Paolo Pasqualucci --- Rousseau e Kant artefici della Coscienza moderna
Nota dell’Autore
Dopo aver
pubblicato pochi giorni fa, in particolare per i lettori amanti della Filosofia
della Politica, l’articolo “Il mito rousseauiano del Legislatore”,
propongo ora un altro mio intervento su un corposo tema correlato: “Rousseau e Kant artefici della coscienza
moderna”, corredato da una brevissima Nota introduttiva.
Quest’articolo,
inviato da me ad un Convegno nel 1978, fu pubblicato nel 1980. Il 1978 coincise con il bicentenario della
morte di Rousseau e quel torno di anni fu tutto un fiorire di studi sulla sua
figura. L’articolo mi sembra ancora attuale nell’indagare il connesso e nello
stesso tempo differenziato contributo dell’uno e dell’altro pensatore al
formarsi di quella che chiamiamo ancor oggi, nel bene e nel male, “coscienza
moderna”. Alla “coscienza di sé” in
senso esistenziale, oggi prevalente, sofferta convinzione dell’esser ognuno di
noi “scisso” o “alienato” da una supposta armoniosa unità originaria presociale;
a questa autogiustificazione dell’infelicità di chi, rigettato il concetto del
peccato originale, non crede più nella divina Monotriade, un contributo
fondamentale l’ha dato proprio “il folle di Ginevra”. Pensatore complesso e per certi aspetti
“luciferino” Rousseau: basti pensare alla sua elaborazione, nel Contratto
Sociale, della nozione di una “religione civile” o “del cittadino” messa
poi in pratica, come tentativo, nientemeno che da Maximilien Robespierre. Tuttavia, Rousseau fu all’origine di indirizzi
di pensiero ed ideologie tra loro contrapposte: da un lato, il contrattualismo
di tipo “democratico-rivoluzionario”, quale teoria dell’origine razionale della
società e dello Stato, coagulati nella “volontà generale” - dall’altro,
l’esaltazione della nazione, della Patria, con le sue tradizioni (i rudi
costumi svizzeri di contro alle mollezze parigine); da un lato, l’accettazione
del progresso, dall’altro la sua critica, con l’impietosa analisi dei mali
prodotti dallo sviluppo della “cultura”;
da un lato, il superamento dell’individuo naturale nel “cittadino”, impregnato di virtù
“repubblicana”, strumento della “volontà generale” - dall’altro, l’esaltazione
della coscienza individuale, “istinto divino”, addirittura giudice del bene e
del male, dimensione interiore (in teoria) incontaminata che ci rapporta a Dio,
alla natura, come se potessimo liberarci dell’ordinamento concreto e sempre
alienante della vita, sociale, statale, temporale in generale. È la coscienza individuale che deve
giustificare l’obbedienza del soggetto alla legge, riconoscerla come se se la
fosse prescritta da se stessa. Questo
vale, per Rousseau, nel campo politico ma ha anche implicazioni in quello morale,
campo nel quale il Ginevrino sviluppò finissime analisi sul contrasto tra
impulsi del cuore, passione e senso del dovere, obbligo di rispettare la legge
morale. Quest’ultimo aspetto interessò
in particolare Kant, della cui concezione etica Rousseau è considerato un
precursore. Fino a che punto lo sia stato veramente, cerca
di dimostrarlo l’articolo qui riprodotto.
* *
I.
Secondo
l’opinione tradizionale, che risale a Hegel ed è stata riaffermata in questo
secolo con particolare vigore da Cassirer, la coscienza moderna deve annoverare
in modo particolarmente significativo Rousseau e Kant tra i suoi artefici. Non
si tratterebbe infatti di limitarsi a constatare che Rousseau e Kant, al pari
di altri grandi, hanno contribuito ai valori entrati a far parte della nostra
coscienza di moderni, ma di accertare il nesso profondo che esiste tra la
visione del mondo di Rousseau e quella di Kant. ln altre parole: nella
coscienza moderna Rousseau ha il suo posto anche (o sopra tutto) come
precursore di Kant, il quale dovrebbe quindi esservi considerato anche (o sopra
tutto) come continuatore di Rousseau.
«La volontà è
libera solo in quanto volontà pensante. ll principio della libertà è sorto con
Rousseau e ha dato all’uomo, che si considerava infinito, questo infinito
vigore. Ciò apre il passaggio alla filosofia kantiana, che nei riguardi
teoretici si pone a fondamento per l’appunto questo principio; il conoscere è
pervenuto alla sua libertà, e ad un contenuto concreto, che esso ha nella sua
coscienza [Bewusstsein]». Ovvero: «Già Rousseau
aveva posto nella libertà l’assoluto: Kant afferma lo stesso principio, ma più
dal lato teorico». «All’intelligenza segue in secondo luogo nella filosofia
kantiana il pratico, la natura della volontà e il principio di
essa. Questo lato è studiato nella Critica della ragion pratica, in cui
Kant ha accolto la determinazione di Rousseau, che la volontà è libera in sé e
per sé» (Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, Werke, 20º,
ed. riv., Francoforte/Meno, 1971, 305 ss.; 308, 331, 365; Lezioni sulla
storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola, E. Sanna, Firenze, 1964², III, 2; 266, 285, 319).
Nel pensiero di
Rousseau e poi in quello di Kant, Hegel vede svilupparsi in modo significativo
la connessione, secondo lui tipica del pensiero moderno, di pensiero e volontà
e la conseguente esaltazione della volontà libera come centro della
soggettività (Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, ed.
Lasson, Amburgo, 19705, lV, 882 – Lezioni sulla filosofia della storia). La soggettività è intesa però come
consapevolezza di pensiero, coscienza di sé del soggetto che, nel conoscere
l’oggetto, conosce se stesso e sa il suo conoscere: la coscienza di sé non è
mera «conoscenza» (Erkenntnis) ma «sapere» (Wissen), non mero
conoscere se stessi come oggetto esterno ma sapere di sé, autocoscienza,
appartenersi. L’esser cosciente di sé, come determinazione elevata e ottimale
dell’essere dell’uomo, viene affermato proprio dall’Idealismo, che sublima la
volontà nell’affermazione del pensiero e vede la filosofia come coscienza della
coscienza, sviluppo del pensiero sino all’autocoscienza. In sede storiografica
è quindi proprio Hegel ad affermare per primo un legame profondo tra Rousseau e
Kant per il modo in cui hanno rapportato la libera volontà al Bewusstsein.
Hegel dà quindi il giusto rilievo al carattere pratico-politico della
speculazione roussoiana e Rousseau gli appare come colui che ha sostenuto dal
lato «pratico», ossia per ciò che riguarda i concetti dello Stato, della
politica, del diritto (Werke, cit., 306), ciò che Kant ha invece
affermato dal lato «teorico», ossia etico-teoretico. Il riferimento all’origine roussoiana del concetto
della volontà sviluppata nella Critica della ragion pratica è
significativo dell’irriverenza
di Hegel nei confronti di Kant però anticipa, a mio avviso, una osservazione
ricorrente nella letteratura sul rapporto Rousseau-Kant: aver cioè Kant usato
il concetto roussoiano della volontà come schema, averlo trasposto dal
piano politico, dello Stato e del diritto, a quello etico.
