomeno non è stato chiarito in
termini molecolari; 7. L’ordine è un concetto totalmente estraneo a
questo approccio. Si suppone che tutte
le forme e tutte le funzioni risultino dalla casualità dell’azione del gene e
della selezione.; 8. L’origine della forma (per es. delle
simmetrie) e quella della funzione non sono considerate rilevanti; 9.
L’ambiente esterno viene trattato alla stregua di un’astrazione, non
come un’entità fisico-chimica composta degli stessi elementi di cui sono
costituiti gli organismi coi quali interagisce;
10. Per ogni nuovo fenomeno
manchevole di spiegazione si crea un nuovo tipo di selezione (LF, 17-18).
Quest’ultimo rilievo mi sembra particolarmente grave, dal
punto di vista filosofico. Ai dogmi e
punti di vista dei neodarwinisti, l’autore oppone “alcune delle scoperte
fondamentali della citogenetica molecolare e della biologia molecolare”, che ne
dimostrano l’inattendibilità. 1. I geni non cambiano permanentemente come si
credeva prima, ma molti si sono conservati essenzialmente identici, dai batteri
agli umani. Tra i molti esempi vi sono i
geni dell’RNA ribosomiale 28S e 18S [i ribosomi sono corpuscoli di forma
sferica che si trovano all’interno di ogni cellula, ove sintetizzano proteine –
ODB]; 2.
I virus e molti organuli cellulari si sono formati seguendo soltanto le
regole dell’autoassemblaggio. La loro
costruzione è un processo strettamente chimico [che non dipende perciò dalla
cosiddetta “pressione selettiva”];
3. Il fatto che l’evoluzione
appaia “canalizzata” [e quindi ordinata]
già in uno stadio molto precoce “nel ciclo proto-cellulare di interdipendenza
proteina-DNA-RNA – proteina, proteina-RNA-DNA-RNA-proteina”; 4.
L’esistenza scientificamente comprovata delle “mutazioni neutrali”,
prive cioè di effetto diretto sull’evoluzione, che possono trasmettersi
ereditariamente; 5. La sostanziale costanza lungo l’evoluzione
dei tassi di sostituzione degli amminoacidi nelle proteine ; 6. La
disparità fra l’evoluzione genetica e quella degli organismi. Per es. gli umani e gli scimpanzé sono
identici al 99% nei loro geni, ma appartengono a famiglie differenti [la
supposta evoluzione – interpreto – dell’organismo
umano da quello della scimmia sarebbe perciò avvenuta indipendentemente dalla
rispettiva “evoluzione genetica”];
7. La dimostrazione sperimentale
del fatto che sono stati processi non casuali a guidare l’organizzazione
molecolare all’origine della vita : gli
amminoacidi sono autosequenzianti [processo che non dipende dalla pressione
selettiva e quindi non è casuale];
8. Il fatto che l’accresciuta
conoscenza dei processi fisici e chimici permette ormai di comprendere molti
fenomeni che prima erano scarsamente determinati (LF, 19).
Di comprenderli, si capisce, in modo che contrasta quasi
sempre con il punto di vista dei neodarwinisti.
L’autore richiama poi il celebre giudizio negativo di Popper sul neodarwinismo. Esso non è scienza perché “non è verificabile”. Inoltre :
“non ha capacità predittive, contiene argomentazioni ricursive, non
fornisce spiegazioni specifiche ai fenomeni fondamentali dell’evoluzione”[18]. Tra le altre critiche al neodarwinismo
condivise dall’autore, mi sembra di particolare interesse quella secondo la
quale “il concetto neodarwiniano di variazione casuale implica la falsa
opinione che sia possibile tutto ciò che è concepibile”. Tale falsa opinione è correlata all’assunto,
ugualmente insostenibile, secondo il quale “il numero delle variazioni sulle
quali agisce la selezione è infinito” (ivi).
Simili convinzioni, secondo il Nostro, si basano “sull’ignoranza
dell’origine della forma e della funzione biologica, quasi fossero nate dal
nulla con l’apparire del gene. Se
infatti nell’evoluzione tutto fosse possibile, e se le variazioni fossero
infinite, l’evoluzione biologica non sarebbe mai occorsa nella sua attuale
forma ordinata” (ivi).
2.2 L’evoluzione non è un processo unicamente
biologico La critica specifica al neodarwinismo si trova nella prima
parte dell’opera, il cui titolo recita :
Non conosciamo il meccanismo
dell’evoluzione. Il resto della
prima parte (cap. 3, pp. 23-47) spiega il principio dell’autoevoluzione (unica
via, come si è visto, per giungere, secondo l’autore, a comprendere il
meccanismo dell’evoluzione) in un capitolo che si intitola appunto La base dell’autoevoluzionismo.
Da che cosa è essa costituita? Innanzitutto, dal fatto che l’evoluzione “non
può essere considerata unicamente un processo biologico”. Bisogna tener conto anche dello “sviluppo nel
tempo dei minerali” e “considerare anche la gravità come uno degli agenti
responsabili del costrutto biologico” (LF, 23).
Non esiste un inizio della
vita che separi l’organico dall’inorganico :
“le analisi molecolari conducono all’ineludibile conclusione che la vita
non ha inizio, ma è un processo inerente alla struttura stessa dell’universo”
(ivi, 24).
L’impostazione anticreazionista del prof. Lima-de-Faria non
potrebbe essere più chiara. Ma questo
“processo” (ab aeterno) che è la vita, come va colto? Innanzitutto nelle “tre evoluzioni che hanno
preceduto e canalizzato l’evoluzione biologica”. Si è scoperto, infatti, che “le particelle
elementari, gli elementi chimici e i minerali hanno di fatto avuto
un’evoluzione autonoma : vi furono
quindi tre evoluzioni separate prima che emergesse quella biologica”
(ivi). L’evoluzione deve perciò
considerarsi anteriore alla vita,
intesa anche nelle sue forme più elementari;
essa inizia quando nasce l’universo, con le particelle elementari. Ne consegue che “l’evoluzione biologica
risulta vincolata da questi tre livelli antecedenti. La trama dalla quale l’evoluzione biologica
non poteva né può allontanarsi è stata tessuta dalle leggi e dalle regole seguite
dalle evoluzioni che le sono a monte” (ivi).
2.3
L’evoluzione è autoevoluzione di forma e
funzione Ma perché l’evoluzione, concepita in questo modo
(chiaramente rivoluzionario rispetto all’impostazione dominante), deve
considerarsi più propriamente autoevoluzione? L’autore, pur scusandosene con i
lettori, considera inevitabile servirsi
di questo neologismo “per indicare il fenomeno di trasformazione inerente alla
costruzione della materia e dell’energia” (ivi, 25).
Questa definizione sembra in verità mantenersi sulle
generali. Essa contiene comunque il
concetto che le “forme” e le “funzioni” del vivente sono “tutte derivate dalle
iniziali proprietà della materia e dell’energia” (ivi, 26). Ciò implica l’isomorfismo, cioè “il mantenimento e la preservazione delle forme
di base”, e l’isofunzionalismo, ossia
“il mantenimento e la preservazione delle funzioni di base”, ampiamente
presenti in natura. Entrambi non giocano
un ruolo statico poiché “permettono a nuove combinazioni di imporsi su quelle
iniziali” (ivi), senza uscire evidentemente dagli schemi di base.
“Nelle piante la foglia contiene la forma e la funzione di
base che le permettono di trasformarsi pressoché in ciascuno degli organi
vegetali [...] Per di più l’evoluzione
delle angiosperme negli ultimi 100 miliardi di anni è risultata in un numero
esiguo di piani organizzativi del fiore, nonché nell’uso di simmetrie semplici
già presenti tra i minerali ed i quasi-cristalli. Anche riguardo ai piani organizzativi di
molti invertebrati è possibile dimostrare che derivano da un’unica forma di
base [...] Da una semplice curva si
possono derivare i quattro principali gruppi tassonomici delle conchiglie dei
molluschi”(iv, 27-28). Anche nei
vertebrati, “la sequenza strutturale degli scheletri, dai pesci (che furono fra
i primi vertebrati) fino agli umani, è stata assemblata [...] in un modo che
mette in evidenza trattarsi unicamente di varianti di una rigida forma-base,
alla quale non potevano derogare” (ivi, 28).
La “forma-base” evolve dunque di per sé, permettendo varie combinazioni
ma non deroghe. Per restare agli esempi
: le conchiglie dei molluschi sono
quattro variazioni di un’unica forma base, sempre presente : la curva.
E ciò avviene non grazie al caso o per l’intervento di un Creatore ma in
seguito al costruirsi della materia e dell’energia secondo le leggi che ne
governano il reciproco rapporto. Autoevoluzione, appunto.
2.4
Tutti i fenomeni sono omologhi. Il
concetto dell’autoevoluzione comporta una nuova definizione del concetto di omologia. Di sicuro, nuova rispetto a quello in auge
presso i neodarwinisti. “In natura non
esistono né il caso né analogie, ma tutti i processi rappresentano omologie ove
è solo il grado dell’omologia a variare.
In altre parole, ogni piano organizzativo ed ogni funzione biologica ha i propri precursori nel mondo minerale,
chimico e delle sub-particelle. Tutti i
piani organizzativi e tutte le funzioni di base hanno una componente minerale
che era già evidente prima che il
gene e il cromosoma fossero incorporati nel processo generale dell’evoluzione”
(ivi, 29, corsivi miei).
Non esistono dunque fenomeni che possano dirsi
semplicemente analoghi ad altri, attribuibili al semplice caso e quindi
meramente accidentali. Il concetto di
analogia viene bandito. “ Secondo il
modo di vedere generalmente accettato, la mano di un umano e quella di uno
scimpanzé sono da considerarsi omologhe,
in quanto si può asserire facilmente che appartengono allo stesso componente scheletrico. Invece l’ala di un uccello e l’ala di una
farfalla sono considerate analoghe perché
l’insetto non possiede uno scheletro interno e come tale, si suppone, l’organo
deve avere un’origine diversa. Sulla
base dello stesso modo di pensare, la simmetria radiale d’una stella marina e
quella di un minerale sono ritenute puramente accidentali nella loro somiglianza, giacché il minerale non ha geni
: non può dunque esservi alcun tipo di
relazione” (ivi, 30-31). Secondo questo
modo di concepire l’omologia, tipico dei darwinisti, essa è “il risultato dell’origine da un comune
antenato”, è una “similarità che si ritiene basata sulla comune origine” (ivi,
31) e “i minerali sono ovviamente esclusi da ogni omologia od analogia con
piante ed animali, né sarà concepibile omologia alcuna fra piante ed animali”. I minerali non hanno geni e si credeva che i
geni delle piante fossero del tutto diversi da quelli animali (ivi, 31-32). “I
piani organizzativi delle agate, degli steli delle piante, delle conchiglie
marine e delle corna dei cervi non possono essere collegati a una struttura
embriologica o a una linea di sviluppo comune.
