Paolo
Pasqualucci
INFELIX AUSTRIA
una critica del "mito asburgico", versione cattolica
* *
“Tutto
il nostro esercito definisce la guerra contro l’Italia “la nostra guerra”.
Ciascun ufficiale nutre in petto fin dai suoi
giovani anni l’ardente desiderio,
trasmessogli
dai padri, di combattere contro il nostro nemico ancestrale”.
(Carlo I d’Asburgo-Lorena, Imperatore d’Austria, Re Apostolico d’Ungheria)
Nota dell’Autore
Ripubblico qui un saggio apparso con diverso titolo su
questo stesso blog il 3 aprile 2019. Il
testo è stato da me completamente rivisto, modificato e notevolmente ampliato. Vi ho aggiunto due nuovi paragrafi: 1.1. Le vere ragioni della nostra
neutralità nell’agosto del 1914; 8.1 Contro tutta la propria storia, la
Monarchia Danubiana si trovò alla fine a dover sostenere il megalomane
espansionismo panturco dei Giovani Turchi, nemico spietato del cristianesimo. Mi auguro che la critica argomentata del “mito
asburgico”, che a mio avviso ha un’influenza deleteria sull’intellettualità cattolica
attualmente impegnata nell’elaborazione di una visione della politica fondata
sui valori cristiani autentici e quindi cattolici tradizionali, possa
contribuire al chiarimento dei concetti, indispensabile per poter articolare un
pensiero politico cattolico veramente costruttivo, rispondente alle esigenze dell’Italia afflitta dai gravi mali che tutti
conosciamo.
* *
Sommario: Premessa.
1. Solo estremisti e rivoluzionari volevano la dissoluzione
dell’Austria-Ungheria alla vigilia della Grande Guerra. 1.1 Le vere ragioni della nostra neutralità
nell’agosto del 1914. 2. La tesi del prof. De Mattei: l’Austria-Ungheria, in quanto Stato cattolico
ancora perno dell’equilibrio europeo, principale nemico da abbattere per le
potenze dell’Intesa. 3. Critica della tesi
del prof. De Mattei: 3.1 Gli Stati Uniti, quando entrarono nel
conflitto il 2 aprile 1917, dichiararono guerra unicamente alla Germania. All’Austria-Ungheria solo il 7 dicembre
successivo, ben 8 mesi e 5 giorni dopo e solo dopo molte pressioni. 3.2 La
verità è che per tutto il 1917 e fino alla primavera del 1918 ci furono
ripetuti tentativi angloamericani per indurre la Duplice Monarchia ad una pace
separata, staccandola dal mortale abbraccio tedesco. 3.3 L’errore decisivo di Carlo d’Asburgo: puntare
alla vittoria sul campo, nell’estate del 1918.
4. Nell’impero austro-ungarico “il riflesso” della “Christianitas medievale” appariva ormai opaco: 4.1 Il rilassarsi della morale. 4.2 Il Sacro Romano Impero tra ideale e
realtà. 4.3 Le contraddizioni
dell’asburgico “cattolicesimo illuminato”, anticuriale, anticlericale e
filogiansenista prima della Rivoluzione Francese, anticlericale filoliberale all’epoca
di Francesco Giuseppe. 4.4 L’Italia “appendice austriaca” all’epoca
della Restaurazione. 5. La
vera missione storica dell’Austria:
difendere l’Europa dalle invasioni provenienti dall’Est e dai Balcani,
civilizzare sia l’ Est che i Balcani, abbattere la potenza ottomana. 6. I guasti prodotti dall’anticlericalismo di
taglio liberale durante il regno di Francesco Giuseppe, il quale sanzionò
l’introduzione del matrimonio civile (1868) e reagì negativamente al dogma
dell’infallibilità pontificia (1870) denunciando unilateralmente il Concordato
del 1855. 6.1 Francesco Giuseppe non fu “buon figlio devoto
al Santo Padre”, anche se fu un imperatore sollecito dei suoi sudditi, amato
dal gran numero, rispettato da chi non lo amava. 7. Nella cultura della “Grande Vienna”, prevalentemente
positivistica e antimetafisica, si delineava la dissoluzione della recta ratio,
la fuga nell’irrazionale in accoppiata con la pseudocultura esoterica e völkisch.
7.1 L’irrazionalismo a sfondo nichilistico di Wittgenstein, emblematico del
tramonto di una cultura e di una civiltà.
7.2. Filoni austriaci della pseudocultura esoterica e völkisch. 8. L’impero
austro-ungarico non era più in grado di svolgere la sua missione storica, il
suo tempo si era ormai compiuto. 8.1 Contro tutta la propria storia, la Monarchia
Danubiana si trovò alla fine a dover sostenere il megalomane espansionismo panturco
dei Giovani Turchi, nemico spietato del
cristianesimo.
* * *
Premessa.
Il crollo della duplice monarchia asburgica nel 1918
costituì la perdita di un “centro cattolico” ancora “fulcro dell’equilibrio e
della stabilità dell’Europa”? Ed essa fu
assalita innanzitutto perché cattolica?
La prima guerra mondiale ebbe come obbiettivo essenziale quello di
distruggere l’Austria cattolica, unico Stato ancora in grado di svolgere una
politica coerente con i principi del cattolicesimo, anche in politica estera?
Questa interpretazione ha preso piede nel secondo
dopoguerra, soprattutto presso una parte dell’intellettualità cattolica. L’ha resa popolare la diffusione, anche a
livello mediatico, di un vero e proprio “mito asburgico”, per usare la
fortunata espressione di Claudio Magris -- per lui, che traduce alla lettera Habsburg,
“absburgico”: visione assurta a mito
di quella che fu indubbiamente una notevole e prestigiosa realizzazione statale.
Notevole e anche gloriosa, se pensiamo
ai due assedi sostenuti vittoriosamente da Vienna contro i formidabili eserciti
turchi nel 1529 e 1683, alle successive sanguinose e vittoriose guerre contro i
medesimi, per la difesa dell’Europa e della religione cristiana; alla difesa politica
e culturale ma anche armata del Cattolicesimo contro la devastante ed
eversiva eresia protestante e contro il posteriore “pericolo slavo”,
rappresentato soprattutto dalla Russia imperiale e scismatica, pretesa “Terza
Roma” sempre ostile alla vera Roma cristiana, quella cattolica; alla creazione (con
la Mitteleuropa) di una
realtà sociale e culturale altamente civile ed evoluta, dotata di un suo
caratteristico stile, capace di far progredire e convivere per quasi
quattro secoli popoli non solo diversi ma persino ostili tra loro.
Marx e Engels, commentando le rivoluzioni del 1848 e
la dura repressione che ne era seguita, scrivevano con ingiustificato disprezzo
che gli unici prodotti della civiltà austriaca erano il funzionario e il
militare (di un Haydn, di un Mozart, nulla sembravano sapere). In
effetti, un impero multietnico (ma ogni impero lo è, a ben vedere) poteva
reggersi solo sulla fedeltà assoluta alla dinastia, impersonata dalla figura
del monarca. Questa fedeltà, che
si esprimeva nel culto minuzioso (ed anche eccessivo) del protocollo,
dell’etichetta, della gerarchia, delle cerimonie, delle festività religiose e
militari, costituiva in ogni caso il vero patriottismo di quella
monarchia, trascendente la dimensione territoriale e politica in senso stretto: un’Austria dello spirito, le cui
istituzioni non potevano non essere sovranazionali, come appunto lo erano la
burocrazia e l’esercito, i due pilastri di quello Stato (e di ogni Stato, anche
se non in quella misura). E come lo era la Chiesa cattolica, altro pilastro
fondamentale, anche se i preti di questa o quella etnìa a volte tendevano a
foraggiarne il patriottismo in senso esclusivistico, alimentando odi e divisioni.
Della burocrazia austriaca e del sistema di governo basato su costruttivi compromessi e la
ricerca di una sapiente aurea mediocritas, resta valido il giudizio che
ne dava, con affettuosa ironia, il grande scrittore di Klagenfurt, Robert Musil,
nel suo celebre romanzo L’uomo senza qualità: “L’Austria aveva una perfetta burocrazia che
funzionava immutata da due secoli; andava ancora fiera delle belle strade
militari costruite all’inizio del Settecento e delle ben architettate fortezze
dell’età napoleonica. Non si parlava mai
a Vienna di paesi d’Oltreoceano e di problemi coloniali. Si spendevano somme enormi per l’esercito,
senza aver l’ambizione di possedere il primo esercito europeo; la capitale non
era grande come le città grandissime, ma un po’più grande delle città che si
dicevano grandi per definizione. Si
aveva una costituzione liberale, la vecchia costituzione giuseppina [riesumata
in parte con lo Ausgleich, vedi infra], ma comandavano i
clericali; comandavano i clericali, i quali però vivevano alla maniera dei
liberali, cioè da libertini. Il parlamento poteva fare un uso tanto esteso
della sua libertà, che il più spesso bisognava tenerlo chiuso, applicando leggi
di emergenza [per via delle violente risse tra esponenti delle varie
nazionalità e dei loro leggendari ostruzionismi]. Ma quando tutti erano contenti della felice
chiarificazione ottenuta col ritorno all’assolutismo, la Corona decretava
all’improvviso che si doveva governare di nuovo nelle forme costituzionali”
(Mittner).
