martedì 24 gennaio 2023

P. Pasqualucci : Nota Previa alla "Introduzione alla Metafisica dell'Uno" - Versione in pdf.

 

 

Nota  Previa

all’Introduzione alla Metafisica dell’Uno

 

Il presente saggio, che appare qui in versione pdf (in appendice alla Nota Previa), uscì in edizione cartacea ben ventisette anni fa:  Paolo Pasqualucci, Introduzione alla metafisica dell’uno, con Prefazione di Antimo Negri, Antonio Pellicani editore, Roma 1996, pp.  151.  Per quanto ne so, ebbe qualche recensione solo nell’ambito dei circuiti culturali non strettamente accademici. Tra di esse si distinse ‘Massoneria oggi’, rivista bimestrale del Grande Oriente d’Italia, apparsa dal 1994 al 1999.  Il recensore si preoccupava di difendere, contro la mia tesi, la concezione panteistica dell’Uno (l’Ein-Soph) cara al deismo a sfondo teosofico professato dalla Massoneria.

Nel marzo del 2003 il povero Antonio Pellicani mancò all’improvviso, stroncato a 61 anni da un infarto, e scomparve con lui la sua piccola casa editrice “controcorrente”, come la chiamavano i media, con le sue belle collane.

Nel 1993, su iniziativa del prof. Antimo Negri (1923-2005), stimato storico della filosofia e brillante e acuto saggista, avevo presentato all’Accademia Pontaniana in Napoli una Nota sul tema, stampata poi a parte in un opuscolo intitolato :  Sulla definizione dell’uno, Giannini, Napoli, 1993, pp. 9 (Estratto dagli ‘Atti della Accademia Pontaniana’, Nuova Serie – Volume XLIII – Anno Accademico 1993, DLI dalla fondazione).  La Nota si concentrava su quello che nel libro costituisce il primo dei suoi tre capitoli: la “metafisica del Tutto” con inclusa la “definizione dell’uno” (parr. 1-7, pp. 17-51). 

Ho già pubblicato questa Nota su questo blog, l’11 marzo 2018.  Vi ho anche pubblicato la recensione della citata rivista massonica il 18 dicembre 2022, con aggiunte a titolo esplicativo alcune pagine della  medesima Nota.  Ma queste pubblicazioni non rendono ovviamente l’idea della complessità e articolazione dei temi trattati nel libro vero e proprio.  Rileggendolo di recente, dopo tanti anni, la sua problematica mi è sembrata ancora perfettamente attuale, tanto da decidermi a metterlo in rete, in pdf, per gli amanti della filosofia, anzi della metafisica che è, a ben vedere, la filosofia nella sua forma più alta.  Ritoccherei alcuni punti e ne amplierei altri, specialmente nell’ultimo capitolo, che si confronta con aspetti essenziali dell’immagine contemporanea del mondo.  Ma l’impianto del discorso mi sembra ancor valido così com’è.

Il titolo del libro ha un sapore kantiano. Ma si tratta solo di apparenza:  il libro non contiene nulla di kantiano. Il suo argomento può sembrare astratto. In realtà, affrontando il problema della giusta definizione dell’Uno, io cerco di riaprire il discorso filosofico su Dio, oggi completamente abbandonato.  Riaprirlo in chiave metafisica, cominciando dalla definizione rigorosa dell’Uno, concepita in modo tale da sottrarla ai panteismi ed immanentismi che l’hanno sin qui monopolizzata, i quali portano ad identificare l’Uno con il Tutto legittimando in definitiva lo spinoziano “Deus sive natura”, un concetto che Einstein, ammiratore di Spinoza, amava ripetere, per indicare in quale Dio credesse, a chi glielo domandava.  Non per nulla, gli intellettuali massoni o vicini alla Massoneria si preoccupavano di criticare una definizione dell’Uno come quella da me proposta (“l’uno, nel suo concetto, è ciò che non ha parti e non è parte, eppure è”), definizione che si poteva applicare solo a Dio inteso come essere perfettissimo anteriore ad ogni realtà sensibile, dominata dal rapporto tra le parti e tra queste e il Tutto.  In tal modo, il concetto dell’Uno, rigorosamente definito in sé, applicabile solo all’Essere assolutamente trascendente di Dio, appare compatibile con la rivelazione di un Dio per sua natura Uno e Trino.  Infatti, tale concetto ci permette di affermare la legittima pensabilità dell’esistenza di Dio nel concetto dell’Uno, senza dirci ancora nulla della sua natura o essenza, la quale noi possiamo conoscere solo grazie alla Rivelazione che ne voglia fare lo stesso Iddio.

E difatti il recensore di ‘Massoneria oggi’ non criticava la mia tesi nel suo svolgimento logico, che riteneva anzi rigoroso, bensì, rifacendosi a Martinès de Pasqually (1727-1774), ribadiva la concezione di taglio cabalistico e neo-platonico cara alla visione del mondo della Massoneria speculativa, intesa nella sua accezione più esoterica: l’Uno non come l’In-sé dell’Essere assolutamente trascendente bensì come sintesi delle parti e del tutto della realtà, grazie all’emanazione di sé dello Ein-Soph, Ente o Uno o Essenza primordiale, nelle sue molteplici per non dire infinite manifestazioni. Alla mia tesi veniva contrapposto il deismo, dunque, e nella sua forma più arcaica, riflettente il panteismo tipico dello gnosticismo primitivo:  theo-sophia intesa alla liberazione dell’anima individuale dall’abbraccio tenebroso della materia e del mondo mediante conoscenze iniziatiche del proprio Sé e pratiche teurgiche.     

  Ma oltre a riaprire il discorso su Dio in chiave metafisica, il mio saggio si inoltrava nell’analisi del rapporto tra il tutto e le parti, cominciando dalla definizione dell’esser parte di qualcosa, in quanto modo di essere riscontrabile nella realtà sensibile ma anche in quella spirituale, se il nostro pensiero deve considerarsi parte dell’ essere ossia del Tutto, senza potervisi identificare.  L’inesteso nostro pensare quotidiano non è “parte” dello spazio e tuttavia deve considerarsi parte del Tutto, che ricomprende anche lo spazio.

 Per facilitare la comprensione del testo e per non tediare il lettore con preliminari troppo lunghi, riporto qui di seguito l’Indice Generale del libro.

Prefazione di Antimo Negri.

I. Metafisica del tutto.

1. Il tutto è indiviso e quindi è l’uno.  2.  Il tutto non può accrescersi in quanto tutto.  3.  Il tutto, in quanto uno, è infinito.  4. Natura contraddittoria del tutto.  5.  La definizione dell’uno.  6.  La definizione dell’uno si applica solo a Dio.  7.  Dire che l’uno è Dio non significa affermare che Dio è unico.

II.  Metafisica della parte.

8.  Il tutto come semplice somma di parti.  9.  Definizione della parte:  il problema.  10.  La parte o l’ente.  11.  La definizione della parte non è unitaria.  12.  Quali sono le parti del tutto.  13.  Il tutto come Sostanza. 

III.  Analitica delle parti in nuce.

14.  Spazio, corpo, simultaneità.  15.  Il pensiero.

 

I primi quattro paragrafi analizzano il concetto del tutto:  natura contraddittoria del Tutto che appare infinito pur essendo costituito di parti finite, transeunti; coesistenza simultanea di ordine e disordine, vita e morte.  Paradosso del concetto del Tutto: è grazie alle sue parti, è nonostante le sue parti (sottoposte al divenire mentre il tutto non diviene, rimanendo sempre se stesso).  “Ma il tutto è per l’appunto questo, di essere opposto a se stesso:  da un lato come tutto è semplicemente lo stesso delle parti, e dall’altro lato le parti sono lo stesso che il tutto, in quanto nel loro insieme sono loro a costituirlo” (Hegel).  Da ciò si deduce (ho saltato altri passaggi) che il Tutto non può esser considerato l’Uno. L’Uno non può infatti essere contemporaneamente il suo opposto.  Non può esser sostituito da un’unità del tutto come quella sostenuta ad esempio da Giordano Bruno, che vedeva appunto il tutto come Uno proprio perché costituito dalla compenetrazione dei contrari.  Bruno fu notoriamente molto apprezzato da Schelling, uno dei padri dell’Idealismo.  “In questa prospettiva, la morte dell’esistente viene negata in quanto dissolversi nel nulla di una parte determinata del tutto.  Si deve infatti dire che ciò che si dissolve con la morte è solo la forma degli enti, mai la loro materia, immutabile ed identica a se stessa in quanto sostanza universale.  La materia, sostanza che si mantiene con immutata “potenza” nel corso del divenire, è infatti concepita essa stessa come “potenza” che si riproduce dal proprio interno, senza mai subire diminuzioni nell’alternarsi delle sue forme.  Essa è allora “principio” e “fondamento” del tutto in quanto uno” (Introduz. alla metafisica dell’Uno, cit., pp. 28-29). 

Contro questa concezione, trasfigurante la materia, ricordavo il celebre verso di Hamlet, act. IV, sc. I:  Imperious Caesar, dead and turn’d to clay,/ Might stop a hole to keep the wind away”: il grande Cesare morto divenuto creta, tappar potrebbe un buco contro il vento. Ecco come possiamo ritornare al “tutto” della materia dopo la nostra morte.  Con la morte, opponevo, noi non cadiamo nello “inesteso”, come sosteneva Schelling, come se conservassimo ancora una possibilità di essere: noi invece cadiamo nell’inesistente, perché il nostro corpo, la nostra materia è scomparsa del tutto.  Ma non risorgerà, secondo la Rivelazione, nell’ultimo giorno?  Risorgerà, per andare all’eterna retribuzione, ma solo ad opera della divina Onnipotenza, che la ricreerà trasfigurata dal nulla in cui la morte l’aveva posta.

