Paolo Pasqualucci
: Il 13 ottobre 1962,
sessant’anni fa, l’inizio del Concilio
all’insegna dell’illegalità e della rivoluzione
I.
L’Allocuzione
pontificia di apertura ebbe luogo l’11 ottobre 1962, il 13 cominciarono i
lavori. Si iniziava la prima Sessione
del Concilio. Come da regolamento, emanato dal Papa, si dovevano solamente eleggere i sedici
membri di spettanza dell’assise (sedici su ventiquattro) per ognuna delle dieci
commissioni conciliari. Le Commissioni
conciliari, diceva il regolamento, “emendano e preparano, secondo il parere
espresso dai Padri durante le Congregazioni generali le sedute dell’assemblea], gli schemi dei
decreti e dei canoni” (art. 5). Giovanni
XXIII aggiunse poi un membro ad ogni commissione, portandone il numero legale a
venticinque. Tutti i vescovi erano
eligibili. La Curia aveva, però, fornito
anche un elenco di esperti, in gran parte già impiegati nelle commissioni
preparatorie, che ai novatori non poteva piacere.
Yves Congar
OP, uno degli esponenti della neo-modernistica nouvelle théologie,
oggetto di censure sotto Pio XII, scriveva nel suo bilioso Mon journal du
Concil : “Alla fine della cerimonia di stamattina [era l’apertura solenne
dell’11 ottobre] hanno distribuito ai vescovi una busta contenente dei fogli per
eleggere 16 dei loro in ognuna delle dieci commissioni; un opuscolo con la lista
integrale e aggiornata dell’episcopato cattolico; la lista, suddivisa per
commissioni e in formato simile alle schede per la votazione, dei vescovi che
facevano parte delle commissioni preparatorie.
È un invito a eleggerli…È auspicabile del resto che esista una certa
continuità fra i lavori del Concilio e quelli delle commissioni
preparatorie. Ma è altrettanto
auspicabile che ora si faccia qualcosa d’altro e di meglio rispetto a quanto è
stato preparato, qualcosa di pastorale, di meno scolastico..”(Chenu).
Anche
per un “progressista” e ribelle come Congar OP, dunque, si doveva ammettere
che, in linea di principio, il procedimento adottato dalla Curia, del resto
mettendo a frutto l’esperienza del Vaticano I, era del tutto legittimo. Ma si vede bene che per i novatori non si
trattava di una questione di metodo bensì di sostanza. Ciò che non andava bene per loro era la
qualità del lavoro svolto dalle commissioni, considerato “troppo scolastico”,
termine che nel linguaggio della nouvelle théologie designava
sprezzantemente il patrimonio di concetti con i quali il Magistero ha esposto e
difeso nei secoli il Deposito della Fede.
Bisognava dunque fare “qualcos’altro e di meglio”, qualcosa di
“pastorale”, adatto alla mentalità moderna, e per giungere a ciò bisognava
impedire le programmate votazioni e far in modo di avere la maggioranza nelle
costituende commissioni.
Le affermazioni private di Congar riflettevano
quelle espresse pubblicamente dall’elemento innovatore già nei lavori della
fase preliminare, a volte in toni
fortemente polemici (famoso uno scontro tra il cardinale Alfredo Ottaviani e il
cardinale Agostino Bea SI, leader di fatto della fazione ammodernante della
Curia ed eminenza grigia dello stesso Concilio dopo la rivoluzione iniziale – scontro
durante i lavori preparatori di cui fu testimone mons. Marcel Lefebvre,
provocato dall’arroganza di Bea – De Mattei).
Per capirne tutta la gravità di un’opposizione così radicale all’intero
lavoro preparatorio bisogna aver
presente in cosa sia consistito questo lavoro preliminare.
Raramente
un Concilio ecumenico fu preparato con maggior scrupolo, coscienziosità e
rispetto dei diritti e delle opinioni di tutti.
Si seguì la prassi del Vaticano I, elaborandola e perfezionandola.