Per
Hegel, quindi, Rousseau e Kant sono due pensatori della volontà, che esaltano
il momento della libera volontà come l’assoluto, nel quale la coscienza si
riconosce. Secondo Hegel, però, sia l’uno che l’altro non hanno compreso il
carattere veramente universale del volere, altrimenti non si sarebbero attenuti
all’idea di un fondamento contrattualistico dello Stato, idea che conduce al
prevalere della volontà singola nei confronti del «volere universale» che si
deve realizzare nello Stato e che costituisce l’unico vero fondamento del
diritto (Werke, 20º, 307-308; Grundlinien der Philosophie des Rechts [Lineamenti
di filosofia del diritto],
paragrafi 1-33). Hegel accomuna quindi Rousseau, Kant (e Fichte) nella critica
generale del contrattualismo e fa apparire questi ultimi continuatori di
Rousseau (Grundlinien, cit., parr. 29, 258; Werke, 20º, 413). Nel
bene e nel male il ginevrino è quindi stato un percursore del pensiero tedesco
e di valori che, per suo tramite, si sono affermati nella coscienza moderna.
II.
Ma Hegel scorge
nel pensiero di Rousseau una valenza negativa che non può ovviamente attribuire
a Kant: il nesso tra Rousseau e il giacobinismo, tra roussoianesimo e Terrore.
In un noto passo della Phaenomenologie des Geistes (ed. Hoffmeister,
Amburgo, 18526, 415 ss. – Fenomenologia dello spirito), Hegel attribuisce il Terrore ad una
degenerazione dell’ideale del libero volere: è la pretesa di voler affermare la
libertà assoluta della volontà individuale, lo Spirito come questa
volontà, che conduce alla «furia del dileguare» di ogni istituzione e partito,
alla logica della distruzione dell’avversario come unica e aberrante logica
politica, in nome di una respublica, di una vertu irrealizzabili.
La fede nel carattere assoluto della libertà della volontà, che trova in tutto
un ostacolo e non si accontenta mai di nulla, conduce al predominio di una
volontà politica che è quella della fazione politicamente implacabile, che si
considera vera e unica interprete della generalità. Quella volontà è legge, ma
solo perché è una volontà che si impone, mediante il terrore, come legge
irresistibile, non perché possieda la dignità, la superiorità intrinseca, la maestà
della legge. L’applicazione politica della teoria di Rousseau conduce quindi,
secondo Hegel, ad un volontarismo politico rivoluzionario dominato
dall’arbitrio delle fazioni e incapace di costruire uno Stato: la volontà
assolutizzata non sa elevarsi alla generalità, diventare vera legge e divora se
stessa.
Attraverso
questa critica, si può vedere come Rousseau resti, per Hegel, un pensatore
incapace di unire positivamente volontà e legge, un apologeta della libera
volontà in sé e per sé, non della legge. L’aspetto caratteristico della critica
di Hegel a Rousseau consiste nel fatto di attribuire le terribili conseguenze
pratiche della sua dottrina politica all’eccessivo individualismo presente in
essa: non è riuscita a fondare una vera volonté générale ma l’ha
inficiata sin dall’inizio con l’idea che lo Stato debba esser sottoposto,
mediante il patto sociale, al libito della volontà singola, particulière, per di
più attribuita ad un individuo supposto buono per natura. Rendendosi assoluta,
concependosi come l’unica vera, esaltandosi nella libertà infinita del proprio
inarrestabile «io voglio», questa volontà, fondata su di un’idea astratta della
natura umana, diviene del tutto astratta e fa scempio dello Stato, del diritto,
della legge, della libertà (per una definizione teoretica di questo tipo di
volontà, cfr. Grundlinien, par. 5). L’interpretazione hegeliana non è
però più condivisa dalla critica contemporanea (se ne può trovare ancora una
traccia in Croce); quest’ultima, quando guarda
alle conseguenze negative della teoria di Rousseau, ipotizza un «totalitarismo»
del ginevrino, da vedersi sopra tutto nel modo in cui Jean-Jacques ha concepito
la volontà generale. L’antenato di questa critica non è ovviamente Hegel ma Benjamin Constant (1767-1830), forse il primo a scorgere nella
filosofia politica di Rousseau una concezione della libertà così assoluta da
implicare inevitabilmente il più duro degli assolutismi. lnfatti, se la vera
libertà è, per Rousseau, solo quella civile, che si attua nell’ambito di
una comunità sovrana, monolitica, impenetrabile, ugualitaria, allora, come
nelle repubbliche antiche, la volontà particolare, la libertà individuale è, di
fatto, sacrificata alle esigenze della volontà generale, una, sempiterna,
indistruttibile come il popolo, la patria. Rousseau non avrebbe dato un
contributo del tutto limpido alla «libertà dei moderni» (individualistica,
liberale, connessa allo spirito di libera intrapresa, garantita dallo Stato
rappresentativo mediante la legge) perché avrebbe reinventato per i moderni la
«libertà degli antichi», fondata sulla preminenza tirannica della civitas
nei confronti dell’individuo: libertà del tutto e non dal tutto.
È
evidente che Hegel e Constant collocano in modo opposto Rousseau alle origini
della coscienza moderna. Vedono in lui uno dei massimi artefici dell’ideale di
libertà dei moderni ma nello stesso tempo ne colgono in modo diverso gli
aspetti negativi, che scaturirebbero dall’affermazione dell’individualismo
atomistico dell’uomo supposto buono per natura di contro allo Stato o,
all’opposto, dalla visione opprimente di una «libertà politica» che si realizza
nella volontà generale, in un collettivo che non permette al suo interno alcun
vero individualismo, né di singoli uti singuli, né di istituzioni, né di
rappresentanti (ripulsa roussoiana della democrazia rappresentativa).
L’elemento che accomuna Hegel e Constant nell’inquadrare il pensiero di
Rousseau, è dato dal fatto di concepirlo come una filosofia della volontà e non
della legge, della libera volontà individuale o libera volontà generale, a
seconda quale dei due momenti del volere si pensi rappresenti al meglio
l’ideale roussoiano di libertà.
III.
Sulla scia di
Hegel, il filosofo di formazione neo-kantiana Ernst Cassirer (1874-1945) ha fatto di Rousseau un artefice della
coscienza moderna in quanto precursore in senso stretto di Kant, però
concependolo come un pensatore della legge allo stesso modo di Kant. Nel suo
famoso saggio del 1932, Cassirer risolve in tal modo quello che chiama «il
problema Jean-Jacques Rousseau». Rousseau ha affermato la libertà morale e
civile dell’uomo all’insegna del principio che «l’impulsion du seul appetit est
esclavage, et l’obéissance à la loi qu’on s’est prescritte est liberté» (Contrat
Social, I, VIII, in Oeuvres complètes, éd. Pléiade, III, 365).