I paragrafi dal quinto al settimo propongono la definizione dell’Uno.  Sinteticamente l’ho già esposta.  Mi limito a specificare qui in che senso dire che il concetto dell’Uno si applica solo a Dio, non equivalga affatto ad affermare che Dio è Unico, alla maniera dei monoteismi non cristiani.   Quest’ultima affermazione ha, come è noto, un significato non metafisico ma teologico poiché con essa non si vuole esprimere la pensabilità dell’esistenza di Dio ma il quid sit , la natura di Dio, come come Egli (secondo quei monoteismi) ce l’avrebbe rivelata, vale a dire in modo da escludervi la possibilità stessa della sua essenza trinitaria.  Affermare che il concetto dell’Uno si applica solo a Dio, all’opposto, significa mostrare che l’unico significato che il concetto dell’uno in sé può avere per la mente, in quanto puro concetto, è quello di contenere la definizione dell’essere perfettissimo di Dio e proprio a causa dell’impossibilità di applicarlo all’essere in quanto determinato nell’esistenza e nella materia, ovvero al Tutto in quanto composto di parti.  Tale concetto  esprime quindi – ripetiamo – la legittima pensabilità dell’essere di Dio senza dirci ancora nulla sul mistero numinoso della Sua natura, che possiamo conoscere, per quanto è dato a noi, solo per quanto di essa sia piaciuto a Lui rivelarci, e in definitiva non contraddice in nulla una Rivelazione in cui l’unità della natura di Dio sia stata testimoniata nel mistero delle Tre Persone uguali e distinte, nella Monotriade” (PP, op. cit., p. 44).  Inoltre, il concetto dell’Uno come da me inteso, mette in luce l’insostenibilità dell’identificazione uno-tutto tipica degli immanentismi a sfondo panteistico oggi variamente dominanti.

I paragrafi da otto a tredici  riguardano la “metafisica della parte”: cosa significhi  l’esser-parte in quanto modo di essere ineliminabile dell’esistente.  Il par. 8 contiene una critica della concezione meccanicistica del Tutto, come semplice “somma di parti”, elaborata in special modo dalla filosofia di Thomas Hobbes, uno dei padri della concezione meccanicistica della realtà, materialista integrale.  La critica concerne anche il tentativo hobbesiano di eliminare il principio di causalità come inteso da Aristotele e successivamente dall’Aquinate, ossia dalla metafisica classica. Il par. 9 è dedicato alla definizione del concetto della parte, nelle sue varie articolazioni (l’esser-contenuto, l’esser-in-relazione, l’esser unità di misura, l’esser separato o tolto). Vi si discute la sua natura complessa, anche in relazione a problemi posti da Platone nel Parmenide e all’impostazione aristotelica.  L’esistenza dell’esser-parte sembra indicare, per Platone, che la realtà resta sempre dualistica, poiché “l’uno-che-è”, pur partecipando dell’essere, non riesce ad evitare che l’essere (il Tutto) risulti composto di parti che si moltiplicano all’infinito, in una catena aperta, priva di effettiva unità. Per Aristotele, invece, più semplicemente, la parte è “ciò che si può togliere” e che ha significato solo nel tutto che organicamente la ricomprende.  I problemi del rapporto tra il Tutto e la parte sono già enucleati nel pensiero greco.   

Nell’essere della parte appare pertanto la contraddizione, dal punto di vista della sua definizione concettuale:  “esser parte si dice di ciò che partecipa di un tutto e far parte a sé, all’opposto, di ciò che se ne separa”.  Il nesso partecipazione-esclusione, caratterizzante l’esser-parte, viene discusso nel par. 10, dedicato a “La parte e l’ente”. “Si comprende quindi come l’ente, pur essendo parte dello spazio, non sia la stessa cosa della parte, intesa come quella grandezza che è ricompresa in una grandezza, secondo una quantità determinata. Come definiremo l’ente, allora?  L’ente è per noi, in prima approssimazione, quella grandezza definita in una quantità determinata, il cui limite esterno è costituito solo dallo spazio e dal tempo in quanto tali, ossia da una grandezza per noi indeterminata perché priva di quantità.  L’ente è quindi un individuo, così come lo sono l’animale, l’uomo, il globo terrestre, le stelle e così via” (PP, op. cit., p. 86).  La parte in senso stretto, lo è all’interno di una realtà corporea ossia di un ente, che costituisce una realtà determinata, finita.  Invece l’ente è parte dello spazio,  che è realtà indeterminata, infinita. 

La contrapposizione tra l’ente e lo spazio cioè tra il pieno e il vuoto, è stata negata dalla Fisica contemporanea, ma in modo da giungere ad annullare l’individualità dell’ente (l’Oggetto), concepibile, secondo Einstein, come una “variazione di densità” del campo gravitazionale, che costituirebbe, con le sue masse curvilinee deformanti le energie che lo attraversano, la vera conformazione del Tutto su scala cosmica (PP, op. cit, pp. 88-90).  Ma questa “reductio ad unum” che vede l’Uno nell’unità indissolubile di materia ed energia quale si realizzerebbe del cosmo strutturato come spazio sferico increato ed eterno, finito ma illimitato, non è accettabile sul piano del concetto, che esige il mantenimento della distinzione fra materia ed energia, per quanto esse possano partecipare l’una dell’altra. Intendere i corpi, gli enti costituiti di materia, quali semplici “variazioni di densità” nello spazio costituito di geodetiche di energia, appare del tutto astratto e nello stesso tempo non fondato dal punto di vista scientifico, visto che le leggi della fisica non riescono a realizzare la sintesi di materia ed energia auspicata da Einstein. 

La definizione della parte, del resto, non è  unitaria (par. 11) perché l’esser parte ha luogo nell’ambito di una grandezza costituita dall’ente o dallo spazio, grandezze tra loro non commensurabili, in quanto l’uno è finito e determinato, l’altro infinito e indeterminato.  Bisogna quindi cercare innanzitutto di stabilire quali sono le parti del tutto (par. 12).  Quali, e non quante.

Quali sono le parti del Tutto?  “In quanto siano determinate in una quantità sono costituite dalla materia-energia e dagli enti; in quanto indeterminate: dallo spazio, dal tempo, dal pensiero.  L’inclusione di quest’ultimo sembra giustificata da questa riflessione: come lo spazio e il tempo sono l’indeterminato fuori di noi, il pensiero è l’indeterminato in noi perché, pur essendo, non solo non ha quantità ma nemmeno grandezza, nel senso dell’estensione” (op. cit., p. 92).  Con indeterminato intendo una grandezza senza quantità.  Con pensiero non intendo la sola facoltà intellettiva ma quell’insieme di attività spirituali – delle quali la facoltà intellettiva è parte – il cui fondamento ultimo è da ricercarsi in qualcosa di più profondo, nell’anima “ (op. cit., ivi). 

Il par. 13 infine è dedicato a “il Tutto come sostanza” e contiene una critica approfondita (pp. 97-114) all’immanentismo di Spinoza, che nega l’individualità della parte rispetto al Tutto concepito come “sostanza”, anticipando in un certo senso la negazione dell’individualità della parte (costituita dalla materia) tentata sul piano della teoria fisica dallo spinoziano Einstein.

I paragrafi quattordici e quindici del Terzo capitolo  concludono il saggio (pp. 119-151) discutendo criticamente la nozione delle “parti” rappresentate, oltre che dal pensiero, dallo spazio e dal tempo - lo spazio-tempo, nozione complessa affermatasi nella fisica moderna ed accettata dal pensiero filosofico prevalente e un po’ da tutti.  Negavo validità alla nozione dello “spazio curvo” o “deforme” a causa dei campi gravitazionali prodotti dalle masse stellari, quale nozione che possa ritenersi valida per tutto lo spazio, in quanto tale. 

Se queste mie critiche potevano ritenersi troppo audaci ventisette anni fa, bisogna sapere che lo sviluppo successivo dell’astrofisica ha dimostrato senza volerlo la loro validità.   Si è stabilito che “la densità della materia presente nello spazio è tale da raggiungere il punto critico senza eccederlo, per cui lo spazio tridimensionale non si curva su stesso [come riteneva Einstein – ndr]. Pertanto l’ipotesi dell’universo chiuso, per quanto attraente potesse essere, è morta” (cito dal libro dell’astrofisico inglese Russell Stannard, The End of Discovery, Oxford UP, 2010, p. 48)  Se si va sui siti più validi di cosmologia popolare, troviamo diversi interventi (persino angosciati) sul fatto che adesso lo spazio su larga scala viene ritenuto nuovamente “flat” ossia euclideo, piano e quindi infinito. Lo spazio “curvo” sarebbe solo quello deformato (“warped”) dai campi gravitazionali creati dalle masse stellari attorno ad esse stesse, campi responsabili della leggera “deflessione” dell’energia che li impatti, dalla luce agli altri tipi di “onde”.  La visione del cosmo impostasi dopo Einstein risulta sensibilmente mutata dal ritorno allo spazio euclideo su scala universale, anche se, a mio avviso, non se ne traggono tutte le conseguenze.

La nozione dello spazio-tempo ancora resiste anche se Einstein l’ha costruita sulla negazione della simultaneità.  Nel famoso “esperimento mentale”, un uomo M fermo a metà di una banchina vede scoccare simultaneamente due fulmini alle due estremità della stessa. Un passeggero M’ in un treno che stesse scorrendo molto velocemente lungo la banchina, vedrebbe prima il fulmine verso il quale corre rispetto a quello dal quale si sta allontanando.  Per i due osservatori non c’è pertanto simultaneità nel rilevamento.  O meglio: ciò che è simultaneo per M non lo è per M’.  La rilevazione di un tempo universale uguale per tutti i fenomeni non è dunque possibile, essa dipende dal  sistema di riferimento locale, dalle “coordinate” delle quali ci si serve, a seconda si sia in moto o in quiete, per restare allo “esperimento” citato.  Circa il quale, osservo, si tende a dimenticare che l’osservatore sul treno deve andare quasi alla velocità c , quella della luce, quasi 300.000 km/sec, per poter vedere un fulmine un istante prima dell’altro, nonostante la loro contemporaneità:  e allora bisogna chiedersi se si possano commisurare due realtà tra loro così diverse, l’immobilità con la velocità della luce, in un’unica legge.   Ed inoltre: nessun treno potrebbe andare ad una velocità prossima a quella della luce, si disintegrerebbe molto prima di raggiungerla.  E la banchina, quanto dovrebbe esser lunga, se affiancata da un treno che va quasi alla velocità della luce, centinaia di migliaia di km?   In tal modo, cosa vedrebbe un osservatore umano posto al centro di essa?

Comunque sia, si ritiene valido il concetto che una “attribuzione di tempo”  ha senso, secondo Einstein, solo quando ci vien detto a quale “corpo di riferimento” essa si riferisce.  Ogni rilevazione di tempo è locale, dipende dalle coordinate (locali) impiegate.        

