Nota Previa
all’Introduzione
alla Metafisica dell’Uno
Il
presente saggio, che appare qui in versione pdf (in appendice alla Nota Previa), uscì in edizione cartacea ben ventisette anni
fa: Paolo Pasqualucci, Introduzione
alla metafisica dell’uno, con Prefazione di Antimo Negri, Antonio Pellicani
editore, Roma 1996, pp. 151. Per quanto ne so, ebbe qualche recensione
solo nell’ambito dei circuiti culturali non strettamente accademici. Tra di
esse si distinse ‘Massoneria oggi’, rivista bimestrale del Grande Oriente
d’Italia, apparsa dal 1994 al 1999. Il
recensore si preoccupava di difendere, contro la mia tesi, la concezione
panteistica dell’Uno (l’Ein-Soph) cara al deismo a sfondo teosofico
professato dalla Massoneria.
Nel marzo
del 2003 il povero Antonio Pellicani mancò all’improvviso, stroncato a 61 anni
da un infarto, e scomparve con lui la sua piccola casa editrice
“controcorrente”, come la chiamavano i media, con le sue belle collane.
Nel
1993, su iniziativa del prof. Antimo Negri (1923-2005), stimato storico della
filosofia e brillante e acuto saggista, avevo presentato all’Accademia
Pontaniana in Napoli una Nota sul tema, stampata poi a parte in un
opuscolo intitolato : Sulla
definizione dell’uno, Giannini, Napoli, 1993, pp. 9 (Estratto dagli ‘Atti
della Accademia Pontaniana’, Nuova Serie – Volume XLIII – Anno Accademico 1993,
DLI dalla fondazione). La Nota si
concentrava su quello che nel libro costituisce il primo dei suoi tre capitoli:
la “metafisica del Tutto” con inclusa la “definizione dell’uno” (parr. 1-7, pp.
17-51).
Ho
già pubblicato questa Nota su questo blog, l’11 marzo 2018. Vi ho anche pubblicato la recensione della
citata rivista massonica il 18 dicembre 2022, con aggiunte a titolo esplicativo
alcune pagine della medesima Nota. Ma queste pubblicazioni non rendono
ovviamente l’idea della complessità e articolazione dei temi trattati nel libro
vero e proprio. Rileggendolo di recente,
dopo tanti anni, la sua problematica mi è sembrata ancora perfettamente
attuale, tanto da decidermi a metterlo in rete, in pdf, per gli amanti della
filosofia, anzi della metafisica che è, a ben vedere, la filosofia nella sua
forma più alta. Ritoccherei alcuni punti
e ne amplierei altri, specialmente nell’ultimo capitolo, che si confronta con
aspetti essenziali dell’immagine contemporanea del mondo. Ma l’impianto del discorso mi sembra ancor
valido così com’è.
Il
titolo del libro ha un sapore kantiano. Ma si tratta solo di apparenza: il libro non contiene nulla di kantiano. Il
suo argomento può sembrare astratto. In realtà, affrontando il problema della
giusta definizione dell’Uno, io cerco di riaprire il discorso filosofico su
Dio, oggi completamente abbandonato.
Riaprirlo in chiave metafisica, cominciando dalla definizione rigorosa dell’Uno,
concepita in modo tale da sottrarla ai panteismi ed immanentismi che l’hanno
sin qui monopolizzata, i quali portano ad identificare l’Uno con il Tutto
legittimando in definitiva lo spinoziano “Deus sive natura”, un concetto che
Einstein, ammiratore di Spinoza, amava ripetere, per indicare in quale Dio
credesse, a chi glielo domandava. Non
per nulla, gli intellettuali massoni o vicini alla Massoneria si preoccupavano
di criticare una definizione dell’Uno come quella da me proposta (“l’uno, nel
suo concetto, è ciò che non ha parti e non è parte, eppure è”), definizione che
si poteva applicare solo a Dio inteso come essere perfettissimo anteriore ad
ogni realtà sensibile, dominata dal rapporto tra le parti e tra queste e il
Tutto. In tal modo, il concetto
dell’Uno, rigorosamente definito in sé, applicabile solo all’Essere
assolutamente trascendente di Dio, appare compatibile con la rivelazione di un
Dio per sua natura Uno e Trino. Infatti,
tale concetto ci permette di affermare la legittima pensabilità dell’esistenza
di Dio nel concetto dell’Uno, senza dirci ancora nulla della sua natura o
essenza, la quale noi possiamo conoscere solo grazie alla Rivelazione che ne
voglia fare lo stesso Iddio.