Ebbene, questo
significa che il concetto della legge è il nodo centrale della speculazione
roussoiana: la libertà è da lui concepita nella legge e non contro di essa, la
legge che l’uomo si dà con la libera volontà. Un’unica forma di legge sembra
dominare l’etica e la politica roussoiane: nello Stato non governa la mera
legge positiva ma quella che consegue ad una autodeterminazione del soggetto
che deve ubbidire. Cassirer mette in rilievo come Rousseau abbia avuto il
merito di rivendicare l’interiorità del soggetto nei confronti del pensiero del
suo tempo, libertino e utilitarista; di essere stato il corifeo della coscienza
di sé quale unica vera forma di conoscenza, coscienza da intendersi quindi non
come apologia sentimentale o irrazionalistica dell’interiorità quanto come sua
esaltazione in senso etico, all’insegna dell’idea del dovere, rappresentata al
meglio nella figura di Julie [la protagonista del romanzo epistolare di Rousseau, Julie
ou la Nouvelle Héloïse, che sacrifica la sua passione amorosa al senso del
dovere]. Perciò la
volontà, che è strettamente connessa alla coscienza di sé, deve essere intesa
roussoianamente non in una prospettiva utilitaristica ma sostanzialmente etica,
di un volere che si attua sapendo di operare in adempimento a un dovere, per
cui l’obbedienza voluta e autoimposta nei confronti della legge ha essa stessa
un significato morale. «Dove domina una costituzione veramente legittima
– cioè dove la legge e solo la legge viene riconosciuta come sovrana – una
limitazione della sovranità è in se stessa contraddittoria... La legge come
tale non ha una perfezione di potere relativa, ma assoluta; essa impone e esige
in maniera incondizionata» (Das Problem Jean-Jacques Rousseau, tr. it. Il problema
Gian Giacomo Rousseau, Firenze,
1938, 85).
ll Rousseau di
Cassirer è un Rousseau quasi kantiano e quindi si trasforma da pensatore della
volontà in pensatore della legge, preoccupato di fondare sulla volontà libera,
intesa come autodeterminazione (morale) del soggetto, l’obbedienza alla legge.
Rispetto a Hegel, Cassirer sposta quindi il centro di gravità del pensiero del
ginevrino dalla volontà alla legge, come se il «comando incondizionato» di
quest’ultima non dipendesse dalla volontà generale politica di cui la legge è
per Rousseau l’espressione. Per cui: «l’etica di Rousseau non è un’etica del
sentimento, ma la forma più decisa della pura etica della legge che sia stata
elaborata prima di Kant» (op. cit.; 84). Si ricorderà che, per Hegel, Rousseau
è da considerarsi precursore di Kant: il fatto è che secondo Hegel né Rousseau
né Kant riescono ad elaborare un concetto veramente universale del volere, ad
unire felicemente volontà e legge, Stato e individuo. In ogni caso, per ciò che
concerne Rousseau, vengono ad esser separati dagli interpreti i due concetti
della volontà (generale) e della legge, che egli concepisce invece come
strettamente dipendenti (cfr. Contrat, II, VI, De la loi).
IV.
La storiografia
più illustre ed accreditata non conduce quindi, secondo me, ad una conclusione
univoca sul rapporto fra Rousseau e Kant, in relazione a valori della coscienza
moderna, la libertà risultante dall’unione armoniosa di legge e volontà: la
libertà per l’appunto nel diritto e non contro o al di là del diritto. Se si sentisse
la necessità di ripensare quel rapporto, proprio per cercare di chiarire
ulteriormente alla coscienza moderna alcuni dei suoi propri fondamenti, allora
il ripensamento va tentato, a mio avviso, da una prospettiva il più possibile
teoretica, coinvolgente cioè il concetto della filosofia di Rousseau e
Kant. Non si tratta quindi di rilevare le fatali carenze od omissioni della
storiografia. Per esempio, sia Hegel che Cassirer non sembrano affatto
accorgersi del ruolo che la figura del Legislatore ha nel pensiero di
Jean-Jacques, ruolo essenziale, che già di per sé getta forti dubbi sul
supposto pre-kantismo del ginevrino. Parallelamente, sottovalutano la pregnanza
del concetto di peuple, il cui interprete autentico è per l’appunto il
Legislatore: popolo, legislatore, volontà generale costituiscono una triade che
impedisce di considerare come decisivo solo l’irrisolto rapporto volontà
generale-volontà particolare o di risolvere la volontà generale nella
autodeterminazione del soggetto nei confronti di una loi, accettata
quasi come conseguenza di un imperativo morale. Ché «l’obbedienza alla legge
che ci si è prescritta» si ha verso la legge positiva, esterna, quando è stata
prodotta dalla volontà generale, mentre in Kant è la legge morale ad esigere
quell’obbedienza, non certo la legge positiva, sottoposta all’approvazione di
una volontà generale meramente condizionale, su cui grava l’ipoteca dello als
ob, del “come se” (cfr. la Folgerung
[Conclusione] alla II parte
dello scritto Ueber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein,
taugt aber nicht für die Praxis – “Sul detto comune: ciò
può esser giusto in teoria ma non vale per la prassi”). Che Kant trasmuti lo schema
roussoiano della legge-volontà dalla politica all’etica, è cosa che dovrebbe, a
mio avviso, essere dimostrata e non data per scontata, dato il carattere
rigorosamente etico che la politica deve avere per Kant e la struttura tipica e
caratteristica della legge morale kantiana, il suo significato trascendentale.
V.
Ad ogni modo
non sono certamente questi gli elementi (cui non ho potuto non accennare) da
prendere in considerazione e sviluppare per cercare di determinare in modo più
soddisfacente la posizione dell’uno e dell’altro filosofo nei confronti della
coscienza moderna, posizione canonizzata dalla storiografia in senso
ascendente, del rapporto precursore-continuatore. ll punto che vorrei
dimostrare è il seguente: a differenza di Kant, Rousseau ha dato un contributo
decisivo all’elaborazione del concetto di «coscienza» nel senso che noi moderni
accettiamo. ll pensiero di Rousseau infatti mette già in luce quella che si
suole definire come «scissione» (Entzweiung) dell’uomo rispetto al suo
mondo e quindi a se stesso, scissione percepita nella e mediante la coscienza e
che costituisce uno dei presupposti speculativi essenziali della problematica
hegelo-marxiana sulla «estraneazione», «alienazione», «reificazione», ancora
oggi dominante (cfr. H. BARTH, Wahrheit und Ideologie [Verità e
ideologia], 1961, tr.
it., Bologna, 118-144; F. MÜLLER, Entfremdung. Zur anthropologischen
Begründung der Staatstheorie bei Rousseau, Hegel, Marx, Berlino, 1970, 20
ss. –[“Alienazione. Sulla fondazione antropologica della teoria dello Stato
di Rousseau, Hegel, Marx”]).
Nulla di tutto questo invece in Kant, per il quale ciò che a noi sembra scissione
o suo risultato è ancora insuperabile differenza, come quella tra il
soggetto e il Ding an sich [la “cosa in sé”]. L’io che conosce la cosa e sa di non
poterla penetrare nella sua essenza, non si sente per questo scisso rispetto a
se stesso, e al mondo, separato da sé o «alienato»: percepisce invece
chiaramente i limiti della propria natura di ente razionale, in rapporto al
mondo esterno. Da questo punto di vista, Kant appare lontanissimo dal modo di
sentire contemporaneo, che ha santificato «scissione», «alienazione» e
consimili categorie, tipiche del pensiero occidentale nel suo passaggio dalla
metafisica ancora legata agli schemi platonici e aristotelici ad una filosofia
della prassi. Dunque, in Rousseau e in Kant vi è rispettivamente la percezione
della distanza del soggetto dall’oggetto come scissione e come differenza, e
solo dal lato di un pensiero incentrato sull’idea della scissione si può
parlare, a mio avviso, di una netta anticipazione della coscienza moderna, anzi
del suo proprio concetto prima ancora che dei valori in cui essa crede.
