Il
mito rousseauiano del Legislatore
di Paolo Pasqualucci (*)
Νόμος καὶ βουλῇ πείθεσθαι ἐνὸς.
(Heracl., fr. 33, ed. Walzer)
“È legge pur obbedire alla volontà d’un solo”
I.
Il Contract Social è
considerato da gran parte della letteratura rousseauiana odierna un’opera
astratta, se non astrusa, la cui influenza effettiva sugli spiriti dell’89
sarebbe difficile a definirsi. Tuttavia, è in essa che Rousseau dà fondo alle sue
energie speculative ed elabora l’impianto teoretico essenziale della sua problematica
di pensatore politico. Così, se nelle Lettres écrites de la montagne si
occupa minutamente dei complessi problemi costituzionali e di governo dello
Stato ginevrino, lo fa proiettando in essi la teoria costruita nel Contrat.
La letteratura su Rousseau ha a lungo trascurato l’importanza teorica della
figura del legislatore elaborata nel Contrat: solo recentemente ha
cominciato ad essere riconosciuta, da quando si è incrinata l’immagine
tradizionale del Rousseau teorico della democrazia. La ricorrenza del
bicentenario della morte di Jean-Jacques, fornisce dunque l’occasione per
un’ulteriore riflessione su quello che si può definire il mito del legislatore[1].
Il legislatore appare sulla scena, nel
Contrat, per risolvere una situazione di crisi, creatasi nel processo di
formazione dello Stato, quando il popolo e la volontà generale sono in
contraddizione tra loro (OC, III, 380). ll legislatore che Rousseau pensa per
il bene dello Stato non è un corpo di rappresentanti, assemblea rivoluzionaria
o parlamento consolidato da una tradizione ma un individuo dalla
personalità ben definita, eccezionale, che non appartiene all’ordinaria
amministrazione della vita dello Stato, demandata al rapporto tra governo e
volontà generale. L’ordinaria amministrazione, la legislazione nel senso
corrente di normazione positiva, necessaria ed ininterrotta, non è che lo
sviluppo dei principi racchiusi nella legge fondamentale dello Stato, quella
data per l’appunto dal legislatore. Nella accezione rousseauiana egli non è
dunque il soggetto che legifera come corpo deliberante, ma colui che da solo
pone la legge ab initio: la legge costitutiva dello Stato, il fondamento
di tutto il diritto positivo.
Dalla storia e dal mito emergono gli
individui legislatori, i costruttori di popoli: Mosè, Ciro, Solone, Licurgo,
Romolo, Maometto (OC, III, 384, 499, 500). Ma Rousseau non sembra desumere solo
dall’esperienza storica la necessità di un fondatore dello Stato. Pur
richiamandosi alle figure storiche e mitiche dei legislatori, vuol dimostrarne
la necessità logica, vera e propria categoria del processo di
formazione dello Stato. La necessità di un legislatore e quindi dedotta dai
princìpi dell’ontologia politica roussoiana. Prima ancora che essere un
individuo in carne e ossa, un terribile Mosè, il legislatore è in un certo
senso un concetto, che permette di risolvere la contraddizione tra il
tutto e la parte, intrinseca al rapporto tra i singoli del popolo e la volontà
generale. La considerazione delle figure storiche e mitiche dei legislatori
consolida post festum ciò che il pensiero ha intuito come necessario[2].
Come si impone, dunque, la necessità
di un legislatore? Perché è la cosa stessa, il processo di formazione dello
Stato, a renderlo inevitabile? Come è noto, secondo Rousseau il passaggio dalla
natura alla società non è spontaneo: è il prodotto delle circostanze, dei
bisogni, il risultato di un disegno della Provvidenza non dello sviluppo
irresistibile di un naturale istinto dell’uomo a vivere in società[3]. La società in sé e per sé
rappresenta una realtà di violenza nei confronti della natura: è il regno
dell’arte, del raziocinio, della volontà, della disciplina mentre la natura
rimanda alla spontaneità del sentimento (Rousseau sublima l’istinto nel
sentimento) o ad una essenza atemporale, una ἀρχή non tramutatasi in storia, una pura forma delle cose come
avrebbero dovuto essere. Il fatto che la società sia diventata per l’uomo
seconda natura, costituisca per lui il punto di partenza evidente, sensibile,
esteriore della sua vita, non è tale da eliminare mai del tutto – agli occhi di Rousseau – l’innaturalità che
le è intrinseca. L’uomo però aspira all’unità con se stesso e il suo mondo
mentre il dualismo di società e natura lo conduce ad un’intima lacerazione[4]. L’unità con se stesso, che
risulta innanzitutto dall’esperienza interiore del soggetto, l’uomo non può
realizzarla solo nella propria coscienza che – per esser coscienza, mondo
interiore e per creare all’io un’unità – lo mantiene in opposizione al mondo,
esteriorità e disgregazione. L’unità può realizzarsi appieno solo se il dualismo
di natura e società viene risolto nell’ambito stesso della società, della
natura seconda: solo una società nuova, giusta, razionalmente concepita, può
rendere all’uomo la sua libertà, esteriore e interiore, può ricondurlo al suo
archetipo e sublimare in se stessa la natura. Ma una società nuova non nasce da
sola, deve esser pensata, per poter costituire un ideale e diventare oggetto di
fede, aspirazione rivoluzionaria. È perciò compito del pensiero, guidato da una
retta intenzione, dalla vocazione al bene, da un impulso di rigenerazione
morale (il pensiero di Rousseau secondo Rousseau), indicare le tappe di questa
ricostruzione dell’uomo, forgiare i concetti che permettano la nascita di un
uomo nuovo, sociale in modo non innaturale.
Il pensiero del teorico politico deve
dunque mostrare la possibilità dell’unità dell’uomo con il suo mondo, là ove
regna invece il caos di rapporti sociali indeterminati[5]. La realizzazione dell’unità
nella prassi è lo scopo del pensiero, che costruisce categorie improntate este
stesse all’unità. I concetti del patto sociale, Souverain, della
volontà generale, della legge vogliono far apparire un’unità perfetta della
parte con il tutto, del soggetto con l’oggetto, una sintesi in cui ogni
molteplicità, ogni possibilità di contraddizione sia a priori eliminata:
sembrano così improntati ad un unico schema. Nel patto sociale, infatti, ognuno
si aliena totalmente con tutti i suoi diritti alla comunità eppure resta libero
«come prima»; si dà a tutti e quindi a nessuno, «non obbedisce che a se stesso»
(OC, III, 360). La perfetta reciprocità dell’alienazione di diritti fatta da
ciascuno, implica che nessuno sia veramente oggetto di un contratto da parte di
un altro: è come se ognuno contrattasse con se stesso. ll soggetto non subisce
quindi le conseguenze di un vero rapporto con l’altro, non si sdoppia,
non esce da se stesso, resta uno. Ovvero: dato lo scopo cui mira, il
contrattare reciproco che dà origine alla società può esser concepito solo
secondo la finzione dell’unità del soggetto con se stesso.
ll contrattare è in sè molteplice ma
ha significato politico solo se mantiene l’unità di ognuno con sé, nei riguardi
di tutti. L’uguaglianza, che si presuppone nei soggetti contraenti, tutti nati
liberi, deve esser tale da trasformare la bilateralità dell’atto in
unilateralità. ll negozio è quindi con se stessi e, a ben vedere, non è nemmeno
un negozio, un contratto, se non altro perché conduce all’estinzione, per così
dire, della volontà individuale contraente nel tutto unitario, nell’unità del moi
commun che si è creato per opera del patto sociale. L’unità dell’io che
entra in società viene ribadita nel patto sociale ma viene garantita e tutelata
non dal patto in sè – momento transeunte, volontà in cammino – ma dal risultato
del patto, l’io comune. L’unità del tutto, il tutto sociale come unità che
realizza l’ordine, garantisce la parte, l’individuo in se stesso unitario,
integrandolo quasi completamente a sè[6]. La contrattazione con se stessi, immaginata
all’origine della società, non razionalizza secondo categorie giuridiche il
processo di formazione della società. Al contrario, dissolve quelle categorie,
riducendole a figure della coscienza del soggetto teso alla ricerca della sua
unità, trasformandole in qualcosa che è interiore al soggetto, dal momento che
contratta solo con se stesso per poi trovarsi interiorizzato al tutto
sociale nuovo, la cui origine è stata pensata secondo la finzione del
contrattare reciproco: «ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni
suo potere sotto la direzione suprema della volontà generale; e riceviamo come
corpo ogni membro come parte indivisibile [inalienabile, I vers.] del tutto»
(OC, III, 361).