E
difatti il recensore di ‘Massoneria oggi’ non criticava la mia tesi nel suo
svolgimento logico, che riteneva anzi rigoroso, bensì, rifacendosi a Martinès
de Pasqually (1727-1774), ribadiva la concezione di taglio cabalistico e
neo-platonico cara alla visione del mondo della Massoneria speculativa, intesa
nella sua accezione più esoterica: l’Uno non come l’In-sé dell’Essere
assolutamente trascendente bensì come sintesi delle parti e del tutto della
realtà, grazie all’emanazione di sé dello Ein-Soph, Ente o Uno o Essenza
primordiale, nelle sue molteplici per non dire infinite manifestazioni. Alla
mia tesi veniva contrapposto il deismo, dunque, e nella sua forma più arcaica,
riflettente il panteismo tipico dello gnosticismo primitivo: theo-sophia intesa alla liberazione
dell’anima individuale dall’abbraccio tenebroso della materia e del mondo
mediante conoscenze iniziatiche del proprio Sé e pratiche teurgiche.
Ma oltre a riaprire il discorso su Dio in
chiave metafisica, il mio saggio si inoltrava nell’analisi del rapporto tra il
tutto e le parti, cominciando dalla definizione dell’esser parte di qualcosa,
in quanto modo di essere riscontrabile nella realtà sensibile ma anche in
quella spirituale, se il nostro pensiero deve considerarsi parte dell’
essere ossia del Tutto, senza potervisi identificare. L’inesteso nostro pensare quotidiano non è
“parte” dello spazio e tuttavia deve considerarsi parte del Tutto, che
ricomprende anche lo spazio.
Per facilitare la comprensione del testo e per
non tediare il lettore con preliminari troppo lunghi, riporto qui di seguito l’Indice
Generale del libro.
Prefazione
di
Antimo Negri.
I.
Metafisica del tutto.
1. Il
tutto è indiviso e quindi è l’uno.
2. Il tutto non può accrescersi
in quanto tutto. 3. Il tutto, in quanto uno, è infinito. 4. Natura contraddittoria del tutto. 5. La
definizione dell’uno. 6. La definizione dell’uno si applica solo a
Dio. 7.
Dire che l’uno è Dio non significa affermare che Dio è unico.
II. Metafisica della parte.
8. Il tutto come semplice somma di parti. 9.
Definizione della parte: il
problema. 10. La parte o l’ente. 11. La
definizione della parte non è unitaria.
12. Quali sono le parti del
tutto. 13. Il tutto come Sostanza.
III. Analitica delle parti in nuce.
14. Spazio, corpo, simultaneità. 15. Il
pensiero.
I
primi quattro paragrafi analizzano il concetto del tutto: natura contraddittoria del Tutto che appare
infinito pur essendo costituito di parti finite, transeunti; coesistenza
simultanea di ordine e disordine, vita e morte.