Ma un conto è la giusta rivalutazione storica (contro
i pregiudizi anticattolici e gli odi politici di un tempo) dei non pochi meriti
della plurisecolare monarchia danubiana; altro conto lasciarsi andare a sopravvalutazioni
ed esaltazioni che tendono a sfociare nel mito, con il risultato di
proporre modelli del tutto irripetibili e illusori per la rinascita di uno
Stato cristiano. Intendere il tragico e
apocalittico susseguirsi del secolo che va dal 1918 al 2018 unicamente quale
conseguenza della caduta, nel 1918, dell’impero asburgico, come se esso avesse
rappresentato ancora (agli inizi del Novecento) l’effettivo fulcro
dell’equilibrio continentale e proprio per la sua qualità di intatto Stato
cattolico, ciò significa proporre, a mio giudizio, una visione che
corrisponde alla realtà storica solo in parte, illustrando essa solo la parte
mezzo piena del bicchiere, come si suol dire.
Questa tesi, espressione di una mentalità tuttora
diffusa in certi ambienti, notoriamente ostili al Risorgimento e allo Stato
unitario italiano in quanto tali, convinti come sono che il Sacro Romano
Impero rappresenti l’unico modello possibile di uno Stato cristiano, è stata
riproposta con chiarezza tre anni fa circa (il 19 dicembre 2018) dal prof.
Roberto De Mattei sul sito Corrispondenza Romana, in un articolo a
commento del significato del “secolo breve” appena trascorso, da lui così
ritagliato: 1918-2018: ‘Tutto crolla, il centro non regge più’. Il titolo virgolettato è tratto da un verso
di W.B. Yeats, ci ricorda lo stesso Autore.
Perché affermo che la tesi contiene una verità solo
parziale? Parziale, perché bisogna per l’appunto chiedersi
sino a che punto la duplice monarchia danubiana fosse ancora, già a partire
dalla seconda metà dell’Ottocento, l’effettivo “fulcro dell’equilibrio e della
stabilità dell’Europa”, come lo era stata durante il periodo della Restaurazione
e ancor più nell’epoca prenapoleonica, al tempo di Eugenio di Savoia, per
intenderci, quando aveva il più forte esercito dell’Europa continentale. O non si era essa indebolita a paragone della
superiore potenza di Germania e Russia e
non era diventata a sua volta un elemento instabile, a causa dei sempre più
gravi conflitti fra le sue nazionalità – insanabile quello tra cèchi e
tedeschi - non risolvibili a livello
politico, e quindi tali da impedire le indispensabili riforme costituzionali,
da più parti auspicate e proposte? Instabilità
politica interna dietro il tradizionale, calibrato “immobilismo” asburgico e conseguente
mancanza di lucidità, che si sarebbe appunto manifestata nella drammatica
incapacità (con il sopravvalutare le proprie forze) di mantenere la crisi seguìta
all’assassinio di Sarajevo, nel luglio del 1914, entro i limiti di un confronto
balcanico con la Serbia, possibilmente non militare. Questo non significa, come hanno fatto in
molti, voler attribuire alla sola dirigenza asburgica (e tedesca, che
l’appoggiò integralmente) la colpa per lo scoppio della Grande Guerra. Anche l’aggressiva e spregiudicata politica
russa nei Balcani ha le sue responsabilità, mentre sullo sfondo non mancano
quelle di francesi e inglesi.
1. Solo
estremisti e rivoluzionari volevano la dissoluzione dell’Austria-Ungheria alla
vigilia della Grande Guerra.
Mi sembra più valida la tesi in passato prevalente,
secondo la quale l’Austria-Ungheria aveva da tempo cessato di rappresentare “il
fulcro determinante” cui accenna il prof. De Mattei, pur continuando a svolgere
un importante ruolo geografico-strategico e politico-economico nello scacchiere
europeo. Un importante ruolo di “equilibrio”
che si stava però squilibrando sempre più verso un duro e pericoloso conflitto
con l’autocratico impero russo per il dominio nei Balcani ossia per la
divisione delle spoglie europee del sempre più decrepito impero ottomano. E i russi si erano alleati all’ultralaica
Francia repubblicana, che ardeva dal desiderio di recuperare l’Alsazia e la
Lorena, dovute cedere alla Germania dopo la catastrofe del 1870, chiudendo la
Germania in una morsa. Il vero “centro”
era ormai costituito dalla protestante e laica Germania guglielmina, potenza
militarmente (ed economicamente) egemone dell’Europa continentale, dopo le
fulminanti vittorie su austriaci (1866) e francesi (1870) e il suo poderoso
sviluppo industriale e commerciale. Ma chi
voleva la dissoluzione dell’Austria-Ungheria nel 1914? In Occidente solo gli elementi più estremisti
della cultura e politica laica, massoni legati al Grande Oriente, gli eredi del mazzinianesimo, gli irredentisti
più accesi, i rivoluzionari, i pangermanisti aspiranti allo Anschluss con
la Germania per spezzare “l’accerchiamento slavo”, come dicevano; in Oriente
quelli più aggressivi dello zarismo, i panslavisti, i cui obbiettivi di guerra
comportavano di fatto il disgregamento dell’impero asburgico; o i panserbi,
come gli attentatori di Sarajevo, che, aspirando ad una Grande Serbia estesa
sino all’Adriatico, non tolleravano l’esistenza di una Bosnia mussulmana sotto
l’ala austriaca; i rivoluzionari di
professione, come l’ancor poco noto Vladimir Ilijc Lenin, il quale, in una
lettera del 1913 a Maksim Gorkij, aveva scritto: “La guerra tra l’Austria e la Russia sarà
utilissima alla causa della rivoluzione nell’Europa occidentale. Ma è difficile
credere che Francesco Giuseppe e Nicola ci rendano questo servigio” (Shub) . E invece glielo resero, eccome, “il
servigio”.
Bisogna rammentare che il Patto di Londra,
concluso in segreto il 26 Aprile del 1915 tra l’Italia e le Potenze dell’Intesa
(Gran Bretagna, Francia e Russia), con il quale ci impegnavamo ad entrare in
guerra entro un mese “contro tutti i nemici” delle suddette; patto seguíto
dalla nostra uscita il 4 maggio dalla Triplice, venti giorni prima dell’entrata
in guerra, dichiarata però alla sola Austria-Ungheria a partire dal 24 maggio,
all’impero ottomano il 20 agosto successivo e il 19 ottobre del ‘15 alla
Bulgaria – alla Germania solo il 27 agosto
1916, in pratica costretti dalla pressione sempre sempre più irritata dei nostri
alleati, dai quali dipendevamo per i rifornimenti e i crediti, la cui stampa ci
accusava di slealtà e tradimento ---- ebbene, questo patto non contemplava la
dissoluzione dell’impero asburgico bensì un suo ridimensionamento, anche se
questo ridimensionamento poteva apparire eccessivo, per esempio nel voler
acquisire all’Italia oltre a Trieste, porto di vitale importanza per l’impero
danubiano, anche la munita base navale di Pola, sulla punta dell’Istria e tutta
l’Istria sin quasi al Golfo del Quarnaro,
però con l’esclusione di Fiume. I
nostri obbiettivi essenziali di guerra erano il raggiungimento delle frontiere
naturali sulla displuviale alpina - Bolzano e Merano erano ricomprese nel
Ducato di Trento dall’Italia longobarda (Huber-Dopsch; Ferrandi) – e il controllo dell’Adriatico.
Il controllo dei passi alpini permetteva quello della valle dell’Adige,
indispensabile per la difesa della
pianura padana, mentre occorreva almeno l’Istria occidentale (in tutto o in
parte) per coprire nel modo dovuto Trieste. Miravano, inoltre, alla Dalmazia del Nord con
le isole prospicienti e al controllo dell’Albania mediante il possesso di
Valona e dell’isola di Saseno – le appendici adriatiche e albanesi ritenute
necessarie innanzitutto per proteggere la nostra costa adriatica, costituita da
700 km di spiagge quasi ovunque piatte,
praticamente indifendibili. C’era anche
l’ovvia intenzione di proteggere le nostre comunità in Istria e Dalmazia
dall’ostile preponderanza slava (favorita da Vienna) e l’aspirazione a potersi
espandere (economicamente) nei Balcani, fin allora terreno di caccia delle
Grandi Potenze, e in particolare della Duplice Monarchia. Ma l’Italia si voleva ritagliare dalla potenza
asburgica (rimasta di fatto ostile nonostante l’alleanza, voluta soprattutto da
Bismarck) innanzitutto territori considerati indispensabili alla sua difesa, prima ancora che trampolino
di lancio per una possibile espansione balcanica. La nostra frontiera
centro-orientale era pessima, praticamente indifendibile, con il confine poco a
nord di Verona, trovandosi il Trentino e l’Alto Adige in mano austriaca, e
l’arco alpino nella stessa mano, che poi afferrava l’Isonzo, oltrepassandolo in
qualche punto. A parte il Trentino e l’Alto
Adige, si trattava per noi di ristabilire nell’insieme i confini della
Repubblica di Venezia, dissolta brutalmente da Napoleone nel 1797 e concessa
all’Austria dal Congresso di Vienna, nel 1815, quale (agognato) compenso per la
sua partecipazione alla lotta vittoriosa contro il Tiranno.