L’esistenza delle volontà degli
individui, miranti alle stesse cose (bene e libertà) come se fossero un’unica o
generale volontà, induce il pensiero a proclamare l’esistenza di un «corpo
morale », onnipotente e sovrano, un individuo collettivo indipendente, nel suo
concetto, dalle parti che lo compongono, mentre le parti non sono indipendenti
da esso. Infatti, la volontà generale, che è la volontà dell’io comune, non è
vincolata a quella dei singoli che pur costituiscono – essi soli – l’io comune,
la Cité; non dipende in nessun modo da alterni rapporti di maggioranza e
minoranza (OC, III, 362, 363, 371, 374). La volontà generale si identifica con
il bene comune, l’interesse generale del corpo sociale (OC, III 371, 437-439).
Il fatto che Rousseau caratterizzi il bene comune come volontà, dimostra come
per lui quel bene scaturisca dall’interno stesso dell’associazione e
ricomprenda poi gli associati al suo interno, li subordini a sé: i singoli
hanno il dovere di attuare il bene comune, devono interpretare rettamente la
volontà generale, che dà al tutto il suo significato unitario e ordinato. Se la
volontà generale si trova a dover costringere gli individui, secondo Rousseau
«li obbliga ad essere liberi» (OC, III, 364), cioè li obbliga ad essere come
devono essere, come oggettivamente sono – liberi – anche quando non lo sappiano
e magari non lo vogliano. La libertà dell’uomo nel tutto, la libertà «civile»,
è funzionale all’unità del tutto. La contrapposizione possibile tra volontà
generale e volontà particolare (de tous), che il pensiero del teorico
politico non può non prendere in considerazione, e che richiede l’intervento
del legislatore, non implica comunque una contraddizione decisiva nei confronti
dell’idea di un’unità indissolubile del tutto con la parte. La contrapposizione
stessa è pensata come funzionale all’unità: dal punto di vista di
Rousseau essa non significa che l’unità manchi ma solo che il singolo può
deviare dall’unità che già esiste oggettivamente nel tutto sociale nato
dal patto, violando i comandi della volontà generale, espressi nella legge.
L’unità dell’io con il tutto resta inalterata cosi come lo è in sé la volontà
generale, qualsiasi cosa facciano o pensino i singoli. La differenza tra
volontà generale e particulière non implica quindi una scissione del
tutto sociale ma al contrario ne garantisce l’unità dal lato della volontà
generale, il valore collettivo che si incarna all’individuo indipendentemente
dalla volontà di quest’ultimo. Significativamente, il legislatore non dovrà
stabilire chi abbia ragione tra il particolare e l’universale, tra le due
volontà, ma dovrà attuare la volontà generale su ogni altra, farla parlare nei
confronti dei singoli[7].
L’indivisibilità e l’inalienabilità
dell’individuo dal tutto significa perciò che l’unità dell’individuo con il
tutto è, per Rousseau, qualcosa di oggettivo, un valore, una realtà che può
essere misconosciuta ma mai modificata, che esiste in sé e per sé e costituisce
l’essenza stessa della sovranità: «il corpo sovrano (le Souverain), non
essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha e non può avere alcun
interesse contrario al loro; non ha perciò alcun bisogno di dare garanzie nei
confronti dei sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti
i suoi membri... « Le Souverain, par cela seul qu’il est, est toujours tout ce
qu’il doit être » (OC, III, 363). La sovranità è « l’exercice de la volonté
générale » (op. cit., 368) e quindi « un pouvoir absolu » del corpo politico su
tutti i suoi membri (op. cit., 372). L’esercizio stesso della sovranità è per
così dire interno al corpo sociale, nel senso che il Souverain
identifica in se stesso l’essere e il dover essere del bene comune e non è
sottoponibile a verifiche basate sul rapporto di maggioranza e minoranza. La
sovranità è una, inalienabile, indivisibile come la volontà generale, come
l’individuo del tutto, e il tutto è l’individuo sovrano. Ma questo è appunto
possibile perché il soggetto e l’oggetto della sovranità vengono identificati
ovvero ridotti ad unità; il soggetto e la volontà generale e 1’oggetto è
costituto dai sudditi, che compongono anch’essi la volontà generale: gli
interessi particolari dei singoli non possono che esser superati da quello
generale, che per definizione li fa propri, così come il tutto, il generale, fa
proprio il particolare, rendendolo indivisibile da sé.
Il Leitmotiv teoretico dei
concetti politici di Rousseau mira quindi in modo costante, ossessivo alla reductio
ad unum. Anche il concetto della legge positiva non può sfuggire alla
regola e in esso appare l’identificazione di soggetto e oggetto che caratterizza
l’esercizio della volontà generale, appare la ricerca di un’unità assoluta
degli elementi costitutivi della legge. La legge, più che la «esistenza» e la
«vita» del corpo sociale ne concerne «il movimento e la volontà» (OC, III,
378). La sovranità è il modo di essere del tutto (o è sovrano o non è), la
legge è atto di sovranità, pronuncia che riguarda l’azione: essa è
necessariamente una «delibera del popolo» mentre la sovranità è il modo in cui
il popolo è – cioè sovrano – una volta che si sia identificato con una
volontà generale. Ma il carattere pratico, determinato, della legge non è tale
da spezzare l’unità del tutto con la parte, unità della quale la legge è sempre
l’espressione. La delibera del popolo, che si chiama legge, ha per oggetto il
popolo stesso, è generale e astratta: soggetto e oggetto della delibera
coincidono (così come, nel concetto della volontà generale, coincidono il
soggetto e l’oggetto, dati dalla generalità). «Ma quando tutto il popolo
delibera su tutto il popolo, non considera che se stesso, e se si costituisce
allora un rapporto, esso è tra l’oggetto intero, considerato da un certo punto
di vista, e l’oggetto intero, considerato da un altro punto di vista, senza
alcuna divisione del tutto. Allora la materia sulla quale si delibera è
generale come la volontà che delibera. È questo atto che io chiamo legge » (op.
cit., 379). La legge deve perciò riunire « l’universalité de la volonté et
celle de l’objet » (ivi).
La legislazione rappresenta il punto
d’arrivo, quando lo Stato si muove e cammina: in essa l’entità sovrana che si
chiama corpo politico si realizza nella prassi, vive. Il fatto che sia solo la
legge a governare, caratterizza il nuovo Stato: è un tutto unitario perché
retto dalla volontà generale, ma quest’ultima può parlare, per l’appunto, solo
attraverso la legge, generale e astratta. La legge non può occuparsi di
qualsiasi cosa, come pensava Aristotele (Ethica Nicomachea, 1129b: «οἱ δε νόμοι ἀγορεύουσι περί ἀπάντων»), ma solo
dei soggetti come «corpo» e delle azioni in quanto «astratte» (op. cit., ivi).
Perchè porre simile limitazione alla legge? Perchè la legge è l’ultimo anello
di una catena concettuale in cui la ricerca dell’unità conduce alla fede nella
possibilità di un corpo sovrano, le cui pronunce facciano interamente
astrazione dall’individuo singolo, concreto e imperfetto, sublimato invece nel
tipo generale, nel «corpo», di cui la legge rappresenta l’unica e rigorosa
misura. Ma proprio quando si giunge al momento di legiferare, la possibilità
della non coincidenza reale tra volontà generale e particolare si impone al
pensiero del teorico della politica: quando si giunge all’attuazione pratica
della volontà generale nella legislazione, c’è il problema di conoscere effettivamente,
di interpretare sicuramente il bene comune ossia la volontà generale. L’unità
del tutto sembra allora dividersi: da un lato il tutto con la sua esigenza
assoluta di verità, dall’altro i molti con i loro interessi. Ma poiché l’unità
del tutto non può mai eflettivamente esser spezzata (altrimenti ciò
significherebbe che non c’era mai stata), allora occorre pensare in qual modo
l’unità possa esser mantenuta ovvero tratta alla luce. Di questo compito è
incaricato il Legislatore.
II.