Paradosso del concetto del Tutto: è grazie alle sue parti, è nonostante
le sue parti (sottoposte al divenire mentre il tutto non diviene, rimanendo
sempre se stesso). “Ma il tutto è per
l’appunto questo, di essere opposto a se stesso: da un lato come tutto è semplicemente lo stesso
delle parti, e dall’altro lato le parti sono lo stesso che il tutto, in quanto
nel loro insieme sono loro a costituirlo” (Hegel). Da ciò si deduce (ho saltato altri passaggi)
che il Tutto non può esser considerato l’Uno. L’Uno non può infatti essere contemporaneamente
il suo opposto. Non può esser sostituito
da un’unità del tutto come quella sostenuta ad esempio da Giordano Bruno, che
vedeva appunto il tutto come Uno proprio perché costituito dalla
compenetrazione dei contrari. Bruno fu
notoriamente molto apprezzato da Schelling, uno dei padri dell’Idealismo. “In questa prospettiva, la morte
dell’esistente viene negata in quanto dissolversi nel nulla di una parte
determinata del tutto. Si deve infatti
dire che ciò che si dissolve con la morte è solo la forma degli enti, mai la
loro materia, immutabile ed identica a se stessa in quanto sostanza
universale. La materia, sostanza che si
mantiene con immutata “potenza” nel corso del divenire, è infatti concepita
essa stessa come “potenza” che si riproduce dal proprio interno, senza mai
subire diminuzioni nell’alternarsi delle sue forme. Essa è allora “principio” e “fondamento” del
tutto in quanto uno” (Introduz. alla metafisica dell’Uno, cit., pp.
28-29).
Contro
questa concezione, trasfigurante la materia, ricordavo il celebre verso di Hamlet,
act. IV, sc. I: “Imperious Caesar,
dead and turn’d to clay,/ Might stop a hole to keep the wind away”: il
grande Cesare morto divenuto creta, tappar potrebbe un buco contro il vento.
Ecco come possiamo ritornare al “tutto” della materia dopo la nostra
morte. Con la morte, opponevo, noi non
cadiamo nello “inesteso”, come sosteneva Schelling, come se conservassimo
ancora una possibilità di essere: noi invece cadiamo nell’inesistente,
perché il nostro corpo, la nostra materia è scomparsa del tutto. Ma non risorgerà, secondo la Rivelazione,
nell’ultimo giorno? Risorgerà, per
andare all’eterna retribuzione, ma solo ad opera della divina Onnipotenza, che
la ricreerà trasfigurata dal nulla in cui la morte l’aveva posta.
I
paragrafi dal quinto al settimo propongono la definizione
dell’Uno. Sinteticamente l’ho già
esposta. Mi limito a specificare qui in
che senso dire che il concetto dell’Uno si applica solo a Dio, non equivalga
affatto ad affermare che Dio è Unico, alla maniera dei monoteismi non
cristiani. Quest’ultima affermazione
ha, come è noto, un significato non metafisico ma teologico poiché con essa non
si vuole esprimere la pensabilità dell’esistenza di Dio ma il quid sit ,
la natura di Dio, come come Egli (secondo quei monoteismi) ce l’avrebbe
rivelata, vale a dire in modo da escludervi la possibilità stessa della sua
essenza trinitaria. Affermare che il
concetto dell’Uno si applica solo a Dio, all’opposto, significa mostrare che
l’unico significato che il concetto dell’uno in sé può avere per la mente, in
quanto puro concetto, è quello di contenere la definizione dell’essere
perfettissimo di Dio e proprio a causa dell’impossibilità di applicarlo
all’essere in quanto determinato nell’esistenza e nella materia, ovvero al
Tutto in quanto composto di parti. Tale
concetto esprime quindi – ripetiamo – la
legittima pensabilità dell’essere di Dio senza dirci ancora nulla sul mistero
numinoso della Sua natura, che possiamo conoscere, per quanto è dato a noi,
solo per quanto di essa sia piaciuto a Lui rivelarci, e in definitiva non
contraddice in nulla una Rivelazione in cui l’unità della natura di Dio sia
stata testimoniata nel mistero delle Tre Persone uguali e distinte, nella
Monotriade” (PP, op. cit., p. 44).