La
preparazione al Concilio durò ben tre anni.
La fase ante-preparatoria (un anno) si concluse con sedici volumi
di circa 10.000 pagine, che raccoglievano le opinioni o vota dei vescovi
(circa tremila), delle Facoltà di Teologia, delle Congregazioni della Curia e
l’analisi delle suddette opinioni dei vescovi.
La fase preparatoria (altri due anni) si concluse alla vigilia
del Concilio con venti schemi di costituzioni e decreti elaborati dalle dieci
commissioni preparatorie, che avevano lavorato sotto la supervisione di una Commissione
preparatoria centrale, il cui presidente era formalmente il Papa. Era ovvio che i membri della Curia
predominassero nelle commissioni preparatorie, dato che essi rappresentavano
l’elemento teologicamente più competente e la continuità nell’insegnamento del
magistero pontificio. Anche tra loro
c’erano, comunque, dei novatori, quali ad esempio i cardinali Bea e Tisserant.
Tra le
commissioni, la più importante era quella teologica, detta anche dottrinale
proprio perché si occupava esclusivamente del profilo dottrinale dei
documenti. Era necessariamente
presieduta dal cardinale Alfredo Ottaviani, poiché da alcuni secoli spettava al
Sant’Uffizio di vegliare sulla purezza della dottrina cattolica. Poiché in pratica tutte le questioni trattate
dalle altre commissioni avevano dei risvolti dottrinali, come tali di
competenza esclusiva della Commissione Teologica, chi controllava quest’ultima
di fatto controllava tutte le altre commissioni. A suggellare lo stravolgimento del corso
normale del Concilio, la Commissione
Teologica sarebbe stata costretta da Giovanni XXIII a formare una commissione
mista con il Segretariato per l’unità dei cristiani diretto da Bea,
roccaforte progressista, trasformato a sorpresa da Giovanni XXIII in
commissione conciliare con procedura irrituale: la commissione teologica venne in tal modo
privata della sua autonomia e di fatto controllata da Bea, cosa che avvenne per
gradi regnante Paolo VI.
Su un
totale di venti schemi, i primi sette furono inviati a tutti i vescovi
nell’estate del 1962, tre mesi prima dell’apertura del Concilio. Tra di essi, lo schema De fontibus
revelationis, che sarebbe stato rigettato dopo drammatici dibattiti e in
modo illegale. Lo schema esponeva la dottrina delle due fonti sempre riconosciute della
Rivelazione: Tradizione e Sacra Scrittura.
Completamente rifatto, è l’odierna e controversa costituzione Dei
Verbum de divina Revelatione. Nello
schema originale era esposto con assoluta correttezza l’insegnamento
plurisecolare della Chiesa: Tradizione
apostolica e Sacra Scrittura; ispirazione divina; inerranza assoluta dei Libri
Sacri; gli Evangeli e i loro autori; loro piena storicità; rapporto tra il
Vecchio e il Nuovo Testamento; l’insegnamento della Sacra Scrittura.
II.
Questo schema, in particolare, suscitò la
reazione durissima di tutto lo schieramento progressista, i cui leaders erano
in prevalenza cardinali, vescovi, teologi di Paesi prospicienti il Reno
(Olanda, Belgio, Francia, Germania, Svizzera).
l’Austria era attivamente presente nella persona del cardinale Koenig
mentre l’Italia offriva l’appoggio sfumato dei cardinali Lercaro e
Montini. A questo schieramento il Padre
Wiltgen, nel suo ottimo libro sul Concilio intitolato Il Reno straripa nel
Tevere, affibbiò il nome di “Alleanza Europea”, in realtà soprattutto
“centro-europea” (De Mattei).