Nemmeno la classe dirigente dell’Italia umbertina,
liberal-massonica come amano sottolineare i “tradizionalisti” cattolici e non,
mirava alla dissoluzione dell’antico Stato degli Asburgo, che aveva voluto
essere il nostro nemico per eccellenza sin
dal tempo dell’imperatore Massimiliano I, il quale, durante le Guerre
d’Italia (che, nella prima metà del Cinquecento, avevano posto brutalmente fine
all’indipendenza degli Stati italiani), tentò con tutti i mezzi di conquistare
la Serenissima, senza peraltro riuscirci, così come non ci sarebbero riusciti i
suoi successori. Noi italiani eravamo
assurti, agli occhi degli Asburgo, al rango di “nemico ereditario”,
“ancestrale” e l’odio per l’Italia cementava, a quanto sembra, gli altrimenti
divisi popoli dell’impero. Ma perché un
tale odio? Avevamo forse, divisi come eravamo in piccoli e punto bellicosi
Stati, minacciato in qualche modo i domini degli Asburgo, per meritarci di
assurgere addirittura a loro “nemico ancestrale”? Guardando alla storia, risulta piuttosto che
ad esser minacciati ed invasi eravamo stati sempre noi italiani.
Dalla seconda metà del Trecento, bavaresi e austriaci,
in lotta tra loro, avanzavano lentamente verso la pianura padana, scendendo per
la valle dell’Adige, assorbendo o respingendo verso Sud gli italiani, penetrando
nel Trentino, erodendo i confini dei possessi veneziani nel Cadore, nel Friuli
e nello stesso Trentino (Ferrandi). La
Repubblica di Venezia svolse per tanti secoli azione di difesa contro lo
straniero e di protezione
dell’italianità. Sconfitto duramente nel
Cadore dai veneziani, Massimiliano I, inseritosi nella Lega di Cambrai con i francesi
e il Papa contro la Serenissima, dopo la
sconfitta di quest’ultima le strappò, nel trattato di pace: Rovereto, Ala,
Mori, Avio, Riva e l’Ampezzano (Ferrandi).
“Soltanto
sotto Massimiliano I [eletto imperatore nel 1486] l’Austria divenne uno Stato
litoraneo con l’acquisto della Contea di Gorizia e, anche dopo, durò gran
fatica a mantenere per terra, contro Venezia, i suoi possedimenti litoranei
sull’Adriatico, senza dire che non avrebbe avuto la forza di difendersi anche
per mare contro il monopolio di navigazione che la Repubblica di San Marco
pretendeva per sè tra Ravenna e Fiume. Infatti
per una simile impresa essa avrebbe avuto bisogno proprio di quelle forze
marinare che l’Austria non poteva creare sotto la pressione del sistema di
esclusione veneziano. L’imperatore
Massimiliano, nel tempo in cui voleva distruggere lo Stato che egli odiava più
profondamente, aveva in mente di tentare un assalto contro la stessa città di
Venezia [1509 – eravamo nel pieno delle Guerre d’Italia]; ma perfino
alla base di questo progetto utopistico egli poteva metter soltanto un’azione
combinata delle flotte francese e spagnola, poiché non c’era da pensare al
contributo di navi austriache” (Fueter).
Il “nemico
ancestrale” italiano, da tutti i sudditi asburgici disciplinatamente detestato,
l’aveva dunque creato la pretesa di dominio austriaca in Italia, colpevoli gli
italiani e in particolare i veneziani di opporsi e resistere a tale pretesa,
che credeva di legittimarsi nel contrapporsi ad uguale ingiusta pretesa di
dominazione su di noi, quella della monarchia francese: si trattava, comunque, del semplice conflitto
di due politiche di potenza uguali e contrarie, in antitesi ai principi ai quali
avrebbe dovuto ispirarsi la politica estera di monarchi cristiani (pace tra di
loro, fronte comune al nemico della fede).
Riuscito ad impossessarsi della Repubblica di San Marco solo nel 1815, alla divisione delle spoglie dell’impero
napoleonico, l’Asburgo aveva poi favorito, soprattutto a partire dal 1866, la penetrazione slava ai danni delle antiche
comunità italiane di Istria e Dalmazia e lungo l’Isonzo nonché la progressione
tedesca nel Trentino, dove nei decenni anteriori alla Grande Guerra la
pressione pangermanista era stata piuttosto forte. Nel Consiglio della Corona del 12 novembre
1866, poco dopo la perdita del Veneto, l’imperatore Francesco Giuseppe aveva
approvato “misure contro l’elemento italiano in alcune regioni della Corona”
(Toscano). E difatti, eccone un esempio:
tra il 1870 e il 1880 fu abolito l’insegnamento scolastico primario in italiano
in Val Gardena, in Val Badia, sull’altopiano di Siusi, mantenuto nelle locali pratiche
religiose solo per intervento delle autorità ecclesiastiche. Nel 1888 fu fondata a Bolzano un’Unione
“avente come scopo di resistere all’azione posta in atto in Bolzano e Merano
nonché nelle zone ladine, per l’eliminazione della lingua e della cultura
italiana” (Ferranti).
Nel Trentino, durante la Grande Guerra, il comando
militare austro-ungarico (Arciduca Eugenio) era per una politica di
germanizzazione della popolazione, già in atto nell’esercito, dove alcuni
comandanti proibivano ai soldati di etnia italiana di parlare in italiano tra
di loro (Pieropan; Pozzato). Non mancava
il sostegno di una cultura al servizio della causa: l’autorevole rivista del
Club Alpino Austro-Tedesco, pubblicava nel 1917 un articolo di un professore di
Innsbruck nel quale si affermava perentoriamente che il Trentino o Welschtirol
(Welsch, termine spregiativo per latini o italiani) possedeva un
antico carattere esclusivamente tedesco anche nella provincia di Trento (Pozzato).
E il carattere al tempo quasi tutto italiano del Trentino, allora, da dove era
uscito fuori, viene da chiedersi, tutto d’un tratto dalla terra come Minerva
dalla testa di Giove Ottimo Massimo?
Secondo il censimento austriaco del 1910 il Trentino contava 360.938
abitanti italiani e 13.447 tedeschi (Ferranti).
Comunque,
l’Italia, nel settembre del 1918, quando cominciava a profilarsi la vittoria
dell’Intesa, aveva riconosciuto il diritto all’esistenza di uno Stato jugoslavo,
con il quale sarebbe poi stato necessario trattare per le questioni adriatiche. Che divennero incandescenti nel caso di Fiume,
allorché, negli ultimi giorni della guerra, mentre l’Impero si dissolveva, il
30 ottobre 1918 la maggioranza italiana della città espresse in un Consiglio da
essa nominato la volontà di essere inclusa nel Regno d’Italia. Gli italiani di Dalmazia, Istria, Trieste non
volevano esser governati dagli jugo-slavi o slavi meridionali, che da decenni
cercavano di coartarli in tutti i modi o assimilandoli o costringendoli ad andarsene
(Monzali). Forte era l’ostilità slovena
e croata nei nostri confronti.
1.1 Le vere ragioni della nostra neutralità nell’agosto
del 1914.
L’avversione e l’odio verso di noi divennero implacabili dopo la nostra dichiarazione
di neutralità e la successiva entrata in guerra contro l’ Impero. Ancora oggi veniamo accusati di tradimento,
anche se in modo più sfumato, almeno da parte degli storici tedeschi, secondo i
quali, se l’Italia fosse rimasta neutrale, gli Imperi Centrali avrebbero potuto
uscire da quella terribile guerra con un “pareggio” (Remis, in tedesco),
una dignitosa pace di compromesso (Rusconi). Tesi interessante, anche se troppo basata sui
“se”: il “pareggio” gli Imperi Centrali avrebbero comunque potuto conseguirlo
dopo aver vinto la guerra ad Est, con l’abbattere il gigante russo, se avessero
cercato sinceramente di ottenere una ragionevole pace, che desse soddisfazione
anche alle giuste richieste degli avversari.
Invece vollero stravincere e persero.
Ma potevamo restar neutrali? La decisione iniziale, di non assecondare
l’aggressione austriaca alla Serbia era del tutto corretta. Fu dovuta
soprattutto al marchese Antonino di San Giuliano, catanese, nostro lucidissimo
ministro degli esteri, purtroppo gravemente malato di gotta e deceduto il 16
ottobre 1914. L’uccisione dell’erede al trono arciduca Francesco Ferdinando e
della consorte Sofia, duchessa di Hohenberg, in visita ufficiale a Sarajevo, da
parte di un serbo facente parte di un commando di terroristi serbi nazionalisti
affiliati ad una società segreta chiamata “Mano nera”, panserbisti ferocemente
avversi all’esistenza di una Bosnia austriaca, fu un fatto gravissimo, reso possibile
(si ritenne, non a torto) dalla complicità dei “servizi” serbi. Non poteva
restare impunito. Ma non era quello il
modo.