Per tale ragione l’idea di una qualsiasi omologia è stata rigettata,
mentre in alcuni casi le similarità non vengono neppure classificate come
analogie dal momento che si trattava di phyla o regni completamente distinti”
(ivi, 32). Invece è oggi possibile,
continua il Nostro, investigare il grado
esatto di omologia “da quando si è compreso che tali strutture e processi
embriologici dipendono innanzitutto da fenomeni puramente fisico-chimici e
minerali [...] I processi fisico-chimici conferiscono unità a strutture
apparentemente prive di relazione” (ivi, 36-37).
Ciò risulta dagli esempi, corredati da belle foto e bei
disegni, di isomorfismo ed isofunzionalismo offerti dall’autore. L’introduzione del microscopio elettronico a
scansione “ha rivelato che molte cellule hanno un aspetto ovoidale o
sferico. Ora, proprio questa forma d’una
cellula batterica o d’una pianta, o di un vertebrato, si trova già nel minerale
di fiscerite. Se ne deduce che la forma
globulare esisteva già, e che dei semplici atomi erano riusciti a produrla
prima che il gene facesse la sua comparsa nei batteri e negli altri organismi
viventi” (ivi, 37) E che dire della
somiglianza tra gli insetti e le foglie?
“Il piano organizzativo della foglia esiste già nelle piante, le quali
condividono con gli insetti antenati comuni; ma il piano organizzativo della
foglia non è originario del mondo vegetale, c’è già nei minerali, come il
bismuto puro [che infatti, visto in fotografia, sembra uguale ad una foglia di
edera velenosa, stampata al suo fianco, a p. 33]” (ivi). Anche qui “il piano organizzativo era già
disponibile a livello atomico prima che il gene venisse alla luce” (ivi). Le “strutture corniformi” che compaiono
dapprima nelle piante e poi negli animali, si ritrovano anch’esse tra i
minerali. “Gli ammassi curvilinei dei
cristalli di clorite consistono di segmenti che esibiscono variazioni
specifiche nella misura e nel profilo della curvatura. Queste variazioni sono indistinguibili da
quelle che appaiono nelle segmentazioni delle corna di capra” (ivi). Ma l’esempio che mi sembra più straordinario
è quello relativo alle “strutture di sostegno”.
Vale a dire : “I bastoncelli
dello scheletro dell’ala di una cavalletta o le nervature d’una foglia
[opportunamente ingranditi] possono difficilmente venire distinti dalle
fratture che compaiono sul suolo arido [nell’esempio fotografico, dalle
fratture nel fango formatesi con la bassa marea a Mont Saint Michel, in Francia
– p. 34]”. Chi avrebbe detto che le
somiglianze di questi reticoli non sono affatto casuali? “Il fenomeno basilare che decide il piano
organizzativo della ramificazione è già presente nei minerali e nei cristalli”
(ivi). Infine, le lunghe zanne del
mammut non sembrano riconducibili ad alcuna struttura precedente ed invece
“sono quasi identiche nella forma e nella curvatura alle protrusioni del frutto
di Martynia lutea e ai profili
esibiti dall’argento puro”. E ciò
dimostra, secondo l’autore, che “l’elegante forma curvilinea” non ha bisogno di
originarsi dai geni animali, “quando si riscontra già con regolarità in una
pianta e a livello atomico”, ossia nelle forme curvilinee assunte normalmente
dall’argento puro (ivi). L’oro puro allo
stato vergine assume invece la forma di una foglia di felce, riscontrabile
anche nell’antenna dell’insetto Samia
californica e in parte nello scheletro di un rettile arcaico (ivi,
119).
Tutte queste affascinanti ed impressionanti somiglianze e
concordanze, che derivano da interazioni per noi arcane, stupiscono la mente
del profano. A chi è credente, non fanno
sentire l’impronta divina nel Creato, a causa dell’armonia, della proporzione,
della simmetria rivelate da tutte queste molteplici forme, appartenenti a realtà
fisiche così lontane tra loro? L’opera
ne riporta molte altre. Isoformismo : la
forza di gravità “determina la polarità delle piante, la quale a sua volta
determina la polarità degli organi e dell’ embrione”; il campo magnetico terrestre influenza il disporsi
delle particelle, i batteri, gli insetti, gli uccelli; la forma dei minerali evolve secondo determinate
regole; i cristalli possiedono “proprietà che di solito sono attribuite agli
organismi” : virus e molecole cellulari
assumono forme cristalline, i più importanti organelli cellulari (ribosomi,
cromosomi, etc) esistono sotto forma di cristallo; i grandi tipi dei modelli vegetali sono già
presenti nei minerali (rame puro-forma d’alga, scarica elettrica-sezione di
radice etc); ugualmente lo sono i grandi tipi delle forme animali
(magnetite/kerosene-circonvoluzioni del cervello umano, solfuro di zinco-suture
craniche, cristalli d’acqua-penne di uccello etc). Isofunzionalismo : gli schemi della segmentazione dell’uovo si
trovano nelle bolle di sapone; il processo fondamentale della segmentazione
somatica è già presente nei minerali; gli scheletri vegetali ed animali, come
la circolazione linfatica e sanguigna,
hanno un’ascendenza minerale etc.
Tutto ciò è descritto ed analizzato minutamente nella
seconda parte dell’opera (LF, 51-204), il cui ultimo capitolo, di capitale
importanza per le tesi dell’autore, è dedicato alla “evoluzione delle
simmetrie” per dimostrare che “la maggior parte delle simmetrie osservabili
negli organismi viventi sono già presenti nei minerali e nei quasi-cristalli” e
“che il gene non crea le simmetrie, sceglie soltanto tra di esse”(LF, 183-204)[19].
2.5 Forma e funzione non sono state create da
geni e cromosomi.
Sorgendo “da stampi fisico-chimici e minerali di livelli evolutivi
precedenti [esse] non possono dunque esser state create dai geni o
cromosomi”. Questi ultimi “le
influenzarono in modo ben stabilito, come dimostrano gli esperimenti
sull’ereditarietà” (ivi, 38). Ma deve
esser chiaro che “il gene e il cromosoma non creano nulla”. Il loro intervento è importante ma solo “a
livello secondario, laddove si decide
quale variante morfofunzionale verrà fissata [...] La maggioranza dei geni produce
proteine che si intercalano nella struttura atomica di un dato tessuto od
organo, e in tal modo determinano un’alternativa particolare obbligando la
struttura ad assumere una delle forme precedentemente disponibili. Il gene rende inoltre possibile la
ripetizione della stessa alternativa a ogni nuova generazione ” (ivi, 38-39). Un esempio in questo senso è offerto dalla
conchiglia dei molluschi. Essa “è
costruita con molecole di carbonato di calcio entro cui si interpone una maglia
di proteine simil-cheratiniche. Gli
atomi di carbonato di calcio [e non i geni] sono i responsabili della
forma-base della conchiglia, mentre la proteina [prodotta dal gene] specifica
soltanto se la conchiglia consisterà in una spirale lunga o corta, in una sfera
grande o piccola” (ivi, 39).
Questa dunque, secondo l’autore, la funzione del gene (indagata per esteso nel cap. 9 dell’opera, pp.
103-139), limitata alla produzione di proteine che si intercalano nella struttura atomica di un dato tessuto od
organo.
2.6 L’elemento principale dell’evoluzione è la
costanza, non la variabilità. Da tutto ciò consegue che la costanza dei
fenomeni non può esser relegata nell’ereditarietà (come vorrebbe il
neodarwinismo) mentre “la variabilità, caratterizzata da casualità e
multidirezionalità” sarebbe “l’elemento principale dell’evoluzione” (ivi, 40). Invece, “quel che veramente risulta fondamentale
nell’evoluzione è proprio il processo opposto a ciò che per tanto tempo è stato
considerato di primaria importanza:
fondamentale è cioè la struttura basilare che mantiene la costanza,
giacché è questa a possedere le chiavi d’accesso ai tipi di variazioni che
possono avvenire. Se l’evoluzione fosse
stata basata sulla variabilità indiscriminata non avrebbe mai avuto corso. Laddove i cambiamenti non fossero stati
rigidamente controllati da una trama specifica, l’esito sarebbe stato la
disintegrazione totale al sopraggiungere d’ogni nuova modificazione : nemmeno una traccia di organizzazione sarebbe
potuta sopravvivere ad un processo tanto caotico. Ecco perché l’evoluzione può esser compresa
solo se innanzitutto si analizzano le
origini di quelle rigide trame che ne hanno generato la costanza” (ivi, 40-41).
2.7 Non si crea mai nulla di nuovo, l’ordine
viene dall’ordine. Questa stabilità dipende dal fatto che “le forme alla base
delle combinazioni risultanti poi in strutture apparentemente complesse”, sono
in realtà “poche e semplici”. Per fare
un esempio, “il numero dei tipi di cellule presenti negli organi umani è
soltanto di 250 circa e ciascuno di questi tipi di cellule deriva da quattro
tessuti di base : epiteliale,
connettivo, muscolare e nervoso” (ivi, 41).
Del resto “l’ordine prevaleva già nella formazione della
protocellula”(ivi, 213). Ciò lo si
deduce dalla scoperta che, come si è detto, “gli amminoacidi sono
autosequenzianti, scoperta questa di importanza cruciale per la creazione di
reazioni non casuali e indicativa del fatto che l’evoluzione è autolimitante [e
quindi non può dipendere dal caso] ” (ivi).
3.
Autoevoluzionismo
contrapposto frontalmente a neodarwinismo
Che nessuna forma e nessuna funzione sia stata “prodotta de novo”, ciò costituisce un postulato
addirittura elementare dell’autoevoluzionismo (LF, 182). Ciò che sembra a noi un essere nuovo è in
realtà il prodotto di una “combinazione”.