Elemento
di punta ne fu, come si sa, il domenicano belga Edward Schillebeeckx,
professore di teologia dogmatica all’Università cattolica di Nimega, presente
al Concilio come teologo del cardinale olandese Alfrink. Schillebeecks metteva in discussione il
celibato ecclesiastico, negava la Resurrezione del Signore, l’esistenza della successione apostolica e
voleva sostituire il concetto di “transustanziazione” con quello inane e
persino ridicolo di “transsignificazione”: voleva sostituire cioè il nesso
stabilito da Aristotele tra la sostanza dell’ente e l’apparenza dovuta alle sue
qualità esteriori, con un nebuloso concetto tratto dalla fenomenologia, noto
filone del pensiero contemporaneo, in modo da sostituire il miracolo della
transustanziazione con un semplice “significato”: la transustanziazione sarebbe il significato
che noi vogliamo dare alla consacrazione delle Sacre Specie, non sarebbe la
realtà stessa sovrannaturale del Signore che si materializza nell’Ostia per
effetto della consacrazione, che non ne modifica l’apparenza esteriore.
Un
seminatore di eresie della peggior specie, Schillebeeckx, che fu chiamato più
volte a chiarire la sua posizione a Roma ma non fu mai censurato ufficialmente,
mai punito in nessun modo. L’atletico e
azzimato Schillebeeckx, spesso in abiti civili, fu l’autore principale del
famigerato e contestato Catechismo olandese, zeppo di errori ed
orrori. È anche passato alla storia come
il distruttore del cattolicesimo in Belgio e Olanda, in quei Paesi oggi
praticamente estinto, validamente coadiuvato nell’impresa dal cardinale Suenens,
altro celebrato innovatore, un fanatico delle liturgie interconfessionali, dei
“sabba liturgici”.
I sette
schemi di costituzione inviati, gli unici all’epoca ultimati,
riguardavano: Le fonti della
rivelazione; Mantenere puro il Deposito della fede; L’ordine morale cristiano;
Castità, matrimonio, famiglia e verginità; la Sacra Liturgia; i mezzi di
comunicazione; L’unità della Chiesa con le chiese orientali.
Le prime
quattro costituzioni erano concepite come costituzioni dogmatiche. Gli schemi sul Deposito della fede e
sull’ordine morale cristiano condannavano numerosi errori circolanti in campo
filosofico, teologico, morale, cogliendo con preoccupazione i segni dell’inizio
di una crisi di valori che alimentava un edonismo sempre più diffuso e
preannunciava una preoccupante decadenza morale di tutto l’Occidente. Questo indubbiamente era e avrebbe comunque
dovuto essere il vero Concilio Vaticano II se i Pontefici al tempo
regnanti, Giovanni XXIII e Paolo VI, non avessero invece appoggiato l’azione
eversiva dei “nuovi teologi” e loro adepti nel clero, consentendo loro di
gettare alle ortiche il “Concilio preparato” (Amerio) per sostituirlo con uno
riflettente le loro convinzioni.
Le
tematiche appena richiamate, esponenti con sufficiente chiarezza e precisione
la dottrina tradizionale della Chiesa, non potevano piacere agli
ammodernanti. Schillebeeckx in
particolare si diede molto da fare.
Elaborò un commento fortemente negativo, che rigettava tutte e quattro
le prime costituzioni proposte. Egli
salvava solo il quinto schema, quello sulla Liturgia, all’elaborazione del
quale avevano preso parte anche teologi novatori. Come detto, costoro si trovavano anche nella
Commissione Teologica preparatoria, sia pure in minoranza. Ottaviani e il segretario della commissione
P. Sebastiaan Tromp SI, olandese, ebbero il loro da fare nell’imporre
l’esposizione corretta della dottrina della Chiesa, ostacolati anche dal
linguaggio “irenico” imposto da Giovanni XXIII.