Dopo aver definito il concetto della
legge (OC, III, 378 ss., cit.) Rousseau ribadisce che il popolo « soumis aux
loix en doit être l’auteur », dal momento che sono gli associati ex pacto
a regolare le condizioni del vivere comune. Ma proprio a questo punto
cominciano i problemi. Come verrà posta concretamente in essere la
legislazione? Ci sarà un «comune accordo» o una «ispirazione subitanea»? E il
corpo politico possiede un «organo» capace di enunciare le sue volontà? La
volontà generale si identifica con il corpo politico ma manca evidentemente
l’istituzione, l’organo capace di farla parlare, né il corpo politico, che
coincide con il popolo, può esser considerato esso stesso «organo» della
volontà, cioè di se stesso. «Una moltitudine cieca, che spesso non sa ciò che è
bene per essa, come potrebbe realizzare da sé un’impresa così grande e difficile
quale un sistema di legislazione? Da sé il popolo vuole sempre il bene ma da sé
non sempre lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la
guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere le cose come sono, qualche
volta come devono apparirle... I singoli vedono il bene che non vogliono: la
generalità (le public) vuole il bene che non vede. Tutti hanno
ugualmente bisogno di guide. Bisogna costringere gli uni a conformare le loro
volontà alla loro ragione; insegnare all’altra a conoscere quello che vuole.
Allora dalla pubblica consapevolezza appare l’unione dell’intelletto e della
volontà nel corpo sociale; da ciò l’esatto concorso delle parti e infine la
maggior forza del tutto. Ecco da dove nasce la necessità di un legislatore»
(OC, III, 380).
Il bene comune è oggetto dei desideri
ma non del sapere: lo si vuole, ma non lo si conosce. Per lo meno, il soggetto
collettivo (volontà generale-popolo) aspira al bene senza possederlo tramite
una conoscenza certa, poiché è dotato di volontà non di intelletto. Come si può
aspirare a ciò che non si conosce? Non si sa com’è ma si sa che c’è:
il bene della collettività è un valore la cui esistenza viene assunta come un
postulato. Del resto, il pensiero non può non ammettere l’esistenza di un bene
supremo e comune agli uomini associati, per quanto sia poi diflicile
determinarne il contenuto: in nessuna società si negherà di voler realizzare il
bene comune. Il soggetto collettivo, per quanto pensato all’insegna dell’unità
monolitica di se stesso con ogni sua parte, non realizza l’unità di intelletto
e volontà, è carente proprio nel momento della sintesi suprema. Occorre quindi
pensare quella sintesi, realizzare quell’unità che si impone come una
vera e propria esigenza dello spirito. Stabilita la presenza dell’intelletto e
della volontà in relazione al bene, il pensiero non può non riunirli in un concetto
che dia le garanzie di unità di cui il soggetto collettivo non si dimostra
capace. In questo senso il legislatore è dunque un concetto, è la figura di
pensiero in cui appare la sintesi delle facoltà appetitiva ed intellettiva in
relazione al loro oggetto, ossia il bene.
Il legislatore combatte una battaglia su due fronti: deve illuminare la volontà generale e costringere i singoli, dotati di intelletto ma succubi della loro cattiva volontà. La scienza del legislatore deve dunque sapersi adattare a due compiti tra loro complementari e che possono sembrare astrattamente inconciliabili. È la guida del generale e del particolare, del particolare in funzione del generale ma dovrà operare in modo diverso nei confronti dell’uno e dell’altro. Il singolo va costretto più che persuaso, persuaso a costringere se stesso a vincere il proprio egoismo. Ma in questa persuasione-costrizione la nota dominante è data dalla seconda. Rousseau infatti considera l’individuo quale portatore di un retto intendimento ma di una cattiva volontà, dominata per istinto dall’interesse privato. Non è il singolo a volere il bene comune ma il popolo, gli individui superati nell’entità popolo: la conoscenza di questo bene resta però un fatto individuale; il soggetto collettivo più che pensare, vuole. Chi possiede già la conoscenza, chi può «vedere» il bene, deve essere allora costretto a metterla in pratica ossia ad esser libero, poiché nell’attuazione del bene comune è – per Rousseau – la libertà. Contemporaneamente, il legislatore deve fornire la volontà di pensiero, illuminarla, ovvero estrarla dal limbo del dover-essere. Non deve allora costringere ma «insegnare»: è un educatore, un Maestro del bene che indirizza in senso etico – di un’eticità politica, orientata a creare la virtus del cittadino – la sua superiore conoscenza. Il legislatore deve quindi riunire la capacità di educare con quella di costringere, dimostrare di possedere una scienza che sappia tradursi in arte. Se scienza si ha nel sapere del bene, arte è nel saper costringere, nel saper imporre la legge senza ricorrere alla forza: la costrizione che viene dal legislatore non può infatti essere fisica (OC, III, 383). È ovvio quindi che il legislatore non ha potere nel senso preciso del termine ma solo auctoritas, quella superiore qualità d’animo, quella innata capacità dello spirito, un vero e proprio carisma, che gli permette di imporsi educando e costringendo, ossia facendo violenza alla realtà così come si presenta. Egli non può limitarsi a prender atto della realtà ma deve comunque indirizzarla verso un fine determinato, che realizzi l’unità presente in ispirito allo Stato: un simile compito, se non si voglia impiegare la forza, e in modo bestiale, è possibile solo ad un’anima superiore, che possieda il dono innato di saper convincere.
Dalla natura della missione del
legislatore discendono quindi i caratteri che Rousseau attribuisce alla sua
figura, il suo εἶδος universale
(OC, III, 381-384). Innanzitutto una « intelligence supérieure », che conosca
la natura umana senza restarne coinvolta, superiore alle passioni eppure loro
profonda conoscitrice, capace di ignorare le lusinghe della fama: « travailler
dans un siècle et jouir dans un autre ». Comprendendo tutto come se fosse
all’esterno di tutto, potrà riunificare le facoltà dell’uomo tra loro opposte,
fornire la volontà di intendimento e l’intendimento di volontà. La sua superiorità
nei confronti dell’animo umano, che comporta il porsi in una posizione esterna
verso di esso, è una condizione metodologicamente necessaria (allontanarsi
cartesianamente dalla cosa per poterla comprendere e dominare) e da essa
discende un’estraneità di principio del legislatore nei confronti della
collettività. Rousseau non esita ad affermare che il migliore fondatore di
Stati è lo straniero (op. cit., 382). Deve conoscere il cuore del popolo
e proprio per questo non deve esser scaturito dal cuore del popolo; è un
individuo che si è formato da solo, senza maestri, sotto il libero cielo del
mondo. La solitudine del legislatore è la solitudine del genio e
dell’eroe. Il democratico Rousseau si affida dunque al genio per costruire il
suo Stato ideale. Solo il genio può infatti riuscire là ove falliscono i comuni
mortali, presentarsi come personalità irripetibile, scaturita dalla sua propria
solitudine e giustificarsi in base alla propria grandezza, che non tollera
paragoni né giudizi. « La grande âme du Législateur est le vrai miracle qui
doit prouver sa mission ». Si tratta di un uomo che è il migliore di tutti,
l’individuo perfetto, la cui virtù intrinseca consiste nell’aver già realizzato
in se stesso la sintesi di intelletto e volontà che deve porre in essere nello
Stato. Infatti, come può il genio conoscere le passioni e non lasciarsene
influenzare? Solo se si ammette che la sua volontà, guidata dall’intelletto, ha
potuto dirigersi a ciò che è bene, sapendosi dominare. Il genio è solitario,
improvviso, straniero, nessuno l’ha mai conosciuto prima per quello che è; non
è una personalità in se stessa scissa, ha vinto i drammi della coscienza
alienata al suo mondo, è in unità con sé: una volontà ed un’intelligenza
perfettamente saldate non possono trovare ostacoli e sono pronte a pagare
qualsiasi prezzo. Nel genio che fonda lo Stato c’è l’eroismo, dato in
primo luogo dalla capacità di sacrificare in maniera impassibile la propria
felicità per quella del popolo[8].
Il legislatore è quindi un uomo
diverso, un genio capace di rivelare in se stesso l’essenza umana, l’archetipo
negato dalla società. Quest’uomo deve creare degli uomini nuovi, ossia
esser addirittura capace di «snaturare» l’uomo. ll carattere artificioso della
società esprime dunque nella legislazione il momento di massima violenza nei
confronti della natura. «Colui che osa accingersi a fondare un popolo deve
sentirsi capace di mutare, per così dire, la natura umana; di trasformare ogni
individuo, che in sé è un tutto perfetto e isolato, in parte di un più grande
tutto, dal quale quell’individuo riceva in qualche modo la sua vita e la sua
ragion d’essere; di alterare la costituzione dell’uomo per renderla più
forte...» (OC, III, 381). Lo «snaturamento» dell’uomo ad opera della
legislazione avviene in funzione della costituenda unità sociale. L’uomo nuovo
che in essa si crea non è secondo natura poiché è un uomo interamente sociale.