Il meccanismo della combinazione “opera ad ogni livello : le particelle elementari si combinano per
dare nuove particelle, e queste a loro volta si combinano per produrre atomi;
ma anche gli atomi si combinano in molecole, e queste si combinano nei minerali
[...] Le recenti scoperte molecolari sul
gene dimostrano che persino i geni e le proteine si sono evoluti per
combinazione “(ivi). La combinazione costituisce l’autoassemblaggio, il quale, secondo
l’autore, è il vero modo di procedere dell’evoluzione. Ad esso egli dedica, pertanto, la terza parte
dell’opera (LF, 207-234), inoltrandosi poi a considerare analiticamente il
rapporto tra evoluzione ed ambiente, per purificarlo dalle deleterie
elucubrazioni dei neodarwiniani (parte quarta e quinta, 237-310). L’influenza dell’ambiente sull’evoluzione si
deve naturalmente ammettere ma ridimensionata (vedi in particolare il cap. 22,
dedicato al tipo di influenza che l’ambiente e lo sviluppo esercitano sui geni
: LF, 301-310). Dati i limiti del presente lavoro, non posso
seguire lo sviluppo del pensiero
dell’autore su questi temi, non meno dei precedenti ricchi di spunti
interessanti anche per il profano. Così
come non posso soffermarmi sul concetto
della forma, che gioca un ruolo essenziale nella visione dell’autore. La forma, infatti, come realtà fisica
compiuta e definita, connessa ad una specifica funzione della materia, non
implica quella causa formale oggetto
della riflessione di Aristotele, in Phys.,
194 b, secondo la quale l’idea della
statua è il modello, la forma grazie
alla quale viene organizzata la materia della statua stessa dall’artefice? E quindi :
può concepirsi una forma ordinata dell’esistente che non esprima un’idea
presente nella mente di un Artefice?
Assai ricca di interesse è anche la sesta parte dell’opera,
nella quale l’autore spiega, sempre mediante l’autoevoluzionismo, “i fatti
enigmatici” dell’evoluzione, a cominciare dal principio dell’adattamento, (LF, 313-349). In questa parte vi è un capitolo, il 26°,
dedicato alla “sociobiologia”, tanto cara
ai neodarwiniani, reinterpretata alla luce dell’autoevoluzionismo (ivi,
343-349). In questo capitolo si trovano
i già ricordati riferimenti ai “fondamenti fisico-chimici dell’etica”. L’argomento è però solamente abbozzato perché
la “sociobiologia” è ancora un’area di ricerca “dominata dall’ignoranza intorno
alla maggior parte dei fenomeni implicati” (ivi, 343).
L’opera si conclude con una settima parte (ivi, 353-393),
che ribadisce in puntuale sintesi i princìpi dell’autoevoluzionismo (in numero
di cinquantasei, nel cap. 28), riassumendo poi metodicamente nell’ultimo
capitolo (il 29°, 369-393) tutti i “postulati centrali” che oppongono
irrimediabilmente l’autoevoluzionismo al neodarwinismo. Essi sono ben settantacinque e vengono
rappresentati su tre colonne, secondo questo schema, da sinistra a destra per
chi legge : Darwinismo e neodarwinismo,
Autoevoluzionismo, Brevi spiegazioni del postulato [dell’
Autoevoluzionismo]. Così leggiamo,
per esempio, a p. 371, al sesto
postulato : “6. La mutazione è casuale [Darwinismo etc]. 6. La mutazione è diretta
[Autoevoluz.]. 6. Ogni mutazione è diretta dai vincoli
molecolari degli acidi nucleici e delle proteine. Studi recenti sull’evoluzione del DNA
dimostrano il carattere canalizzato della mutazione [E questa è la breve
spiegazione]”.
4. Qualche osservazione finale, ragionevolmente
critica
Fermo restando quello che mi sembra il gran merito degli
argomenti del prof. Lima-de-Faria su di un piano più generale, vorrei dire
filosofico; il merito, cioè, di aver reintrodotto, sulla base di inoppugnabili
fondamenti scientifici, il discorso sul principio dell’ordine come principio
che governa armoniosamente tutta la natura; se mi è consentito, vorrei concludere
con alcune osservazioni, fatte senza pretesa di completezza. Sul darwinismo in generale mi ha sempre convinto
il severo giudizio di Karl Popper, che
ne nega il carattere scientifico. L’evoluzionismo
può apparire fascinoso e persino geniale, ma resta una costellazione di ipotesi,
praticamente impossibili da verificare.
Ciò premesso, vengo alle mie osservazioni.
4.1 Sull’indimostrabilità
dell’evoluzione. Si afferma che l’evoluzione esiste come fatto, scientificamente dimostrato,
salvo poi ammettere che il meccanismo
di questo fatto noi ancora lo ignoriamo.
La scienza avrebbe sufficientemente dimostrato il fatto, senza tuttavia conoscerne
ancora il meccanismo. A me sembra che un
simile modo di giustificare l’evoluzione sia contraddittorio. Come può un fatto, del quale non si conosce ancora il meccanismo, considerarsi scientificamente accertato? Secondo il modo
di procedere della recta ratio, non bisognerebbe invertire l’ordine concettuale
appena richiamato e quindi stabilire l’esistenza
del fatto dell’evoluzione solo dopo aver dimostrato il funzionamento del suo meccanismo? Finché non si è certi di questa
dimostrazione, il suddetto fatto non
dovrebbe esser retrocesso a semplice ipotesi
ancora da verificare?
Ma è possibile dimostrare
il meccanismo dell’evoluzione? La dimostrazione dell’evoluzione riguarda il
passato e il futuro. Per il passato, essa dovrebbe essere in grado
di affermare con certezza che i tempi geologici si sono effettivamente
succeduti gli uni agli altri lungo i milioni di anni ipotizzati, che la
datazione dei reperti fossili è del tutto sicura, che l’anatomia comparata
offre la prova inconfutabile dell’evoluzione da una specie ad un’altra. Checché ne dicano i sostenitori
dell’evoluzione, su tutto ciò si è rimasti agli indizi e alle ipotesi, alle
teorie. Per il futuro, essa dovrebbe confermare il passato, esser cioè in grado di
predire l’evoluzione delle specie,
almeno nelle sue caratteristiche fondamentali.
Se l’evoluzione esiste e scaturisce dall’interno
della realtà, della vita, senza rimandare
a un “disegno intelligente” e quindi ad una Causa Prima che la trascenda,
la quale potrebbe aver posto dei limiti all’evoluzione stessa, allora
l’evoluzione deve continuare, restare indefinitamente aperta, per così dire. E lo
scienziato è costretto, per intima coerenza con i suoi presupposti concettuali,
a porsi il problema della “specie che seguirà a quella umana” oppure di come
evolveranno “l’aquila o il giglio” (LF, xxiv, cit. supra, al § 2).
Simili interrogativi riempiono di stupore l’uomo comune. Dobbiamo forse aspettarci che la specie umana
trapassi in qualcosa di nuovo o che da animali e piante spunti Dio solo sa che
cosa? L’uomo non è dunque il termine
finale del processo evolutivo? E lo
stupore diventa smarrimento allorché capiamo che tutta la mirabile conoscenza
dispiegata nel mostrare l’ordine all’opera nella natura dovrebbe in realtà
servire, alla fine, per ricostruire in
laboratorio quel meccanismo dell’evoluzione che non si riesce altrimenti
ad acchiappare. Le ultime due
proposizioni dei princìpi dell’autoevoluzionismo, esposti nel cap. 28
dell’opera del prof. Lima-de-Faria, recitano infatti : “ (55)
L’evoluzione futura non può fare a meno di obbedire all’autoevoluzione
che l’ha prodotta fino ad ora. Perciò,
quando addiverremo a una conoscenza sufficiente sulla costruzione subatomica,
atomica, molecolare, minerale e cellulare, la predizione diverrà possibile nel
campo dell’evoluzione proprio come in ogni altro ramo della scienza”; “(56) L’autoevoluzionismo spiana la strada
alla sperimentazione che permetterà di ricreare l’evoluzione in laboratorio e
di predirne il corso. Una volta
raggiunto tale stadio potrà essere formulata una teoria dell’evoluzione dotata
di leggi proprie, espresse con equazioni matematiche” (LF, 368).
Mi sbaglio, o siamo all’ennesima riedizione dell’homunculus
faustiano? Siamo, comunque, sempre nel
dominio della hybris tipica del pensiero moderno e contemporaneo, il quale,
avendo rinnegato l’esistenza e l’opera di Dio creatore, crede di poter
addirittura “ricreare l’evoluzione in laboratorio e di predirne il corso”. Come a dire :
di esser capace di ricreare la natura mettendosi al posto di Dio e di
“predirne il corso”. Onnipotenza ed
onniscienza dell’uomo, dunque, postosi al centro dell’universo al posto di Dio
e nello stesso tempo convinto di discendere dagli animali e dalle piante e di
essere uguale agli animali! Ma come si
può pensare di poter fare “predizioni” sul futuro dell’evoluzione quando manca
ancora la dimostrazione che essa sia
esistita per il passato? Che la dimostrazione
manchi risulta, come si è detto, proprio dal fatto che il “meccanismo”
dell’evoluzione è ancora sconosciuto. La
ricerca sperimentale in laboratorio dovrebbe fornirla, questa conoscenza;
tuttavia sul presupposto (fallace) che già
esista ciò la cui esistenza non è stata ancora dimostrata, ossia il fatto dell’evoluzione.
4.2 Può
esistere un ordine senza uno scopo? Il concetto di autoevoluzione sembra
costruito su quello di un ordine obiettivo che tuttavia appare del tutto chiuso
in se stesso. Ciò risulta, tra le altre
cose, dalla negazione dell’esistenza di uno scopo nella natura. La ripulsa dell’idea di un fine nella natura,
da parte del prof. Lima-de-Faria, è funzionale alla polemica contro il neodarwinismo,
dal momento che quest’ultimo, pur negando l’esistenza di una qualsiasi finalità
nella natura, vuole spiegare ogni forma
esistente in base all’utilità, al “vantaggio” che essa presenterebbe per la
sopravvivenza del più adatto e quindi in base all’idea dello scopo, quello perseguito
dalla Selezione Naturale nell’interesse delle specie. Contro il finalismo attribuito alla selezione
naturale (che, pur essendo cieca e sorda, verrebbe così dotata di una capacità
di scegliere tra l’utile ed il meno utile, come se pensasse), il nostro autore
oppone il fatto che le varietà delle forme
(per es. le 18000 varietà esistenti di orchidee) non dipendono da una
supposta finalità selettiva ma dalle leggi fisico-chimiche che operano nella
materia (LF, 330 e cap. 9); le stesse leggi, a causa delle quali i cristalli
che costituiscono i fiocchi di neve, pur apparendo “in migliaia di diverse
combinazioni dendritiche”, sono sempre rigorosamente esagonali (ivi, 96).