Come
può allora ricostruirsi la concezione roussoiana della conscience?
Rousseau esorta l’uomo a «rientrare in sé», a «consultare il lume interiore», a
trovare se stesso nella coscienza, «istinto divino», fondamento del proprio
essere e metro di giudizio del mondo esterno. Butta via l’orologio perché è il
battito interno che misura il tempo: la coscienza, non le lancette! Ma il
rientrare è necessariamente un allontanarsi, un fuggire da qualcosa: il mondo
esterno, che non è in questo caso la natura, ma l’esteriorità in cui si è
ossificato il mondo dei rapporti umani, sociali. Dunque l’io fugge perché si
sente infelice e cerca un luogo di pace: non lo trova nella società esistente,
non lo trova nella vecchia fede, lo trova solo per allegoria nella natura, che
appare come un sogno filosofico. Ma questo luogo supremo sarà la coscienza, la
pura interiorità ad offrirlo, il centro della persona, inteso in tutta la sua
carica di sentimenti e passioni, in tutta la sua inesauribile ricchezza,
profondità ossessivamente scandagliata. La serietà, la convinzione con la quale
Rousseau propugna l’avvento del regno della coscienza, giudice del bene e del
male, del giusto e dell’ingiusto, conduce all’affermazione di una sorta di sentimentalismo
etico, il cui testo sacro è la Profession de foi du Vicaire Savoyard [inclusa nell’Émile
ou de l’éducation, il celebre romanzo pedagogico di Rousseau]. Nella coscienza il soggetto trova la
sua propria verità, che lo difende dal paraître del mondo sociale,
dell’uomo della città, l’homme poli, ipocrita, ingiusto, immorale.
Rousseau non è però un
individualista nel senso tradizionale del termine e gli spunti individualistici
del suo pensiero vengono risolti in una concezione della politica che conduce
al superamento e anche alla negazione dell’individuo. Egli inizia col
contrapporre rigidamente la coscienza di sé, l’essere dell’uomo come soggetto
cosciente, al mondo esterno, ossia alla società e alla storia. Da questo punto
di vista, il suo pensiero è dualistico, persino manicheo: basti pensare alla
ossessiva condanna della ville, sempre e nient’altro che vizi e lordure!
La città, simbolo della società esistente, è la bolgia infernale della
coscienza dell’io che voglia essere presso di sé, ossia libero: nella coscienza
c’è l’ordine o comunque la sua possibilità; nella società il disordine, il
caos, il moto perpetuo e cannibale di masse urbane rese folli dai bisogni e da
una vita corrotta, «foule qui rampe dans la misère», il cui rappresentante è il
nipote di Rameau [protagonista di un romanzo filosofico dell’illuminista
Denis Diderot, nel quale si rappresenta
la critica borghese scettica ed utilitarista di tutti i valori]. ll rapporto esistente tra la parte e
il tutto è quindi un rapporto di disordine morale e civile, l’ordine morale e
politico una semplice chimera. L’ordre: questo concetto chiave della
speculazione roussoiana può realizzarsi solo se il rapporto tra la parte e il
tutto è armonico, se la coscienza si riconosce nel tutto dei rapporti umani e
se questi permettono all’uomo di vivere secondo i dettami della coscienza.
L’ordine sociale non può quindi restare com’è ma deve essere in modo da
permettere al soggetto in cui la conscience de soi è prevalsa (Jean-Jacques
e non il nipote di Rameau) di potervisi rispecchiare. Il soggetto deve potersi
riconoscere nell’ordine, ossia in una dimensione collettiva che gli appartenga;
è giusto che sia così, che così debba essere poiché il soggetto è al presente
scisso rispetto alla società, al suo mondo, e sente questa scissione come
dolore: e questo è ingiusto, è ingiusta la scissione e lo è la sofferenza che
produce.
VI.
Ma come può
realizzarsi un ordine sociale che non è mai esistito e come può la posizione
dell’io verso il tutto esser sentita al modo di una lacerazione interiore, un
esser stato strappato via da qualcosa cui si era per natura uniti? La risposta
può essere: proprio perché ci siamo trovati una volta nell’ordine per natura
ossia nello Stato di natura, che è anteriore, in senso logico e
cronologico, alla società. La natura è ordine, perché creata da Dio; l’uomo,
creato da Dio, è nella natura e quindi nell’ordine: è l’uomo che poi infrange
quest’ultimo volontariamente, solo in parte costrettovi dalla storia, dai
bisogni. «Tout est bien, sortant des mains de l’auteur des choses: tout
dégénère entre les mains de I’homme» recita il celebre inizio dell’Émile.
E il Vicario: «Le tableau de la nature ne m’offroit qu’harmonie et proportions,
celui du genre humain ne m’offre que confusion, désordre! Le concert régne
entre les élements, et les hommes sont dans le chaos!» (Oeuvres, IV,
583).
Nel secondo Discours [quello
sull’origine dell’ineguaglianza] e nello Essai sur l’origine des langues, Rousseau sembra
attribuire ad un processo oggettivo, che coinvolge la natura e noi in
un’evoluzione drammatica, rientrante nei disegni misteriosi della Provvidenza,
la nascita del falso ordine, del disordine in cui vive l’uomo. Nell’Émile
egli però ribadisce che l’uomo ha in ogni caso violato e viola continuamente
l’ordine morale e naturale delle cose, che non è esterno all’uomo, non deve
essere relegato in una dimensione puramente astratta. ll rapporto tra l’uomo e
la natura possiede l’uomo dall’interno, noi siamo dentro l’ordine
cosmico-naturale. La realtà del nostro mondo, storico-sociale, non potrà
sottrarsi all’archetipo dell’ordre. Bisognerà riprodurre in essa la
struttura ordinamentale già presente nel rapporto uomo-natura e che ora è
chiara al pensiero: esso contrappone la natura alla società, ossia l’ordine
pensato (come natura) al disordine esistente. Ma contrapporre l’ordine al
disordine significa contrapporre l’unità alla molteplicità
indiscriminata: il mondo governato dall’ordine è infatti uno, non c’è
contraddizione tra le parti e il tutto o selvaggia indipendenza ma la più
totale compenetrazione. L’uomo è (stato) compenetrato alla natura e non lo è
alla società esistente, regno delle differenze, delle particolarità, gerarchie,
privilegi, disuguaglianze. La società nuova sarà tale solo se saprà realizzare
quella compenetrazione, rendere uno l’uomo, ossia creare la sintesi perfetta
tra se stessa e l’individuo, lo Stato e il cittadino. Solo così, vale a dire in
una società nuova, si supererà la scissione attuale dell’uomo rispetto al suo
mondo e a se stesso, la doppia natura di questa divisione. La volontà generale
deve perciò ristabilire l’ordine, creare l’unità dove non c’è mai stata,
forgiare uomini nuovi, ovvero cittadini repubblicani, alfieri della vertu:
una nuova pedagogia deve plasmare gli individui in funzione della loro unità
indissolubile con il tutto (principio affermato da Rousseau sin dal Discours
sur l’économie politique). L’ordine politico nuovo permetterà quindi alla
coscienza di non sentirsi straniera in patria. La coscienza giunge perciò a
sapere se stessa o meglio a sentirsi nell’ordine e nell’unità con il proprio
mondo, quello creato dall’uomo, solo attraverso la consapevolezza della
scissione e il suo superamento.