Per quanto riguarda il concetto del tempo, scrivevo, “va però ricordato che l’attribuzione di tempo non è il tempo, non più di quanto l’attribuzione di una misura sia lo stesso della cosa misurata. Nell’esempio famoso, Einstein parte dal presupposto che i due fulmini siano simultanei.  Gli eventi possono dunque essere simultanei, nel caso dato.  Dov’è allora la negazione della simultaneità?  Nella constatazione dell’impossibilità di coglierla da parte del soggetto.  Il soggetto che deve misurarla si trova in genere in (o addirittura è) un corpo di riferimento in moto, il quale impedisce la misurazione stessa, nel senso che il sistema di riferimento da esso stesso costituito rende impossibile l’accertamento della simultaneità degli eventi.  Ma da tutto questo risulta che ad esser effettivamete negata non è la simultaneità degli eventi come fatto obbiettivo, in sé e per sé, ma la nostra capacità di coglierla rappresentandola in una misura universale, valida per tutti i sistemi di riferimento.  Dopo aver identificato lo spazio con il corpo nell’immagine del “campo” composto di energie gravitazionali, Einstein identifica il tempo con l’orologio che lo misura – quale che sia la natura dell’orologio -  ossia con l’unità di misura costituita dalla “qualità di struttura” del campo. Questa indistinzione fra misurante e misurato lo conduce per forza di cose a non distinguere tra impossibilità a misurare la simultaneità ed inesistenza della stessa, cioè del tempo in senso assoluto, come durata uguale ed uniforme” (PP, op.cit., p. 132).  

       Concludo, infine, questa breve presentazione del volume, del quale ho riportato solo alcuni passaggi, accennando all’ultima “analitica della parte”, la riflessione sul pensiero: in che senso debba ritenersi “parte del tutto”, come non si debba affermare il suo primato sull’essere, come esso debba respingere ogni soggettivismo mirando sempre, nella conoscenza, a stabilire la famosa “concordanza tra la cosa e l’intelletto”, nel solco della tradizione aristotelico-tomistica.  Il paragrafo finisce con una critica articolata del dubbio metodico inteso da Cartesio quale unica possibile fonte della certezza di esistere, critica che ho rielaborato e pubblicata su questo blog il 17 gennaio 2017, con il titolo:  Un’aporia nel Cogito cartesiano.

 “L’aporia presente nel ragionamento cartesiano sarebbe allora duplice:  1)  se sono certo di esistere perché penso (per il solo fatto di pensare), devo ammettere che a questa certezza la natura o qualità di ciò che penso è indifferente, con la conseguenza che il pensiero che afferma ha lo stesso valore di quello che dubita, ai fini dell’esistenza della certezza stessa.  In tal modo, però, il significato specifico del dubbio metodico, quale unico atto di pensiero che mi dia la certezza di pensare e quindi di esistere, svanisce completamente ed il cogito ergo sum diventa una proposizione meramente descrittiva e persino tautologica.  Inoltre, 2) Cartesio sembra procedere in modo dualistico, nel senso che ora atribuisce la certezza di esistere da parte dell’io alla qualità del suo pensiero (l’esser un pensiero che dubita di tutto, l’esser quel pensiero), ora invece al solo fatto di pensare, senza specificazione alcuna (“ogni volta che penso”), facendola dipendere dal mero dato quantitativo dell’esser res cogitans, non ulteriormente determinata.  E allora, quantità o qualità?  Un solo specifico pensiero, con quel contenuto o il pensare in quanto tale, a cui ogni contenuto è indifferente?

A quale certezza deve dunque affidarsi il pensiero, a quella che lo mutila dall’essere o a quella che ve lo ricomprende?  Il dubbio metodico o cogito cartesiano isola il pensiero in se stesso.  In quest’atto c’è come una separazione ed il pensiero (ai fini del nostro discorso) viene a porsi come parte del tutto.  Ma questo è vero solo in apparenza.  Infatti, questo stesso pensiero che si separa dalla realtà per avere solo in se stesso la certezza di se stesso, grazia a questa certezza deduce poi la realtà da se stesso.  Solo ciò che è pensato secondo le regole del pensiero che si è separato dal reale, solo ciò che è posto dal pensiero in questo modo è reale.  Ma ciò significa, per l’appunto, dedurre la realtà dal pensiero e porre la coscienza di sé quale unica ed assoluta verità […] Il pensiero, come certezza di sé dell’io, diventa allora il tutto e persino l’uno, diventa cioè quella certezza assoluta di sé che crede di realizzare in se stessa (e solo in se stessa) l’unità di tutto ciò che è.  Il Tutto viene ricondotto, come all’unico centro che lo unifichi, al sapere di sé della coscienza.

Ma questa concezione è all’origine, come si è cercato di dimostrare, delle false rappresentazioni dell’uomo e del mondo oggi dominanti.  Il pensiero deve farsi umile, se vuole avvicinarsi alla verità.  Deve prender di nuovo coscienza del fatto che esso è parte del tutto in senso sostanziale, obbiettivo – perché il tutto ha di per sé quella realtà dell’essere le cui leggi si applicano anche al nostro pensare – anche se l’esser-parte del pensiero non si lascia rinchiudere nella determinatezza della materia, grazie alla quale il pensiero agisce nella nostra vita mortale.  Il carattere spazialmente indeterminato del pensiero ed il suo esser-parte nel tempo, questa sua realtà esclusivamente spirituale, postula infatti un’immortalità che lo rende parte di un tutto rappresentato dal quel regno degli spiriti, diviso in Eletti e Reprobi, la cui origine non è in terra né nel pensiero stesso, ma in cielo, nella volontà dell’Essere perfettissimo, la S.ma Monotriade che vive e regna nei secoli dei secoli” (PP, op. cit., pp. 150-151).

       

giovedì 12 gennaio 2023

Paolo Pasqualucci : "Rousseau e Kant artefici della coscienza moderna".

 

 

 

Paolo Pasqualucci --- Rousseau e Kant artefici della Coscienza moderna*

 

 

Nota dell’Autore

 

 

 

Dopo aver pubblicato pochi giorni fa, in particolare per i lettori amanti della Filosofia della Politica, l’articolo “Il mito rousseauiano del Legislatore”, propongo ora un altro mio intervento su un corposo tema correlato:  Rousseau e Kant artefici della coscienza moderna”, corredato da una brevissima Nota introduttiva.

 

Quest’articolo, inviato da me ad un Convegno nel 1978, fu pubblicato nel 1980.  Il 1978 coincise con il bicentenario della morte di Rousseau e quel torno di anni fu tutto un fiorire di studi sulla sua figura. L’articolo mi sembra ancora attuale nell’indagare il connesso e nello stesso tempo differenziato contributo dell’uno e dell’altro pensatore al formarsi di quella che chiamiamo ancor oggi, nel bene e nel male, “coscienza moderna”.   Alla “coscienza di sé” in senso esistenziale, oggi prevalente, sofferta convinzione dell’esser ognuno di noi “scisso” o “alienato” da una supposta armoniosa unità originaria presociale; a questa autogiustificazione dell’infelicità di chi, rigettato il concetto del peccato originale, non crede più nella divina Monotriade, un contributo fondamentale l’ha dato proprio “il folle di Ginevra”.  Pensatore complesso e per certi aspetti “luciferino” Rousseau: basti pensare alla sua elaborazione, nel Contratto Sociale, della nozione di una “religione civile” o “del cittadino” messa poi in pratica, come tentativo, nientemeno che da Maximilien Robespierre.   Tuttavia, Rousseau fu all’origine di indirizzi di pensiero ed ideologie tra loro contrapposte: da un lato, il contrattualismo di tipo “democratico-rivoluzionario”, quale teoria dell’origine razionale della società e dello Stato, coagulati nella “volontà generale” - dall’altro, l’esaltazione della nazione, della Patria, con le sue tradizioni (i rudi costumi svizzeri di contro alle mollezze parigine); da un lato, l’accettazione del progresso, dall’altro la sua critica, con l’impietosa analisi dei mali prodotti dallo sviluppo della “cultura”;  da un lato, il superamento dell’individuo naturale  nel “cittadino”, impregnato di virtù “repubblicana”, strumento della “volontà generale” - dall’altro, l’esaltazione della coscienza individuale, “istinto divino”, addirittura giudice del bene e del male, dimensione interiore (in teoria) incontaminata che ci rapporta a Dio, alla natura, come se potessimo liberarci dell’ordinamento concreto e sempre alienante della vita, sociale, statale, temporale in generale.  È la coscienza individuale che deve giustificare l’obbedienza del soggetto alla legge, riconoscerla come se se la fosse prescritta da se stessa.  Questo vale, per Rousseau, nel campo politico ma ha anche implicazioni in quello morale, campo nel quale il Ginevrino sviluppò finissime analisi sul contrasto tra impulsi del cuore, passione e senso del dovere, obbligo di rispettare la legge morale.  Quest’ultimo aspetto interessò in particolare Kant, della cui concezione etica Rousseau è considerato un precursore.   Fino a che punto lo sia stato veramente, cerca di dimostrarlo l’articolo qui riprodotto.

 

 

* *

 

 

I.

 

Secondo l’opinione tradizionale, che risale a Hegel ed è stata riaffermata in questo secolo con particolare vigore da Cassirer, la coscienza moderna deve annoverare in modo particolarmente significativo Rousseau e Kant tra i suoi artefici. Non si tratterebbe infatti di limitarsi a constatare che Rousseau e Kant, al pari di altri grandi, hanno contribuito ai valori entrati a far parte della nostra coscienza di moderni, ma di accertare il nesso profondo che esiste tra la visione del mondo di Rousseau e quella di Kant. ln altre parole: nella coscienza moderna Rousseau ha il suo posto anche (o sopra tutto) come precursore di Kant, il quale dovrebbe quindi esservi considerato anche (o sopra tutto) come continuatore di Rousseau.

«La volontà è libera solo in quanto volontà pensante. ll principio della libertà è sorto con Rousseau e ha dato all’uomo, che si considerava infinito, questo infinito vigore. Ciò apre il passaggio alla filosofia kantiana, che nei riguardi teoretici si pone a fondamento per l’appunto questo principio; il conoscere è pervenuto alla sua libertà, e ad un contenuto concreto, che esso ha nella sua coscienza [Bewusstsein]». Ovvero: «Già  Rousseau aveva posto nella libertà l’assoluto: Kant afferma lo stesso principio, ma più dal lato teorico». «All’intelligenza segue in secondo luogo nella filosofia kantiana il pratico, la natura della volontà e il principio di essa. Questo lato è studiato nella Critica della ragion pratica, in cui Kant ha accolto la determinazione di  Rousseau, che la volontà è libera in sé e per sé» (Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, Werke, 20º, ed. riv., Francoforte/Meno, 1971, 305 ss.; 308, 331, 365; Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola, E. Sanna, Firenze, 1964², III, 2; 266, 285, 319).