La Triplice
Alleanza, che durava da circa trent’anni, tra noi, Germania, Austria-Ungheria,
era un’alleanza prettamente difensiva anche se i due imperi avevano cominciato
ad usarla in senso offensivo già nel caso dell’annessione austriaca della
Bosnia-Erzegovina, una delle vere cause della Grande Guerra. “Nel marzo del 1909 Vienna annette la Bosnia
ed Erzegovina, regioni già sotto la sua amministrazione ma formalmente ancora
sotto la sovranità turca. L’operazione
riesce grazie alla doppia intimidazione esercitata sulla Serbia e sulla Russia,
con la minaccia di un intervento armato sostenuto dalla Germania [se non
avessero riconosciuto legittima l’annessione].
In questo modo viene dato un ulteriore scossone destabilizzante
all’intera regione balcanica, mentre la Russia [che ancora risentiva della
grave crisi provocata dalla rivoluzione del 1905 e dalla coeva sconfitta contro
il Giappone in Manciuria], determinata a non farsi più sopraffare in un’area
che considera di sua influenza, dà il via ad un grande programma di ammodernamento
e riarmo del suo esercito” (Rusconi).
L’annessione della Bosnia-Erzegovina alla Duplice Monarchia, episodio
oggi dimenticato, creava una nuova provincia asburgica che si frapponeva tra la
Serbia e l’Adriatico, ostacolando la secolare aspirazione serba a raggiungerlo. Il Regno di Serbia, resosi indipendente dai
turchi a partire dal 1878, unitamente al Montenegro suo alleato (Congresso di
Berlino), era protetto dalla Russia, che ne fomentava le aspirazioni in senso
antiaustriaco.
Nel luglio del ’14, Vienna e Berlino ripetono uno
schema simile a quello messo in opera con successo in occasione dell’annessione
della Bosnia, convinti che la Russia non sarebbe intervenuta. Senza consultare l’alleata Italia, si
accordano in segreto (a Potsdam, 5-6 luglio) per inviare un durissimo ultimatum
a Belgrado: il Kaiser diede stoltamente
carta bianca a Vienna. All’Italia fu ad
un certo punto detto del documento austriaco ma in termini generici, senza
rivelarne il contenuto, conosciuto dal nostro ministro degli esteri solo il
giorno dopo l’invio, il 24 luglio 1914, quando fu reso noto a tutte le
Cancellerie. L’ultimatum, da accettarsi in
sole 48 ore se non si voleva subire la guerra, poneva dieci drastiche condizioni alla Serbia
per combattere il terrorismo dei suoi nazionalisti estremi, disposta la Serbia
ad accettarle obtorto collo tranne una, apertamente lesiva della sua sovranità:
conteneva la pretesa che ci fossero funzionari austriaci di polizia tra le
autorità serbe cui si imponeva di indagare sulla congiura messa in atto dagli
assassini di Sarajevo. Belgrado, forte dell’appoggio russo, respinse
l’ultimatum e decretò la mobilitazione. Invece
di dichiararsi soddisfatta e negoziare dalla posizione di forza così ottenuta,
togliendo la clausola offensiva, Vienna dichiarò guerra il 28 luglio successivo,
senza tener conto di un severo ammonimento russo a difesa della sovranità
serba, del 25 precedente. L’ultimatum austriaco,
stilato inserendovi almeno una clausola chiaramente irricevibile, mostrava l’evidente intento di
costruirsi un pretesto per dichiarare guerra, in caso di rifiuto. Il 26 luglio gli inglesi proposero una
Conferenza a quattro, tra Regno Unito, Germania, Francia e Italia per disinnescare
la mina della guerra incipiente. La
Germania non mostrò interesse, mentre l’Italia aveva accettato, al pari della
Francia, e non se ne fece nulla.
Il 30 luglio la mobilitazione russa, già iniziata il
25 come parziale, diventa generale, sembra per iniziativa personale del
ministro della guerra, dallo zar controfirmata di malavoglia. Questo fatto, secondo la dottrina militare
tedesca (ma in realtà anche per quella di altri eserciti) rappresenta già l’inizio della guerra;
pertanto Berlino, dopo averla ammonita con ultimatum a sua volta irricevibile,
e averne mandato uno ugualmente irricevibile ai francesi, dichiara guerra alla
Russia l’1 agosto. Il 31 luglio in
Francia viene assassinato da un nazionalista (a Parigi, al ristorante) Jean
Jaurès, capo del socialismo francese e pacifista convinto. L’1 agosto la Francia, alleata della Russia,
decreta la mobilitazione generale per il 2 successivo, atto di reciprocità
previsto nel trattato tra le due nazioni: il fatto viene immediatamente
interpretato dalla Germania (forse non a torto) come l’inizio dell’attacco
francese nei suoi confronti. Il 3 agosto
la Germania dichiara guerra alla Francia.
L’Italia, senza esser stata mai interpellata pur
essendo alleata, e tenuta all’oscuro del testo dello sconsiderato ultimatum,
veniva trascinata in una guerra che non era affatto difensiva bensì offensiva:
venivamo messi di fronte al fatto compiuto, in modo sleale. Ma non si trattava solo di una spedizione
punitiva contro la sola Serbia: la
Germania aveva improvvidamente esteso la guerra alla Russia, giocando
d’anticipo, senza aspettare che la Russia dichiarasse guerra
all’Austria-Ungheria. La guerra era
quindi diventata un attacco alla Russia, legata alla Francia da una stretta
alleanza, ambedue appoggiate dall’esterno dall’Inghilterra imperiale. Il 3 agosto la Germania, che, secondo le sue
azzardate dottrine strategiche, doveva battere almeno uno dei suoi poderosi avversari
in breve tempo, colpendolo d’incontro grazie alla sua leggendaria rapidità di
mobilitazione, schieramento ed esecuzione, per non trovarsi impegnata su due
fronti (come poi avvenne), dichiarò dunque guerra alla Francia e invase il
Belgio, per aggirare da nord le fortificazioni francesi, dopo aver lanciato un
ultimatum al Belgio stesso, chiedendo il libero passaggio: richiesta cui il
Belgio, che aveva a sua volta ordinato la mobilitazione generale, rispose picche.
Ma il Belgio era neutrale, la sua neutralità, esistente sin dal 1839
(Trattato di Londra), quasi sin dalla nascita del Paese e garantita anche dalla
Germania, era considerata vitale dai britannici, assieme a quella dell’Olanda. Sempre il 3 agosto l’Italia si dichiarò
ufficialmente neutrale, decisione del tutto corretta: oltre alla Serbia, vittima di una reazione
sproporzionata da parte di Vienna, ora veniva attaccato anche il neutrale e
pacifico Belgio, cosa che tra l’altro giustificava formalmente, il 4 agosto,
l’entrata in guerra della maggior potenza mondiale del tempo, l’Impero
Britannico, dichiarata per difendere l’indipendenza del Belgio, dopo aver
rivolto ai tedeschi un vano ultimatum affinché si ritirassero da quel Paese.
Nell’intervento
inglese giocavano molteplici ragioni strategiche, meno evidenti all’opinione
pubblica. Avveniva non solo per impedire
che la Germania si installasse sulle coste francesi e belghe e dominasse un
domani l’intera Europa (Peter Hart) ma anche per impedire, va aggiunto, che la
Germania arrivasse al petrolio del Golfo Persico per via di terra, grazie ai
suoi stretti vincoli con la classe dirigente ottomana, evidenti nella costruzione
della famosa linea ferroviaria Berlino-Bagdad, come veniva chiamata (e di
quella Damasco-Medina o Ferrovia dello Hegiaz, con diramazione sui porti
di Acri e Haifa, un vero capolavoro d’ingegneria, che portava i pellegrini
mussulmani ai loro luoghi santi).
L’imperialismo tedesco era da tempo in lotta accanita con quello inglese
e russo nei vasti spazi africani, dell’altopiano etiopico, del Medio Oriente,
dell’Asia Centrale, dell’Estremo Oriente. Il suo dinamismo preoccupava assai i britannici ed era di
pretesto ai giapponesi, loro alleati dal 1902, per legittimare il proprio,
tant’è vero che essi dichiararono guerra alla Germania il 23 agosto del ’14, il
25 all’Austria-Ungheria, si impadronirono di colonie tedesche in Asia, tennero
(su invito inglese) una flottiglia di cacciatorpediniere a Malta durante tutta
la guerra, impiegandola nella scorta ai convogli. Il Giappone stava entrando a
grandi falcate tra le grandi potenze: nel 1894 aveva attaccato la Cina, costringendola
a cedergli l’isola di Formosa (Tai-wan) e a riconoscere il suo protettorato
sulla Corea. Dopo di che aveva clamorosamente sconfitto in una breve e
sanguinosa campagna i russi, che stavano partecipando anch’essi, come i
tedeschi e gli altri Stati occidentali, allo smembramento della periferia
dell’impero cinese, non meno decrepito di quello ottomano. I russi avevano dovuto cedere Port Arthur in
Manciuria, evacuare la Manciuria, cedere la metà sud della penisola di Sakhalin
(Trattato di Portsmouth, 5 settembre 1905).