Inoltre, il concetto dell’Uno come da me inteso, mette in luce
l’insostenibilità dell’identificazione uno-tutto tipica degli immanentismi a
sfondo panteistico oggi variamente dominanti.
I paragrafi
da otto a tredici riguardano la
“metafisica della parte”: cosa significhi
l’esser-parte in quanto modo di essere ineliminabile dell’esistente. Il par. 8 contiene una critica della
concezione meccanicistica del Tutto, come semplice “somma di parti”, elaborata
in special modo dalla filosofia di Thomas Hobbes, uno dei padri della
concezione meccanicistica della realtà, materialista integrale. La critica concerne anche il tentativo
hobbesiano di eliminare il principio di causalità come inteso da Aristotele e
successivamente dall’Aquinate, ossia dalla metafisica classica. Il par. 9 è
dedicato alla definizione del concetto della parte, nelle sue varie
articolazioni (l’esser-contenuto, l’esser-in-relazione, l’esser unità di misura,
l’esser separato o tolto). Vi si discute la sua natura complessa, anche in
relazione a problemi posti da Platone nel Parmenide e all’impostazione
aristotelica. L’esistenza
dell’esser-parte sembra indicare, per Platone, che la realtà resta sempre
dualistica, poiché “l’uno-che-è”, pur partecipando dell’essere, non riesce ad
evitare che l’essere (il Tutto) risulti composto di parti che si moltiplicano
all’infinito, in una catena aperta, priva di effettiva unità. Per Aristotele,
invece, più semplicemente, la parte è “ciò che si può togliere” e che ha
significato solo nel tutto che organicamente la ricomprende. I problemi del rapporto tra il Tutto e la
parte sono già enucleati nel pensiero greco.
Nell’essere
della parte appare pertanto la contraddizione, dal punto di vista della sua
definizione concettuale: “esser parte si
dice di ciò che partecipa di un tutto e far parte a sé, all’opposto, di ciò che
se ne separa”. Il nesso
partecipazione-esclusione, caratterizzante l’esser-parte, viene discusso nel
par. 10, dedicato a “La parte e l’ente”. “Si comprende quindi come l’ente,
pur essendo parte dello spazio, non sia la stessa cosa della parte, intesa come
quella grandezza che è ricompresa in una grandezza, secondo una quantità
determinata. Come definiremo l’ente, allora? L’ente è per noi, in prima approssimazione,
quella grandezza definita in una quantità determinata, il cui limite esterno è
costituito solo dallo spazio e dal tempo in quanto tali, ossia da una grandezza
per noi indeterminata perché priva di quantità.
L’ente è quindi un individuo, così come lo sono l’animale, l’uomo, il
globo terrestre, le stelle e così via” (PP, op. cit., p. 86). La parte in senso stretto, lo è all’interno
di una realtà corporea ossia di un ente, che costituisce una realtà
determinata, finita. Invece l’ente è
parte dello spazio, che è realtà
indeterminata, infinita.
La
contrapposizione tra l’ente e lo spazio cioè tra il pieno e il vuoto, è stata
negata dalla Fisica contemporanea, ma in modo da giungere ad annullare
l’individualità dell’ente (l’Oggetto), concepibile, secondo Einstein, come una
“variazione di densità” del campo gravitazionale, che costituirebbe, con le sue
masse curvilinee deformanti le energie che lo attraversano, la vera
conformazione del Tutto su scala cosmica (PP, op. cit, pp. 88-90). Ma questa “reductio ad unum” che vede l’Uno
nell’unità indissolubile di materia ed energia quale si realizzerebbe del cosmo
strutturato come spazio sferico increato ed eterno, finito ma illimitato, non è
accettabile sul piano del concetto, che esige il mantenimento della distinzione
fra materia ed energia, per quanto esse possano partecipare l’una dell’altra.