Tuttavia, dopo aver messo in rilievo l’incongruenza del
finalismo dei neodarwiniani, il Nostro afferma che “nulla ha uno scopo in
natura. Esiste certamente un’interazione
fra le autoevoluzioni dell’ambiente e quelle dell’organismo, e ciò fornisce
risultati antitetici. In certe circostanze
porta al contrasto; in altre alla coordinazione. È quest’ultima a dare la falsa impressione di
uno scopo, ove non si consideri il contrasto.
Il filosofo francese Voltaire (1764) aveva già a suo tempo una risposta
ironica per tale attitudine medievale :
“Dio ci ha dato il naso per sorreggere gli occhiali” (LF, 331).
Dunque, ritenere che la natura sia costituita per un fine,
non è altro che espressione di una mentalità “medievale”, cioè cristiana, per
definizione (si sa) retrograda ed oscurantista.
Secondo il Nostro, già Voltaire avrebbe liquidato questa assurda pretesa,
con la fine ironia che lo distingueva.
Ma, a prescindere dalla legittimità o meno del richiamo a Voltaire, il
problema del finalismo a mio avviso resta, soprattutto per chi è convinto
che nella natura ci sia un ordine che tutto pervade[20]. Può, infatti, esistere un ordine che non sia
il risultato di una ordinatio ad finem? Secondo
il senso comune e la metafisica classica non può. L’ordine,
è sempre ordine per un fine, in relazione ad uno scopo. Un ordine che non sia costituito per un fine,
non è più un ordine. Il concetto di ordinatio ad finem riguarda come tale
l’azione consapevole più che l’idea dell’ordine in sé e per sé. E tuttavia vi rientra perfettamente poiché
l’ordine risulta proprio dalle azioni ordinate (nel nostro caso, quelle della
materia nella natura) che fanno vedere la regolarità e la simmetria tipiche di
una realtà nella quale trovino applicazione rigorosa determinate leggi.
Si potrebbe ribattere che le azioni delle particelle, degli
atomi, della materia, delle piante e degli animali non possono ricondursi ad
una coscienza che le ispiri e le guidi.
E senza coscienza dell’agire,
come può aver luogo quell’azione che consideriamo razionale, proprio perché diretta ad un
fine? Ma quelle azioni sono sì prive di
coscienza e tuttavia, proprio perché appaiono regolarmente ordinate, esse
rivelano l’esistenza di un fine, che è evidentemente posto e mantenuto da un
agente che si trova al di fuori e che
altri non può essere che la Divinità.
Non per nulla, l’agire costante
per un fine anche da parte di enti privi del ben dell’intelletto, quali i
“corpora naturalia”, costituiva per S. Tommaso d’Aquino proprio una delle prove
razionali (la quinta) dell’esistenza di Dio.
“Vediamo infatti che tutti quegli enti che mancano della
conoscenza, vale a dire gli enti naturali (corpora
naturalia), agiscono per un fine (operantur
propter finem). E ciò appare proprio
dal fatto che sempre o nella gran maggioranza dei casi (frequentius) agiscono proprio nel modo adatto a conseguire ciò che
per loro è l’ottimo. Dal che si deduce
che giungono al fine non per caso ma ex
intentione. Ma gli enti privi di
conoscenza non tendono al fine se non sono guidati (directa) da chi è fornito di conoscenza ed intelligenza, così come
la freccia è indirizzata da un arciere.
Ragion per cui, deve esistere una qualche intelligenza, dalla quale
tutti gli enti della natura vengono ordinati ad un fine (a quo omnes res naturales ordinantur ad finem). E quest’intelligenza la chiamiamo Dio”[21].
Ragionamento esemplare, direi, nella sua linearità,
talmente chiaro da non aver bisogno di commenti. Ma si potrebbe obiettare, a questo punto : qual è
questo fine? Se l’esistenza
dell’ordine ci fa intendere l’esistenza del fine, non ci chiarisce ancora quale
esso sia. Il fine, poiché risulta da
un’azione cosciente da parte di chi ha stabilito l’ordine va colto, allora,
secondo l’intenzione dell’autore di quest’ordine, l’intenzione dell’arciere che
scaglia la freccia, per restare nell’immagine di S. Tommaso. Cosa possiamo capire, di quest’intenzione? Che essa era buona, a giudicare dall’armonia,
dall’ordine, dalla bellezza che si vedono nella natura, che appare l’opera di
una divinità benefica che ha evidentemente voluto rispecchiare se stessa nella
maestà di tutto il creato, dall’immenso cielo stellato al più piccolo
protozoo. Come ci rivela la Bibbia, Dio
ha voluto creare il mondo per Se stesso, per la Sua bontà e la sua gloria e
quindi nel modo bello e armonioso che la scienza oggi ci mostra sin nei minimi
particolari, sin nelle più intime fibre della materia. “Universa propter semetipsum operatus est
Dominus”[22].
Inoltre, possiamo capire che Dio ha
voluto creare il mondo stabilendo una gerarchia negli esseri, a capo della
quale è l’uomo, visto che solo l’uomo gode dell’anima, del pensiero e di una
volontà razionale, capace di dominare gli istinti, sia pure a fatica.
Tralascio qui di proposito ciò che la Chiesa insegna sul
peccato originale e sulle sue conseguenze per ciò che riguarda il rapporto tra
la ragione e gli istinti, che ne risulta sempre squilibrato e bisognoso
dell’aiuto della Grazia per orientarsi al bene.
Lo tralascio, perché qui ciò che mi preme è semplicemente rammentare
come l’uomo appaia comunque fornito per natura di determinate capacità, di
pensare e di parlare, di agire razionalmente, che lo pongono in una posizione
del tutto particolare ed unica, di
evidente superiorità, nell’ambito dell’ordine rappresentato dalla
natura. E poiché in questa posizione
l’uomo non si è posto da solo, con le
sue sole forze, è legittimo ritenere che ciò abbia costituito uno degli scopi per i quali l’ordine
stesso è stato voluto e posto in essere dal Creatore.
Ma non è finita. Se
l’idea dell’esistenza dell’ordine, ampiamente suffragata dall’esperienza, implica intrinsecamente quella del fine, quest’ultima,
a sua volta, comporta quella della causa,
termine e concetto che non mi sembra ricorrano di frequente nell’opera del
prof. Lima-de-Faria. Il fine è infatti causa di ciò di cui è il fine, causa finale[23].
Ma la causa finale, non implica a sua volta
quella efficiente, dal momento che il
fine compare all’esterno grazie all’azione volta a conseguirlo, risultando da
un proponimento che si traduce in pratica mediante la volontà?[24] E la connessione causa efficiente-causa
finale rinvia a sua volta, sul piano logico, all’idea di una Causa Prima, cioè
all’idea di Dio creatore, che è indispensabile per conferire alla causalità
universale un significato compiuto, conforme a ragione.
Da tutto ciò bisogna concludere che l’ordine della natura,
dal prof. Lima-de-Faria così ben mostrato e dimostrato, non può prescindere
dall’idea del fine, che ne garantisce
la razionalità collegandolo al principio di causalità. Rifiutando quell’idea, l’ordine verrebbe ad
esser giustificato nuovamente dal caso. Tertium
non datur. E l’idea del fine ci costringe a reintrodurre
il
principio di causalità, in tutta la sua pienezza. In
conclusione : se si rifiuta l’idea del
fine, l’ordine appare privo di fondamento e si dovrebbe riammettere che esso si
fonda sul caso, il che sarebbe assurdo.
Se la si accetta, come è giusto e logico, grazie al ristabilirsi del
principio di causalità, da essa implicato, si deve ritornare ad ammettere
l’idea di Dio come causa ultima (in realtà prima)
dell’ordine stesso. Ma di ciò la scienza
contemporanea, ostinatamente fedele ai suoi presupposti materialistici anche
contro quello che le sue stesse scoperte fanno vedere, non vuole sentir parlare; contro ogni logica,
non vuole ammettere che l’opera presuppone l’Artefice[25].
4.3 Milioni di anni o pochi giorni? Se
gli evoluzionisti non sono riusciti a fornirci la prova dell’esistenza
dell’”antenato comune” o degli “anelli intermedi”, un elemento fondamentale per
la loro teoria sembra per lo meno esser stato assodato : l’enorme durata del processo di formazione
della terra, nei suoi vari strati geologici e nelle forme di vita (dai cinque
ai sei miliardi di anni, dicono), da inquadrarsi nella non meno enorme distanza
che ci separa dall’inizio dell’universo, dal cosiddetto Big Bang, che si
ipotizza aver avuto luogo circa quindici miliardi di anni fa. La mostruosa durata del processo di
formazione della creazione, sino all’uomo, è stata sempre ritenuta il fatto insormontabilmente avverso al
racconto biblico della Creazione, tale quindi da contrapporre senza speranza
fede e scienza.
Tuttavia, la contrapposizione non sarebbe in realtà
insuperabile come sembra. Per qual
motivo? Perché nel 1909, regnante S. Pio
X, la Commissio de re Biblica,
istituita da Leone XIII il 30 ottobre 1902, rispondendo a svariati quesiti sul
carattere storico dei primi capitoli della Genesi, affermava, al n. 8, esser
lecito agli esegeti “libere disceptare” se la voce ebraica Yôm, impiegata nel primo capitolo della Genesi per descrivere i
“sei giorni” della Creazione, dovesse intendersi “in senso proprio, come giorno solare (pro die naturali) o in senso improprio,
come periodo indeterminato di tempo (pro
quodam temporis spatio)” (DS, Ench.
Symb., 3519). Il termine ebraico
infatti possiede entrambi i significati[26].
Nel concedere agli esegeti la possibilità di intendere il
biblico Yôm come indicazione di
un’era o aetas, S. Pio X non contraddiceva per nulla l’insegnamento del
Magistero precedente. Che la Creazione
fosse durata sei giorni, lo si è sempre creduto spontaneamente, intendendo il
testo sacro nel modo più semplice e immediato, sul correttissimo presupposto
che l’Onnipotenza divina, non soffrendo limiti di sorta, se lo avesse voluto,
avrebbe potuto creare il mondo e l’uomo anche in una sola piccolissima,
istantanea unità di tempo. Ma i “sei
giorni” non hanno mai costituito dogma di fede. Il dogma riguarda la fede ed i
costumi, cioè le verità di fede in senso stretto e la morale, non verità di
tipo scienifico. Nel nostro caso, il
dogma riguarda la fede perché è quello dell’inerranza
dei Testi Sacri, che non possono contenere errori di nessun tipo, dal momento
che sono stati ispirati dallo Spirito Santo e quindi hanno Dio come autore. Ma allora, si chiederà qualcuno, perché la
Scrittura ci lascia nel dubbio circa l’effettiva durata della Creazione, se di pochi giorni o di periodi
indeterminatamente lunghi? Possiamo, al
proposito, fare solo delle ipotesi. Una
può essere la seguente : Dio ha voluto
darci un testo conciso, che riassumesse
brevemente quello che Egli aveva fatto, senza dilungarsi troppo nei particolari,
senza svelarci in alcun modo il “meccanismo” della Creazione, affinché la
nostra mente non credesse stoltamente di poter penetrare un giorno i segreti
divini, perdendovisi. Il nostro Dio, che
è l’unico e vero Dio, Uno e Trino, è un Deus absconditus, che parla anche per
enigmi (per es. in alcuni passi dei libri dei Profeti) o in senso figurato,
lasciandoci inoltre liberi di scegliere tra due interpretazioni possibili nel
caso di certi argomenti secondari (secondari, poiché non riguardano una
conoscenza o un comportamento indispensabili alla salvezza della nostra anima, pur concernendo profondi misteri divini, quali
l’evento della Creazione del mondo dal nulla).