Che alcuni
settori nevralgici della dirigenza inglese prendessero in considerazione
l’ipotesi di intervenire già prima dell’invasione tedesca del Belgio, lo si
intuisce dal fatto che il 26 luglio l’Ammiragliato britannico aveva annullato
la dispersione della flotta riunitasi per le manovre estive e il 28 luglio
ordinato alla stessa di concentrarsi nelle basi di guerra in stato di
all’erta. Il 2 agosto il governo
britannico ne ordinò formalmente la mobilitazione, che per quell’impero equivaleva
alla mobilitazione generale degli eserciti continentali. L’ordine fu emanato alle ore 1.25 da Wiston
Churchill, First Sea Lord ossia ministro della marina (Liddell
Hart). Questi movimenti non erano sfuggiti al perspicace
Antonino di san Giuliano, sempre molto attento al “fattore Inghilterra”, di
essenziale importanza per noi, e sicuramente influirono sulla sua decisione di
tenere l’Italia fuori della mischia (Ferraioli).
La guerra era dunque diventata nel giro vorticoso di
pochi giorni europea. Il 5 agosto Vienna
dichiarò guerra alla Russia, l’11 e il 12 Francia e Regno Unito
all’Austria-Ungheria. Fu un tragico
miscuglio di errati calcoli di potenza, riflessi appannati, paura, fatalismo,
errata valutazione delle intenzioni dell’avversario (austro-tedeschi convinti
che i russi non si sarebbero mossi, tedeschi convinti che Londra avrebbe
lasciato invadere il Belgio senza intervenire; russi che tramutarono
all’improvviso la mobilitazione parziale in generale, senza un valido motivo;
inglesi che capirono in ritardo la gravità della situazione; tedeschi e inglesi
non ostili ad una guerra che da un lato bloccasse l’imponente riorganizzazione militare
russa, dall’altro impedisse alla Germania di diventare la potenza egemone del
continente e in Medio Oriente). Fu tutto questo aggrovigliarsi a mettere in
moto il meccanismo infernale delle mobilitazioni generali, che nessuno riuscì
più a fermare.
L’Italia faceva la figura di chi non soccorreva i suoi
alleati, non onorava gli impegni, non
voleva battersi. Ma si trattava di una
critica superficiale, propagandistica, anche se di facile presa. La realtà era ben diversa: l’irresponsabile e (verso di noi) sleale
comportamento austro-tedesco, contro la lettera e lo spirito della Triplice, ci
trascinava in una grande guerra europea, contro le grandi Potenze; una guerra
che potevamo solo perdere, come poi è successo quasi trent’anni dopo, dovendo
farla contro la Potenza imperiale che dominava il Mediterraneo, sorretta per di
più dall’appoggio della forte flotta francese (e nella II gm dalla superpotenza
americana). Negli anni anteriori al 1914,
c’era stata la cosiddetta Dichiarazione Mancini, con la quale i nostri
politici avevano ribadito ai nostri imperiali alleati che mai l’Italia sarebbe
scesa in guerra contro l’Inghilterra, per evidenti ragioni di insuperabile
inferiorità geo-strategica sul mare. Già Cavour aveva detto: “Noi mai in guerra contro la Potenza che
domina il Mediterraneo” (Rusconi; Ferraioli). La richiesta di mettere questa dichiarazione
nel trattato della Triplice era stata però respinta. Nessun tradimento, dunque, nella nostra
dichiarazione di neutralità ma solo difesa dei nostri legittimi interessi e del
nostro buon diritto, di fronte al comportamento arrogante, sleale e megalomane
dei due Imperi Centrali, che volevano
costringerci ad una guerra di aggressione,
senza averci consultati (un di San Giuliano avrebbe di sicuro disapprovato
fortemente lo sciagurato ultimatum ai serbi) e contro avversari che avrebbero
potuto annientare l’esistenza stessa della nostra fragile Nazione unitaria
(cosa che a ben vedere riuscirono a fare un trentennio dopo, nella Campagna
d’Italia del 1943-45). Inoltre la guerra,
se vittoriosa per essa, avrebbe allargato alquanto i domini dell’Austria nei
Balcani. Ma le compensazioni per
le potenze sue alleate, previste secono l’uso del tempo nel trattato di alleanza,
non venivano indicate per noi, erano lasciate nel vago. Di “compensarci” col Trentino o con Gorizia,
per dire, neanche a parlarne, ovviamente.
Certamente, di fronte alla grande strage che è stata
quella guerra (soprattutto a partire dal 1916) e alle conseguenze sociali e
morali negative di un conflitto del genere, ci si deve chiedere se non sarebbe
stato meglio cercare di rimanere neutrali per risparmiare tante vite italiane,
rimandando al futuro il pur legittimo compimento dell’unità nazionale sui
confini naturali. È sin troppo facile
affermare oggi, con il senno del poi, che sarebbe stato meglio restarne fuori,
dall’ecatombe universale, costata a noi, in tre anni e sei mesi di lotta, circa
500.000 caduti sul campo e 100.000 nei campi di prigionia. Il fatto è che l’Italia non era e non è la Svizzera. La neutralità, notava Guicciardini, ti
garantisce solo se sei più forte dei contendenti (o, aggiungo, se tutti i
contendenti sono d’accordo nel mantenerti una neutralità già riconosciuta da
tutti, come nel caso della Svizzera, la cui posizione è strategicamente
irrilevante). Altrimenti chi vince ti fa
poi pagare a caro prezzo la tua neutralità.
Non è affatto detto
che saremmo riusciti a mantenerla. Valga
l’esempio della Grecia. Governata da una
dinastia di origine tedesca, voleva restare neutrale ma i franco-britannici il
5 ottobre 1915 occuparono di loro
iniziativa con 13.000 uomini Salonicco, porto di grande importanza strategica
per il pericolante fronte balcanico, violando apertamente la neutralità greca. Per la Grecia si iniziò un periodo torbido.
Gli Alleati favorirono la nascita (a Salonicco) di un governo interventista,
con a capo Eleutherios Venizelos, accanto a quello legale, che dovette alla
fine cedere il passo, dopo una serie di ultimatum dei franco-britannici. Venizelos
portò il Paese in guerra, soprattutto per il desiderio di veder finalmente
crollare l’impero ottomano e acquisirne una parte: ma alla fine, nulla ottenne
e l’invasione greca dell’Anatolia finì in un disastro per i greci e le comunità
greche ivi presenti. Il corpo di spedizione alleato (l’Armata d’Oriente,
comprendente francesi, britannici, greci, truppe serbe salvatesi dalla rotta
del 1915, una divisione italiana rafforzata), si rivelò decisivo nel settembre
del ’18, quando all’improvviso costrinse la Bulgaria alla capitolazione,
aprendo il fianco sud del fronte all’invasione del vasto retroterra asburgico,
ormai privo di riserve, inizio del crollo dell’intero fronte degli Imperi
Centrali.
Non appena ci dichiarammo neutrali, inglesi, francesi,
russi cominciarono subito a farci offerte
sottobanco per portarci dalla loro parte.
Una traccia se ne trova negli appunti presi ad una riunione del Governo
inglese, alle ore 11.30 del 5 agosto 1914, nell’ambito di una accesa discussione
per trovare nuovi aderenti alla propria causa.
Un membro disse: “Possiamo
comprarci l’Italia [Can we buy Italy]?”, ottenendo, come proposta: “Ditele che se passa dalla nostra parte può
avere il nostro aiuto contro l’Austria sulla costa adriatica” (Newton). Lo
sapevano tutti che la nostra alleanza con l’Austria era solo di facciata,
minata sin dall’inizio da reciproci, inconciliabili conflitti d’interesse oltre
che da una secolare reciproca ostilità e antipatia (la cui origine, lo ripeto,
deve comunque imputarsi alla politica di conquista degli Asburgo nei nostri
confronti, costante nei secoli). Nel
1908 (prendendo spunto dal caos creato dal terremoto di Messina) e nel 1911
(sfruttando il nostro gravoso impegno in Libia), il maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, al tempo capo di
stato maggiore dell’esercito imperiale asburgico e tipico esponente dei circoli
cattolici oltranzisti ostilissimi all’Italia, preparò in segreto un piano per
attaccarci di sorpresa, nonostante fossimo suoi alleati (Crankshaw; May; Rusconi)
– piano che destò l’interesse anche di ambienti dello stato maggiore svizzero,
desiderosi di riconquistare la Valtellina, sottratta nel Seicento dagli
Spagnoli, al tempo padroni del Ducato di Milano (ricerca di storici locali di
alcuni anni fa, riportata dal Corriere della Sera). Inoltre, Conrad aveva cominciato a
fortificare da anni il confine austriaco con l’Italia, nel Trentino e sulle montagne
prospicienti l’Isonzo, facendone un baluardo difensivo formidabile, possibile ben
munita base di partenza delle sue progettate offensive contro di noi (Pozzato).