Lo
schema interpretativo qui delineato fa di Rousseau un evidente precursore
dell’Idealismo, di Fichte e Hegel, con tutti i rischi che ciò comporta: del
resto, è impossibile non considerare Rousseau un precursore. Sembra
comunque innegabile l’importanza che la problematica sopra accennata ha per il
suo pensiero. Rousseau muove dall’intuizione simpatetica dell’unità
sentimentale-morale del soggetto con la natura, che è ordine; il soggetto è
nell’ordine e si sente nell’ordine. La conseguenza è che quando il soggetto non
si sente più nell’ordine, avverte che si è spezzato un equilibrio originario.
Questa difettività deve essere recepita come perdita di qualcosa che già si
possedeva, di una dimensione originaria, oggettiva, nostra, dalla quale l’io è
stato separato, ma dall’interno, con dolore, come dalla sua propria vita: l’io
è stato diviso in due, scisso tra una vita vera ed una falsa, être e paraître.
La differenza del soggetto rispetto agli altri e al mondo è allora
conseguenza della scissione del soggetto dagli altri e dal mondo e deve
essa stessa esser vissuta come scissione, rottura: infatti l’unità che il nuovo
ordine sociale creerà farà sparire le differenze tra gli uomini, che saranno
solo funzionali, stabilite dalla volontà generale per i suoi fini.
VII.
In Rousseau vi
è dunque una concezione unitaria, monistica del rapporto fra la parte e il
tutto, che deve realizzarsi in un ordine nel quale non possano esservi
differenze (e quindi una vera posizione autonoma delle parti manca) ma solo
l’unità ugualitaria nel tutto e per il tutto. La realtà presente è giustificata
dai difensori dell’ordine costituito in modo che la disuguaglianza appaia
l’ovvio risultato di differenze di stato e ceto, nascita, cultura, doti. Da una
prospettiva roussoiana, si tratta invece di dimostrare che le differenze
sociali e quindi la differenza come concetto del rapporto tra soggetto e
soggetto, tra soggetto e oggetto, è solo il prodotto di una scissione
dall’unità originaria dell’uomo con sé e il mondo, di un atto anteriore,
ingiusto e immotivato: bisogna quindi ricreare l’unità, ripristinare l’ordine,
ritornare alla natura ovvero all’essenza perduta. Ma la realizzazione
dell’Ordine non avviene sic et simpliciter dall’esterno, è possibile solo se il
soggetto coglie se stesso in via preliminare come coscienza, se raggiunge
questo grado superiore di consapevolezza, se si eleva a questo sapere di
verità, che è l’unico che conti. Quindi coscienza consapevole della sua
scissione dal mondo; della necessità, quasi un dovere, di superarla, in nome
dell’unità originaria dell’io nell’ordine; della possibilità di realizzare il
superamento solo in un ordine sociale nuovo, una volontà generale che –
mediante la legge – educhi l’individuo
secondo il principio dell’ordine e quindi ne coarti gli istinti, lo «snaturi»
per renderlo felice, per far sì che non
sia più un individuo isolato, la cui coscienza lo fa sentire diviso da se
stesso e dalla Città.
Ma
nella società monistica, che si uniforma alla volontà generale, si risolve
compiutamente il dualismo tra la conscience de soi e il mondo sociale
esistente? Si può dire che la risoluzione sia nonostante tutto parziale perché
in Rousseau rimane sempre aperta la possibilità di un rapporto diretto
della coscienza individuale con se stessa, con la natura, con la Divinità,
rapporto molteplice ed unitario al tempo stesso, vissuto da Jean-Jacques in
persona nell’ultimo periodo della sua vita, nella solitudine più profonda, come
testimoniano Les réveries du promeneur solitaire. E la possibilità si
mantiene perché il concetto roussoiano dell’ordine non è ricavato dallo studio
della società o della storia, ma dalla intuizione della natura creata da Dio,
da una considerazione simpatetica della creazione: l’ordine esiste
oggettivamente nel rapporto uomo-natura – Jean-Jacques lo sente – e da
ultimo impronterà di sé la società nuova. ll progresso dell’umanità è stato in
realtà un regresso graduale dall’ordine iniziale: l’ordine preesiste allo
sviluppo, al progresso e si mantiene come essenza, natura profonda delle cose,
che si tratta si svelare, di comprendere mediante la conoscenza di sé. L’uomo
conserva allora intatta la possibilità di cogliere l’ordine soggettivamente,
evadendo dalla sfera politica, lasciandola del tutto da parte, anche se si
tratta di una soluzione di ripiego, non ottimale; di ritrovare direttamente,
nel dialogo con la propria interiorità, il significato della vita al di là del
tempo trascorso, nella presenza della natura e di quella Divinità cui Rousseau
ha sempre tributato una fede sentimental-panteistica ma genuina. Si può dire
allora che, anche da questo lato, Rousseau abbia dato un contributo all’idea
moderna della coscienza, un’idea però di tipo intimistico, esistenziale (Jean
Wahl [1888-1974, filosofo esistenzialista francese]), che non si preoccupa di risolvere la
scissione nella politica e non crede nel mito della società nuova: è l’aspetto
per così dire leopardiano del sapere di sé (mi riferisco al Leopardi
dell’Infinito) o, per la sottile aura decadente che contiene, proustiano.
VIII.
Nel pensiero di
Kant non appare invece un rapporto drammatico, di vera e propria scissione, tra
l’uomo e il mondo; non c’è quindi il problema di definire la «coscienza» contro
il mondo per poi sentire l’esistenza stessa, la vita come problema della
coscienza dilacerata che soffre e lotta. La filosofia di Kant accetta a viso
aperto l’impossibilità per l’uomo di essere felice su questa terra e dichiara
che occorre invece «rendersi degni della felicità» ossia vivere secondo l’etica
del dovere, che presuppone la convinzione dell’irraggiungibilità degli scopi
elevati che l’uomo si propone, data la sua natura di ente finito, costretto
dalla ragione ad esser consapevole dei propri limiti. Dal punto di vista di
Kant, il limite che l’uomo trova sempre in ciò che pensa e fa va accettato
perché è destino dell’uomo quello di trovare sempre un limite di fronte a sé.
ln Rousseau invece traspare la convinzione che il limite sia in primo luogo ingiusto
perché la coscienza che lo percepisce è stata scissa dal tutto: questo fatto
inaudito ha posto all’io un limite, che non può più essere accettato, una volta
che l’io cominci veramente a rientrare in sé, ossia a sapere chi è.