Spontaneamente, l’uomo non si trasformerebbe mai in un individuo completamente
sociale, ha bisogno di una guida che nello stesso tempo lo educhi e lo
costringa a questo. « Changer la nature humaine » vuol dire quindi: trasformare
l’individuo da ente naturalistico, anarcoide e preda del volere immediato in un
ente sociale, parte indissolubile di un tutto che ora, esso solo, gli dà vita e
ragione di vita; trasformare l’uomo della natura nell’uomo figlio della natura
seconda, dell’arte, dal raziocinio, della volontà implacabile. Con il contratto
sociale gli individui cominciano a trasformarsi in questo senso, ma le loro
forze non sono sufficienti, hanno per l’appunto bisogno di una guida. Il
legislatore non deve erigere l’uomo semplice, il quisque de populo della
massa democratica a suo modello ma plasmarlo secondo il modello che il
legislatore stesso rappresenta, renderlo estraneo alla sua natura immediata,
renderlo atomo consapevole dell’unità sociale. Gli individui sono così materia
della legislazione, materiale da costruzione del nuovo Stato, essi stessi nuovi,
cittadini, più che uomini: il legislatore li fa entrare nella totalità.
Nessuno deve dunque potersi più basare
sulle sue sole forze, le sue forze saranno d’ora in poi « acquisite», ossia
create dal tutto: la legislazione ci conferisce la forza del tutto ma ci toglie
la nostra, le mani che abbiamo non sono più nostre, esistono perché la legge le
riconosce. «Snaturare» consapevolmente gli uomini significa quindi trasformarli
in soggetti indissolubilmente uniti al corpo sociale, plasmarli come elementi
dell’unità sociale monolitica. Il raggiungimento o meno di questo scopo dà
l’idea del grado di perfezione della legislazione, che si ha quando «la forza
raggiunta dal tutto sia uguale o superiore alla somma delle forze naturali di
tutti gli individui» (OC, III, 382). L’universo di forze che compone lo Stato
deve essere disposto secondo un ordine rigidamente improntato all’unità. La
legge costitutiva, prodotto della volontà e dell’intelletto del legislatore,
deve far sì che la contrapposizione di forze tra particolare e universale sia
sempre a favore di quest’ultimo, la cui consistenza deve essere addirittura
superiore a quella della somma democratica delle forze singole. L’indipendenza
che, per il concetto, il corpo sovrano ha nei confronti dei singoli membri deve
esser consolidata dalla legislazione in modo che il corpo abbia sempre, come
individuo, una forza superiore a quella di tutti gli individui messi insieme.
Questo significa che la legge servirà ad evitare che nello Stato vi siano gruppi
o corpi intermedi, più o meno organici, capaci di porsi a loro volta come
titolari di una sovranità, operante di fatto. Realizzare l’unità della volonta
generale con quella particolare, richiamare il soggetto al suo dover-essere
sociale mutando la sua natura di semplice uomo, costringere l’individuo a tutto
questo mediante la legge, significa creare un’unità di specie tale da non
tollerare la presenza di alcuna mediazione, di gradazioni sociali che, pur
concorrendo ad una migliore articolazione del tutto, conservino al soggetto una
certa indipendenza. La legge diviene cosi lo strumento dell’uguaglianza e
dell’identità di tutti con tutti, senza mediazione. Il rapporto tra il soggetto
e la legge è immediato, la legge rappresenta l’unica misura del rapporto
tra il singolo e la collettività.
Il legislatore è dunque colui che
stabilisce con arte i rapporti esatti fra il tutto e la parte, fissandoli nello
spazio e nel tempo. Deve avere il senso dell’ordine, il colpo d’occhio che
coglie l’insieme, la percezione del momento: saper intuire i tempi non è meno
importante che saper cogliere le intenzioni degli uomini. Questo individuo
politico è quindi necessario allo Stato, cui occorre l’aiuto di una mente
superiore, un uomo al di sopra delle fazioni, che voglia lo stesso fine dello
Stato: realizzare l’unit di un corpo di associati veramente sovrano. I
caratteri della personalità del legislatore sono i lineamenti del genio, in
essi Rousseau abbozza una vera e propria teoria del genio. Ragion
d’essere, scopo e carattere fanno comprendere allora perché il legislatore
debba svolgere la sua missione mediante un’azione sorretta dalla auctoritas
e non dal potere.
Il pensiero di Rousseau è molto chiaro
su questo punto. Il legislatore è «un uomo straordinario nello Stato». Non fa
parte del governo, non ha alcun potere, non dirige nessuna istituzione. L’emploi
del legislatore è in se stesso eccezionale: fonda la respublica
senza entrare a far parte della sua costituzione (OC, III, 382). Il ruolo del
legislatore non può essere istituzionalizzato; è per una funzione che rimane
esterna allo Stato costituito, così come esterno a quest’ultimo, straniero
rimane il legislatore: il genio può fondare lo Stato ma non entrare a farne
parte (Mosè ha visto la Terra Promessa ma non vi è entrato). Mancando di un
vero potere (non ha alcun droit législatif) e dimostrando invece di
possedere un’autorità immensa, il legislatore non potrà usare la forza e dovrà
plasmare gli uomini con la persuasione. Egli è dunque un profeta disarmato:
deve saper costringere senza poter coercire. Ma proprio in questa
contraddizione Rousseau vede il senso pregnante dell’opera di un autentico
fondatore di Stati, il suo significato ad un tempo concreto ed ideale.
Nell’opera della legislazione hanno luogo due cose che sembrano tra loro
incompatibili: « une entreprise au dessus de la force humaine, et pour
l’éxecuter une autorité qui n’est rien » (OC, III, 383). Infatti, mutare la
natura immediata dell’uomo per farne un cittadino della respublica
ideale, è un’impresa superiore alle forze umane, tanto da richiedere una figura
semidivina. Nello stesso tempo, l’autorità del nomoteta deve restare al di
fuori dello Stato, altrimenti si introdurrebbe una alterazione nella volontà
generale, si stabilirebbe con la legge il privilegio di un uomo, si spezzerebbe
l’unità del corpo sociale. Ma proprio a questo punto l’intuito del genio si fa
valere, deve dimostrare di possedere le sue qualità. Innanzitutto parlando il
linguaggio del popolo, la lingua comprensibile al popolo non ai pochi (op.
cit., ivi). Questo è dunque il primo passo, l’approntamento del mezzo
espressivo: la legge non deve essere oscura nella formulazione, ambigua,
paludata e mal scritta, aperta a mille interpretazioni, come avviene quando i
legislatori nonché geni sono veri e propri iloti dello spirito. Il legislatore
deve saper parlare una lingua che definisca chiaramente i propri contenuti,
usando i termini del linguaggio comune.
L’uso del linguaggio semplice che
appare nel popolo non è però ancora sufficiente a imporre l’autorità con la
forza dell’evidenza, e la colpa non è del linguaggio ma, secondo Rousseau, del
popolo: «c’è un’infinità di idee che è impossibile rendere con il linguaggio del
popolo. Le vedute troppo generali, gli oggetti troppo lontani sono ambedue
fuori della sua portata...» (op. cit., ivi). Per poter essere convinto
il popolo dovrebbe essere già educato ma è proprio il legislatore che dà inizio
all’educazione: quando si accinge al suo compito la massa è ancora, per così
dire, allo stato brado. La lingua del popolo viene perciò adottata dal
legislatore non perché sia in sé la migliore ma per necessità: occorre servirsi
di ciò che si trova, anche se imperfetto. È una lingua poco adatta al
ragionamento, in essa parlano soprattutto le passioni. Dunque il fondatore
dello Stato non può persuadere mediante l’uso della forza, dal momento che non
ha un potere riconosciuto, legale, incarnato in un’istituzione; non può
persuadere con il ragionamento perché la lingua di cui è costretto a servirsi
non lo permette. Allora: «non potendo servirsi né della forza né del
ragionamento, è necessario che egli ricorra ad un’autorità di altro tipo, che
sia capace di trascinare senza violenza e di persuadere senza convincere » (op.
cit., ivi). L’autorità del legislatore deve a sua volta esser fondata
sull’autorità, non sul potere, un’autorità di grado superiore, che legittimi
quella di chi si rivolge al popolo. Quale autorità darà le migliori garanzie di
successo di quella della divinità? Il legislatore deve dunque presentarsi come
artefice della volontà divina in terra; solo cosi sarà sicuro di esser
accettato dal popolo senza dover ricorrere alla violenza, senza doversi
costituire un’organizzazione del potere. Perciò in ogni tempo i « pères des
nations » sono ricorsi al cielo e hanno posto negli dei la fonte della loro
saggezza, così che i popoli «sottomessi alle leggi dello Stato come a quelle
della natura, e riconoscendo lo stesso potere nella formazione dell’uomo e in
quella della comunità, obbediscano in libertà e portino docilmente il giogo
della felicità pubblica» (ivi).