Intendere i corpi, gli enti costituiti di materia, quali semplici “variazioni
di densità” nello spazio costituito di geodetiche di energia, appare del tutto
astratto e nello stesso tempo non fondato dal punto di vista scientifico, visto
che le leggi della fisica non riescono a realizzare la sintesi di materia ed
energia auspicata da Einstein.
La
definizione della parte, del resto, non è unitaria (par. 11) perché l’esser parte ha
luogo nell’ambito di una grandezza costituita dall’ente o dallo spazio,
grandezze tra loro non commensurabili, in quanto l’uno è finito e determinato,
l’altro infinito e indeterminato.
Bisogna quindi cercare innanzitutto di stabilire quali sono le parti del
tutto (par. 12). Quali, e non quante.
Quali
sono le parti del Tutto? “In quanto
siano determinate in una quantità sono costituite dalla materia-energia e dagli
enti; in quanto indeterminate: dallo spazio, dal tempo, dal pensiero. L’inclusione di quest’ultimo sembra
giustificata da questa riflessione: come lo spazio e il tempo sono
l’indeterminato fuori di noi, il pensiero è l’indeterminato in noi perché, pur
essendo, non solo non ha quantità ma nemmeno grandezza, nel senso
dell’estensione” (op. cit., p. 92).
Con indeterminato intendo una grandezza senza quantità. Con pensiero non intendo la sola facoltà
intellettiva ma quell’insieme di attività spirituali – delle quali la facoltà
intellettiva è parte – il cui fondamento ultimo è da ricercarsi in qualcosa di
più profondo, nell’anima “ (op. cit., ivi).
Il
par. 13 infine è dedicato a “il Tutto come sostanza” e contiene una critica
approfondita (pp. 97-114) all’immanentismo di Spinoza, che nega l’individualità
della parte rispetto al Tutto concepito come “sostanza”, anticipando in un
certo senso la negazione dell’individualità della parte (costituita dalla
materia) tentata sul piano della teoria fisica dallo spinoziano Einstein.
I paragrafi
quattordici e quindici del Terzo capitolo
concludono il saggio (pp. 119-151) discutendo criticamente la nozione
delle “parti” rappresentate, oltre che dal pensiero, dallo spazio e dal tempo -
lo spazio-tempo, nozione complessa affermatasi nella fisica moderna ed
accettata dal pensiero filosofico prevalente e un po’ da tutti. Negavo validità alla nozione dello “spazio
curvo” o “deforme” a causa dei campi gravitazionali prodotti dalle masse
stellari, quale nozione che possa ritenersi valida per tutto lo spazio, in
quanto tale.
Se
queste mie critiche potevano ritenersi troppo audaci ventisette anni fa,
bisogna sapere che lo sviluppo successivo dell’astrofisica ha dimostrato senza
volerlo la loro validità. Si è stabilito che “la densità della materia
presente nello spazio è tale da raggiungere il punto critico senza eccederlo,
per cui lo spazio tridimensionale non si curva su stesso [come riteneva
Einstein – ndr]. Pertanto l’ipotesi dell’universo chiuso, per quanto attraente
potesse essere, è morta” (cito dal libro dell’astrofisico inglese Russell
Stannard, The End of Discovery, Oxford UP, 2010, p. 48) Se si va sui siti più validi di cosmologia
popolare, troviamo diversi interventi (persino angosciati) sul fatto che adesso
lo spazio su larga scala viene ritenuto nuovamente “flat” ossia euclideo, piano
e quindi infinito. Lo spazio “curvo” sarebbe solo quello deformato (“warped”)
dai campi gravitazionali creati dalle masse stellari attorno ad esse stesse,
campi responsabili della leggera “deflessione” dell’energia che li impatti,
dalla luce agli altri tipi di “onde”. La
visione del cosmo impostasi dopo Einstein risulta sensibilmente mutata dal
ritorno allo spazio euclideo su scala universale, anche se, a mio avviso, non
se ne traggono tutte le conseguenze.
La
nozione dello spazio-tempo ancora resiste anche se Einstein l’ha
costruita sulla negazione della simultaneità.