Di fatto, nell’agosto del ’14, la Triplice era morta e sepolta e non certo per colpa nostra,
anche se così poteva sembrare.
Cominciarono allora trattative segrete dell’ Italia, con l’Intesa da un
lato e la Germania e l’Austria dall’altro – gli uni volevano tirarci dentro la
guerra, gli altri tenerci fuori, soprattutto con l’offerta del Trentino, fatta
però (in perfetta malafede) soprattutto dai tedeschi (tanto, dicevano
cinicamente agli austriaci, se perdiamo, lo perdiamo comunque; se vinciamo ce
lo riprendiamo - Rusconi). Vienna fece
sempre orecchie da mercante, irritando non poco i suoi alleati. I suoi
governanti, oltre a disprezzarci, non ci prendevano sul serio: il capo del
governo ungherese, conte István Tisza, ci liquidava come “nazione militarmente
debole e codarda” (Rusconi). Al Trentino,
parte dei suoi possessi personali come Conte del Tirolo, incamerato a partire
dal 1490 dal citato Massimiliano I, era particolarmente affezionato Francesco
Giuseppe, che vi si recava sempre in vacanza: sembra abbia detto che avrebbe
abdicato piuttosto che darlo a noi. Solo
il 27 marzo del ’15 Vienna disse ufficialmente di esser disposta a darci Trento
con parte limitata del suo territorio, risultando esclusi i territori trentini possessi
feudali della Corona. Un’offerta col
contagocce, che non poteva soddisfarci.
Noi avevamo fatto presenti anche a Vienna le nostre richieste, le stesse
avanzate all’Intesa, indubbiamente onerose (e persino esose) dal punto di vista
austriaco. Non si può dire che avessimo taciuto i nostri ambiziosi obbiettivi
territoriali, Vienna poteva capire perfettamente che cosa ci avrebbe concesso
l’Intesa, ai suoi danni. Ma una controproposta
accettabile se fatta mesi prima (tutti i territori di lingua italiana del
Trentino e dell’Isonzo con Gradisca; autonomia municipale e università italiana
per Trieste; disinteresse per l’Albania) arrivò fuori tempo massimo, nei giorni
convulsi che precedettero la nostra dichiarazione di guerra, quando avevamo già
denunciato la Triplice, e arrivò solo per iniziativa pressante del Vaticano:
avevamo già firmato il Patto di Londra e il re si era impegnato personalmente,
cosa nota agli austro-tedeschi, pur ignorando essi i termini esatti
dell’accordo, che si potevano comunque facilmente immaginare (Rusconi).
In questa fase di trattative dietro le quinte, si può
dire che i politici italiani abbiano mostrato una certa doppiezza, oltre alla
spregiudicatezza? Si può dire,
certamente. Ma in fatto di doppiezza e
spregiudicatezza nemmeno la controparte sembra essersi tirata indietro. Vienna e Berlino si gettarono in un “rischio
calcolato” di quel calibro pensando solo ai loro interessi, ignorandoci
completamente, come se l’enorme conflitto che si spalancava, causato anche dai
loro errati calcoli, non si annunciasse con conseguenze sicuramente
catastrofiche per noi, esposti come eravamo alla supremazia marittima franco-britannica.
Il peso del “fattore Inghilterra”,
vitale per noi, nazione mediterranea, fu sempre ignorato dai nostri aulici
alleati. Quando cercavamo di farlo
valere, ci rispondevano, come l’ambasciatore austriaco Mérey, che ci avrebbero
pensato i tedeschi a mettere a posto gli inglesi, “bombardando Londra con gli
Zeppelin” (Rusconi)! Il che poi, tra
l’altro, i tedeschi fecero davvero, inviando questi dirigibili più volte su
Londra, carichi di piccole bombe, specialmente durante il 1916, senza nessun
apprezzabile risultato sul piano militare, ma riuscendo in compenso a far
inferocire l’opinione pubblica britannica.
Non si potè mai attuare una cooperazione navale austro-italiana (per la
reciproca diffidenza e perché gli austriaci non ne vollero mai sapere); non
esisteva un autentico coordinamento strategico: né comune né austro-tedesco
(Rusconi). Dal punto di vista tedesco,
con molto dilettantismo e un pizzico di cinismo, tutto era alla fine affidato
ad una rapida vittoria terrestre tedesca (contro le maggiori potenze
militari del globo!) che avrebbe risolto tutti i problemi, per tutti. Un
atteggiamento in seguito caratteristico anche di Hitler. Nel particolare, quando a Berlino
l’ambasciatore italiano Riccardo Bollati, peraltro convinto “triplicista”, insospettito
dal tono della stampa locale, chiese il 14 luglio al segretario di Stato
Gottlieb von Jagow (ministro degli Esteri) se conosceva le vere intenzioni
austriache, costui asserì di non conoscerle, anche se si aspettava “un atto
energico” nei confronti della Serbia, per ottenere “garanzie” contro futuri
atti terroristici – e a precisa domanda rispose di non sapere quali fossero
queste “garanzie”, il che era difficile credere (Rusconi).
“Se il “tradimento” fa parte della sindrome soggettiva
del 1915, nessuno storico serio oggi usa più questo concetto per qualificare il
comportamento italiano che segue piuttosto la logica dell’interesse nazionale
strettamente inteso. Del resto le procedure
osservate, sia nella dichiarazione di neutralità dell’agosto 1914 sia nella
lunga negoziazione tra Roma e Vienna dal dicembre 1914 all’aprile 1915,
conclusasi con la dichiarazione unilaterale italiana di guerra, rispondono alle
regole convenzionali della diplomazia del tempo.
Naturalmente si può dare un giudizio negativo sugli
obiettivi che tale comportamento persegue e sui modi in cui vengono applicate
le procedure. Si può dire che il governo
italiano ha sbagliato, che ha assunto atteggiamenti ambigui, che ha simulato e
fatto un doppio gioco – come abbiamo noi stessi più volte mostrato. Ma che tutto questo sia qualificabile come
“tradimento” in senso moralmente squalificante è una deduzione impropria sul
piano politico e diplomatico. Anche
perché ci sono atteggiamenti del tutto analoghi da parte austriaca. Non è infatti certamente la lealtà verso
l’alleato italiano quella che guida la politica di Vienna tra il luglio 1914 e
il maggio 1915, ma uno stretto calcolo di interessi che pretende dall’Italia
un’attiva fedeltà alla Triplice Alleanza, senza dare in cambio i vantaggi che
stanno veramente a cuore a Roma. Per
Vienna l’Italia è sin dall’inizio della crisi del luglio 1914 un’alleata
fastidiosa e infida che non va informata sulle proprie intenzioni, che va
tenuta buona con vaghe promesse e velate minacce e infine, sotto crescente
pericolo, comperata con l’offerta di alcune compensazioni [fatte per di più con
la riserva mentale di riprendersele, in caso di vittoria]. Non siamo quindi davanti ad un esempio di
“fedeltà all’alleanza” cui l’Italia risponde con il “tradimento””
(Rusconi).
Il dilemma dei politici italiani, una volta dichiarata
la neutralità, si può rappresentare, a mio avviso, nel seguente modo:
1. se
vinceranno gli austro-tedeschi, ci castigheranno duramente per lo strappo della
neutralità, intesa da loro come un tradimento.
La fazione legittimista e oltranzista della dirigenza austriaca, dotata
di largo séguito nel paese, ne approfitterà per imporre di nuovo la divisione
dell’Italia e ristabilire il potere temporale dei Papi così com’era prima
dell’Unificazione. Il timore non era
così campato in aria come si potrrebbe credere.
Sembra che un progetto di spartizione completa tra francesi, austriaci,
jugoslavi, greci del nostro Paese (“cobelligerante” ma sempre “nemico” da
punire duramente) sia stato proposto da Sir Anthony Eden, ministro degli esteri
britannico e nemico giurato del nome italiano, alla fine della II gm, ma che
sia stato respinto dagli americani perché la sua attuazione avrebbe creato in
quel momento una situazione ingovernabile.
Di questa possibile, angosciosa ricaduta nel passato
preunitario, che nemmeno durante la Grande Guerra era meramente teorica, era
colpevole la classe dirigente liberale. In nome dell’ideologia del “libera
Chiesa in libero Stato”, aveva sì stabilito unilateralmente tutta una serie di
garanzie, anche economiche, per la libertà del Papa e della Chiesa-istituzione
con la legge detta appunto “delle Guarentigie”, del 18 maggio 1871, ma si era
rifiutata di riconoscere al Pontefice una pur minima sovranità territoriale, di
vero organismo statale indipendente e sovrano, come giustamente preteso dal
Pontefice, che in conseguenza mai aveva potuto riconoscere formalmente quella legge.