Nel pensiero di Rousseau e poi in quello di Kant, Hegel vede svilupparsi in modo significativo la connessione, secondo lui tipica del pensiero moderno, di pensiero e volontà e la conseguente esaltazione della volontà libera come centro della soggettività (Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, Amburgo, 19705, lV, 882Lezioni sulla filosofia della storia). La soggettività è intesa però come consapevolezza di pensiero, coscienza di sé del soggetto che, nel conoscere l’oggetto, conosce se stesso e sa il suo conoscere: la coscienza di sé non è mera «conoscenza» (Erkenntnis) ma «sapere» (Wissen), non mero conoscere se stessi come oggetto esterno ma sapere di sé, autocoscienza, appartenersi. L’esser cosciente di sé, come determinazione elevata e ottimale dell’essere dell’uomo, viene affermato proprio dall’Idealismo, che sublima la volontà nell’affermazione del pensiero e vede la filosofia come coscienza della coscienza, sviluppo del pensiero sino all’autocoscienza. In sede storiografica è quindi proprio Hegel ad affermare per primo un legame profondo tra Rousseau e Kant per il modo in cui hanno rapportato la libera volontà al Bewusstsein. Hegel dà quindi il giusto rilievo al carattere pratico-politico della speculazione roussoiana e Rousseau gli appare come colui che ha sostenuto dal lato «pratico», ossia per ciò che riguarda i concetti dello Stato, della politica, del diritto (Werke, cit., 306), ciò che Kant ha invece affermato dal lato «teorico», ossia etico-teoretico. Il riferimento all’origine roussoiana del concetto della volontà sviluppata nella Critica della ragion pratica è significativo dell’irriverenza di Hegel nei confronti di Kant però anticipa, a mio avviso, una osservazione ricorrente nella letteratura sul rapporto Rousseau-Kant: aver cioè Kant usato il concetto roussoiano della volontà come schema, averlo trasposto dal piano politico, dello Stato e del diritto, a quello etico.

          Per Hegel, quindi, Rousseau e Kant sono due pensatori della volontà, che esaltano il momento della libera volontà come l’assoluto, nel quale la coscienza si riconosce. Secondo Hegel, però, sia l’uno che l’altro non hanno compreso il carattere veramente universale del volere, altrimenti non si sarebbero attenuti all’idea di un fondamento contrattualistico dello Stato, idea che conduce al prevalere della volontà singola nei confronti del «volere universale» che si deve realizzare nello Stato e che costituisce l’unico vero fondamento del diritto (Werke, 20º, 307-308; Grundlinien der Philosophie des Rechts [Lineamenti di filosofia del diritto], paragrafi 1-33). Hegel accomuna quindi Rousseau, Kant (e Fichte) nella critica generale del contrattualismo e fa apparire questi ultimi continuatori di Rousseau (Grundlinien, cit., parr. 29, 258; Werke, 20º, 413). Nel bene e nel male il ginevrino è quindi stato un percursore del pensiero tedesco e di valori che, per suo tramite, si sono affermati nella coscienza moderna.  

 

 

II.

 

Ma Hegel scorge nel pensiero di Rousseau una valenza negativa che non può ovviamente attribuire a Kant: il nesso tra Rousseau e il giacobinismo, tra roussoianesimo e Terrore. In un noto passo della Phaenomenologie des Geistes (ed. Hoffmeister, Amburgo, 18526, 415 ss.Fenomenologia dello spirito), Hegel attribuisce il Terrore ad una degenerazione dell’ideale del libero volere: è la pretesa di voler affermare la libertà assoluta della volontà individuale, lo Spirito come questa volontà, che conduce alla «furia del dileguare» di ogni istituzione e partito, alla logica della distruzione dell’avversario come unica e aberrante logica politica, in nome di una respublica, di una vertu irrealizzabili. La fede nel carattere assoluto della libertà della volontà, che trova in tutto un ostacolo e non si accontenta mai di nulla, conduce al predominio di una volontà politica che è quella della fazione politicamente implacabile, che si considera vera e unica interprete della generalità. Quella volontà è legge, ma solo perché è una volontà che si impone, mediante il terrore, come legge irresistibile, non perché possieda la dignità, la superiorità intrinseca, la maestà della legge. L’applicazione politica della teoria di Rousseau conduce quindi, secondo Hegel, ad un volontarismo politico rivoluzionario dominato dall’arbitrio delle fazioni e incapace di costruire uno Stato: la volontà assolutizzata non sa elevarsi alla generalità, diventare vera legge e divora se stessa.

          Attraverso questa critica, si può vedere come Rousseau resti, per Hegel, un pensatore incapace di unire positivamente volontà e legge, un apologeta della libera volontà in sé e per sé, non della legge. L’aspetto caratteristico della critica di Hegel a Rousseau consiste nel fatto di attribuire le terribili conseguenze pratiche della sua dottrina politica all’eccessivo individualismo presente in essa: non è riuscita a fondare una vera volonté générale ma l’ha inficiata sin dall’inizio con l’idea che lo Stato debba esser sottoposto, mediante il patto sociale, al libito della volontà singola, particulière, per di più attribuita ad un individuo supposto buono per natura. Rendendosi assoluta, concependosi come l’unica vera, esaltandosi nella libertà infinita del proprio inarrestabile «io voglio», questa volontà, fondata su di un’idea astratta della natura umana, diviene del tutto astratta e fa scempio dello Stato, del diritto, della legge, della libertà (per una definizione teoretica di questo tipo di volontà, cfr. Grundlinien, par. 5). L’interpretazione hegeliana non è però più condivisa dalla critica contemporanea (se ne può trovare ancora una traccia in Croce); quest’ultima, quando guarda alle conseguenze negative della teoria di Rousseau, ipotizza un «totalitarismo» del ginevrino, da vedersi sopra tutto nel modo in cui Jean-Jacques ha concepito la volontà generale. L’antenato di questa critica non è ovviamente Hegel ma Benjamin Constant (1767-1830), forse il primo a scorgere nella filosofia politica di Rousseau una concezione della libertà così assoluta da implicare inevitabilmente il più duro degli assolutismi. lnfatti, se la vera libertà è, per Rousseau, solo quella civile, che si attua nell’ambito di una comunità sovrana, monolitica, impenetrabile, ugualitaria, allora, come nelle repubbliche antiche, la volontà particolare, la libertà individuale è, di fatto, sacrificata alle esigenze della volontà generale, una, sempiterna, indistruttibile come il popolo, la patria. Rousseau non avrebbe dato un contributo del tutto limpido alla «libertà dei moderni» (individualistica, liberale, connessa allo spirito di libera intrapresa, garantita dallo Stato rappresentativo mediante la legge) perché avrebbe reinventato per i moderni la «libertà degli antichi», fondata sulla preminenza tirannica della civitas nei confronti dell’individuo: libertà del tutto e non dal tutto.

          È evidente che Hegel e Constant collocano in modo opposto Rousseau alle origini della coscienza moderna. Vedono in lui uno dei massimi artefici dell’ideale di libertà dei moderni ma nello stesso tempo ne colgono in modo diverso gli aspetti negativi, che scaturirebbero dall’affermazione dell’individualismo atomistico dell’uomo supposto buono per natura di contro allo Stato o, all’opposto, dalla visione opprimente di una «libertà politica» che si realizza nella volontà generale, in un collettivo che non permette al suo interno alcun vero individualismo, né di singoli uti singuli, né di istituzioni, né di rappresentanti (ripulsa roussoiana della democrazia rappresentativa). L’elemento che accomuna Hegel e Constant nell’inquadrare il pensiero di Rousseau, è dato dal fatto di concepirlo come una filosofia della volontà e non della legge, della libera volontà individuale o libera volontà generale, a seconda quale dei due momenti del volere si pensi rappresenti al meglio l’ideale roussoiano di libertà.

 

 

III.

 

Sulla scia di Hegel, il filosofo di formazione neo-kantiana Ernst Cassirer (1874-1945) ha fatto di Rousseau un artefice della coscienza moderna in quanto precursore in senso stretto di Kant, però concependolo come un pensatore della legge allo stesso modo di Kant. Nel suo famoso saggio del 1932, Cassirer risolve in tal modo quello che chiama «il problema Jean-Jacques Rousseau». Rousseau ha affermato la libertà morale e civile dell’uomo all’insegna del principio che «l’impulsion du seul appetit est esclavage, et l’obéissance à la loi qu’on s’est prescritte est liberté» (Contrat Social, I, VIII, in Oeuvres complètes, éd. Pléiade, III, 365). Ebbene, questo significa che il concetto della legge è il nodo centrale della speculazione roussoiana: la libertà è da lui concepita nella legge e non contro di essa, la legge che l’uomo si dà con la libera volontà. Un’unica forma di legge sembra dominare l’etica e la politica roussoiane: nello Stato non governa la mera legge positiva ma quella che consegue ad una autodeterminazione del soggetto che deve ubbidire. Cassirer mette in rilievo come Rousseau abbia avuto il merito di rivendicare l’interiorità del soggetto nei confronti del pensiero del suo tempo, libertino e utilitarista; di essere stato il corifeo della coscienza di sé quale unica vera forma di conoscenza, coscienza da intendersi quindi non come apologia sentimentale o irrazionalistica dell’interiorità quanto come sua esaltazione in senso etico, all’insegna dell’idea del dovere, rappresentata al meglio nella figura di Julie [la protagonista del romanzo epistolare di Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloïse, che sacrifica la sua passione amorosa al senso del dovere]. Perciò la volontà, che è strettamente connessa alla coscienza di sé, deve essere intesa roussoianamente non in una prospettiva utilitaristica ma sostanzialmente etica, di un volere che si attua sapendo di operare in adempimento a un dovere, per cui l’obbedienza voluta e autoimposta nei confronti della legge ha essa stessa un significato morale. «Dove domina una costituzione veramente legittima – cioè dove la legge e solo la legge viene riconosciuta come sovrana – una limitazione della sovranità è in se stessa contraddittoria... La legge come tale non ha una perfezione di potere relativa, ma assoluta; essa impone e esige in maniera incondizionata» (Das Problem Jean-Jacques Rousseau, tr. it. Il problema Gian Giacomo Rousseau, Firenze, 1938, 85).

ll Rousseau di Cassirer è un Rousseau quasi kantiano e quindi si trasforma da pensatore della volontà in pensatore della legge, preoccupato di fondare sulla volontà libera, intesa come autodeterminazione (morale) del soggetto, l’obbedienza alla legge. Rispetto a Hegel, Cassirer sposta quindi il centro di gravità del pensiero del ginevrino dalla volontà alla legge, come se il «comando incondizionato» di quest’ultima non dipendesse dalla volontà generale politica di cui la legge è per Rousseau l’espressione. Per cui: «l’etica di Rousseau non è un’etica del sentimento, ma la forma più decisa della pura etica della legge che sia stata elaborata prima di Kant» (op. cit.; 84). Si ricorderà che, per Hegel, Rousseau è da considerarsi precursore di Kant: il fatto è che secondo Hegel né Rousseau né Kant riescono ad elaborare un concetto veramente universale del volere, ad unire felicemente volontà e legge, Stato e individuo. In ogni caso, per ciò che concerne Rousseau, vengono ad esser separati dagli interpreti i due concetti della volontà (generale) e della legge, che egli concepisce invece come strettamente dipendenti (cfr. Contrat, II, VI, De la loi).