Nel famoso “esperimento mentale”, un uomo M fermo a metà di una banchina
vede scoccare simultaneamente due fulmini alle due estremità della stessa. Un
passeggero M’ in un treno che stesse scorrendo molto velocemente lungo la
banchina, vedrebbe prima il fulmine verso il quale corre rispetto a quello dal
quale si sta allontanando. Per i due
osservatori non c’è pertanto simultaneità nel rilevamento. O meglio: ciò che è simultaneo per M non lo è
per M’. La rilevazione di un tempo
universale uguale per tutti i fenomeni non è dunque possibile, essa dipende
dal sistema di riferimento locale, dalle
“coordinate” delle quali ci si serve, a seconda si sia in moto o in quiete, per
restare allo “esperimento” citato. Circa
il quale, osservo, si tende a dimenticare che l’osservatore sul treno deve
andare quasi alla velocità c , quella della luce, quasi 300.000 km/sec,
per poter vedere un fulmine un istante prima dell’altro, nonostante la loro
contemporaneità: e allora bisogna
chiedersi se si possano commisurare due realtà tra loro così diverse,
l’immobilità con la velocità della luce, in un’unica legge. Ed
inoltre: nessun treno potrebbe andare ad una velocità prossima a quella della
luce, si disintegrerebbe molto prima di raggiungerla. E la banchina, quanto dovrebbe esser lunga,
se affiancata da un treno che va quasi alla velocità della luce, centinaia di
migliaia di km? In tal modo, cosa
vedrebbe un osservatore umano posto al centro di essa?
Comunque
sia, si ritiene valido il concetto che una “attribuzione di tempo” ha senso, secondo Einstein, solo quando ci
vien detto a quale “corpo di riferimento” essa si riferisce. Ogni rilevazione di tempo è locale, dipende
dalle coordinate (locali) impiegate.
Per
quanto riguarda il concetto del tempo, scrivevo, “va però ricordato che
l’attribuzione di tempo non è il tempo, non più di quanto l’attribuzione di una
misura sia lo stesso della cosa misurata. Nell’esempio famoso, Einstein parte
dal presupposto che i due fulmini siano simultanei. Gli eventi possono dunque essere simultanei,
nel caso dato. Dov’è allora la negazione
della simultaneità? Nella constatazione
dell’impossibilità di coglierla da parte del soggetto. Il soggetto che deve misurarla si trova in
genere in (o addirittura è) un corpo di riferimento in moto, il quale impedisce
la misurazione stessa, nel senso che il sistema di riferimento da esso stesso
costituito rende impossibile l’accertamento della simultaneità degli
eventi. Ma da tutto questo risulta che
ad esser effettivamete negata non è la simultaneità degli eventi come fatto
obbiettivo, in sé e per sé, ma la nostra capacità di coglierla rappresentandola
in una misura universale, valida per tutti i sistemi di riferimento. Dopo aver identificato lo spazio con il corpo
nell’immagine del “campo” composto di energie gravitazionali, Einstein
identifica il tempo con l’orologio che lo misura – quale che sia la natura
dell’orologio - ossia con l’unità di
misura costituita dalla “qualità di struttura” del campo. Questa indistinzione
fra misurante e misurato lo conduce per forza di cose a non distinguere tra impossibilità
a misurare la simultaneità ed inesistenza della stessa, cioè del tempo in senso
assoluto, come durata uguale ed uniforme” (PP, op.cit., p. 132).
Concludo,
infine, questa breve presentazione del volume, del quale ho riportato solo alcuni
passaggi, accennando all’ultima “analitica della parte”, la riflessione sul
pensiero: in che senso debba ritenersi “parte del tutto”, come non si debba
affermare il suo primato sull’essere, come esso debba respingere ogni
soggettivismo mirando sempre, nella conoscenza, a stabilire la famosa
“concordanza tra la cosa e l’intelletto”, nel solco della tradizione
aristotelico-tomistica. Il paragrafo
finisce con una critica articolata del dubbio metodico inteso da
Cartesio quale unica possibile fonte della certezza di esistere, critica che ho
rielaborato e pubblicata su questo blog il 17 gennaio 2017, con il titolo: Un’aporia nel Cogito cartesiano.