Dunque, la consapevolezza di sé che Kant propugna nel soggetto deve essere in
primo luogo consapevolezza della finitezza e quindi della necessità della sua
delimitazione. La ragione non è una folgore che tutto sconvolge ma una luce
diffusa che, dove può giungere, illumina indefinitamente ossia articolando
senza posa il materiale preso in esame e ordinato. Secondo Kant, l’io è un
punto fermo di contro alla molteplicità del reale, non come semplice io
empirico, che sarebbe oggetto tra gli oggetti, ma come «io pensante», che si
eleva alla coscienza di sé da un punto di vista teoretico (come coscienza, Bewusstsein)
ed etico (come «volontà buona»).
L’io-penso che accompagna necessariamente tutte le rappresentazioni del soggetto, può essere
inteso solo come una «rappresentazione» indeducibile dalla realtà sensibile:
l’io-penso è quindi reine oppure ursprüngliche Apperzeption [“percezione pura
ossia originaria”] che coincide con
l’autocoscienza [Selbstbewusstsein] del soggetto, la quale: «produce la
rappresentazione io penso, che deve poter accompagnare tutte le altre, è sempre la
stessa in ogni coscienza [e] non può esser ulteriormente accompagnata da nessun’altra.
Io definisco l’unità di quella rappresentazione anche unità trascendentale dell’autocoscienza, per
caratterizzare con essa la possibilità della conoscenza a priori» (Kritik
der reinen Vernunft, B, 132 – Critica della ragion pura). Il soggetto è quindi coscienza, l’io
pensante nel significato pieno del termine è autocoscienza. Si tratta allora di
cogliere, ai fini del nostro tema, gli elementi di questa identità, che ha il
significato di un criterio generale (ctr. KrV, A, 118, 123-4; B, 404-5 [A e B indicano la prima e seconda edizione
della Critica]).
Già
nella sua determinazione generale, questo criterio non sembra ricondurre il
rapporto tra Ich e Bewusstsein a quello roussoiano tra moi
e conscience, nella quale sembrano compresi e mescolati quei due momenti
dell’interiorità che in tedesco si rendono con Gemüt e Bewusstsein.
La coscienza nel senso di Kant è finalizzata ad uno scopo teoretico, ovvero
strettamente legato alla possibilità della conoscenza del mondo esteriore.
Stabiliti l’ambito e i limiti della conoscenza, definiti i concetti, si potrà
poi definire il soggetto dal punto di vista morale ossia pratico (mentre in
Rousseau c’è una connessione interiore tra etica e teoresi già tramite l’ideale
della conoscenza di sé come unica vera, perché giusta). La conoscenza, nel
senso di Kant, non è possibile se nel soggetto non si realizza l’unità della
molteplicità ad essa esteriore e questa unità è per l’appunto opera della
coscienza, che rappresenta il soggetto a se stesso, in maniera logicamente
indipendente da ogni esperienza sensibile. La coscienza garantisce quindi
l’unità del soggetto con sé, di fronte all’accettata e impenetrabile
molteplicità del reale. La coscienza non è allora il luogo nel quale l’io si
ritrovi dopo esser fuggito dal mondo, ma è ciò che costituisce il fondamento
della comprensione del mondo, accettato nella pluralità delle sue
determinazioni esterne, ossia come regno delle differenze. Nella coscienza pura
dell’io le differenze non sono distrutte ma spiegate, grazie all’unità che l’io
cosciente ha con sé e che gli permette di rappresentarsi l’«unità formale» del
mondo esterno. ll suo sapere di sé (per usare la terminologia idealistica), il
sapersi come coscienza, permette all’io di accettare il mondo e comprenderlo dal
suo punto di vista. La funzione della coscienza è quindi di primaria
importanza poiché essa costituisce il fondamento della possibilità di conoscere, un fondamento trascendentale
e non empirico. Non si puo dire, invece, che la conscience di Rousseau
sia oggettivamente trascendentale: sembra invece ora immanente ora
trascendente, rispetto al mondo: è nell’ordine ma contro e al
di là del mondo non ancora ordinato.
IX.
Dunque
il soggetto pensato da Kant riesce a conoscere non perché sappia che la sua conoscenza
corrisponde all’oggetto com’è in sé, ma perché sa di conoscere sempre allo stesso modo, ovvero perché
possiede una coscienza che «unisce in una rappresentazione il molteplice, a
poco a poco intuito e poi anche riprodotto» (KrV, A, 103). La coscienza
non coincide quindi con l’atto di pensiero ma ne rende possibile l’oggetto,
rende possibile a quest’atto di tradursi nel concetto dell’oggetto, di cogliere
«l’unità formale» del molteplice consentita all’uomo che pensa (ivi, A, 105).
La coscienza costituisce perciò la «condizione originaria e trascendentale»
della conoscenza, la transzendentale Apperzeption, che è appunto
«originaria, immutabile coscienza» (ivi, A, 107). La coscienza, nel suo
significato di condizione trascendentale della conoscenza, è perciò immutabile
e assolutamente in unità con se stessa; il mondo si muove attorno alla
coscienza che resta però immobile o meglio intatta: non viene modificata dalla
serie infinita degli oggetti, non segue il corso del mondo, che le passa per
così dire attraverso, viene filtrato dalle rappresentazioni che la coscienza
rende possibili al soggetto, nella forma di concetti.
Ma la coscienza ha
anch’essa un suo proprio cammino, non è monolitica: prima di essere
«trascendentale» è anche «empirica», non sfugge al costante dualismo kantiano
di empirico e trascendentale. La definizione che Kant dà della «coscienza empirica» come coscienza
immediata della realtà potrebbe applicarsi alla conscience roussoiana,
tutta presa dalla sofferenza che le provoca il contatto diretto, brutale con il
mondo. «La coscienza di noi stessi, secondo le determinazioni della nostra
condizione, nella percezione interna è semplicemente empirica, continuamente
mutevole, non può dar luogo ad alcun Sé che sia stabile o permanente in questo
flusso di fenomeni interiori, ed è usualmente definita come senso interno o appercezione empirica» (ivi, A, 107). La
coscienza empirica è sempre erratica, poiché dipende dallo stato o condizione (Zustand)
nella quale il soggetto si trova. Lo stato è quello di chi è posto di fronte ad
una folla indiscriminata di eventi che restano tali anche nell’interiorità,
ridotta ad esser mutevole come gli avvenimenti esteriori con i quali è in
contatto. Ma non è proprio quella la condizione del soggetto ad esser
prodotta dal mondo in cui vive, o meglio, non è proprio quel rapporto
tra la condizione del soggetto e il mondo a costituire (roussoianamente) la
sofferenza spirituale del soggetto e quindi la sua verità? La coscienza
interiorizza immediatamente ciò che è esterno anche se non vi si riconosce. Ma proprio la semplice
interiorizzazione non è di per sé sufficiente, secondo Kant, a fondare
saldamente la coscienza su se stessa. La coscienza, che nell’interiorizzare è
ancora empirica o solo psicologica, deve esser posta in relazione alla
coscienza di sé trascendentale, che sola dà pieno significato all’io. «Ma ogni
coscienza empirica ha una relazione necessaria con una trascendentale,
antecedente ogni esperienza particolare, ossia la coscienza di me stesso, come
appercezione originaria. È quindi necessario che nella mia conoscenza ogni
coscienza appartenga ad una coscienza (di me stesso)» (KrV, A, 117).