Va anche ricordato che Giovanni XXIII, con l’alibi della
“riconciliazione”, autorizzò che venissero accolti come periti o consultores
(esperti senza diritto di voto) presso la Commissione Teologica
preparatoria molti fra i teologi le cui dottrine erano state implicitamente
condannate dall’Enciclica Humani generis di Pio XII, nel 1950. Si trattava dei vari de Lubac, Rahner,
Congar, Küng, e consorti, insomma del Gotha dell’eterodossia teologica
internazionale, una vera e propria “associazione eversiva”, dal punto di vista
teologico, cui partecipava come recluta defilata anche il teologo del cardinale
Frings al Concilio, il giovane professore di teologia Joseph Ratzinger. Un gesto molto grave, questo di Giovanni
XXIII, che seminò lo sconcerto fra chi ne capiva la portata. Quei teologi non si erano mai pentiti delle
loro ereticali teorie, non avevano mai abiurato i loro errori, nonostante le
censure legalmente loro imposte (sospensioni dall’insegnamento, messe
all’indice, richiami, silenziamenti).
Agendo in quel modo, Giovanni XXIII, dietro il paravento di una falsa
misericordia, non riconciliava costoro con la Chiesa bensì “conciliava” di
fatto la Chiesa con l’Errore. Come tante
tossine, quei teologi fedifraghi furono poi distribuiti come periti fra varie
commissioni e sottocommissioni conciliari.
Il
commento negativo di Schillebeeckx fu stampato e distribuito in opuscolo ai
Padri che cominciavano ad affluire a Roma per il Concilio e subito singole
Conferenze Episcopali presero ad inviare alla Presidenza del Concilio petizioni
per rinviare la discussione sui primi quattro schemi, iniziando invece dal
quinto, dedicato come si è visto alla Liturgia.
Schillebeeckx, sia pure come sola ipotesi, chiedeva che i primi quattro
schemi venissero addirittura riscritti.
Le critiche agli schemi non si distinguevano per particolare originalità
di pensiero. Ribattevano ossessivamente
che gli schemi erano “scolastici” e mancavano di “pastoralità”. Ma, questo è il punto, si autogiustificavano,
le critiche, con l’idea dell’apertura ecumenica all’insegna della
misericordia e della messa in soffitta delle condanne, concetti che Giovanni
XXIII aveva posto ripetutamente a fondamento del Concilio e che avrebbe
consacrato nella Allocuzione dell’ 11 ottobre.
Si ripeteva ossessivamente sempre
lo stesso ritornello: gli schemi
proposti non rispettavano le “direttive ecumeniche” espressamente fornite dal
Papa. Il che era come dire che Ottaviani
andava contro le intenzioni del Papa e quindi il lavoro fatto sotto la sua
supervisione non era buono: bisognava
ripartire da zero, scrivere degli schemi per l’appunto “pastorali” per
rispondere alle esigenze del mondo moderno (vedi Congar, supra).
L’inversione
dell’ordine del giorno e l’inizio della discussione dallo schema sulla
Liturgia, Giovanni XXIII li avrebbe poi concessi, subito dopo aver accettato la
rottura della legalità conciliare, avvenuta nel primo giorno del Concilio.
Mi sono
soffermato su questi aspetti preliminari al fatto del 13 ottobre per cercare
di far capire quanto grande fosse la
posta in gioco quel giorno: tanto grande da far echeggiare un terrificante NON
SERVIAM sotto le volte stesse della Basilica di san Pietro da parte di una
minoranza di cardinali scatenati, decisi ad imporsi a tutti i costi, fors’anche
perché intuitivamente consapevoli del fatto che la loro azione eversiva non
sarebbe dispiaciuta al Papa.
III.