Nessun attentato, perciò, al dogma dell’inerranza dei Sacri
Testi da parte del cattolico che volesse intendere i sei giorni della Bibbia come altrettanti periodi di tempo, aetates, ere, non dissimili
da quelle che si qualificano oggi come “tempi geologici”. Si può anzi affermare che il parere
sopracitato della Commissione Biblica autorizzasse di fatto gli studiosi
cattolici a tener conto degli argomenti della scienza sul problema della durata
della creazione del mondo e dell’uomo.
Tutto a posto, allora?
Non sono infatti mancati e non mancano tentativi da parte di studiosi
cattolici di far rientrare i sei giorni biblici nello schema dei tempi
geologici ipotizzati dalla scienza moderna.
Grazie alla possibilità di un’interpretazione più elastica, si potrebbe
infine realizzare il tanto auspicato accordo tra scienza e fede?
In realtà, le cose non sono affatto così semplici. La Bibbia parla di creazioni successive tra
loro indipendenti, non di
un’evoluzione interna al vivente. Bisognerebbe riuscire a conciliare il
creazionismo della Bibbia con l’evoluzionismo professato dalla scienza contemporanea,
che sembra esprimere una visione sostanzialmente panteistica della realtà,
senza peraltro rinunciare al tradizionale meccanicismo di origine
positivista. Impresa piuttosto ardua,
come ognuno può vedere.
Ma d’altro canto, siamo assolutamente
sicuri delle periodizzazioni e datazioni che la scienza ci prospetta? Il dubbio è lecito. Ritorniamo al testo del prof.
Lima-de-Faria. Nel cap. 21 egli spiega
“le trasformazioni acqua-aria”. Circa
quelle che riguardano anfibi, come rane e salamandre, egli scrive : “Nei primi stadi del loro sviluppo gli anfibi
come le rane conducono vita acquatica, e possiedono anche le caratteristiche
morfologiche e fisiologiche dei vertebrati acquatici : la forma del corpo, con la coda piatta, e
branchie esterne che permettono la respirazione in acqua, ne sono gli aspetti
principali. La trasformazione
dell’animale adulto che vive sulla terraferma non è dovuta ad alcuna pressione
selettiva, ma è indotta da una singola e semplice sostanza chimica prodotta
all’interno del corpo della rana. Tale
trasformazione evolutiva che viene di solito descritta come il paradigma
classico della “conquista della terraferma” da parte dei vertebrati, è
raggiunta grazie a una decuplicazione dei livelli dell’ormone della tiroide nel
sangue del girino. La piccola molecola è
responsabile di cambiamenti irreversibili che obbligano l’animale a passare da
un modo acquatico di vita ad uno terrestre.
La trasformazione comprende il riassorbimento della coda, il passaggio alla
respirazione polmonare e altre drastiche modificazioni all’interno del
corpo. Tale scoperta è stata confermata
da diversi esperimenti [...] Le
osservazioni e gli esperimenti su altri gruppi di anfibi rivelano che tale
fenomeno è il risultato sia d’un messaggio chimico interno, sia di un segnale
chimico esterno” (LF, 283). Il segnale
“esterno” può venire anche dall’ambiente, nel senso che la composizione chimica
dell’ambiente (acqua o aria) funziona da stimolo o segnale per determinati
cambiamenti.
Il caso più interessante è quello dell’axolotl, una
salamandra che vive nel continente americano.
Le sue larve sono acquatiche ma quando “raggiunge lo stadio adulto, diventa terrestre : le branchie scompaiono e l’animale acquisisce
i polmoni, inoltre la coda si fa cilindrica [...] Quel che è significativo dal punto di vista
evoluzionistico è che la differenza fra i due stadi è così grande che le larve
acquatiche e le forme terrestri furono classificate come specie diverse” (ivi,
284). Invece, non è così. Somministrando ormoni alla forma acquatica si
vide che si trasformava in quella terrestre.
Ed eccoci al punto : “ Dunque,
animali che si pensava rappresentassero specie differenti e persino generi
diversi, separati come risultato di migliaia di mutazioni casuali, all’improvviso risultarono essere lo stesso
organismo. Invece di avere bisogno di
milioni di anni di evoluzione, un animale dalla forma idrodinamica e dalla
respirazione acquatica poteva essere trasformato, per opera di semplici segnali
chimici, in un’altra creatura dotata di forma aerodinamica e respirazione
polmonare. Nessun cambiamento
coinvolge la costituzione genetica di base, dacché si ha a che fare qui col
medesimo animale. Ciò che l’esperimento
dell’ormone rivela è che trasformazioni strutturali e funzionali drastiche
attribuite a modificazioni che portano all’emergere di generi distinti, possono
venir prodotte senza cambiare la costituzione genetica. Invece, l’intervento
di molecole regolatrici è in grado di creare in qualche giorno quello che si
supponeva richiedesse tempi geologici” (ivi, corsivi miei). Invece di “tempi geologici” ossia di milioni
di anni, qualche giorno. Una cosuccia da niente, questo cambiamento di
prospettiva, indotto da un’esperienza scientifica più accurata. Con queste precise osservazioni, che non si
limitano agli anfibi (ivi, 285-292), il prof.
Lima-de-Faria fa vacillare una delle credenze fondamentali
dell’evoluzionismo : quella dei molti milioni
di anni che avrebbe necessariamente richiesto
la “conquista della terraferma” da parte degli anfibi, sotto la spinta
casuale della selezione naturale. Mi
chiedo, allora : se pochi giorni possono
esser bastati per la “conquista della terraferma”, non possono pochi giorni
esser bastati anche per altre “evoluzioni” ipotizzate in centinaia di milioni
di anni?
Allora : giorni o
ere? Come dobbiamo intendere il dettato
della Bibbia? La Chiesa ci consente di
rivolgerci su questo punto alla scienza, ma la scienza è capace di darci una
risposta definitiva? Sembra di no, se i
milioni di anni possono legittimamente esser
ridotti a pochi giorni.
4.4 L’improbabile origine biologica dell’etica. Vengo
ora alla mia ultima osservazione.
Abbiamo visto che il prof. Lima-de-Faria interpreta materialisticamente
l’origine dell’etica. L’etica non è
“connessa con un’astratta selezione”, come sostengono i neodarwiniani, che la
fanno (sempre materialisticamente) discendere dalla pressione dell’ambiente sui
geni. Essa, invece, “ha una base
fisico-chimica, proprio come ogni altro fenomeno biologico”. Ciò significa che “i motivi della lotta umana
per la giustizia e la verità vanno cercati nei segnali fisici e chimici che
circolano nel corpo umano”[27]. Il comportamento dell’uomo non si
distinguerebbe perciò da quello dell’animale, dal momento che dipenderebbe
anch’esso, in misura determinante, da “segnali fisici e chimici” e quindi da un
processo di “informazione chimica” che guida “l’autoassemblaggio”, a livello
cosmico addirittura. “Le società degli
animali e degli umani sono tenute insieme dalla comunicazione e
dall’assemblaggio di tipo fisico e chimico”, anche se “all’interno di esse gli
individui mantengono la propria autonomia e l’affermano opponendosi al gruppo,
come nelle rivoluzioni, nelle migrazioni verso altri paesi, e nella formazione
di comunità separate. L’autoassemblaggio
è il fenomeno che porta all’unificazione.
Si estende dalle particelle elementari alle società umane. Si realizza nella costruzione di unità ben
definite. L’autonomia è il fenomeno che
conduce all’indipendenza. Anch’essa si estende dalle particelle elementari alle
società umane. Si realizza nel
mantenimento dell’individualità. Ecco
perché nell’evoluzione biologica l’organismo non è mai completamente adattato
né a se stesso né all’ambiente” (ivi, 314 e tutto il cap. 15, 227-234).
Determinismo solo apparente, allora, quello che traluce dal
principio dell’autoevoluzione, se resta un margine all’individualità per realizzare se stessa. E tuttavia la dialettica di
“autoassemblaggio” ed “autonomia” sembra a sua volta apparente, se riposa
sempre, in ultima analisi, sulle leggi fisico-chimiche della materia, senza
richiamarsi mai ad un elemento spirituale, ad un libero arbitrio, ad una
volontà.
Ma vediamo alcuni esempi dell’azione di questa base “fisico-chimica”. Citando autori del positivismo di inizio
Novecento, il Nostro concorda sul fatto che la “maggior parte dei nostri
istinti” hanno un fondamento fisico-chimico.
“Una donna ama e si prende cura dei suoi bambini non per il fatto che
gli psicologi ritengono che si tratti di un comportamento desiderabile, ma
perché è obbligata a far così una volta che certi processi fisico-chimici
procedono all’interno del suo corpo.
Anche la nostra lotta per la giustizia e la verità non ha un’origine
diversa” (ivi, 344).
Dunque, l’istinto materno, che spinge la donna ad una cura
amorosa e piena di diletto per i propri figli, in particolare quando sono
piccoli, non rivelerebbe alcun nobile sentimento, né alcun motivo etico,
nemmeno come causa parziale o concausa.
Non rivelerebbe niente di puramente spirituale. Si tratterebbe solo di “processi
fisico-chimici all’interno del corpo della madre”. E quali sarebbero? L’autore non lo dice. Gli esempi che fa subito dopo riguardano in
prevalenza l’attrazione sessuale nelle specie.
Vorrei sapere, a questo punto :
in base a quale “processo molecolare” certe madri si sacrificano per i
propri figli, sino a donare la loro vita per loro? E nel caso opposto, di madri snaturate, come
si suol dire, che non si prendono affatto cura dei loro figli, cosa dobbiamo
dire : che qui è all’opera un “processo
fisico-chimico” di segno opposto? Che la
chimica interna della madre snaturata è diversa
da quella della madre che si prende cura dei propri figli? Diversa ed anzi opposta? Si vede chiaramente,
a mio avviso, che il tentativo di spiegare materialisticamente il sentimento e
la morale, mettendoli sullo stesso piano dell’istinto, obbliga a conclusioni
perlomeno stravaganti.