Questa coscienza superiore o più completa è appunto «autocoscienza» (ivi, A,
118).
La coscienza di sé
empirica deve quindi esser fondata su una coscienza di sé superiore, elevarsi
ad autocoscienza senza passare per il mondo esterno: si tratta di un iter che
viene ricostruito nel soggetto e ne caratterizza in modo peculiare
l’interiorità. Questa ultima trionfa infatti nei confronti del dato empirico ma
senza eliminare (né pretendere di eliminare) la differenza con esso. Le
determinazioni kantiane dell’interiorità del soggetto sono sempre dualistiche.
Come c’è una distinzione tra coscienza empirica e trascendentale, cosi ce n’è
una tra personalità in senso empirico o psicologico e personalità
morale, che ha un fondamento trascendentale, ed è «la libertà di un essere
ragionevole sottomesso a leggi morali» (Metaphysik der Sitten [Metafisica dei
costumi], ed. Vorländer,
Amburgo, 19664, 26. La personalità empirica va invece ricondotta
alla coscienza empirica: essa è semplicemente «das Vermögen, sich der Identität
seiner selbst in den verschiedenen Zuständen seines Daseins bewusst zu werden» [“la capacità di
divenir cosciente dell’identità di se stesso nei diversi stati della propria
esistenza”], identità di tipo
immediato e transeunte). Il dualismo tra il soggetto e la realtà empirica, questa
differenza, che non è scissione perché (dal punto di vista di Kant) non c’è
nessuna unità originaria da ricostruire, si riproduce quindi all’interno del
soggetto, esso stesso diviso in un momento empirico e trascendentale della
propria coscienza. ll dualismo di empirico e trascendentale vale sia per i
rapporti del soggetto con il mondo esterno che per quelli interiori al soggetto
stesso, riguardanti il suo compito di fronte alla conoscenza e alla morale. È
un modo di essere permanente del soggetto: la superiorità del trascendentale
sull’empirico viene affermata mantenendo una differenza gerarchica tra i due
momenti, senza che si crei l’unità di entrambi (un’unità che non sia formale),
e quindi quell’unità dell’io con il mondo o dell’io con se stesso, che si suole
definire (dall’Idealismo in poi) come unità di soggetto e oggetto. Quest’unità
è a modo suo invocata da Rousseau ma è ben lontana dal pensiero di Kant, che
aspira in primo luogo a usare la «critica» per chiarire i limiti e stabilire le
differenze. Così il dualismo insuperabile del soggetto con l’oggetto in
generale fa sì che la coscienza empirica entri in relazione (si tratta per
l’appunto di Beziehung [relazione, rapporto] e non di Aufhebung [superamento]) con quella trascendentale dall’interno,
senza passare per l’esterno, per il mondo, che pure deve aver costituito la
«condizione» nella quale ci troviamo e che influenza il contenuto immediato
della coscienza.
X.
L’affermazione
dell’autocoscienza non implica quindi un mutamento qualitativo del rapporto nel
quale il soggetto si trova con il mondo: questo mutamento è affidato ad un
ideale di perfezionamento morale solo tendenziale del genere umano. Per
Kant è infatti chiarissimo il principio che: «Das Wesen der Dinge ändert sich
durch ihre äussere Verhältnisse nicht [“l’essenza delle cose non muta sotto
l’influenza dei relativi rapporti esterni”]» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, BA, 85 – Fondazione
della metafisica dei costumi), per cui il «valore assoluto dell’uomo» prescinde totalmente da questi
rapporti ed è il valore ciò in base al quale l’uomo deve essere giudicato «da
chiunque, anche Dio» (op. cit., ivi). Qui non trova spazio una intuizione
simpatetica della miseria dell’io, prodotta dai rapporti sociali, ossia esterni
al soggetto, qualitativamente diversi dalla sua essenza, miseria percepita
immediatamente nella coscienza e che provoca una presa di coscienza proprio
sotto la spinta di quei rapporti esterni.
Nella prima versione del Contrat, Rousseau scrive
che la natura dell’uomo, la sua essenza di creatura posta da Dio nell’ordine,
comincia ad alterarsi dall’esterno già nello stato di natura, quando
evolve verso forme sempre più complesse, che alla fine sfociano nel «corpo
sociale». In quest’ultimo, società ancora ingiusta, non sottoposta ai dettami
della ragione e della volontà generale, della legge, domina un caos di rapporti
senza misura e senza regola. La natura magmatica assunta via via dallo stato di
natura si mantiene perciò anche nel «corpo sociale» e anche in esso vale la
forma di vita, ossia il tipo di esistenza «relativa» prodottosi infine nello
stato di natura: un’esistenza che dipende «de mille autres rapports qui sont
dans un flux continuel» per cui l’uomo «ne peut jamais s’assurer d’être le même
durant deux instants de sa vie» (Oeuvres, III, 282). Il disordine
prevale sull’ordine e penetra nella coscienza. Qui il soggetto si trova di
fronte al flusso dei rapporti ed enti esterni, allo stesso modo del soggetto
kantiano. Ma mentre questi rapporti in Kant sono neutri, cioè vengono
considerati innanzitutto come puri oggetti di una conoscenza possibile, in
Rousseau questa neutralità non esiste. ll «flusso» del mondo esterno è tale da
penetrare immediatamente con violenza nella coscienza del soggetto, che non può
nemmeno esser sicuro di essere lo stesso «in due istanti successivi» della sua
vita. È questa la coscienza empirica di cui parla Kant, che registra il mutare
esterno e non è nient’altro che quest’atto. Ma in Rousseau questa coscienza è già
la coscienza, non un suo grado subordinato. Infatti, è proprio nel rapporto
con il mondo, capace di dividermi a me stesso nei due istanti successivi, che
io riscopro la mia unità interiore, e quindi è solo dopo questa
esperienza – e non prima di ogni esperienza – che la mia coscienza giunge al sapere di sé e
sente, intuisce la sua natura profonda, l’ordine al quale deve appartenere. La
scissione educa la coscienza, la spinge a cercare la propria essenza autentica.
In termini kantiani
si dovrebbe allora dire che in Rousseau l’essenza delle cose può esser mutata
dai rapporti esterni: l’essenza dell’uomo è sfigurata dai rapporti sociali che
mutano il bene in male, fanno dell’uomo buono un uomo cattivo. Proprio per
questo, l’interiorità del soggetto roussoiano mira a ricostituire l’unità di sé
con il mondo, perché sente sin dall’inizio del processo che lo conduce a
prender coscienza, che il mondo non è neutrale ma ha parte essenziale in questo
processo, lo mette in moto a causa della qualità del rapporto che ha
stabilito con l’io. Il mondo divide il soggetto a se stesso, la divisione
sparirà quando il mondo non eserciterà più simile alienante funzione; il mondo
nega l’essenza del soggetto che però, proprio sentendo questa negazione, è
spinto a riaffermare la sua vera essenza, la sua natura, l’archetipo immanente
in una società nuova. La conoscenza pura è nel soggetto roussoiano inficiata
dal fatto che il mondo (la società) ci ha già conosciuti, collocati a tempo e
luogo, impedendoci di essere noi stessi: non dobbiamo allora preoccuparci tanto
del conoscere e del suo metodo (le scienze, le arti) quanto di sapere noi
stessi, di conoscerci dopo aver eliminato la barriera che il mondo ha creato
dentro di noi, tra il nostro essere (ridotto al paraître) e la sua
essenza.