Tutto
ciò visto, torniamo alla giornata fatale del 13 ottobre 1962. Mentre mons. Pericle Felici, segretario
generale del Concilio, stava spiegando la procedura da seguire per le votazioni
previste dal regolamento, si levò inaspettatamente il cardinale Achille Liénart,
arcivescovo di Lilla, uno dei dieci cardinali membri della Presidenza del
Concilio, e chiese la parola, interrompendo l’oratore. Il primo presidente del Concilio, primo
perché il più anziano, il cardinale Tisserant, che presiedeva la Congregazione
(nome, lo ricordo ancora, che si dava alle sedute dell’augusta assise), glela
negò a norma di regolamento, perché la Congregazione era stata riunita per
votare e non per decidere se votare o meno o comunque per discutere di
qualsiasi argomento estraneo all’ordine del giorno. Il porporato francese, allora, afferrò il
microfono dicendo, a quanto sembra: “Excusez
moi, je vais la prendre quand-même! [Scusatemi, me la prenderò lo
stesso!]”. E immediatamente lesse,
ricevendo l’applauso di una parte dell’assemblea, una dichiarazione nella quale
chiedeva che la votazione fosse rimandata e si concedesse alle Conferenze
Episcopali il tempo di consultarsi sull’idoneità dei candidati e di ampliare la
rosa degli stessi. Si voleva,
evidentemente, avere il tempo di proporre nuove liste di candidati, quelli
graditi alla fazione novatrice: in diverse e importanti Conferenze episcopali
serpeggiava la fronda e persino l’odio contro la Curia conservatrice composta
in gran maggioranza da italiani (De Mattei).
La richiesta del cardinale Liénart fu immediatamente appoggiata dal
cardinale tedesco Frings anche a nome dei cardinali Kõnig e Dõpfner e accolta,
dopo febbrili consultazioni tra i dieci porporati della Presidenza, dal
cardinale Tisserant, che aveva appena fatto il gesto (ma solo il gesto) di
applicare il regolamento nei confronti dell’illegittima richiesta del suo
collega (Wiltgen, Amerio, Levillain, De Mattei).
A
conferma della gravità dell’episodio, che non si può e non si deve dimenticare,
rammentiamo le parole appuntate dal cardinale Siri nel suo diario: “È difficile dire dello stupore e del disagio
creato da questa vicenda. In un’aria di
evidente e concitato malessere si
disperdono i partecipanti”(Chenu, nota del curatore; De Mattei). Compiacimento espressero, al contrario, la
sera stessa al P. Chenu, in un incontro privato, i due “monaci” protestanti
della ecumenicamente variegata comunità di Taizé, Schutz e Thurian, presenti al
Concilio come osservatori ufficiali: quel “Non serviam” manifestatosi inaspettatamente
in aula fin dalla prima seduta e nei vertici stessi della gerarchia cattolica,
non poteva non riempire di satanica soddisfazione i figli di Lutero. Compiacimento sembra aver espresso
privatamente anche Giovanni XXIII, secondo quando riportato dal cardinale
Suenens in suo libro di ricordi sul Concilio:
“Felice colpo di scena e audace violazione del regolamento […] In buona
parte le sorti del Concilio vennero decise in quel momento. Giovanni XXIII ne fu lieto” (Chenu; De
Mattei). C’è anche la testimonianza
dell’amico di un vescovo olandese, di orientamento novatore evidentemente:
quest’ultimo, uscendo dall’Aula, gli avrebbe gridato tutto giulivo: “È la nostra prima vittoria!” (Wiltgen).
Successivamente
il cardinale Liénart scrisse di aver agito per un’improvvisa ispirazione dello
Spirito Santo. Lo stesso aveva detto
Papa Roncalli, quando annunziò di voler indire un Concilio ecumenico: sarebbe stato il frutto di un’improvvisa
ispirazione dello Spirito Santo.