Rousseau si richiama espressamente
alla concezione machiavellica della religio instrumentum regni (ivi,
384). Il ricorso alla divinità non sembra in effetti spontaneo ma imposto dalle
circostanze, frutto della ruse del legislatore più che di una sua intima
convinzione. Questo non era certamente il modo di pensare di Mosè e Maometto,
dei quali Rousseau tesse l’elogio (op. cit., 384). Comunque sia, resta il fatto
che l’autorità che presiede alla formazione dello Stato è divina e non umana:
per lo meno si deve credere questo se si vuole che le leggi durino in eterno,
come dimostra l’esempio di Israeliti e Maomettani[9]. La legge civile non può
avere un fondamento che sia solo civile, che consista solo di volontà e
raziocinio. L’opinione dei cittadini deve esser educata a pensare che la legge
abbia un’origine divina, sì che emani da un’autorità indiscutibile ed eterna.
In tal modo la legge costitutiva dello Stato è necessariamente un prodotto della
volontà del legislatore – l’individuo migliore, dotato di retto
intendimento e nobiltà d’animo, il genio – ma in nome di una volontà più alta,
divina. Allora il cittadino sentirà che la sua legge, pur dichiarata da uno
e accettata da tutti, è sottratta all’imperio immediato delle volontà,
con i loro liberi ma drammatici scontri, è l’espressione di un ordine
che travalica quello positivo della Città e nello stesso tempo lo mantiene. Il
principio della legge si incarna perciò nel principio di un ordine divino
universale, del quale anche la volontà è l’espressione; tende ad esser
concepito nella forma del νόμος, ferma restando però l’ambiguità di fondo data dal carattere
apparentemente solo strumentale del ricorso all’autorità divina.
L’azione del legislatore è
quindi dotata di un’efficacia rafforzata, ossia sorretta dal richiamo a Dio. La
capacità di collegare il piano umano e quello divino è dunque essenziale alla
riuscita della missione del padre della patria, che non è, da questo punto di
vista, un laico, vale a dire non è pensato secondo le categorie del
razionalistno settecentesco, eccezion fatta per quella concernente la funzione
sociale della religione. Il concetto di quella funzione sembra però dissolvere
i suoi presupposti razionalistici nell’impasto di umano e divino, carisma e
ragione, volontà e persuasione, genio e capacità di adattamento, che caratterizza
la figura del legislatore, cui è più congeniale l’intuizione che l’agire
tramite una dotrina, elaborata sulla base del buon senso e della raison.
Infatti deve saper cogliere la natura concreta del popolo con il quale ha a che
fare, individuarne per così dire lo spirito, saperne le tendenze palesi e
occulte; deve saper cogliere lo spirito dei tempi, ossia il momento opportuno
per dare la legge, lo Zeitpunkt: deve poter riunire lo spazio e il
tempo, il mondo occupato dal popolo, la sua forma (territorio, popolazione) e
il tempo che lo vive (op. cit., 385, 386, ss.). Ma questa capacità è nel
legislatore innata, non è stata appresa a scuola: come ogni genio, è un
uomo nuovo, un autodidatta, che non è stato educato da maestri e istituzioni,
non è stato assorbito nelle dottrine consacrate dal pensiero locale, nazionale.
Chiunque può quindi essere in potenza un padre della patria, anche Rousseau: il
genio non ha regola e crea di colpo la sua, soprattutto il genio politico.
Ma si è effettivamente realizzata, a
questo punto, quell’unità indissolubile del tutto in nome della quale Rousseau
aveva proclamato la necessità di un legislatore? Il genio politico deve riunire
i due piani tra loro potenzialmente in contrasto della volontà generale e
individuale, i due modi di essere della Città: ma, per riuscire in questo,
introduce un terzo piano, quello divino. Per poter ancorare la legge
fondamentale a principi assoluti la sottopone ad una doppia auctoritas
quella sua e quella divina, che parla (o vien fatta parlare) attraverso di lui.
La politica ha dunque bisogno della religione come immagine, di costituirsi e
apparire come teologia per raggiungere i suoi scopi radicalmente immanenti. In
ogni caso, l’unità come immagine dello Stato ideale viene a risultare composita,
estesa al cielo e alla terra, mentre la figura del legislatore sembra
racchiudere i germi di una contraddizione insuperabile. Egli è pensato come
colui che realizza l’unità del corpo politico mediando gli opposti con la forza
del suo genio e l’aiuto divino, potenze alle quali è impensabile poter
resistere. Però è evidente che il legislatore non si identifica né con la legge
che da né con il popolo: formalmente resta al di fuori della comunità e la
comunità viene allora a dipendere, per la forma della sua costituzione, dalla
volontà di uno solo, straniero e lontano, anche se capace di metterla in
relazione con l’infinito, ovvero con l’ordine che governa sovrano l’universo e che
costituisce un modello per l’ordine da realizzare nella città. La forma
perfetta della πόλις giunge
quindi ad essa dall’esterno, dal pensiero di un individuo la cui anima è nobile
ma arcana, poiché sa servirsi dell’arte e raggiungere anche per vie traverse i
suoi fini. Quanti Stati hanno visto simili padri della patria? Per quanti è
stato possibile il realizzarsi del mito?
III.
La visione rousseauiana del
legislatore, vera e propria apologia del fondatore di Stati, può apparire (ma a
torto) estranea alla filosofia politica complessiva di Rousseau e alla tradizione
di pensiero dell’Occidente che, sin dal tempo dei Presocratici, ha posto
l’accento sulla idea del governo della legge e non dell’uomo. Già in Aristotele
l’affermazione della superiorità del governo della legge è nettissima: «Punto
di partenza della ricerca è questo, se è più conveniente essere governati
dall’uomo migliore o dalle leggi migliori» (Politica, 1286a; tr. it.,
Laurenti, Bari, 1966, p. 155). E la risposta è che «è preferibile, senza
dubbio, che governi la legge più che un qualunque cittadino... Quindi chi
raccomanda il governo della legge (τὸν νόμον κελεύων ἄρχειν), sembra raccomandare esclusivamente il governo di Dio e della
ragione (τὸν θεὸν καί τὸν νοῦν μόνους), mentre chi raccomanda il governo dell’uomo aggiunge anche
quello della bestia...» (op. cit., 1287a; tr. it. cit., p. 160). Anche per
evitare il «governo della bestia» Rousseau tiene il suo legislatore al di fuori
dello Stato; per evitare che, esercitando egli un droit législatif le
sue passioni e i suoi pregiudizi personali non prevalgano, inquinando la costituzione
(OC, III, 382). Paradossalmente, Rousseau non sembra fidarsi del tutto del suo
eroe, del suo «uomo migliore», finendo con il cadere in contraddizione con se
stesso. Da un lato infatti il legislatore è fuori del corpo politico a causa
della sua superiorità d’animo e intelletto: ma se è migliore di tutti, allora
non può lasciarsi dominare da passioni e pregiudizi. Se è fuori dello Stato per
la sua superiorità non può contemporaneamente esserlo per i suoi pregiudizi,
che dimostrerebbero l’inesistenza di quella superiorità. Ad ogni modo, il
dilemma posto da Aristotele egli sembra risolverlo ritornando per cosi dire a
Platone, poiché concepisce la legge migliore come prodotto della azione
dell’uomo migliore, colui che possiede «l’arte regia». Il legislatore non opera
infatti in funzione di se stesso ma al servizio del bene comune, in definitiva
della legge che, sola, può realizzarlo. La mitizzazione del legislatore
corrisponde alla mitizzazione della legge come misura unica e assoluta dei
rapporti sociali, ne appare quasi la logica conseguenza anche se sembra
introdurre un elemento di contrasto con il carattere rigidamente impersonale,
obbiettivo, astratto della legge-norma (secondo il suo concetto, la legge è una
delibera del popolo e quindi una norma). La dialettica di legge e legislatore
ripropone del resto il problema dell’origine della legge, in quanto norma
positiva: il pensiero è costretto a dubitare del fatto che la norma sia
semplicemente il prodotto di un’altra norma, come volontà da volontà, concetto
da concetto, significato da significato. All’origine, si è costretti a pensare
un artefice concreto, un individuo in carne e ossa. A pensare, non a trovare:
poiché l’esperienza storica ci fa vedere – quando è possibile ristabilire
un’origine – tanto l’azione di individui che di assemblee, fazioni. Che
l’origine venga pensata nella forma dell’uomo migliore, ispirato dalla
divinità, questo è il risultato del tentativo di conferire a sua volta
all’origine un senso ideale, astraendo dal suo carattere storicamente
determinato che ne fa un’origine di questo e quello Stato ma non dello Stato in
generale.