XI.
La
dialettica roussoiana della coscienza sembra svolgersi nell’ambito di quella
che per Kant è la «coscienza empirica» per poi concludersi nell’utopia, nel
mito della società nuova, nella quale l’uomo cosciente di sé, che per ora
si oppone al mondo immediatamente e nel
silenzio della coscienza, vedrà come cittadino riconosciuta la sua qualità di
persona, il suo valore assoluto. Ma, si dirà, Kant non ha riconosciuto
anch’egli nella dignità della persona, nel principio universale dell’umanità,
un valore morale assoluto e non ha, per di più, attribuito proprio a Rousseau
il merito di averglielo fatto apparire con chiarezza? Quali che siano stati i
riconoscimenti di Kant agli stimoli spirituali ricevuti da Rousseau, resta il
fatto che il concetto della coscienza, inteso non nel senso generico di
interiorità, animo, etc. ma specifico, pregnante, che qui si è cercato di delineare,
gioca un ruolo diverso nella concezione etica dell’uno e dell’altro.
In
Rousseau la coscienza è giudice della moralità del comportamento umano: è il
«principio innato» in base al quale si decide della bontà o meno delle azioni
nostre e altrui, tenendo presente però che i suoi giudizi sono dei «sentimenti»
e non degli atti di volontà (Oeuvres, V, 598-599). Non per nulla essa è
un «istinto divino» che stabilisce in noi ex natura il criterio del bene e del
male. La legge morale, intesa nel senso più ampio del termine, dipende dunque
per Rousseau dal sentimento morale, dal coeur, che si riconosce nel
mondo ma è a casa sua nella coscienza, che gli consente di giudicare. In tal
modo la moralità delle azioni dipende però dalla coscienza di ciascuno, ossia dalla
soggettività, che sarebbe veramente sfrenata se Rousseau non credesse in Dio e
nel fatto che Egli ha posto in noi come istinti i principî del bene e del male.
ln ogni caso, la concezione di Rousseau, che situa la moralità delle azioni nel
principio della coscienza, non è stata affatto recepita da Kant, per il quale
la legge morale è riconosciuta e attuata dalla volontà (buona) non dalla
coscienza. ln Rousseau manca un concetto specifico della volontà. Egli è il
filosofo della volontà generale, nella quale si ha un determinato modo di
intendere il rapporto tra soggetto e oggetto della volontà: nella volontà
generale essi per l’appunto coincidono, altrimenti la generalità del volere non
si realizzerebbe (Contrat, II, VI). Ma il volere in quanto tale non è
definito da Rousseau. Il Vicario Savoiardo dice che «le principe de toute
action est dans la volonté d’un être libre, on ne saurait remonter au delà» (Oeuvres,
IV, 586) ma la volontà «m’est connue par ses actes, non par sa nature» (ivi,
576). Che cos’è dunque la volontà? Sappiamo solo come agisce e possiamo allora
distinguere quella particolare, egoistica, dell’individuo dalla volontà
generale, la volontà politica, sovrana, volere che vuole se stesso, sintesi di
soggetto ed oggetto. Rousseau afferma dunque la dignità dell’uomo da un lato
esaltando più la coscienza che la libertà della sua volontà individuale,
dall’altro la libertà politica che si realizza ad opera della volontà generale.
Kant
invece ribadisce quella dignità affermando la libertà (trascendentale) della
volontà individuale, che costituisce la personalità in senso pieno e coincide
con la ragion pratica stessa: «der Wille ist ein Vermögen, nur
dasjenige zu wählen, was die Vernunft, unabhängig von der Neigung, als
praktisch notwendig, d.i. als gut erkennt» (Grundlegung, BA, 38: “la volontà è una
capacità di scegliere solo ciò che la ragione, indipendentemente
dall’inclinazione, riconosce come necessario, ossia buono, dal punto di vista
pratico”). ln tal modo si
realizza la libertà autentica dell’uomo, non quella empirica o psicologica ma
quella trascendentale (KpV [Critica della ragion pratica], A, 52, 173). Per Kant quindi la norma del
giusto e dell’ingiusto, il criterio del bene e del male non è dato da un senso
morale innato, dal Gemüt [sentimento], che egli considera in questo campo come una vera e propria aberrazione
(Grundlegung, BA, 32 ss.; 59-60; KpV, A, 127 ss., 134 ss.). Quel
criterio non è dato dalla coscienza, ma dalla volontà determinata dalla «legge
razionale» (KpV, A, 104 ss.). Nella Grundlegung e nella KpV,
il termine Bewusstsein è scarsamente usato e non ha un significato
pregnante (cfr. p.e. KpV, A, 286-7). Anche nella celebre conclusione
della Critica della ragion pratica, quando Kant parla del cielo stellato e della “legge morale in
me”, l’io che contiene
questa legge è definito con termini generici e generali: unsichtbares Selbst,
Persönlichkeit [Sé invisibile, personalità], senza nessun riferimento alla coscienza in senso stretto: essa si è
qui risolta nella volontà razionale, che è l’unico termine di paragone della
legge morale. La dignità dell’uomo non va quindi fondata sulla supposta
ricchezza illimitata della sua coscienza, che è sempre soggettiva, ma nella
«capacità di legiferare in modo universale, sia pure alla condizione di essere
essa stessa [dignità] sottoposta a questa legislazione» (Grundlegung,
BA, 87). La morale come espressione di una legislazione universale nella quale
chi dà la legge si sottopone ad essa: l’autonomia del volere, eticamente
orientato, e non la coscienza costituisce il fondamento della legge. E questo
equivale per l’appunto a sostituire il principio del dovere a quello della
roussoiana coscienza. È stato notato come la celebre invocazione kantiana al
dovere (KpV, A, 154) assomigli a quella di Rousseau alla conscience,
instinct divin, immortelle et céleste voix, etc. (Oeuvres,
IV, 600). Piuttosto che inferirne una somiglianza di impostazione nella
concezione morale dei due filosofi, sarebbe forse più opportuno riflettere sul
fatto che, proprio nell’invocare l’elemento simbolicamente determinante
dell’etica, è la sostituzione del concetto del dovere a quello della coscienza
ad escludere in partenza una vera affinità.
In
conclusione, una considerazione dell’apporto di Rousseau e Kant alla coscienza
moderna, che voglia delineare il contributo di entrambi al concetto stesso
della coscienza, quale, in modo più o meno sfigurato e imbastardito, è
prevalentemente inteso ancor oggi, dovrebbe, di contro ad un’opinione
consolidata, separare Rousseau da Kant e vedere sopra tutto nel primo il
corifeo della coscienza che ritrova se stessa nella consapevolezza della
scissione e aspira a realizzarsi nell’ordine sociale giusto ossia nuovo. Come
artefice della coscienza moderna, Rousseau è dunque oggi più attuale di Kant.