L’affermazione del cardinale Liénart è stata ridicolizzata dal
Levillain, un autore simpatizzante per il nuovo corso. Il suo
intervento era stato febbrilmente preparato nei giorni immediatamente
antecedenti, su iniziativa dell’allora mons. Gabriel-Marie Garrone, francese,
dopo ripetuti incontri con diverse personalità, quasi sicuramente della Alleanza
Europea. Lo schema dell’intervento,
preparato materialmente in latino da mons. Garrone e da tre sacerdoti francesi
al Seminario francese di Santa Chiara, fu consegnato al cardinale Joseph-Charles
Lefebvre, cugino di mons. Marcel Lefebvre, nella notte tra il 12 e il 13
ottobre. Costui lo diede la mattina dopo
a Liénart, che lo imparò a memoria mentre si dirigeva in macchina a San Pietro
la mattina del 13, giorno delle votazioni (Levillain). Altro che Spirito Santo! Si trattò dell’azione ben coordinata di una
lobby, che preparò il colpo in fretta e furia ma lo piazzò con estrema
lucidità. In modo forse più preciso il
fatto viene ricostruito da De Mattei: il testo scritto dell’intervento in latino
venne consegnato a mano al cardinale Liénart dal cardinale Lefebvre,
all’ingresso della Basilica di San Pietro (De Mattei). Giova ricordare che mons. Garrone, uno degli
artefici principali dell’improvvisato complotto, successivamente cardinale e prefetto della
Congregazione dei Seminari e delle Università dal 1966 al 1990, si applicò con
estremo zelo ad applicare le riforme suggerite dal Concilio ai seminari
francesi, riducendoli ad un deserto: all’inizio degli anni Cinquanta del XX
secolo si ordinavano in Francia circa mille preti l’anno; nel 2006 ne furono
ordinati 98 (e si tace sulla qualità dell’insegnamento).
Quali
furono le conseguenze immediate di questa “prima vittoria” dello schieramento
progressista? Nel pomeriggio dello
stesso 13 ottobre, in una riunione dei dieci membri della Presidenza del
Concilio, i cardinali Frings, Liénart e Alfrink insistettero perché si
invertisse l’ordine della discussione sugli schemi. Il giorno successivo, 14 ottobre, i dieci furono
ricevuti dal Papa il quale accordò l’inversione richiesta, anche se sembra che
solo cinque cardinali la sostenessero (Wiltgen). La decisione fu annunziata ufficialmente il
15 ottobre: la discussione sarebbe cominciata dal quinto schema, quello sulla
Liturgia, e non più dal primo, sulle Fonti della Rivelazione (Wiltgen). Rientrava certamente nei poteri del Papa
accettare o meno le richieste modifiche
e persino modificare il regolamento del Concilio in itinere. Resta il fatto che l’azione eversiva dei
cardinali ammodernanti, il cui scopo si intuiva esser assai più ampio di quello
di una semplice modifica delle procedure del Concilio, aveva abbondantemente
pagato: Giovanni XXIII aveva fatto sua
l’impostazione rivoluzionaria invece di richiamare all’ordine i cardinali
eversori.
L’ulteriore
e più grave conseguenza ricadde sulle elezioni delle Commissioni
conciliari. Le elezioni furono spostate
al giorno 16 ottobre. I novatori,
anteriormente presenti solo in numero ridotto negli elenchi forniti dalla Curia,
ottennero il 49% dei seggi disponibili.
Arrivarono a conquistare la metà della Commissione Teologica e ad avere
la maggioranza di quella sulla Liturgia.
È stata questa maggioranza a fabbricare la Sacrosanctum Concilium,
la costituzione sulla riforma liturgica, che ha posto le premesse di quella
mostruosità che è la Messa Novus Ordo.
A fabbricarla, vivente ancora Giovanni XXIII, per quanto durante le
discussioni il suo schema fosse stato demolito in più punti dall’Arcivescovo
Enrico Dante, Prefetto della Congregazione dei Riti, appoggiato dal cardinale
Bacci, da mons. Pietro Parente, da mons. Vagnozzi, dall’Arcivescovo Dino
Staffa, dal cardinale Ottaviani, dal cardinale Siri (Wiltgen; De Mattei). Questo va ricordato contro coloro che
ritengono ancor oggi esser la Sacrosanctum Concilium una costituzione
nell’insieme accettabile, solo fraintesa o male applicata.