Per la mentalità dei politici di scuola
liberale era inconcepibile che il papato avesse e potesse riavere un potere
temporale: la religione doveva ritenersi solo un fatto dello spirito, regolato
dalla coscienza individuale. Gravati dal
rapporto conflittuale con la Chiesa, i governanti italiani del tempo miravano
sempre ad escludere i nunzi apostolici da ogni organismo o incontro internazionale
che si occupasse dei problemi della guerra o di negoziati di pace proprio perchè
temevano che essi sollevassero la “questione romana”. Non per nulla, l’art. XV del Patto di Londra
recitava: “La Francia, la Gran Bretagna
e la Russia appoggeranno l’opposizione che l’Italia formerà ad ogni proposta
tendente ad introdurre un rappresentante della Santa Sede in tutti i negoziati
per la pace e per il regolamento delle questioni sollevate dalla presente
guerra” (Cervone, che riporta il testo del Patto in appendice). La questione, come sappiamo, fu poi risolta
dagli Accordi Lateranensi, tra Mussolini e il cardinal Gasparri, nel 1929.
2. Se
entriamo in guerra accanto agli austro-tedeschi, veniamo di sicuro sopraffatti
dal soverchiante potere marittimo britannico e alleato, che, a parte gli
aspetti militari, può affamarci già con
il semplice blocco navale. E in caso di sua
vittoria, l’Intesa, come ci tratterebbe?
La dirigenza della Terza Repubblica, anche se repubblicana e massonica,
non era meno ostile all’Italia unita della Francia di Napoleone III. L’opinione pubblica francese, e non solo
quella ultramontana e reazionaria, sembrava aver preso l’unificazione italiana
come un’offesa personale. Rimanendo
neutrali, anche una vittoria dell’Intesa si presentava carica di gravi
incognite. Se già in tempo di pace le
Potenze con le quali eravamo alleati ci ignoravano completamente in tempo di
crisi, figuriamoci i vincitori del futuro, sicuramente desiderosi di imporre la
loro volontà a tutto il mondo, neutrali compresi: di noi, in particolare i francesi, avrebbero
potuto fare strame.
L’Italia, per dirla parafrasando Guicciardini, “non ci
ha amici”. Innanzitutto a causa della
sua posizione geografica, che ne fa un crocevia strategico imprescindibile per
vaste aree, balcaniche, mediterranee, africane.
Poi perché è un piccolo Stato, destinato ad essere una potenza
medio-piccola e i rapporti di forza sono quelli che sono: ci condannano ad un
ruolo che per gli altri dovrebbe essere sempre subalterno, e dovremmo essere
noi a batterci per imporre pari dignità di trattamento. Infine, per la scarsa considerazione di cui
gode, sul piano più generale del rispetto, di quella che Machiavelli chiamava reputazione,
cosa della quale siamo responsabili anche noi italiani, sempre intenti a
mettere in piazza i nostri difetti, veri e presunti, dimostrando in tal modo di
non avere il senso dell’onore come popolo e come nazione e di essere
afflitti da notevoli complessi d’inferiorità.
In certi ambienti, soprattutto cattolici, si è diffusa
la moda, oggi, di rimpiangere l’Italia pre-unitaria poiché si ritiene che l’esser
divisi, deboli, disarmati e pacifici ci tenesse al riparo dalle guerre e guerricciole
altrui, garantendoci di sopravvivere in una supposta Arcadia, immune dai mali
del progresso, amorevolmente tutelati dal “paternalismo” pontificio, borbonico,
granducale e ducale... Niente di più
falso. Oltre alle varie campagne
condotte ad intervalli in Italia nel Seicento, bisogna sapere che nelle guerre di successione dinastica verificatesi
in Europa nella prima metà del Settecento, eserciti austriaci, francesi,
spagnoli, con i piemontesi saltuariamente presenti, si affrontarono
ripetutamente nel Bel Paese, violando allegramente anche l’imbelle neutralità
dello Stato Pontificio, della Repubblica di Venezia, di quella di Genova, i più
antichi Stati della penisola. Gravi furono all’epoca le angustie e i tormenti delle disgraziate popolazioni italiane, del tutto
indifese, vittime di ogni sorta di requisizioni, soprusi e violenze. Durante la guerra di successione austriaca,
combattuta ampiamente anche in Italia tra il 1742 e il 1745, il papa allora regnante,
Benedetto XIV, disse, ad un certo punto, che i suoi Stati gli parevano “in
verità ridotti all’esterminio” da spagnoli e austriaci. Disse anche che, “fra le idee che a volte ci
girano in testa vi è anche quella di comporre un trattato De martirio per
neutralitatem”(Venturi).
Naturalmente, quelli che ho cercato di esporre sono
gli argomenti della politica nella sua obbiettiva razionalità, fondata sui
fatti e sulla logica dei rapporti di forza, gli unici che nei momenti
decisivi contino veramente, forse anche più del fattore morale, pur essenziale. Ed erano sicuramente presenti alla mente dei nostri
rappresentanti anche se il discorso pubblico era dominato dalla retorica e dal
non-detto, dagli aspetti passionali, dallo strepito degli interventisti,
a sfondo eversivo presso una parte di loro; dalle feroci polemiche contro pacifisti
e neutralisti. Si accese una battaglia
di idee e ideali contrapposti, che scatenò le passioni politiche più violente.
Se fossimo stati capaci di adottare un bello stile,
col dichiarare la neutralità non avremmo dovuto formalmente uscire dalla
Triplice, denunciando lo sleale comportamento verso di noi da parte dei nostri
imperiali alleati? Sarebbe stato bello,
indubbiamente. E non solo bello, sarebbe
stato anche dignitoso, nobile e coraggioso, lineare. Sarebbe stata tuttavia, in termini realistici,
una mossa alquanto rischiosa, data la nostra debolezza militare, la mancanza di
autosufficienza economica, l’assenza di una tradizione unitaria. La linearità, nella politica internazionale,
è spesso un lusso riservato agli Stati forti, dominatori della situazione. Noi, saremmo rimasti isolati, esposti alle
eventuali, pesanti ritorsioni militari dei nostri ex-alleati (solo per un
momento pur prese da loro in considerazione durante il periodo delle trattative
segrete); contemporaneamente, avremmo dovuto subire ogni ricatto da parte
dell’Intesa, che avrebbe potuto agire con noi come contro la neutrale ed isolata
Grecia: farci comunque entrare in guerra e alle sue condizioni assai più
che alle nostre. Le offerte di
acquisizioni territoriali che l’Intesa ci faceva, assai vicine ai nostri
desideri, avvenivano per strapparci alla Triplice e portarci con loro. Se noi ce ne fossimo andati prima ancora di
trattare, la nostra posizione negoziale non si sarebbe forse indebolita in modo
irreparabile?
A far propender alla fine per l’entrata in guerra è
stato anche il “fattore morale” ossia la convinzione, in una parte importante
del fronte interventista, che una guerra generale come quella avrebbe rifatto l’Europa
da cima a fondo, chiunque avesse vinto, ragion
per cui bisognava parteciparvi se si voleva cercare di rimanere padroni del
proprio destino. Su questa intuizione si
innestava poi la convinzione che l’unità nazionale, ancora ampiamente
deficitaria a causa delle nostre indifendibili frontiere del Nord, dell’Est e
adriatiche, non si sarebbe potuta conseguire se non con una guerra vittoriosa
contro l’Austria-Ungheria, che nulla aveva mai concesso a noi e nulla avrebbe
mai concesso, se non costretta con la forza.
E una vittoria contro uno Stato ben più potente del nostro si poteva
conseguire solo entrando in una coalizione di grandi Potenze. Ma restammo per lunghi mesi nella Triplice,
una volta dichiarata la neutralità, anche perché il nostro governo non sembra
aver avuto subito le idee chiare sul da farsi:
si restò indecisi a lungo, sotto le spinte contrarie di un’opinione
pubblica divisa e nella consapevolezza della modestia dei nostri armamenti, nonché
di certe nostre debolezze strutturali, anche psicologiche.
La Grande Guerra non scaturì dal nulla. Nessuna delle grandi Potenze voleva provocare
apertamente una guerra europea e mondiale.
Tuttavia, l’aria era da almeno due decenni satura di elettricità, si
delineava sempre più evidente la voglia di una resa di conti reciproca tra
grandi imperi, impegnati nella lotta per la supremazia mondiale. I nazionalismi furono usati come detonatori
ma la radice della crisi si trovava in quella contrapposizioni tra imperi che
stava sfociando in uno scontro diretto, frontale, insomma in una guerra di proporzioni
apocalittiche.
Gli stranieri ci accusavano di viltà e ci deridevano
perché, dicevano, il nostro Risorgimento aveva fatto astutamente l’unità
d’Italia con le vittorie degli altri, francesi e prussiani – nel 1859 e nel
1866. Ora si trattava di portare finalmente
a termine l’opera di quasi un secolo di lotte, dimostrando la falsità delle accuse,
purificando la tempra di tutto il popolo italiano nel crogiuolo che si
annunziava; la guerra, da questo punto di vista, diventava l’occasione del nostro riscatto morale contro
il nemico che da più di tre secoli ci occupava e opprimeva: l’Asburgo, prima
spagnolo e austriaco, poi spagnolo, infine solo austriaco, ora austro-ungarico. Anche per noi la guerra contro l’Austria era
la “nostra guerra”, mentre nessuna vera ostilità si provava contro la Germania,
con l’eccezione degli interventisti “democratici” e “rivoluzionari”.