Non si può certo dire che Rousseau non
rientri nella tradizione di pensiero politico dell’Occidente, per quanto
innovatore, paradossale e rivoluzionario egli appaia. È stato praticamente
l’unico a teorizzare, dopo Platone, la figura del fondatore dello Stato in sè e
per sè, sciolta da qualsiasi vincolo con la realtà sociale consolidata – dalla
famiglia ai ceti alla città – nell’istituzione plurisecolare, la monarchia; o
comunque articolata nel rispetto di una gerarchia di valori fondata sulla legge
naturale cristiana, verso la quale, come nei confronti degli usi e costumi su
di essa basati, il legislatore sia un semplice e cauto, anche se autorevole,
ordinatore. ll legislatore di Rousseau deve confrontarsi con i mores
esistenti per crearne di nuovi, non è parente del princeps di Bodin,
ministro di un’idea della sovranità concepita sul senso realistico del potere,
mitigata solo dal rispetto degli usi, dall’onore e dal timor di Dio, né del suo
discendente illuministico, del monarca autoritario ma illuminato in cui
mostrano di credere i Voltaire e i Diderot. Rousseau pensa che il problema
della legislazione possa esser risolto, più che dall’affermarsi di un potere,
duro e irrinunciabile, più che dall’azione di un’assemblea di rappresentanti
democratici, dall’intervento singolo del genio politico, profeta e benefattore
dell’umanità. Si richiama a Platone, sia pure in modo non particolarmente
indicativo ed anzi apparentemente fuorviante (op. cit., 381). Tuttavia, va
notato, non si limita a ricordare Platone: ben più pregnantc sembra essere il
suo alludere a Machiavelli, a proposito dell’uso strumentale della religione da
parte dei «prudenti» fondatori di Stati: e Machiavelli sembra teorizzare in negativo
l’equivalente del politico platonico. Se nella figura del législateur
sono penetrati elementi del politico machiavellico, cosa resta allora dell’uomo
migliore? Per quanto un’influenza di Machiavelli non possa ovviamente negarsi,
resta a mio avviso una differenza di fondo, che fa salvo il carattere specifico
della figura di pensiero escogitata da Rousseau.
Il politico di Machiavelli ha in primo
luogo il senso del potere e concepisce lo Stato realisticamente: scienza
dell’azione politica ed arte di governo gli servono per costruire degli
«ordini» sui quali basare il potere, concreto, efficace, irresistibile, tant’e
vero che il principe dovrebbe essere soprattutto un capo militare: le «buone
legge» sono mantenute in sella dalle «buone arme» e non dalla loro intrinseca
rispondenza ad una volontà generale[10]. All’opposto, il politico di
Rousseau non può per definizione ricorrere alla forza, perché dove c’è forza non
c’è più legge. Per Rousseau legge e forza, diritto e forza sono intrinsecamente
contraddittori (Contrat, I, III, IV). Il padre della patria – come si è
detto – è un profeta disarmato poiché mira a crearsi autorità e mai potere. Se
per Machiavelli la autorità nasce dal potere ed avere autorità significa
sapersi costituire il potere come ordinamento, istituzioni, corroborate dal
successo o comunque dalla gloria di vicende e battaglie; per Rousseau sarà caso
mai il potere a nascere dall’autorità. In ogni caso, il carattere ideale dello
Stato roussoiano è confermato dalla sostituzione del concetto di autorità a
quello del potere, come se lo Stato potesse esser originato solo per
l’impulso della conoscenza e della forza morale, da una volontà buona, un’anima
superiore ed eroica, che riesca a far valere dei principi generali. Da questo
punto di vista, il pensiero di Rousseau sembra dunque vicino, mutatis mutandis,
a quello di Platone nel Politico, tutto teso a definire la ἀρετή dell’uomo di Stato da una prospettiva interiore, in funzione di
una scienza e di un’arte dell’azione politica che raggiungono il loro scopo
perché guidate da un’anima che conosce il giusto modello, al di fuori
della legge positiva e di qualsiasi ordinamento del potere. Il politico
platonico si impone per la sua auctoritas e mira ad attuare un ideale di
Stato, nel quale l’istanza stessa del potere dovrebbe esser superata, in modo
che il νόμος
valga effettivamente come principio di
ordine, di cui tutti si sentono compartecipi, più che come volontà di chi
detiene il potere, garantita dalla spada[11].
Tuttavia, se la figura del législateur
rivela una impostazione di tipo platonizzante, quest’ultima scompare nel
rapporto che lega il legislatore alla legge. Ossia: il concetto rousseauiano
della legge positiva è per molti aspetti già moderno, risulta dallo stretto
rapporto tra legge e volontà, ignoto al pensiero classico. La legge positiva è in
funzione di un ordine, che non è solo della Città (e questo solo il legislatore
lo sa), però deve esser nello stesso tempo pensata come il prodotto della
volontà, dell’uno fondatore e della generalità che parla in lui. La legge è
l’espressione della volontà generale e solo intesa in questo modo realizza la
libertà e l’uguaglianza dei cittadini. L’assunto, preso alla lettera, riconduce
indubbiamente Rousseau nell’alveo di quel pensiero occidentale, che ha dato
vita all’ideale dello Stato di diritto. La posizione di Rousseau resta però ambivalente.
Lo Stato di diritto, forma giuridicamente compiuta della concezione occidentale
dello Stato, si basa sulla legge ossia sul principio che solo la legge
positiva, impersonale ed astratta, deve governare gli uomini. Questo principio
è sancito mediante la stessa legge, tuttavia è anteriore ad essa: è
infatti in nome del principio del governo della legge che il potere costituente
lo Stato limita se stesso, l’azione dello Stato e dei privati alla forma
stabilita dalla legge positiva. Il porre la legge da parte dei rappresentanti
del popolo ha quindi un significato oggettivo (fa coincidere ratio e voluntas)
perché è espressione dell’esigenza ideale ma universale del governo della
legge-ragione: questa esigenza riflette il significato che il pensiero
occidentale ha voluto dare alle sue concezioni dell’uomo e del mondo. Quelle
concezioni possono prender forma, nella società e negli Stati dell’Occidente,
solo tramite la legislazione: un’architettura ordinata, chiara, certa, precisa
di leggi scritte e non, a seconda che il principio della legislazione si
traduca o meno in atto secondo il principio della codificazione della legge
stessa.
Nell’ideale dello Stato di diritto, il
diritto si attua tramite la legge positiva, che ne costituisce la misura: la
volontà che impera nella norma è sottoposta al diritto ovvero alla legge intesa
come principio transpositivo, misura ideale del giusto e dell’ingiusto (e la
concezione positivistica dello Stato di diritto appare una corruzione
dell’ideale). Ora, Rousseau afferma che nella respublica deve governare
il principio della legge (OC, III, 380), ma subordina la legge alla volontà
generale, che è il bene comune: allora il legislatore deve dare la legge per
far parlare la volontà generale; egli è l’interprete della volontà
generale, non della legge e la legge non interpreta la volontà, la esprime
solamente. Se è vero che la legge emana dalla volontà generale, non è vero il
contrario, ossia che la volontà emani dalla legge: la volontà specifica della
legge è la volontà generale, che viene prima, è sovraordinata alla norma.