 

 

IV.

 

La storiografia più illustre ed accreditata non conduce quindi, secondo me, ad una conclusione univoca sul rapporto fra Rousseau e Kant, in relazione a valori della coscienza moderna, la libertà risultante dall’unione armoniosa di legge e volontà: la libertà per l’appunto nel diritto e non contro o al di là del diritto. Se si sentisse la necessità di ripensare quel rapporto, proprio per cercare di chiarire ulteriormente alla coscienza moderna alcuni dei suoi propri fondamenti, allora il ripensamento va tentato, a mio avviso, da una prospettiva il più possibile teoretica, coinvolgente cioè il concetto della filosofia di Rousseau e Kant. Non si tratta quindi di rilevare le fatali carenze od omissioni della storiografia.  Per esempio, sia Hegel che Cassirer non sembrano affatto accorgersi del ruolo che la figura del Legislatore ha nel pensiero di Jean-Jacques, ruolo essenziale, che già di per sé getta forti dubbi sul supposto pre-kantismo del ginevrino. Parallelamente, sottovalutano la pregnanza del concetto di peuple, il cui interprete autentico è per l’appunto il Legislatore: popolo, legislatore, volontà generale costituiscono una triade che impedisce di considerare come decisivo solo l’irrisolto rapporto volontà generale-volontà particolare o di risolvere la volontà generale nella autodeterminazione del soggetto nei confronti di una loi, accettata quasi come conseguenza di un imperativo morale. Ché «l’obbedienza alla legge che ci si è prescritta» si ha verso la legge positiva, esterna, quando è stata prodotta dalla volontà generale, mentre in Kant è la legge morale ad esigere quell’obbedienza, non certo la legge positiva, sottoposta all’approvazione di una volontà generale meramente condizionale, su cui grava l’ipoteca dello als ob, del “come se” (cfr. la Folgerung [Conclusione] alla II parte dello scritto Ueber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis – “Sul detto comune: ciò può esser giusto in teoria ma non vale per la prassi”). Che Kant trasmuti lo schema roussoiano della legge-volontà dalla politica all’etica, è cosa che dovrebbe, a mio avviso, essere dimostrata e non data per scontata, dato il carattere rigorosamente etico che la politica deve avere per Kant e la struttura tipica e caratteristica della legge morale kantiana, il suo significato trascendentale.

         

 

V.

 

Ad ogni modo non sono certamente questi gli elementi (cui non ho potuto non accennare) da prendere in considerazione e sviluppare per cercare di determinare in modo più soddisfacente la posizione dell’uno e dell’altro filosofo nei confronti della coscienza moderna, posizione canonizzata dalla storiografia in senso ascendente, del rapporto precursore-continuatore. ll punto che vorrei dimostrare è il seguente: a differenza di Kant, Rousseau ha dato un contributo decisivo all’elaborazione del concetto di «coscienza» nel senso che noi moderni accettiamo. ll pensiero di Rousseau infatti mette già in luce quella che si suole definire come «scissione» (Entzweiung) dell’uomo rispetto al suo mondo e quindi a se stesso, scissione percepita nella e mediante la coscienza e che costituisce uno dei presupposti speculativi essenziali della problematica hegelo-marxiana sulla «estraneazione», «alienazione», «reificazione», ancora oggi dominante (cfr. H. BARTH, Wahrheit und Ideologie [Verità e ideologia], 1961, tr. it., Bologna, 118-144; F. MÜLLER, Entfremdung. Zur anthropologischen Begründung der Staatstheorie bei Rousseau, Hegel, Marx, Berlino, 1970, 20 ss. –[“Alienazione. Sulla fondazione antropologica della teoria dello Stato di Rousseau, Hegel, Marx”]). Nulla di tutto questo invece in Kant, per il quale ciò che a noi sembra scissione o suo risultato è ancora insuperabile differenza, come quella tra il soggetto e il Ding an sich [la “cosa in sé”]. L’io che conosce la cosa e sa di non poterla penetrare nella sua essenza, non si sente per questo scisso rispetto a se stesso, e al mondo, separato da sé o «alienato»: percepisce invece chiaramente i limiti della propria natura di ente razionale, in rapporto al mondo esterno. Da questo punto di vista, Kant appare lontanissimo dal modo di sentire contemporaneo, che ha santificato «scissione», «alienazione» e consimili categorie, tipiche del pensiero occidentale nel suo passaggio dalla metafisica ancora legata agli schemi platonici e aristotelici ad una filosofia della prassi. Dunque, in Rousseau e in Kant vi è rispettivamente la percezione della distanza del soggetto dall’oggetto come scissione e come differenza, e solo dal lato di un pensiero incentrato sull’idea della scissione si può parlare, a mio avviso, di una netta anticipazione della coscienza moderna, anzi del suo proprio concetto prima ancora che dei valori in cui essa crede.

          Come può allora ricostruirsi la concezione roussoiana della conscience? Rousseau esorta l’uomo a «rientrare in sé», a «consultare il lume interiore», a trovare se stesso nella coscienza, «istinto divino», fondamento del proprio essere e metro di giudizio del mondo esterno. Butta via l’orologio perché è il battito interno che misura il tempo: la coscienza, non le lancette! Ma il rientrare è necessariamente un allontanarsi, un fuggire da qualcosa: il mondo esterno, che non è in questo caso la natura, ma l’esteriorità in cui si è ossificato il mondo dei rapporti umani, sociali. Dunque l’io fugge perché si sente infelice e cerca un luogo di pace: non lo trova nella società esistente, non lo trova nella vecchia fede, lo trova solo per allegoria nella natura, che appare come un sogno filosofico. Ma questo luogo supremo sarà la coscienza, la pura interiorità ad offrirlo, il centro della persona, inteso in tutta la sua carica di sentimenti e passioni, in tutta la sua inesauribile ricchezza, profondità ossessivamente scandagliata. La serietà, la convinzione con la quale Rousseau propugna l’avvento del regno della coscienza, giudice del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, conduce all’affermazione di una sorta di sentimentalismo etico, il cui testo sacro è la Profession de foi du Vicaire Savoyard [inclusa nell’Émile ou de l’éducation, il celebre romanzo pedagogico di Rousseau]. Nella coscienza il soggetto trova la sua propria verità, che lo difende dal paraître del mondo sociale, dell’uomo della città, l’homme poli, ipocrita, ingiusto, immorale. Rousseau non è però un individualista nel senso tradizionale del termine e gli spunti individualistici del suo pensiero vengono risolti in una concezione della politica che conduce al superamento e anche alla negazione dell’individuo. Egli inizia col contrapporre rigidamente la coscienza di sé, l’essere dell’uomo come soggetto cosciente, al mondo esterno, ossia alla società e alla storia. Da questo punto di vista, il suo pensiero è dualistico, persino manicheo: basti pensare alla ossessiva condanna della ville, sempre e nient’altro che vizi e lordure! La città, simbolo della società esistente, è la bolgia infernale della coscienza dell’io che voglia essere presso di sé, ossia libero: nella coscienza c’è l’ordine o comunque la sua possibilità; nella società il disordine, il caos, il moto perpetuo e cannibale di masse urbane rese folli dai bisogni e da una vita corrotta, «foule qui rampe dans la misère», il cui rappresentante è il nipote di Rameau [protagonista di un romanzo filosofico dell’illuminista Denis Diderot, nel quale si  rappresenta la critica borghese scettica ed utilitarista di tutti i valori]. ll rapporto esistente tra la parte e il tutto è quindi un rapporto di disordine morale e civile, l’ordine morale e politico una semplice chimera. L’ordre: questo concetto chiave della speculazione roussoiana può realizzarsi solo se il rapporto tra la parte e il tutto è armonico, se la coscienza si riconosce nel tutto dei rapporti umani e se questi permettono all’uomo di vivere secondo i dettami della coscienza. L’ordine sociale non può quindi restare com’è ma deve essere in modo da permettere al soggetto in cui la conscience de soi è prevalsa (Jean-Jacques e non il nipote di Rameau) di potervisi rispecchiare. Il soggetto deve potersi riconoscere nell’ordine, ossia in una dimensione collettiva che gli appartenga; è giusto che sia così, che così debba essere poiché il soggetto è al presente scisso rispetto alla società, al suo mondo, e sente questa scissione come dolore: e questo è ingiusto, è ingiusta la scissione e lo è la sofferenza che produce.

         

 

VI.

 

Ma come può realizzarsi un ordine sociale che non è mai esistito e come può la posizione dell’io verso il tutto esser sentita al modo di una lacerazione interiore, un esser stato strappato via da qualcosa cui si era per natura uniti? La risposta può essere: proprio perché ci siamo trovati una volta nell’ordine per natura ossia nello Stato di natura, che è anteriore, in senso logico e cronologico, alla società. La natura è ordine, perché creata da Dio; l’uomo, creato da Dio, è nella natura e quindi nell’ordine: è l’uomo che poi infrange quest’ultimo volontariamente, solo in parte costrettovi dalla storia, dai bisogni. «Tout est bien, sortant des mains de l’auteur des choses: tout dégénère entre les mains de I’homme» recita il celebre inizio dell’Émile. E il Vicario: «Le tableau de la nature ne m’offroit qu’harmonie et proportions, celui du genre humain ne m’offre que confusion, désordre! Le concert régne entre les élements, et les hommes sont dans le chaos!» (Oeuvres, IV, 583).