Come fu
possibile ai novatori piazzare tanti loro uomini nelle Commissioni
conciliari? Questo risultato era stato
reso possibile anche dal fatto che il giorno stesso della proclamazione dei
risultati, il 20 ottobre, Giovanni XXIII aveva fatto sapere, per bocca del
segretario generale mons. Felici, di aver sospeso l’applicazione dell’art. 39
del regolamento, che esigeva la maggioranza assoluta (della metà più uno) per
esser eletti, permettendo così l’adozione del criterio della maggioranza
relativa (ovvero quella del candidato che, senza raggiungere la maggioranza
assoluta, avesse raccolto il maggior numero di voti). Grazie a questo criterio, bastava una
qualsiasi maggioranza, anche minima, per esser eletti. Nell’apportare questa modifica al regolamento
“vivae vocis oraculo”, e con una procedura alquanto disinvolta, Giovanni
XXIII fece sapere di aver accolto un suggerimento della Presidenza del Concilio
(Wiltgen). Nel suo diario Chenu
scrive: “I padri entrano in seduta [per
iniziare i lavori] senza sapere ancora se il papa, modificando la legge,
deciderà in un solo turno con maggioranza relativa o se la conserverà per un
secondo turno, in vista di una maggioranza assoluta. Senza alcuna deliberazione, Felici dà i
risultati del primo turno, con elezioni immediata di sedici membri, a sola
maggioranza relativa. I suffragi vanno
da 1.800-1700 a 700, e ancora meno in molti casi” (Chenu). L’impressione è che, senza la modifica attuata
da Giovanni XXIII non prima delle elezioni ma dopo aver
conosciuto il loro esito, come si evince dal fatto di esser stata annunziata
contestualmente ai risultati stessi, molti candidati progressisti non sarebbero
riusciti a raggiungere il quorum richiesto
dal regolamento, quello della maggioranza assoluta.
Persino
Giuseppe Dossetti, perito e consigliere teologico del cardinale Lercaro al
Concilio, cattolico di sinistra, ex presidente della Democrazia Cristiana, ex
parlamentare, ex docente di diritto canonico (è stato uno degli artefici
dell’attuale Costituzione repubblicana), in un memorandum intitolato Osservazioni
e proposte sul regolamento del Concilio, deplorò il clima di anarchia e
sostanziale illegalità che si era instaurato sin dall’inizio dell’assise: “… si può capire che nelle prime settimane si
sia reso necessario qualche ritoco al regolamento e altri possa consigliarne
l’esperienza futura [un ritocco al regolamento ci fu anche durante il Vaticano
I]. Ma è di importanza capitale che le
modificazioni non avvengano quotidianamente ma solo in occasioni sempre più
rare, e soprattutto non avvengano in modo informe per decisioni date vivae
vocis oraculo ma solo in modo formale con ponderate e organiche norme
scritte” (Chenu – testo aggiunto dal curatore; De Mattei). Va sottolineato che le modifiche “quasi
quotidiane” e “informi” della procedura erano provocate dall’illecita pressione
dei novatori sul Concilio, per impadronirsi dei suoi meccanismi e modificarne
le procedure a loro vantaggio.
Bibliografia
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M. Wiltgen, The Rhine flows into the Tiber. A History of VaticanII,
Devon 1979, 1a ed. 1967.
2.
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Univ. Cath. de Louvain, 1993.
4. Marie-Dominique Chenu, Diario del Vaticano
II. Note quotidiane al Concilio
1062-1963, tr. it. di Roberta Ferrara e Monica Marzaduri, edizione
ed introduzione di Alberto Melloni, il Mulino, Bologna, 1996 (l’originale è del
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5. Philippe Levillain, La mécanique politique
de Vatican II. La majorité et
l’unanimité dans un concile, Beauchesne, Paris 1975.
6. Giuseppe Alberigo (a cura di), Storia del
Concilio Vaticano II, in cinque volumi, il Mulino, Bologna, 1995 ss., in
particolare il I volume.
7. Roberto de Mattei, Il Concilio Vaticano
II. Una storia mai scritta, Lindau,
Torino 2010.
8. Paolo
Pasqualucci, Il Concilio parallelo.
L’inizio anomalo del Vaticano II, Fede & Cultura, Verona, 2014.