Perciò lo Stato rousseauiano è contemporaneamente Stato della legge e Stato
del legislatore, perché il legislatore non è colui che fa la legge
traendola dalla natura delle cose, l’uomo moderato di cui parla
Montesquieu ma un individuo capace di costruire dal nulla lo Stato, secondo il
proprio pensiero e in base alla giustificazione che egli solo è l’interprete
della volontà generale, con l’aiuto di Dio. Tramite un «legislatore»,
quest’ultima può allora esser tratta fuori, per cosi dire, dallo Stato che gia
esiste ma è corrotto e fornire la giustificazione all’azione di un capo
carismatico rivoluzionario. Nell’ideale statale di Rousseau la figura mitica
del legislatore rappresenta perciò un elemento di rottura nei confronti del
concetto dello Stato di diritto, del quale quell’ideale pur contiene diversi
elementi.
Nonché apparire un richiamo retorico al passato, essa sembra aver
anticipato il tipo del politico rivoluzionario del XX secolo, considerato come
un padre della patria, artefice di uomini nuovi, guida e signore dei popoli. Ma
l’educatore dei cittadini, l’uomo migliore, si è rivelato un torturatore di
popoli, un demone della volontà, un Re degli Assiri. Quei capi, ispirati ad
un’idea particolare, hanno avuto come obbiettivo primario il potere, si
sono affermati mediante un’istituzione – il partito totalitario – assunta essa
stessa al ruolo di educatore e legislatore della massa: hanno cercato con tutti
i mezzi l’autorità del potere non il potere dell’autorità, sono stati uomini di
un’istituzione precisa più che figli della fortuna. Da questo punto di vista,
essi nulla hanno a che vedere con il législateur. L’utopismo di
Rousseau, che si traduce in una fede assoluta nella forza dell’autorità morale
che deve presiedere alla nascita degli Stati, può esser ricompreso solo in
parte tra i precursori teorici del totalitarismo contemporaneo, il quale,
mediante l’opera del capo carismatico e del partito unico, ha cercato di
attuare mediante un uso indiscriminato del potere la reductio
dell’individuo all’unicum dello Stato: Rousseau, infatti, non ha
teorizzato un uso « totalitario» del potere, non si può nemmeno dire che il suo
pensiero contenga una vera teoria del potere. Esso spinge comunque a riflettere
sul significato profondo del nesso, difficile e spesso drammatico tra legge e
legislatore, tra la costituzione e il suo artefice.
Né vale, io credo, trincerarsi dietro l’apparente arcaismo
delle figurazioni rousseauiane. L’opinione
oggi dominante – soprattutto fra i giuristi – coincide senza dubbio con quella
espressa a suo tempo da Hegel. «A pochi uomini fu concesso l’alto onore di
conseguir gloria come legislatori, e con lui [Solone] lo condividono soltanto
Mosè, Licurgo, Zaleuco, Numa ecc. Fra i popoli germanici non si trova alcun
individuo che abbia conseguito la gloria d’essere il legislatore del suo
popolo. Oggi non possono più esservi legislatori; le istituzioni legali [die
geretzlichen Einrichtungen] e i rapporti giuridici nell’età moderna sono
sempre preesistenti, e il poco che ancora possono fare i legislatori o le
assemblee legislative è precisare maggiormente i particolari o aggiungere
qualche disposizione poco significativa e accessoria. Si tratta soltanto di
raccogliere, redigere ed elaborare i particolari; e però anche Solone e Licurgo
non fecero altro che dar forma consapevole l’uno al genio ionico, l’altro al
carattere dorico, come se li trovarono dinanzi, già preesistenti, e rimediare
anche con leggi effettive ai mali momentanei del disordine»[12].
Dal punto di vista di Hegel, qui
pienamente storicista, l’opera del legislatore non è decisiva e determinante –
in senso originario, costitutivo – poiché si limita necessariamente a recepire
nell’ordinamento le «istituzioni» e i «rapporti» già posti in essere nella
società, per ciò che riguarda l’ordinaria amministrazione, la vita di uno Stato
già formato e giuridicamente definito. Quando si tratti addirittura di fondare
lo Stato, sembra che il legislatore, l’individuo eccezionale crei dal
nulla lo Stato: in realta non è cosi perché egli si trova di fronte non istituzioni
concrete ma il «genio», lo «spirito del popolo» ovvero quella realtà spirituale
che è il presupposto stesso di un ordinamento giuridico concreto, realtà che
già costituisce in sè un ordine compiuto. Perciò, non solo «oggi» ma a ben
vedere in ogni tempo non possono esserci, secondo Hegel, autentici legislatori,
perché o «danno forma consapevole» allo spirito del popolo o danno forma a
istituzioni che si sono gia elaborate da se stesse, grazie allo sviluppo
concreto dello spirito del popolo nella società civile, sviluppo della cui
complessità lo Stato moderno è l’esempio più alto. I fondatori di Stati, gli
individui cosmico-storici sono legislatori, cioè creatori della legge, solo da
un punto di vista formale: rappresentano lo Spirito, che si dà una nuova forma
e ha bisogno della loro opera; sistemano la realtà istituzionale della società
civile. La prospettiva organicistica qui delineata (che non è comunque l’unica
dalla quale Hegel guardi al diritto) esprime quella sensibilità per la realtà
rappresentata dalle istituzioni, tipica del pensiero politico occidentale e che
Rousseau non dimostra di possedere allo stesso modo di altri. Quel pensiero ha
ripetutamente cercato di mettere in rilievo l’importanza dell’istituzione
ovvero del costruirsi del diritto secondo una realtà non creata da una volontà
ad essa esterna, come quella del legislatore, ma dalla storia del popolo e
dallo sviluppo della società. La sensibilità per il processo di formazione
delle istituzioni ha quindi condotto, ad un certo punto, a vedere nell’opera
della legislazione nient’altro che una dichiarazione del diritto c.d. vivente:
la voluntas del legislatore non deve far altro che piegarsi a
riconoscere la ratio presente nella realtà popolar-sociale e tradurla in
norme.
Indubbiamente, una simile concezione
sembra garantire una migliore comprensione dei problemi dello Stato moderno,
della difficoltà che il diritto incontra ad affermarsi nei gangli innumerevoli
e infiniti, nelle molteplici istituzioni della società civile, impregnate oggi
di spirito settario e livore. Ci vuole ben altro che il mito del legislatore
per far si che il diritto governi la società, che la legislazione corrisponda
alle esigenze della giustizia e sia nello stesso tempo efficace. Ma proprio la
realtà composita e di massa delle nostre società attuali ripropone, a mio
avviso, la necessità di meditare sul mito del legislatore. Molti popoli in
questo secolo sono stati guidati da capi carismatici, individui postisi di
fronte al soggetto collettivo, al loro oggetto, in un rapporto che
ricorda quello con il popolo dei «legislatori» menzionati da Rousseau e Hegel.
I legislatori del Novecento sono stati però uomini di sangue, non di pace e
giustizia: «guai a colui che edifica la città col sangue – fonda una città sull’iniquità».
Ma perdura il bisogno delle masse ad esser governate dal mito, l’illusione
dell’uomo senza carattere della massa a dover credere di sublimarsi in un capo
e in un partito, per salvarsi dall’orrore della massa, da una vita dominata da
bisogni solo materiali. Il bisogno di un «legislatore» si contrappone allora a
quello di un ritorno al principio ideale dello Stato di diritto, al governo
della legge, intesa come ragione, bisogno nuovamente sentito dopo che al
positivismo legalitario è subentrata la dissoluzione del diritto promossa dai
«legislatori» carismatici. L’atmosfera spirituale del nostro tempo non consente
quindi una pacifica convivenza tra il principio della legge e l’azione del
legislatore: quante volte i capi carismatici hanno violato la costituzione (del
nuovo Stato) in nome degli interessi di classe, dei diritti storici del popolo,
quante volte hanno violato il diritto in nome della politica? Se è vero che la
legge positiva deve risolvere problemi concreti e quindi i conflitti di
interessi e passioni che agitano la società, è anche vero che essa non può
limitarsi a riflettere questi ultimi, esserne lo specchio oscuro: se la legge
vuol arrecare la concordia e la pace sociale deve porsi al di sopra delle parti
e quindi disciplinare gli interessi in nome di un principio superiore, che è
quello stesso della legge (transpositiva). Ma allora la legge dovrebbe anche educare,
rappresentare un modello in base al quale i cittadini possano migliorarsi, nel
senso della concordia e della giusta composizione delle lotte. La legge, però,
non potrà adempiere la sua missione se coloro che la danno non saranno a loro
volta educati, se non possederanno i giusti princìpi della legislazione. Chi
educherà le masse sterminate al bene se i loro capi ne hanno perduto la
nozione? Chi educherà gli educatori? Il pensiero non può certo riproporre
consunte apologie di filosofi-re o re-filosofi ma può chiedersi, io credo, se la
concezione del diritto oggi dominante, che lo limita ad una mera funzione della
prassi, ad un’appendice della politica, sia tale da poter risolvere il
contrasto tra il principio della legge e una legislazione posta in essere da
artefici non educati secondo idee universali ma succubi dello spirito di parte
e degli interessi.