Nel secondo Discours [quello sull’origine dell’ineguaglianza] e nello Essai sur l’origine des langues, Rousseau sembra attribuire ad un processo oggettivo, che coinvolge la natura e noi in un’evoluzione drammatica, rientrante nei disegni misteriosi della Provvidenza, la nascita del falso ordine, del disordine in cui vive l’uomo. Nell’Émile egli però ribadisce che l’uomo ha in ogni caso violato e viola continuamente l’ordine morale e naturale delle cose, che non è esterno all’uomo, non deve essere relegato in una dimensione puramente astratta. ll rapporto tra l’uomo e la natura possiede l’uomo dall’interno, noi siamo dentro l’ordine cosmico-naturale. La realtà del nostro mondo, storico-sociale, non potrà sottrarsi all’archetipo dell’ordre. Bisognerà riprodurre in essa la struttura ordinamentale già presente nel rapporto uomo-natura e che ora è chiara al pensiero: esso contrappone la natura alla società, ossia l’ordine pensato (come natura) al disordine esistente. Ma contrapporre l’ordine al disordine significa contrapporre l’unità alla molteplicità indiscriminata: il mondo governato dall’ordine è infatti uno, non c’è contraddizione tra le parti e il tutto o selvaggia indipendenza ma la più totale compenetrazione. L’uomo è (stato) compenetrato alla natura e non lo è alla società esistente, regno delle differenze, delle particolarità, gerarchie, privilegi, disuguaglianze. La società nuova sarà tale solo se saprà realizzare quella compenetrazione, rendere uno l’uomo, ossia creare la sintesi perfetta tra se stessa e l’individuo, lo Stato e il cittadino. Solo così, vale a dire in una società nuova, si supererà la scissione attuale dell’uomo rispetto al suo mondo e a se stesso, la doppia natura di questa divisione. La volontà generale deve perciò ristabilire l’ordine, creare l’unità dove non c’è mai stata, forgiare uomini nuovi, ovvero cittadini repubblicani, alfieri della vertu: una nuova pedagogia deve plasmare gli individui in funzione della loro unità indissolubile con il tutto (principio affermato da Rousseau sin dal Discours sur l’économie politique). L’ordine politico nuovo permetterà quindi alla coscienza di non sentirsi straniera in patria. La coscienza giunge perciò a sapere se stessa o meglio a sentirsi nell’ordine e nell’unità con il proprio mondo, quello creato dall’uomo, solo attraverso la consapevolezza della scissione e il suo superamento.

          Lo schema interpretativo qui delineato fa di Rousseau un evidente precursore dell’Idealismo, di Fichte e Hegel, con tutti i rischi che ciò comporta: del resto, è impossibile non considerare Rousseau un precursore. Sembra comunque innegabile l’importanza che la problematica sopra accennata ha per il suo pensiero. Rousseau muove dall’intuizione simpatetica dell’unità sentimentale-morale del soggetto con la natura, che è ordine; il soggetto è nell’ordine e si sente nell’ordine. La conseguenza è che quando il soggetto non si sente più nell’ordine, avverte che si è spezzato un equilibrio originario. Questa difettività deve essere recepita come perdita di qualcosa che già si possedeva, di una dimensione originaria, oggettiva, nostra, dalla quale l’io è stato separato, ma dall’interno, con dolore, come dalla sua propria vita: l’io è stato diviso in due, scisso tra una vita vera ed una falsa, être e paraître. La differenza del soggetto rispetto agli altri e al mondo è allora conseguenza della scissione del soggetto dagli altri e dal mondo e deve essa stessa esser vissuta come scissione, rottura: infatti l’unità che il nuovo ordine sociale creerà farà sparire le differenze tra gli uomini, che saranno solo funzionali, stabilite dalla volontà generale per i suoi fini.

 

 

 

VII.

 

In Rousseau vi è dunque una concezione unitaria, monistica del rapporto fra la parte e il tutto, che deve realizzarsi in un ordine nel quale non possano esservi differenze (e quindi una vera posizione autonoma delle parti manca) ma solo l’unità ugualitaria nel tutto e per il tutto. La realtà presente è giustificata dai difensori dell’ordine costituito in modo che la disuguaglianza appaia l’ovvio risultato di differenze di stato e ceto, nascita, cultura, doti. Da una prospettiva roussoiana, si tratta invece di dimostrare che le differenze sociali e quindi la differenza come concetto del rapporto tra soggetto e soggetto, tra soggetto e oggetto, è solo il prodotto di una scissione dall’unità originaria dell’uomo con sé e il mondo, di un atto anteriore, ingiusto e immotivato: bisogna quindi ricreare l’unità, ripristinare l’ordine, ritornare alla natura ovvero all’essenza perduta. Ma la realizzazione dell’Ordine non avviene sic et simpliciter dall’esterno, è possibile solo se il soggetto coglie se stesso in via preliminare come coscienza, se raggiunge questo grado superiore di consapevolezza, se si eleva a questo sapere di verità, che è l’unico che conti. Quindi coscienza consapevole della sua scissione dal mondo; della necessità, quasi un dovere, di superarla, in nome dell’unità originaria dell’io nell’ordine; della possibilità di realizzare il superamento solo in un ordine sociale nuovo, una volontà generale che – mediante la legge –  educhi l’individuo secondo il principio dell’ordine e quindi ne coarti gli istinti, lo «snaturi» per renderlo felice, per far sì che non sia più un individuo isolato, la cui coscienza lo fa sentire diviso da se stesso e dalla Città.

          Ma nella società monistica, che si uniforma alla volontà generale, si risolve compiutamente il dualismo tra la conscience de soi e il mondo sociale esistente? Si può dire che la risoluzione sia nonostante tutto parziale perché in Rousseau rimane sempre aperta la possibilità di un rapporto diretto della coscienza individuale con se stessa, con la natura, con la Divinità, rapporto molteplice ed unitario al tempo stesso, vissuto da Jean-Jacques in persona nell’ultimo periodo della sua vita, nella solitudine più profonda, come testimoniano Les réveries du promeneur solitaire. E la possibilità si mantiene perché il concetto roussoiano dell’ordine non è ricavato dallo studio della società o della storia, ma dalla intuizione della natura creata da Dio, da una considerazione simpatetica della creazione: l’ordine esiste oggettivamente nel rapporto uomo-natura – Jean-Jacques lo sente – e da ultimo impronterà di sé la società nuova. ll progresso dell’umanità è stato in realtà un regresso graduale dall’ordine iniziale: l’ordine preesiste allo sviluppo, al progresso e si mantiene come essenza, natura profonda delle cose, che si tratta si svelare, di comprendere mediante la conoscenza di sé. L’uomo conserva allora intatta la possibilità di cogliere l’ordine soggettivamente, evadendo dalla sfera politica, lasciandola del tutto da parte, anche se si tratta di una soluzione di ripiego, non ottimale; di ritrovare direttamente, nel dialogo con la propria interiorità, il significato della vita al di là del tempo trascorso, nella presenza della natura e di quella Divinità cui Rousseau ha sempre tributato una fede sentimental-panteistica ma genuina. Si può dire allora che, anche da questo lato, Rousseau abbia dato un contributo all’idea moderna della coscienza, un’idea però di tipo intimistico, esistenziale (Jean Wahl [1888-1974, filosofo esistenzialista francese]), che non si preoccupa di risolvere la scissione nella politica e non crede nel mito della società nuova: è l’aspetto per così dire leopardiano del sapere di sé (mi riferisco al Leopardi dell’Infinito) o, per la sottile aura decadente che contiene, proustiano.

         

 

VIII.

 

Nel pensiero di Kant non appare invece un rapporto drammatico, di vera e propria scissione, tra l’uomo e il mondo; non c’è quindi il problema di definire la «coscienza» contro il mondo per poi sentire l’esistenza stessa, la vita come problema della coscienza dilacerata che soffre e lotta. La filosofia di Kant accetta a viso aperto l’impossibilità per l’uomo di essere felice su questa terra e dichiara che occorre invece «rendersi degni della felicità» ossia vivere secondo l’etica del dovere, che presuppone la convinzione dell’irraggiungibilità degli scopi elevati che l’uomo si propone, data la sua natura di ente finito, costretto dalla ragione ad esser consapevole dei propri limiti. Dal punto di vista di Kant, il limite che l’uomo trova sempre in ciò che pensa e fa va accettato perché è destino dell’uomo quello di trovare sempre un limite di fronte a sé. ln Rousseau invece traspare la convinzione che il limite sia in primo luogo ingiusto perché la coscienza che lo percepisce è stata scissa dal tutto: questo fatto inaudito ha posto all’io un limite, che non può più essere accettato, una volta che l’io cominci veramente a rientrare in sé, ossia a sapere chi è. Dunque, la consapevolezza di sé che Kant propugna nel soggetto deve essere in primo luogo consapevolezza della finitezza e quindi della necessità della sua delimitazione. La ragione non è una folgore che tutto sconvolge ma una luce diffusa che, dove può giungere, illumina indefinitamente ossia articolando senza posa il materiale preso in esame e ordinato. Secondo Kant, l’io è un punto fermo di contro alla molteplicità del reale, non come semplice io empirico, che sarebbe oggetto tra gli oggetti, ma come «io pensante», che si eleva alla coscienza di sé da un punto di vista teoretico (come coscienza, Bewusstsein) ed etico (come «volontà  buona»). L’io-penso che accompagna necessariamente tutte le rappresentazioni del soggetto, può essere inteso solo come una «rappresentazione» indeducibile dalla realtà sensibile: l’io-penso è quindi reine oppure ursprüngliche Apperzeption [“percezione pura ossia originaria”] che coincide con l’autocoscienza [Selbstbewusstsein] del soggetto, la quale: «produce la rappresentazione  io penso, che deve poter accompagnare tutte le altre, è sempre la stessa in ogni coscienza [e] non può esser ulteriormente accompagnata da nessun’altra. Io definisco l’unità di quella rappresentazione anche unità trascendentale dell’autocoscienza, per caratterizzare con essa la possibilità della conoscenza a priori» (Kritik der reinen Vernunft, B, 132Critica della ragion pura). Il soggetto è quindi coscienza, l’io pensante nel significato pieno del termine è autocoscienza. Si tratta allora di cogliere, ai fini del nostro tema, gli elementi di questa identità, che ha il significato di un criterio generale (ctr. KrV, A, 118, 123-4; B, 404-5 [A e B indicano la prima e seconda edizione della Critica]).