Ogni istinto ha dunque “un’origine molecolare”. È un “impulso al quale l’animale non può
resistere, poiché ha un’origine strettamente chimica” (ivi). L’origine
molecolare dell’istinto, tale pertanto da produrre un impulso irresistibile, la scienza è stata in
grado di ricostruirla per ciò che riguarda gli animali e gli insetti, in
particolare in riferimento all’accoppiamento.
“Nei topi, un feromone prodotto dai maschi viene
individuato dagli organi olfattivi delle femmine. Tale sostanza influenza la produzione di
gonadotropina nelle femmine, e dà per risultato l’accorciamento del ciclo
estrale e la sincronizzazione della copulazione con l’estro. Anche le secrezioni vaginali dei primati, fra
cui le scimmie rhesus e gli umani, contengono acidi alifatici a catena corta
che inducono alla copulazione”[28]. Una simile trasmissione di “informazione
chimica” si ha anche presso i cervi e tra verri e scrofe. La saliva dei maiali maschi “contiene un
idrossisteroide che condiziona il comportamento sessuale della femmina, al
punto che il suo solo odore è sufficiente ad influenzare il ciclo estrale” (LF,
231). Ovviamente, “la comunicazione
chimica fra gli umani è stata ampiamente studiata. È stato ad es. condotto un esperimento di
comparazione fra la sensibilità olfattiva degli uomini e delle donne, da cui
sortì che quest’ultime sono cento volte più sensibili all’esaltolide, una
sostanza simile per composizione chimica al muschio sessuale maschile. In particolare, sono ancor più sensibili ad
esso durante l’ovulazione, e se la capacità olfattiva si estingue completamente
nei soggetti le cui ovaie siano state asportate, si ripristina ove ricevano
iniezioni dell’ormone sessuale femminile, l’estrogeno”(LF, 231).
La “comunicazione chimica” viene a noi anche da altre
fonti. “Il ciclo estrale delle donne è
influenzato da certe sostanze chimiche prodotte dai fiori delle piante di Humulus utilizzate nella produzione
della birra [...] mentre si è scoperto
che la sincronia del ciclo mestruale delle ragazze che vivono in residenze
studentesche dipende da fattori ambientali” (ivi, 232), che non vengono
tuttavia specificati dall’autore. La
fonte rappresentata dal nostro stesso corpo resta comunque prevalente. “Gli odori vaginali umani sono composti da
almeno 30 sostanze chimiche derivate da tessuti e ghiandole distinti di
quest’organo. I profumi hanno giuocato
fin dall’antichità un ruolo importante nella comunicazione umana, e oggi più
che mai le aziende cosmetiche inondano il mercato con nuove fragranze. Alcune di esse sono basate sugli estratti
degli organi sessuali degli animali (come il muschio) e sui feromoni umani
(come gli acidi grassi delle secrezioni vaginali conosciute col nome di
copuline)” (ivi, 232-233).
L’attrazione tra i sessi deriva quindi unicamente da questi
poco romantici effluvi? Passi per gli
animali, ma per gli esseri umani? E, più
in generale, cosa resta, in questo quadro, dei “fattori psicologici, storici e
politici” che si invocano normalmente per spiegare il comportamento degli
uomini in società? Questi fattori,
afferma implacabile il prof. Lima-de-Faria, “possono essere a loro volta
ridotti a processi fisico-chimici col progredire della nostra conoscenza”(ivi,
233). E fa quest’esempio. Le cause del differenziamento degli aggregati
sociali dipendono dalla disponibilità di terra e di cibo. La loro scarsezza provoca le emigrazioni e la
fondazione di nuove nazioni. Ebbene,
protozoi come le amebe si comportano esattamente allo stesso modo. Se scarseggiano i batteri dei quali
normalmente si nutrono, esse migrano e si autoassemblano secondo “uno schema
ben definito”, con le sue specializzazioni (ivi, 233-234). Da questo punto di vista, “gli umani non
sembrano lontani dai protozoi. In
entrambi i casi l’approvvigionamento di cibo ha regolato la migrazione, il tipo
di funzione e le caratteristiche della comunità” (ivi, 234).
Si tratta di un semplice paragone. L’autore, quasi volesse scusarsi, precisa “di
non sostenere l’identità fra le società umane e quelle degli altri
animali”. Egli sta solo cercando di
impostare “un approccio fisico-chimico che aiuti a capire meglio la formazione
e lo sviluppo della società umana” (ivi).
Ma in questo “approccio”, egli propone poi una spiegazione
dei fatti dello spirito, sentimentali e morali, che sembra riprodurre, riveduto
e corretto alla luce dei progressi della scienza, il vecchio meccanicismo di
origine positivista. Cos’è infatti l’altruismo, dal punto di vista del
prof. Lima-de-Faria? Non lo si può
spiegare con la selezione naturale ma solo con la componente
fisico-chimica. “Il meccanismo
responsabile dell’altruismo va ricercato nella costituzione fisiochimica della
cellula che ha custodito e canalizzato i processi biologici all’origine della
formazione della vita, e che obbliga gli organismi a comportarsi in molti casi
indipendentemente da una relazione diretta con l’ambiente. L’altruismo è una lampante manifestazione di
autoevoluzione” (ivi, 348). E quello che
vale per “l’altruismo”, vale, come si è visto, per gli ideali “di giustizia e
di verità”.
A siffatto biologismo o panbiologismo,
contrappongo le seguenti considerazioni:
a. Muovendo dall’ultimo
esempio, quello sulle migrazioni dei popoli, va ricordato che, in questo
fenomeno storico, le esigenze materiali non hanno occupato sempre una posizione di primo
piano. Non c’era nessuna esigenza
economica particolare ed immediata a
spingere gli spagnoli a riversarsi nel Nuovo Mondo. Prevalevano invece lo spirito di avventura e
di conquista, la volontà di dominio, atteggiamenti tipici dello spirito umano,
capaci di una vita del tutto indipendente dalle sollecitazioni fisico-chimiche.
b. Che l’attrazione sessuale naturale tra uomini e donne
derivi anche da componenti fisico-chimiche non possiamo evidentemente
negarlo. Ma essa esprime solo la nostra
parte animale, le cui caratteristiche ci rendono appunto simili agli animali
(mangiare, bere, digerire, evacuare, copulare).
Nell’essere umano c’è, tuttavia, anche ciò che è proprio dell’uomo, a cominciare dal pensiero, e che si dimostra
irriducibile al puro istinto e alle sue leggi fisico-chimiche. Lo si nota anche
nel caso dell’attrazione sessuale.
Nell’essere umano, essa non dipende solo dall’olfatto. Dipende anche dalla forma, cioè dal fatto che la donna trovi nell’uomo e questi nella
donna una certa bellezza, o un certo fascino, nel quale confluiscono anche
attrattive psichiche (simpatia, stile, personalità, etc). Se la persona e/o la personalità della
controparte sono tali da lasciare indifferenti o disgustare, non ci sono, per
così dire, effluvi che tengano. Ma
questa forma o qualità che deve aggiungersi alla componente fisico-chimica
perché un sesso sia ritenuto (appunto) attraente
dall’altro, che cosa ha a che vedere con i “messaggi chimici”? Proprio niente, direi. Si tratta di una qualità del tutto
spirituale, anche a voler intendere qui lo spirito nel senso meno elevato, come
semplice sentimento del bello o del piacevole.
In termini di “messaggi”, il messaggio qui inoltrato è puramente estetico e psicologico, non fisico-chimico.
Per tacere poi del fatto che relazioni amorose vengono a volte iniziate,
da entrambi i sessi, per pura vanità, senza nemmeno la presenza di una
vera attrazione. Vanità, vanagloria,
narcisismo : atteggiamenti mentali meno
che mai interpretabili in termini fisico-chimici.
Inoltre, gli esseri umani hanno per natura la capacità di resistere al desiderio. Possono dominarlo, esercitando la loro
volontà, che è facoltà mentale tipica di un essere dotato di ragione. E giustamente questa è sempre stata considerata
una delle caratteristiche che distinguono l’uomo dall’animale. Al contrario dell’animale, l’uomo, quando
vuole, sa resistere al richiamo dell’istinto.
E non solo per ciò che riguarda i desideri carnali.
E da dove viene questa capacità dell’essere umano, sua
esclusiva, di resistere alle pulsioni fisico-chimiche, che costituiscono il sostrato
materiale delle passioni? Da dove, se
non da una dimensione puramente spirituale - le cui leggi non sono evidentemente
quelle della materia - che si articola in interiore homine in ciò che chiamiamo
pensiero, ragionamento, volontà, coscienza e che riteniamo poggiare su qualcosa
di più profondo ancora, che è l’anima? E
che nell’essere umano ci sia questa componente spirituale del tutto autonoma ed
indipendente dalla materia del suo corpo anche se ad essa ovviamente collegata,
componente della quale egli è consapevole grazie a ciò che chiamiamo coscienza; ciò risulta, a mio avviso, anche da un’altra
considerazione.
L’analisi dell’informazione fisico-chimica che induce
l’attrazione dei sessi al fine dell’accoppiamento, negli animali e negli uomini,
ci mostra senza fallo che i messaggi vengono scambiati sempre tra individui di
sesso diverso, tra maschi e femmine, mai
tra individui dello stesso sesso.
L’omosessualità non rientra evidentemente nel piano della natura. Del resto, se vuole mantenersi, quest’ultima
deve indurre i viventi alla riproduzione
del vivente (cioè di se stessa) e quindi
deve indurre il maschio e la femmina a copulare al fine di riprodursi nella
prole. Le supposte inclinazioni omosessuali degli omosessuali non possono pertanto derivare
da un istinto conforme a natura.