* Professore incaricato nell’Università di Perugia. [Ripubblico qui un mio articolo su J.-J
Rousseau, del 1978. Nonostante il tempo
trascorso, mi sembra che la tematica qui estratta dalla teoria politica di
Rousseau contenga spunti interessanti anche la nostra difficile attualità:
spunti critici sul modo in cui si formano gli Stati; sulla effettiva coerenza
di una teoria contrattualistica che voglia essere radicalmente democratica,
condannata com’è a ricorrere alla figura dell’uomo di genio per fondare lo
Stato, capo carismatico che sappia servirsi della religione come instrumentum
regni; in definitiva, sulla effettiva capacità del popolo, considerato
sovrano, a fondare lo Stato come realtà del tutto nuova, frutto della ragione e
della volontà. L’articolo apparve sulla
‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’, IV Serie – LV 1978,
ottobre-dicembre, pp. 882-906. Ringrazio
la Direzione della rivista per aver gentilmente concesso la presente
pubblicazione].
[1] Dico ulteriore anche perché mi sono già
occupato del legislatore di Rousseau nel mio libro: Rousseau e Kant,
vol. II, Milano, 1976, cap. V, L’artefice carismatico e la comunità etica,
pp. 369-475, al quale mi permetto di rimandare per l’indicazione della
letteratura sul tema. Nel presente articolo conservo ovviamente le linee
generali della mia interpretazione, variandone alcune sfumature, p. e. in
relazione all’elemento platonico presente nel législateur. (Le opere di
Rousseau, salvo espressa indicazione, sono citate secondo l’edizione della Pléiade:
Oeuvres complètes = OC).
[2] Nel capitolo del Contrat che si
occupa del legislatore (II, VII), Rousseau si richiama ad un certo punto a
Montesquieu: «Dans la naissance des sociétés, dit Montesquieu, ce sont le chefs
des républiques qui font l’institution, et c’est ensuite l’institution qui
forme les chefs des républiques» (OC, III, 381). Ma Rousseau non si limita a
far sua l’affermazione di Montesquieu. Egli vuole per l’appunto spiegare ciò
che a Montesquieu appare cosi ovvio da dover essere semplicemente constatato.
Rousseau vuol comprendere perché, quando nascono le società, occorra un
capo per far nascere le istituzioni, perché sia necessario un padre della
patria. L’esperienza non può offrire una risposta esauriente alla domanda: solo
la teoria, che abbia elaborato con rigore i molteplici elementi che appaiono
nella genesi dello Stato.
[3] Cfr. la seconda parte del Discours
sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, O.C., III,
164-194 e lo Essai sur l’origine des langues, où il est parlé de la mélodie
et de l’imitation musicale, a cura di Porset, Bordeaux, 1968, sp. 107 ss.
[4] In un celebre passo, Rousseau esterna la sua
invocazione all’unità dell’uomo. «Ce qui fait la misère humaine est la
contradiction qui se trouve entre notre état et nos desirs, entre nos devoirs
et nos penchans, entre la nature et les institutions sociales, entre l’homme et
le citoyen: rendez l’homme un vous le rendrez heureux autant qu’il peut 1’être.
Donnez-le tout entier à l’état ou laissez-le tout entier à lui-même, mais si
vous partagez son coeur vous le déchirez; et n’allez pas vous imaginer que
l’état puisse être heureux quand tous ses membres patissent» (OC, III, 510).
[5] Su questa indeterminatezza di rapporti, cfr.
la I versione del Contrat, OC, III, 282-283, Il pensiero è convinto
dell’inesistenza di un vero ordine nella società e in base a questa convinzione
fa valere l’esigenza dell’ortline e dell’unità, sicuro di essere dalla parte
della ragione.
[6] La vita stessa dell’individuo sembra un dono
dello Stato. Il corpo sovrano ha il diritto di condannare a morte i criminali:
infatti noi conserviamo la nostra vita con l’aiuto degli altri e dobbiamo
oflrirla quando ciò sia necessario. « Or le Citoyen n’est plus juge du péril
auquel la loi veut qu’il s’expose, et quand le Prince [= l’esecutivo] lui a
dit, il est expédient à l’État que tu meures, il doit mourir; puisque ce n’est
qu’à cette condition qu’il a vécu en sureté jusqu’alors, et que sa vie n’est
plus seulement un bienfait de la nature, mais un don conditionnel de l’Etat »
(OC, III, 376). Naturalmente, per Rousseau, è anche vero che « tout ce que
chacun aliéne par le pacte social de sa puissance, de ses biens, de la liberté,
c’est seulement la partie de tout cela dont l’usage importe à la communauté,
mais il faut convenir aussi que le Souverain seul est juge de cette importance
» (OC, cit., 373). Quindi l’individuo nello stesso tempo appartiene e non
appartiene allo Stato, ma chi giudica della non-appartenenza è «il corpo
sovrano» stesso. ll giudizio si suppone retto perché il corpo sovrano, secondo
Rousseau, non può voler nuocere ai suoi membri, e quindi non ha bisogno di dar
loro particolari e solenni garanzie in ordine a ciò che si considera
non-appartenente al tutto (op. cit., 363).
[7] La volontà generale è in sé «toujours
droite» (OC III, 371), «indestructible», «constante, inaltérable et pure» (op.
cit., 437, 438). Ovviamente non può essere mai divisa né tantomeno
alienata.
[8] La meditazione di Rousseau sulla Figura dell’eroe
risulta in maniera diretta dallo scritto, mai pubblicato, e intitolato: discours
sur cette question : quelle est la vertu la plus nécessaire au héros et quels
sont les héros à qui cette vertu a manqué (OC, II, 1262-1274).
[9] È certo singolare trovare in un pensatore
figlio del Secolo dei Lumi l’elogio (sia pure politico) della teocrazia
vetero-testamentaria ed islamica. Rousseau esalta ripetutamente la durata,
frutto di una saggezza superiore, della legislazione di Mosè: OC, III, 499-500;
956: « il lui donnait cette institution durable, à l’epreuve des tems, de la
fortune et des conquerans, que cinq mille ans n’ont pu détruire ni même
altérer, et qui subsiste encore aujourd’hui dans tout sa force, lors même que
le corps de la nation ne subsiste plus ». Nel nostro secolo, come appare dalla
vicenda politica dello imam Khomeyni, l’lslam sembra aver ritrovato la
capacità di produrre «legislatori», fanatici propugnatori di uno Stato rigidamente
basato sulla parola del Profeta, apparentemente non intaccata dal razionalismo
e dalle ideologie politiche di origine occidentale ed interpretata per
semplificare dogmaticamente i difficili problemi dello Stato moderno. L’elogio di
Rousseau è quindi ancora attuale.
[10] Cfr. il cap. XII del Principe: «E’
principali fondamenti che abbino tutti li stati, cosi nuovi, come vecchi o
misti, sono le buone legge e le buone arme. E, perché non può essere buone
legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone
legge, io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme» (ed.
Chabod, Torino, 1972, nuova ed. a cura di L. Firpo, p. 58).
[11] Cfr. Politico, 276, e: «E chiamando
“tirannica” quell’arte che, comunque, viene esercitata per forza di costrizione
e ‘arte politica’ invece quell’arte che si esercita liberamente su animali
bipedi che liberamente l’accettano, non possiamo forse dichiarare che chi
detiene questa come arte e cura è realmente re ed uomo politico?» (tr. it., in Platone, Opere, I, Bari, 1966, p.
470. Cfr. inoltre: 292, 293, 294, 296, 299).
[12]
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla
storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova
Italia, Firenze, 1930, 4a rist. 1973, vol. I, 176 (Werke, hrsg.
Moldenhauer e Michel, Francoforte/M., 1971, vol. 18, Vorlesungen über die
Geschichte der Philosophie, I, 182).