          Già nella sua determinazione generale, questo criterio non sembra ricondurre il rapporto tra Ich e Bewusstsein a quello roussoiano tra moi e conscience, nella quale sembrano compresi e mescolati quei due momenti dell’interiorità che in tedesco si rendono con Gemüt e Bewusstsein. La coscienza nel senso di Kant è finalizzata ad uno scopo teoretico, ovvero strettamente legato alla possibilità della conoscenza del mondo esteriore. Stabiliti l’ambito e i limiti della conoscenza, definiti i concetti, si potrà poi definire il soggetto dal punto di vista morale ossia pratico (mentre in Rousseau c’è una connessione interiore tra etica e teoresi già tramite l’ideale della conoscenza di sé come unica vera, perché giusta). La conoscenza, nel senso di Kant, non è possibile se nel soggetto non si realizza l’unità della molteplicità ad essa esteriore e questa unità è per l’appunto opera della coscienza, che rappresenta il soggetto a se stesso, in maniera logicamente indipendente da ogni esperienza sensibile. La coscienza garantisce quindi l’unità del soggetto con sé, di fronte all’accettata e impenetrabile molteplicità del reale. La coscienza non è allora il luogo nel quale l’io si ritrovi dopo esser fuggito dal mondo, ma è ciò che costituisce il fondamento della comprensione del mondo, accettato nella pluralità delle sue determinazioni esterne, ossia come regno delle differenze. Nella coscienza pura dell’io le differenze non sono distrutte ma spiegate, grazie all’unità che l’io cosciente ha con sé e che gli permette di rappresentarsi l’«unità formale» del mondo esterno. ll suo sapere di sé (per usare la terminologia idealistica), il sapersi come coscienza, permette all’io di accettare il mondo e comprenderlo dal suo punto di vista. La funzione della coscienza è quindi di primaria importanza poiché essa costituisce il fondamento della possibilità di conoscere, un fondamento trascendentale e non empirico. Non si puo dire, invece, che la conscience di Rousseau sia oggettivamente trascendentale: sembra invece ora immanente ora trascendente, rispetto al mondo: è nell’ordine ma contro e al di là del mondo non ancora ordinato.

 

 

IX.

 

          Dunque il soggetto pensato da Kant riesce a conoscere non perché sappia che la sua conoscenza corrisponde all’oggetto com’è in sé, ma perché sa di conoscere sempre allo stesso modo, ovvero perché possiede una coscienza che «unisce in una rappresentazione il molteplice, a poco a poco intuito e poi anche riprodotto» (KrV, A, 103). La coscienza non coincide quindi con l’atto di pensiero ma ne rende possibile l’oggetto, rende possibile a quest’atto di tradursi nel concetto dell’oggetto, di cogliere «l’unità formale» del molteplice consentita all’uomo che pensa (ivi, A, 105). La coscienza costituisce perciò la «condizione originaria e trascendentale» della conoscenza, la transzendentale Apperzeption, che è appunto «originaria, immutabile coscienza» (ivi, A, 107). La coscienza, nel suo significato di condizione trascendentale della conoscenza, è perciò immutabile e assolutamente in unità con se stessa; il mondo si muove attorno alla coscienza che resta però immobile o meglio intatta: non viene modificata dalla serie infinita degli oggetti, non segue il corso del mondo, che le passa per così dire attraverso, viene filtrato dalle rappresentazioni che la coscienza rende possibili al soggetto, nella forma di concetti.

Ma la coscienza ha anch’essa un suo proprio cammino, non è monolitica: prima di essere «trascendentale» è anche «empirica», non sfugge al costante dualismo kantiano di empirico e trascendentale. La definizione che Kant dà della «coscienza empirica» come coscienza immediata della realtà potrebbe applicarsi alla conscience roussoiana, tutta presa dalla sofferenza che le provoca il contatto diretto, brutale con il mondo. «La coscienza di noi stessi, secondo le determinazioni della nostra condizione, nella percezione interna è semplicemente empirica, continuamente mutevole, non può dar luogo ad alcun Sé che sia stabile o permanente in questo flusso di fenomeni interiori, ed è usualmente definita come senso interno  o  appercezione empirica» (ivi, A, 107). La coscienza empirica è sempre erratica, poiché dipende dallo stato o condizione (Zustand) nella quale il soggetto si trova. Lo stato è quello di chi è posto di fronte ad una folla indiscriminata di eventi che restano tali anche nell’interiorità, ridotta ad esser mutevole come gli avvenimenti esteriori con i quali è in contatto. Ma non è proprio quella la condizione del soggetto ad esser prodotta dal mondo in cui vive, o meglio, non è proprio quel rapporto tra la condizione del soggetto e il mondo a costituire (roussoianamente) la sofferenza spirituale del soggetto e quindi la sua verità? La coscienza interiorizza immediatamente ciò che è esterno anche se non vi si riconosce. Ma proprio la semplice interiorizzazione non è di per sé sufficiente, secondo Kant, a fondare saldamente la coscienza su se stessa. La coscienza, che nell’interiorizzare è ancora empirica o solo psicologica, deve esser posta in relazione alla coscienza di sé trascendentale, che sola dà pieno significato all’io. «Ma ogni coscienza empirica ha una relazione necessaria con una trascendentale, antecedente ogni esperienza particolare, ossia la coscienza di me stesso, come appercezione originaria. È quindi necessario che nella mia conoscenza ogni coscienza appartenga ad una coscienza (di me stesso)» (KrV, A, 117). Questa coscienza superiore o più completa è appunto «autocoscienza» (ivi, A, 118).

         

La coscienza di sé empirica deve quindi esser fondata su una coscienza di sé superiore, elevarsi ad autocoscienza senza passare per il mondo esterno: si tratta di un iter che viene ricostruito nel soggetto e ne caratterizza in modo peculiare l’interiorità. Questa ultima trionfa infatti nei confronti del dato empirico ma senza eliminare (né pretendere di eliminare) la differenza con esso. Le determinazioni kantiane dell’interiorità del soggetto sono sempre dualistiche. Come c’è una distinzione tra coscienza empirica e trascendentale, cosi ce n’è una tra personalità in senso empirico o psicologico e personalità morale, che ha un fondamento trascendentale, ed è «la libertà di un essere ragionevole sottomesso a leggi morali» (Metaphysik der Sitten [Metafisica dei costumi], ed. Vorländer, Amburgo, 19664, 26. La personalità empirica va invece ricondotta alla coscienza empirica: essa è semplicemente «das Vermögen, sich der Identität seiner selbst in den verschiedenen Zuständen seines Daseins bewusst zu werden» [“la capacità di divenir cosciente dell’identità di se stesso nei diversi stati della propria esistenza”], identità di tipo immediato e transeunte). Il dualismo tra il soggetto e la realtà empirica, questa differenza, che non è scissione perché (dal punto di vista di Kant) non c’è nessuna unità originaria da ricostruire, si riproduce quindi all’interno del soggetto, esso stesso diviso in un momento empirico e trascendentale della propria coscienza. ll dualismo di empirico e trascendentale vale sia per i rapporti del soggetto con il mondo esterno che per quelli interiori al soggetto stesso, riguardanti il suo compito di fronte alla conoscenza e alla morale. È un modo di essere permanente del soggetto: la superiorità del trascendentale sull’empirico viene affermata mantenendo una differenza gerarchica tra i due momenti, senza che si crei l’unità di entrambi (un’unità che non sia formale), e quindi quell’unità dell’io con il mondo o dell’io con se stesso, che si suole definire (dall’Idealismo in poi) come unità di soggetto e oggetto. Quest’unità è a modo suo invocata da Rousseau ma è ben lontana dal pensiero di Kant, che aspira in primo luogo a usare la «critica» per chiarire i limiti e stabilire le differenze. Così il dualismo insuperabile del soggetto con l’oggetto in generale fa sì che la coscienza empirica entri in relazione (si tratta per l’appunto di Beziehung [relazione, rapporto] e non di Aufhebung [superamento]) con quella trascendentale dall’interno, senza passare per l’esterno, per il mondo, che pure deve aver costituito la «condizione» nella quale ci troviamo e che influenza il contenuto immediato della coscienza.

 

 

X.

 

          L’affermazione dell’autocoscienza non implica quindi un mutamento qualitativo del rapporto nel quale il soggetto si trova con il mondo: questo mutamento è affidato ad un ideale di perfezionamento morale solo tendenziale del genere umano. Per Kant è infatti chiarissimo il principio che: «Das Wesen der Dinge ändert sich durch ihre äussere Verhältnisse nicht [“l’essenza delle cose non muta sotto l’influenza dei relativi rapporti esterni”]» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, BA, 85Fondazione della metafisica dei costumi), per cui il «valore assoluto dell’uomo» prescinde totalmente da questi rapporti ed è il valore ciò in base al quale l’uomo deve essere giudicato «da chiunque, anche Dio» (op. cit., ivi). Qui non trova spazio una intuizione simpatetica della miseria dell’io, prodotta dai rapporti sociali, ossia esterni al soggetto, qualitativamente diversi dalla sua essenza, miseria percepita immediatamente nella coscienza e che provoca una presa di coscienza proprio sotto la spinta di quei rapporti esterni.