“L’aporia presente nel ragionamento cartesiano
sarebbe allora duplice: 1) se sono certo di esistere perché penso (per
il solo fatto di pensare), devo ammettere che a questa certezza la natura o
qualità di ciò che penso è indifferente, con la conseguenza che il pensiero che
afferma ha lo stesso valore di quello che dubita, ai fini dell’esistenza della
certezza stessa. In tal modo, però, il
significato specifico del dubbio metodico, quale unico atto di pensiero che mi
dia la certezza di pensare e quindi di esistere, svanisce completamente ed il cogito
ergo sum diventa una proposizione meramente descrittiva e persino
tautologica. Inoltre, 2) Cartesio sembra
procedere in modo dualistico, nel senso che ora atribuisce la certezza di
esistere da parte dell’io alla qualità del suo pensiero (l’esser un
pensiero che dubita di tutto, l’esser quel pensiero), ora invece al solo
fatto di pensare, senza specificazione alcuna (“ogni volta che penso”),
facendola dipendere dal mero dato quantitativo dell’esser res cogitans,
non ulteriormente determinata. E allora,
quantità o qualità? Un solo specifico
pensiero, con quel contenuto o il pensare in quanto tale, a cui ogni contenuto
è indifferente?
A
quale certezza deve dunque affidarsi il pensiero, a quella che lo mutila
dall’essere o a quella che ve lo ricomprende?
Il dubbio metodico o cogito cartesiano isola il pensiero in se stesso. In quest’atto c’è come una separazione ed il
pensiero (ai fini del nostro discorso) viene a porsi come parte del
tutto. Ma questo è vero solo in
apparenza. Infatti, questo stesso
pensiero che si separa dalla realtà per avere solo in se stesso la certezza di
se stesso, grazia a questa certezza deduce poi la realtà da se stesso. Solo ciò che è pensato secondo le regole del
pensiero che si è separato dal reale, solo ciò che è posto dal pensiero in
questo modo è reale. Ma ciò significa,
per l’appunto, dedurre la realtà dal pensiero e porre la coscienza di sé quale
unica ed assoluta verità […] Il pensiero, come certezza di sé dell’io, diventa
allora il tutto e persino l’uno, diventa cioè quella certezza assoluta di sé
che crede di realizzare in se stessa (e solo in se stessa) l’unità di tutto ciò
che è. Il Tutto viene ricondotto, come
all’unico centro che lo unifichi, al sapere di sé della coscienza.
Ma questa concezione è all’origine, come si è cercato di dimostrare, delle false rappresentazioni dell’uomo e del mondo oggi dominanti. Il pensiero deve farsi umile, se vuole avvicinarsi alla verità. Deve prender di nuovo coscienza del fatto che esso è parte del tutto in senso sostanziale, obbiettivo – perché il tutto ha di per sé quella realtà dell’essere le cui leggi si applicano anche al nostro pensare – anche se l’esser-parte del pensiero non si lascia rinchiudere nella determinatezza della materia, grazie alla quale il pensiero agisce nella nostra vita mortale. Il carattere spazialmente indeterminato del pensiero ed il suo esser-parte nel tempo, questa sua realtà esclusivamente spirituale, postula infatti un’immortalità che lo rende parte di un tutto rappresentato dal quel regno degli spiriti, diviso in Eletti e Reprobi, la cui origine non è in terra né nel pensiero stesso, ma in cielo, nella volontà dell’Essere perfettissimo, la S.ma Monotriade che vive e regna nei secoli dei secoli” (PP, op. cit., pp. 150-151).
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