Deriveranno allora dalla loro mente, dalla loro volontà, che anche in
questo caso testimonia la libera capacità della mente di autodeterminarsi,
scegliendo qui il male invece del bene, vale a dire mostrandosi capace di
scegliere ciò che è contro la natura in luogo di ciò che è secondo la natura,
frustrando in tal modo il fine della natura (il riprodursi per mantenersi) che
è poi il fine posto alla natura da
Colui che l’ha creata (“Crescete e moltiplicatevi”, Gen., 1, 20 ss; 27-28). A tal punto il nostro libero arbitrio può dunque
agire indipendentemente dalle pulsioni della materia.
c. La scienza odierna,
come nota tra i contemporanei Richard Swinburne, è del tutto incapace di
spiegare il fatto rappresentato dalla nostra coscienza o consciousness o anima (soul, intesa in senso lato)[29]. Essa non può avere nessuna idea al proposito,
aggiungo, perché i suoi postulati materialistici ed evoluzionistici glielo
impediscono. Ma le realtà dello spirito
sono appunto fatti, che esistono e
permangono nonostante l’afasia della scienza a loro riguardo, il silenzio di
una scienza che non sa più distinguere tra l’animale e l’uomo e che anzi ha
assimilato l’uomo all’animale. La
scienza non sa darci una spiegazione di ciò che è tipico dell’uomo, nemmeno dei
semplici sentimenti presenti nella
vita di tutti i giorni, che non si lasciano ridurre a processi molecolari.
Pensiamo per esempio al sentimento del rimorso. Credere che siano
stati dei messaggi chimici a produrlo, sarebbe del tutto assurdo. La sua causa è del tutto spirituale poiché
dipende esclusivamente dal significato di ciò che abbiamo fatto : una cattiva azione, che ci pesa sulla
coscienza. Ed un significato come lo riduciamo ad una causa fisico-chimica? E cattiva
l’azione, perché? Perché ha violato una
legge, che a sua volta è un significato, il significato di essere un principio
morale (non mentire, non rubare, etc) che evidentemente dobbiamo osservare, se
vogliamo essere in pace con la nostra coscienza. Il rimorso può poi incidere somaticamente,
mettendo in moto un processo fisico-chimico, che può manifestarsi, per esempio,
in disturbi psico-somatici, come si suol dire.
Ma il rimorso come tale, in
quanto sentimento interiore, chiaro e distinto, capace di influire sul nostro
organismo, è qualcosa di puramente spirituale, che non può perciò venire dalla
materia. E ciò tanto più mi sembra
evidente quando l’atto di cui si prova rimorso, è consistito in una violazione
ben riuscita del Sesto Comandamento; violazione cioè che, come atto della
natura, si sia svolta in perfetta armonia con le leggi fisico-chimiche
dell’attrazione dei sessi e della conseguente consumazione carnale : se tutto è andato nel migliore dei modi dal
punto di vista fisico-chimico perché provare allora quello stato, spesso
improvviso, di infelicità costituito dal rimorso? Evidentemente perché il rimorso concerne
esclusivamente il significato di
quest’atto, negativo sul piano morale;
significato talmente indipendente in se stesso da ogni influenza della
materia, da metterci in aperta contraddizione interiore con il sentimento di
soddisfazione carnale anteriormente provato, ossia con il sostrato
chimico-fisico della nostra azione.
Al fine di correggere la loro impostazione unilaterale, con
le sue pesanti ricadute in termini di relativismo etico, gli scienziati
odierni, mi permetto di concludere, dovrebbero forse tornare a prendere in
considerazione la filosofia, a cominciare dalla sua pristina intuizione
sull’esistenza del n
o u s , della mente o intelligenza in sé, intelletto irriducibile alla materia e alle sue
leggi. “Tutte le cose hanno parte di
ogni cosa, ma l’intelligenza [nous] è
illimitata, indipendente e non è mescolata ad alcuna cosa, ma sta sola in sé
[...] E dopo che l’intelligenza ebbe
iniziato a muovere, da tutto ciò che era mosso si svolgeva il processo di
formazione; e quanto l’intelligenza aveva mosso, tutto questo si divise
[...] E l’intelligenza che sempre è,
tanto più è anche ora dove sono anche tutte le altre cose, nel molto che
avvolge, nelle cose formate per assimilazione e in quelle formate per
separazione”[30].
§ Il presente articolo è
apparso sulla ‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’, serie V, anno
LXXXIV, n. 4, ottobre/dicembre 2007, pp. 501-546. Ringrazio la Direzione della Rivista per
aver consentito la presente ristampa in rete.
[1] Antonio
Lima-de-Faria, Evoluzione senza
selezione. Autoevoluzione di Forma e
Funzione, ed. ital. e traduzione a
cura del Dr. Stefano Serafini, Supervisione del prof. Giuseppe Sermonti,
Prefazione del prof. Sergio Carrà,
Prefazione dell’autore all’edizione italiana, Nova Scripta Ed., Genova, 2003,
pp. xlviii-451, con apparato bibliografico alle pp. 395-417. L’originale in inglese è del 1988. D’ora in poi citato come LF. Sul significato di quest’opera, vedi : Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin. Ombre sull’evoluzione, Rusconi, Milano, 1999,
pp. 94-95.
[2] “Ogni scienza (epistéme) è di ciò che è sempre o per lo
più, ma l’accidente (symbebekós) non appartiene né all’uno né all’altro di
questi. E s’intende da sé che
dell’accidente non esistono cause e princìpi quali esistono dell’essere in sé e
per sé […] L’essere, poi, nell’altro
senso, dico in quello di accidente, non è necessario, ma indeterminato : dell’indeterminato le cause sono disordinate
e impossibili a enumerare […] Ora, il caso (tyche)
è causa per accidente nelle cose che hanno uno scopo e avvengono per
deliberazione. Perciò il caso e il
pensiero versano allo stesso oggetto : ché
la deliberazione non è senza il pensiero.
Ma le cause dalle quali per caso possono le cose avvenire, sono infinite
[nel senso di perennemente indeterminate-indeterminabili]. Perciò il caso è oscuro al ragionamento umano
ed è causa accidentale : anzi, in
assoluto, non è causa di nulla” (La
Metafisica, tr. e note a cura di A. Carlini, Laterza, Bari, 1965, 11, 8,
1065 a, pp. 380-382)
[3] LF,
Prefazione, a cura di Sergio Carrà,
pp. xix-xxiii; p. xx.
[4] Giuseppe
Sermonti, op. cit., pp. 41-43. L’attenuazione dell’importanza esclusiva del
principio della selezione naturale risulta esplicitamente da una frase aggiunta
da Darwin alla fine dell’introduzione (Historical
Sketch), scritta posteriormente alla prima edizione della Origin.
Dopo aver ribadito la sua fede nell’evoluzione delle specie, aggiungeva
: “Furthermore, I am convinced that
Natural Selection has been the main but not exclusive means of modification” (
Charles Darwin, The Origin of Species by
means of Natural Selection or the Preservation of favoured Races in the
Struggle for Life (1859), rist. con aggiunte dalle edizioni posteriori, con
pref. di Patricia Horan, Avenel, New York, 1986, p. 69).
[5] ODB,
2004, sub voce Mutation. Qui come
altrove le frasi tra parentesi quadre sono mie. Nel 1982 l’immunologo prof.
Alain Bussard spiegava: “Le neutralisme,
proposé par Kimura [1924-1994, illustre genetista giapponese] et appuyé sur une
analyse statistique rigoureuse, souligne que les mutations neutres, c’est-à-dire celles qui
ne fournissent ni
avantages ni désavantages sélectifs [vale a dire, rilevanti per la
selezione naturale delle specie], représentent l’immense majorité des
mutations, ce qui, évidemment, interdit l’interprétation sélective de
l’évolution [basata cioè sulla Selezione Naturale]. De même l’immunologie moléculaire nous
présente un modèle analogique, non pas de mutations neutres, mais de
réassociations neutres des gènes codant pour les anticorps. Ces réassociations doivent être neutres en ce
sens qu’elles aboutissent au codage d’anticorps dont l’immense majorité ne
servira à rien dans la mesure ou l’antigène leur correspondant ne les
rencontrera jamais” (Alain Bussard, Darwinisme
et immunologie, Bulletin de la Société française de Philosophie, 77e
année, n. 1, janvier-mars 1982, Armand Colin, Paris, 1983, p. 18
dell’estratto).
[6] Questa verità si
ritrova in tutti i manuali di biologia per le scuole medie superiori. Cfr.
: Tommy Murtagh, Biology now!, Gill & MacMillan, Dublin, 2002, p. 158.
[7] Darwin
sosteneva che l’evoluzione delle specie, di specie in specie, prodotta secondo
lui dalla selezione naturale, doveva esser stata lentissima e graduale a causa
della connessione esistente tra “forme capostipiti” (parental) e “forme intermedie” che egli credeva prendessero
continuamente il posto delle prime, distruggendole. Questo “processo di sterminio” si era attuato
su scala planetaria, scriveva, ragion per cui il numero delle “varietà
intermedie” doveva essere veramente enorme.
Come mai, allora, queste forme intermedie non si trovavano? “La geologia non ci mostra di sicuro alcuna
catena organica [di sviluppo] così finemente graduata. E questo fatto costituisce forse l’obiezione
più evidente e più grave alla mia teoria (and
this, perhaps, is the most obvious and gravest objection which can be urged
against my theory)” (Origin, pp.
291-292; vedi anche p. 206 ss). Ma egli
così replicava ai suoi detrattori : le
forme intermedie (chiamate poi missing
links) dovevano esserci; se non si trovavano, ciò doveva dipendere dalla
“imperfezione dei nostri dati geologici”.
Un secolo e mezzo dopo, l’obiezione “più evidente e più grave” al
darwinismo resta, dato che queste famose “forme intermedie” continuano a
latitare.
[8] Cfr. Sermonti, op. cit., pp. 48-49; ODB, alla voce living fossils.
[9] Non
sono mancati anche, come è noto, clamorosi imbrogli, come nel caso del
cosiddetto “uomo di Piltdown”, supposto reperto fossile presentato nel 1911 in
Gran Bretagna come anello di
congiunzione tra l’uomo e la scimmia, venerato per decenni come tale al British
Museum e risultato poi esser costituito di un cranio umano cui era stata
appiccicata ad arte la mandibola di una scimmia. (Vedi l’articolo del celebre paleontologo
Stephen J. Gould, scomparso nel 2002 : The
Piltdown Conspiracy, 1980, ora nell’antologia : Paul McGarr and Steven Rose (a cura di), The Richness of Life. The Essential Stephen Jay Gould, with an Introduction by Steven Rose, Jonathan
Cape, London, 2006, pp. 181-204).
[10] Sul
punto : Stephen J. Gould, The Episodic Nature of Evolutionary Change,
estratto da uno scritto del 1980, ora in The
Richness of Life, cit., pp.
261-266. Ma come si può rigettare il
principio del “gradualismo” dell’evoluzione, conservando tuttavia un approccio
darwiniano alla stessa (ivi, p. 263)? E
conservando per di più il “gradualismo” in via subordinata, in nome di una
visione “pluralista” della scienza (ivi, p. 266)?