Nella prima versione del Contrat, Rousseau scrive che la natura dell’uomo, la sua essenza di creatura posta da Dio nell’ordine, comincia ad alterarsi dall’esterno già nello stato di natura, quando evolve verso forme sempre più complesse, che alla fine sfociano nel «corpo sociale». In quest’ultimo, società ancora ingiusta, non sottoposta ai dettami della ragione e della volontà generale, della legge, domina un caos di rapporti senza misura e senza regola. La natura magmatica assunta via via dallo stato di natura si mantiene perciò anche nel «corpo sociale» e anche in esso vale la forma di vita, ossia il tipo di esistenza «relativa» prodottosi infine nello stato di natura: un’esistenza che dipende «de mille autres rapports qui sont dans un flux continuel» per cui l’uomo «ne peut jamais s’assurer d’être le même durant deux instants de sa vie» (Oeuvres, III, 282). Il disordine prevale sull’ordine e penetra nella coscienza. Qui il soggetto si trova di fronte al flusso dei rapporti ed enti esterni, allo stesso modo del soggetto kantiano. Ma mentre questi rapporti in Kant sono neutri, cioè vengono considerati innanzitutto come puri oggetti di una conoscenza possibile, in Rousseau questa neutralità non esiste. ll «flusso» del mondo esterno è tale da penetrare immediatamente con violenza nella coscienza del soggetto, che non può nemmeno esser sicuro di essere lo stesso «in due istanti successivi» della sua vita. È questa la coscienza empirica di cui parla Kant, che registra il mutare esterno e non è nient’altro che quest’atto. Ma in Rousseau questa coscienza è già la coscienza, non un suo grado subordinato. Infatti, è proprio nel rapporto con il mondo, capace di dividermi a me stesso nei due istanti successivi, che io riscopro la mia unità interiore, e quindi è solo dopo questa esperienza – e non prima di ogni esperienza –  che la mia coscienza giunge al sapere di sé e sente, intuisce la sua natura profonda, l’ordine al quale deve appartenere. La scissione educa la coscienza, la spinge a cercare la propria essenza autentica.

In termini kantiani si dovrebbe allora dire che in Rousseau l’essenza delle cose può esser mutata dai rapporti esterni: l’essenza dell’uomo è sfigurata dai rapporti sociali che mutano il bene in male, fanno dell’uomo buono un uomo cattivo. Proprio per questo, l’interiorità del soggetto roussoiano mira a ricostituire l’unità di sé con il mondo, perché sente sin dall’inizio del processo che lo conduce a prender coscienza, che il mondo non è neutrale ma ha parte essenziale in questo processo, lo mette in moto a causa della qualità del rapporto che ha stabilito con l’io. Il mondo divide il soggetto a se stesso, la divisione sparirà quando il mondo non eserciterà più simile alienante funzione; il mondo nega l’essenza del soggetto che però, proprio sentendo questa negazione, è spinto a riaffermare la sua vera essenza, la sua natura, l’archetipo immanente in una società nuova. La conoscenza pura è nel soggetto roussoiano inficiata dal fatto che il mondo (la società) ci ha già conosciuti, collocati a tempo e luogo, impedendoci di essere noi stessi: non dobbiamo allora preoccuparci tanto del conoscere e del suo metodo (le scienze, le arti) quanto di sapere noi stessi, di conoscerci dopo aver eliminato la barriera che il mondo ha creato dentro di noi, tra il nostro essere (ridotto al paraître) e la sua essenza.

 

 

XI.

 

          La dialettica roussoiana della coscienza sembra svolgersi nell’ambito di quella che per Kant è la «coscienza empirica» per poi concludersi nell’utopia, nel mito della società nuova, nella quale l’uomo cosciente di sé, che per ora si oppone al mondo immediatamente e nel silenzio della coscienza, vedrà come cittadino riconosciuta la sua qualità di persona, il suo valore assoluto. Ma, si dirà, Kant non ha riconosciuto anch’egli nella dignità della persona, nel principio universale dell’umanità, un valore morale assoluto e non ha, per di più, attribuito proprio a Rousseau il merito di averglielo fatto apparire con chiarezza? Quali che siano stati i riconoscimenti di Kant agli stimoli spirituali ricevuti da Rousseau, resta il fatto che il concetto della coscienza, inteso non nel senso generico di interiorità, animo, etc. ma specifico, pregnante, che qui si è cercato di delineare, gioca un ruolo diverso nella concezione etica dell’uno e dell’altro.

          In Rousseau la coscienza è giudice della moralità del comportamento umano: è il «principio innato» in base al quale si decide della bontà o meno delle azioni nostre e altrui, tenendo presente però che i suoi giudizi sono dei «sentimenti» e non degli atti di volontà (Oeuvres, V, 598-599). Non per nulla essa è un «istinto divino» che stabilisce in noi ex natura il criterio del bene e del male. La legge morale, intesa nel senso più ampio del termine, dipende dunque per Rousseau dal sentimento morale, dal coeur, che si riconosce nel mondo ma è a casa sua nella coscienza, che gli consente di giudicare. In tal modo la moralità delle azioni dipende però dalla coscienza di ciascuno, ossia dalla soggettività, che sarebbe veramente sfrenata se Rousseau non credesse in Dio e nel fatto che Egli ha posto in noi come istinti i principî del bene e del male. ln ogni caso, la concezione di Rousseau, che situa la moralità delle azioni nel principio della coscienza, non è stata affatto recepita da Kant, per il quale la legge morale è riconosciuta e attuata dalla volontà (buona) non dalla coscienza. ln Rousseau manca un concetto specifico della volontà. Egli è il filosofo della volontà generale, nella quale si ha un determinato modo di intendere il rapporto tra soggetto e oggetto della volontà: nella volontà generale essi per l’appunto coincidono, altrimenti la generalità del volere non si realizzerebbe (Contrat, II, VI). Ma il volere in quanto tale non è definito da Rousseau. Il Vicario Savoiardo dice che «le principe de toute action est dans la volonté d’un être libre, on ne saurait remonter au delà» (Oeuvres, IV, 586) ma la volontà «m’est connue par ses actes, non par sa nature» (ivi, 576). Che cos’è dunque la volontà? Sappiamo solo come agisce e possiamo allora distinguere quella particolare, egoistica, dell’individuo dalla volontà generale, la volontà politica, sovrana, volere che vuole se stesso, sintesi di soggetto ed oggetto. Rousseau afferma dunque la dignità dell’uomo da un lato esaltando più la coscienza che la libertà della sua volontà individuale, dall’altro la libertà politica che si realizza ad opera della volontà generale.

          Kant invece ribadisce quella dignità affermando la libertà (trascendentale) della volontà individuale, che costituisce la personalità in senso pieno e coincide con la ragion pratica stessa: «der Wille ist ein Vermögen,  nur dasjenige zu wählen, was die Vernunft, unabhängig von der Neigung, als praktisch notwendig, d.i. als gut erkennt» (Grundlegung, BA, 38: “la volontà è una capacità di scegliere solo ciò che la ragione, indipendentemente dall’inclinazione, riconosce come necessario, ossia buono, dal punto di vista pratico”). ln tal modo si realizza la libertà autentica dell’uomo, non quella empirica o psicologica ma quella trascendentale (KpV [Critica della ragion pratica], A, 52, 173). Per Kant quindi la norma del giusto e dell’ingiusto, il criterio del bene e del male non è dato da un senso morale innato, dal Gemüt [sentimento], che egli considera in questo campo come una vera e propria aberrazione (Grundlegung, BA, 32 ss.; 59-60; KpV, A, 127 ss., 134 ss.). Quel criterio non è dato dalla coscienza, ma dalla volontà determinata dalla «legge razionale» (KpV, A, 104 ss.). Nella Grundlegung e nella KpV, il termine Bewusstsein è scarsamente usato e non ha un significato pregnante (cfr. p.e. KpV, A, 286-7). Anche nella celebre conclusione della Critica della ragion pratica, quando Kant parla del cielo stellato e della “legge morale in me”, l’io che contiene questa legge è definito con termini generici e generali: unsichtbares Selbst, Persönlichkeit [Sé invisibile, personalità], senza nessun riferimento alla coscienza in senso stretto: essa si è qui risolta nella volontà razionale, che è l’unico termine di paragone della legge morale. La dignità dell’uomo non va quindi fondata sulla supposta ricchezza illimitata della sua coscienza, che è sempre soggettiva, ma nella «capacità di legiferare in modo universale, sia pure alla condizione di essere essa stessa [dignità] sottoposta a questa legislazione» (Grundlegung, BA, 87). La morale come espressione di una legislazione universale nella quale chi dà la legge si sottopone ad essa: l’autonomia del volere, eticamente orientato, e non la coscienza costituisce il fondamento della legge. E questo equivale per l’appunto a sostituire il principio del dovere a quello della roussoiana coscienza. È stato notato come la celebre invocazione kantiana al dovere (KpV, A, 154) assomigli a quella di Rousseau alla conscience, instinct divin, immortelle et céleste voix, etc. (Oeuvres, IV, 600). Piuttosto che inferirne una somiglianza di impostazione nella concezione morale dei due filosofi, sarebbe forse più opportuno riflettere sul fatto che, proprio nell’invocare l’elemento simbolicamente determinante dell’etica, è la sostituzione del concetto del dovere a quello della coscienza ad escludere in partenza una vera affinità.

          In conclusione, una considerazione dell’apporto di Rousseau e Kant alla coscienza moderna, che voglia delineare il contributo di entrambi al concetto stesso della coscienza, quale, in modo più o meno sfigurato e imbastardito, è prevalentemente inteso ancor oggi, dovrebbe, di contro ad un’opinione consolidata, separare Rousseau da Kant e vedere sopra tutto nel primo il corifeo della coscienza che ritrova se stessa nella consapevolezza della scissione e aspira a realizzarsi nell’ordine sociale giusto ossia nuovo. Come artefice della coscienza moderna, Rousseau è dunque oggi più attuale di Kant.



*    Relazione inviata al «Coloquio internacional», organizzato dalla Universidad hispanoamericana Santa María de La Rábida, sul tema «Jean Jacques Rousseau y la conciencia moderna», a La Rábida, 28 agosto-3 settembre 1978.  Il testo fu successivamente pubblicato dalla rivista ‘Trimestre’, XIII, marzo 1980, 1, pp. 39-60.  La rivista, fondata nel 1967, ha cessato da tempo le pubblicazioni. Emanava dal Dipartimento di storia e critica della politica dell’Università di Teramo, e fu per anni vivace luogo di ricerca culturale e dibattito scientifico interdisciplinare. Diede vita anche a pregevoli numeri monografici. Nelle citazioni le frasi e parole tra parentesi quadre sono mie.  Ho anche aggiunto in questa versione online la traduzione mia di alcune frasi in tedesco citate nel testo. Per semplificare la lettura  ho anche introdotto una suddivisione in paragrafi assente nell’originale,  il dato anagrafico di filosofi meno noti, quali Constant, Cassirer, Wahl, e qualche breve delucidazione -  il tutto fra parentesi quadre..