[11] Richard
Dawkins, The Selfish Gene, Oxford,
1976, rist. 1999, p. 19. Le tesi del
determinismo biologico hanno creato la moda di voler trovare il gene di tutto,
dalla violenza al temperamento artistico all’omosessualità. Si tratta di ricerche mirabolanti quanto
superficiali, la cui vacuità è stata dimostrata dagli studiosi più seri. Il “gene” dell’omosessualità, tanto per
richiamare il caso forse più clamoroso, nessuno è mai riuscito in realtà a
trovarlo, checché facciano credere i media.
Per l’infondatezza scientifica di questa ipotesi, che pretendeva di aver
individuato anche “il cervello gay”, vedi le puntuali osservazioni del dr.
Gerard JM van der Aardweg, psicologo olandese, un’autorità internazionale nel
campo della cura delle persone omosessuali, in Id., Selbstherapie von Homosexualität. Leitfaden
für Betroffene und Berater, Hännsler, Neuhausen-Stuttgart, 1996, pp. 34-41; nonché
la nota opera del neurobiologo inglese
Steven Rose, avverso a Dawkins : Lifelines. Life
Beyond the Gene, 1997, 2a
ediz. rived., Vintage, London, 2005, pp.
288-291, con le fonti ivi citate.
[12] LF,
pp. xix-xx. Cito sempre dalla prefazione del prof. Carrà. Il determinismo a
base genetica, negatore del libero arbitrio, professato da Dawkins e dalla sua
scuola ha provocato come è noto, la decisa opposizione di Gould e della sua
scuola, che ribadivano la comprovata impossibilità per i geni di subire
l’azione della selezione naturale e l’impossibilità di spiegare ogni aspetto
dell’evoluzione in termini di adaptation e
quindi di selezione naturale (Vedi : Gould e Richard Lewontin, The Spandrels of San Marco and the
Panglossian Paradigm : A Critique of the
Adaptionist Programme, e Gould, More
Things in Heaven and Earth, in The
Richness of Life, cit., pp. 417-437 e 438-460). Di questa disputa il prof. Lima-de-Faria non
tiene conto. Essa in effetti non ha
impedito il prevalere del determinismo genetico, che imperversa anche sui
media.
[13] Carrà, in LF,
xx.
[14] Ivi. Cfr. :
D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita
e forma, edizione ridotta a cura di John Tyler Bonner, CUP, 1961, tr. it.,
Boringhieri, Torino, 1969.
[15] D’Arcy Thompson,
op. cit., Introduzione di John Tyler Bonner, pp. vii-vx; p. viii e pp.
xi-xii.
[16] Cfr.
Giuseppe Sermonti, op. cit., pp.
45-49.
[17] “I do not think that
Darwinism can explain the origin of life.
I think it quite possible that life is so extremely improbable that
nothing can “explain” why it originated; for statistical explanation must
operate, in the last istance, with
very high probabilities. But if our high
probabilities are merely low probabilities which have become high because of
the immensity of available time [...] then we must not forget that in this way
it is possibile to “explain” almost
everything”. Così Karl Popper,
nel famoso testo nel quale negava al
neodarwinismo il carattere di scienza (Karl Popper, Darwinism as a Metaphysical Research Programme, in Id., Unended Quest. An Intellectual Autobiography, 1974, Routledge, London and New
York, 2002, pp. 194-210; p. 196). A
queste e simili critiche, gli evoluzionisti restano indifferenti.
Essi rispondono in genere nel seguente modo : il fatto che la vita esista, dimostra che il
caso unico si è verificato, anche se “la sua probabilità a priori era quasi
nulla” (Jacques Monod, Il caso e la
necessità. Saggio sulla filosofia
naturale della biologia contemporanea, tr. it. Anna Busi, Mondadori,
Milano, 1970, pp. 117-118). Come a dire
: poiché ciò di cui predichiamo
l’origine casuale esiste, abbiamo
ragione noi : il caso unico ha dovuto
prodursi, la vita si è originata casualmente : “L’universo non stava per partorire la vita,
né la biosfera l’uomo. Il nostro numero
è uscito alla roulette : perché dunque
non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo
stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?” (Monod, ivi, p. 118).
[18] LF,
20. Vedi Popper, Darwinism as a Metaphysical Research Programme, cit., sp. pp. 194-201.
[19] Per
il prof. Lima-de-Faria, “l’universo è una gran cristalleria e le forme [che in
esso appaiono] sono il risultato delle capacità organizzative di cristalli e
semi-cristalli”(Sermonti, op. cit.,
pp. 94-95). Tra i suoi precursori, il
nostro autore include anche Goethe, con la sua concezione di una forma – quella
della pianta – presente in natura come
un vero e proprio archetipo (LF, 47).
[20] La
frase di Voltaire è tratta dalla voce Fin,
causes finales del suo celebre Dictionnaire
philosophique, apparso nel 1764. Ma,
in questo scritto, Voltaire non sembra affatto voler negare il principio del
finalismo nella natura. Piuttosto, se la
prende con coloro che sostenevano esser tutto già prestabilito. Il suo
bersaglio è costituito dalla leibniziana armonia prestabilita, così come
l’aveva capita lui, fabbricandosela come uno dei suoi zimbelli preferiti. Se è vero, afferma, che tutto è già
prestabilito, poiché non vi ha effetto senza causa, allora tutto è il risultato
di una causa finale : “donc il est aussi
vrai de dire que les nez ont été faits pour porter des lunettes, et les doigts
pour être ornés de diamants qu’il est vrai de dire que les oreilles ont été
formées pour entendre les sons et les yeux pour recevoir la lumière” (Id., Dictionnaire philosophique, Garnier,
Paris, 1961, ediz. a cura di Julien Benda e Raymond Naves, pp. 199-200). Si tratta di un argomento ad absurdum, al
fine di screditare i settatori del determinismo.
[21] Summa theol., I, q. 2, a. 3. Sul finalismo nella natura secondo S.
Tommaso, in relazione ai problemi filosofici sollevati dall’evoluzionismo, vedi
: P. Louis-Eugène Otis, La doctrine de l’évolution. Un
exposé des faits et des hypothèses, Fides, Montréal, 1951, vol. II, pp.
51-73. La quinta prova dell’esistenza di Dio è un testo classico, sempre
citato da coloro i quali, dall’esistenza dell’ordine, deducono correttamente la
necessità dell’esistenza di Dio. Da
ultimo, vedi : Richard Swinburne, Is There a God?, OUP, Oxford, 1996,
rist. 2003, p. 55.
[22] Prov.,
16,4. Romano Amerio cita questo passo in
relazione a Summa Theol., I, q. 19,
a. 2 : “Sic igitur Deus vult se et alia
: sed se ut finem, alia ad finem”
(Romano Amerio, Iota Unum. Studio sulle
variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli,
2a ediz., 1986, p. 402).
[23] “Inoltre,
la causa è come fine ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la
salute” (Arist., La fisica, tr. it.
con introd., note ed indici a cura di Antonio Russo, Laterza, Bari, 1968, 2,
194 b, p. 36).
[24] Summa theol., I-II, q. 1, a. 1 : “finis, etsi sit postremus in executione, est
tamen primus in intentione agentis. Et
hoc modo habet rationem causae”.
[25] Essa
non si rende conto che, se Dio non esistesse, essa non potrebbe nemmeno
costruire le sue spiegazioni del mondo :
“I do not deny that science explains, but I postulate God to explain why
science explain” (Swinburne, op. cit.,
68).
[26] Cfr.
Zorell SI, LGNT, sub voce heméra, the
testimonia un uso diffuso del termine, uso definito come “ebraizzante”, anche
nel senso di tempus, aetas, al plurale e al singolare, nel
greco del Vecchio e del Nuovo Testamento.
[27] LF,
392. In sede filosofica, il tentativo
più radicale di ridurre tutto il nostro modo di essere (pensare, sentire,
agire) a risultato di semplici movimenti della materia fuori e dentro di noi, è
stato forse quello di Hobbes : cfr. i
primi sei capitoli del Leviathan.
[28] LF, 344. I feromoni sono molecole costituite da acido
organico o alcohol, altamente volatili.
Vengono emesse nell’ambiente
dall’organismo di mammiferi ed insetti, come segnale specifico rivolto ad un
altro organismo, normalmente della stessa specie, per diversi scopi : accoppiarsi di maschi e femmine, marcare
oggetti o territorio, promuovere la coesione sociale (vedi ODB, sub voce e LF, 227-228).
[29] Swinburne,
op. cit., pp. 80-94. L’autore sembra accettare l’ipotesi
evoluzionistica. Tuttavia, precisa, la
scienza non è assolutamente capace di spiegare come mai, ad un certo punto, sia
apparso un essere – l’uomo – dotato della capacità di pensare, della coscienza
o “anima”, del libero arbitrio (ivi, p. 81).
La spiegazione della realtà in termini fisico-chimici ha portato
(erroneamente) la scienza “ad ignorare tutto ciò che è mentale” (ivi, p.
86). Il che ha condotto
all’atteggiamento irrazionale di negare l’esistenza stessa di una sfera
mentale, “just because you cannot explain how it came to be there” (ivi,
80). Il nesso del cervello con i
processi mentali, “mental events” che sono causati ma a loro volta causano
“brain events”, resta del tutto incomprensibile, in termini scientifici (ivi,
88 ss). Però esiste. Il fatto è,
conclude l’autore, che questo nesso si può comprendere solo postulando l’idea
di Dio, un Dio creatore (ivi, 90-94). La
tradizionale dottrina cristiana di un Dio creatore che opera mediante le “cause
seconde” ovvero “i processi naturali”, intervenendo invece direttamente nella
creazione dell’anima di ciascuno, da Lui stesso collegata al corpo di ciascuno,
deve esser ripresa in considerazione (ivi, 93-94). Conclusione validissima, a mio avviso, anche
senza condividere il senso troppo lato nel quale l’autore, per voler seguire
l’ipotesi evoluzionistica, intende l’anima, che attribuisce in qualche modo
anche agli “animali superiori” (ivi). L’evoluzionismo ha riportato in auge il
panpsichismo e, nelle forme più rozze, l’animismo, il culto degli animali (ad
esempio nella galassia “ecologista”).
[30] Anassagora,
Testimonianze e frammenti, a cura di
Diego Leanza, La Nuova Italia, Firenze, 1966, p. 225 e 235. S. Tommaso, che lo conosceva attraverso la Fisica di Aristotele, cita Anassagora
come esempio più antico della concezione di Dio come puro spirito separato
dalla materia (intellectus immixtus),
motore immobile, principio del moto e di tutte le cose (cfr. Compendium Theologiae, caput 17).
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