2. La tesi del prof. De Mattei: L’Austria-Ungheria, in quanto Stato
cattolico, principale nemico da abbattere per le potenze dell’Intesa.
Ma torniamo alla tesi del prof. De Mattei. Dopo aver ricordato che “il 3 novembre [1918]
l’impero austro-ungarico aveva firmato a Padova l’armistizio di Villa Giusti
con le Forze Alleate”(per l’esattezza a 4 km da Padova, a Villa Giusti, sulla
strada per Abano, sede del nostro Quartier Generale, trattando i rappresentanti
austro-ungheresi unicamente con generali
e colonnelli italiani, mentre il testo della resa incondizionata alle
Potenze alleate e associate, imposta in cambio della concessione
dell’armistizio, veniva redatto a Versailles, dal Consiglio Supremo di Guerra
Interalleato, riunito quasi in permanenza); dopo aver ricordato le vicende
drammatiche che portarono alla rinuncia al governo dello Stato da parte
dell’ultimo Asburgo, l’imperatore Carlo I; all’abdicazione del Kaiser Guglielmo
II Hohenzollern, all’armistizio concesso alla Germania (sempre in cambio, rammento,
della resa incondizionata) e firmato l’11 novembre successivo; l’Autore espone
il suo argomento di fondo:
“il 14 dicembre [1918] il presidente americano
incontrò a Parigi il primo ministro francese Georges Clemenceau. I due uomini politici furono i principali artefici
della repubblicanizzazione dell’Europa che seguì alla Prima Guerra
Mondiale. Clemenceau, mistico del
giacobinismo, vedeva nella vittoria il compimento degli ideali della
Rivoluzione francese. Wilson voleva
trasformare il globo in una confederazione di repubbliche rigorosamente uguali,
ricalcate sugli Stati Uniti d’America.
Il principale ostacolo da abbattere era l’Austria-Ungheria, ultimo
riflesso della Christianitas medioevale.
Charles Seymour, uno dei negoziatori americani del Trattato di
Versailles, ricorda: “La Conferenza di
pace si trovò posta nella posizione di un autentico liquidatore dello Stato
asburgico (…) in forza del principio di autodeterminazione dei popoli, spettava
alle nazioni danubiane di determinare da sole il loro destino””.
Il prof. De Mattei vede un significato che potremmo
definire teologico nell’azione dei politici francese e americani, per i
quali la lotta contro la religione cattolica sarebbe stata un interesse prevalente o quasi. Si sarebbe trattato, per costoro, di
eliminare del tutto l’eredità del Sacro Romano Impero, istituzione che, secondo
il prof. De Mattei, rappresentava l’incarnazione stessa dell’Europa
cattolica: “il Sacro Romano Impero –
egli conclude - era stato ufficialmente
dissolto da Napoleone nel 1806, ma l’Austria-Ungheria continuò a svolgere fino
al 1918 la sua missione, costituendo il fulcro dell’equilibrio e della
stabilità dell’Europa”.
È vero che Clemenceau e Wilson erano due “mistici
laici” della democrazia, il primo di quella di tipo giacobino erede
dell’estremismo ideologico anticristiano e anticlericale della Rivoluzione
francese, il secondo di quella anglo-americana, missionaria dei laici diritti
dell’uomo e della american way of life in tutto il globo. Entrambi comunque ben attenti, osservo, a
fare spregiudicamente gli interessi dei loro rispettivi Paesi nelle aree che
consideravano vitali (il Messico e l’America Centrale per Wilson; il Reno,
Fiume, i Balcani, il Medio Oriente, i possessi coloniali per Clemenceau). Ed è vero che negli ultimi mesi della guerra
la propaganda e la stampa anglo-americana ebbero mano libera nello scagliarsi contro
la Duplice Monarchia, invocandone la dissoluzione, con slogan che spacciavano inaudite
falsità: “L’Austria-Ungheria non è uno
Stato europeo. È un sistema asiatico di oppressione, un sultanato che vive e
opera, scevro di ogni spirito civile, nel vuoto assoluto” (l’inglese Wickam
Steed, citato da Wolf Giusti).
Tuttavia, il
quadro generale degli eventi appare più articolato di quanto la sintetica
rappresentazione del prof. De Mattei faccia presumere. La tesi che lo scopo essenziale della guerra
fosse per francesi e americani soprattutto la lotta alla religione, ragion per
cui l’avversario da abbattere sarebbe stato soprattutto
l’Austria-Ungheria in quanto unico Stato cattolico rimasto dalla Cristianità
medievale: tale tesi sembra trasformare
in motivo primario un motivo sicuramente presente ma politicamente
secondario, costituito dall’avversione al cattolicesimo.
L’autorevole storico, forse ritenendolo mera
propaganda di guerra, non dà evidentemente il dovuto peso al fatto che per
britannici, francesi e americani l’avversario principale, quello da
distruggere, era uno Stato protestante, la luterana e laica Germania: il militarismo
tedesco, con i suoi risvolti pangermanisti. La religione non c’entrava. Era la formidabile Germania guglielmina a far
veramente paura, con le sue poderose forze armate, di terra e di mare, la sua
aggressiva politica di espansione coloniale e imperiale su scala mondiale (vedi
supra). Non si può dire facesse molta paura l’Austria-Ungheria, Stato
assai più antico, ancora vitale ma da tempo in seria crisi politica perché
bisognoso di radicali riforme costituzionali di tipo federale, già inutilmente dibattute
da decenni al suo interno; riforme che dessero maggior spazio all’elemento
slavo di contro a quello tedesco e magiaro (c.d. trialismo); riforme,
comunque, di impossibile attuazione per l’incrociarsi feroce dei divieti
nazionalistici (tedeschi contro cèchi; ungheresi contro romeni e croati; croati contro serbi; austro-tedeschi timorosi
di perdere la loro posizione di preminenza e spesso in latente conflitto con
gli ungheresi). Uno Stato, comunque, che Londra aveva sempre ritenuto suo
alleato, sin dall’inizio del Settecento, in quanto strumento essenziale di
quella politica europea dell’equilibrio continentale così cara agli inglesi
perché così utile ai loro interessi imperiali.
Costituivano gli Asburgo, agli occhi dei britannici, la “sentinella austriaca”,
che impediva ai Russi di dilagare nei Balcani ed occupare gli Stretti. Tale funzione gli Asburgo espletavano anche
agli occhi di francesi e prussiani.
Tutte le grandi potenze occidentali cercavano di mantenere in piedi in
qualche modo l’impero ottomano, in funzione antirussa, e ciò comportava la
conservazione della Duplice Monarchia.
La politica di Bismarck per i Balcani era quella di non coinvolgervi la
Germania e di organizzarvi due coabitanti sfere d’influenza: austriaca ad
ovest, russa ad est, ma senza far cadere l’impero turco, per quanto fatiscente,
che andava tenuto in vita, anche se dimidiato di tutta la sua parte europea, ad eccezione della
Tracia. Sarebbe crollato, quell’impero,
nell’ottobre del 1918, dopo quattro anni di estenuante guerra, sotto l’attacco
britannico, dalla Mesopotamia (oggi Irak), dall’Egitto, dalla penisola arabica.
In ogni caso, nel 1917, indurre l’Austria-Ungheria ad
una pace separata significava anche indebolire la Germania, che sarebbe stata
costretta a disperdere le proprie forze nell’Europa orientale e nei Balcani, in
sostituzione di quelle imperiali e regie.
3. Critica della tesi del prof. De Mattei:
3.1 Gli
Stati Uniti, quando entrarono nel conflitto il 2 aprile 1917, dichiararono
guerra unicamente alla Germania.
All’Austria-Ungheria solo il 7 dicembre successivo, ben 8 mesi e 5
giorni dopo e solo dopo molte pressioni.
Questo fatto conferma, con ogni evidenza, quanto
sempre detto da Woodrow Wilson e cioè che l’avversario principale era e restava
il “militarismo tedesco” non la monarchia asburgica. Egli dichiarò
guerra alla Duplice Monarchia solo il 7 dicembre 1917. Non tanto per soddisfare
le richieste italiane in questo senso quanto perché, dal punto di vista politico
e morale, lo richiedeva la situazione difficile, per noi e quindi per l’Intesa,
che si era creata dopo il rovescio di
Caporetto. La Russia era crollata, gli
eserciti degli Imperi Centrali dilagavano nei Balcani e in tutta l’Europa
orientale. L’Italia sembrava vacillare. L’esercito francese era in piena crisi
morale e di riorganizzazione dopo i vasti ammutinamenti (nascosti dalle
autorità) dell’estate del ’17, seguìti al fallimento delle sanguinose offensive
lanciate dal generale Nivelle. L’uscita dell’Italia dalla guerra avrebbe creato
gravissimi problemi strategici all’Intesa, con l’eventuale occupazione
austriaca e tedesca dell’intera valle del Po sino all’arco alpino e forse anche
sino a Genova. Gli Alleati avrebbero dovuto schierare numerose divisioni sulle
Alpi francesi, indebolendo pericolosamente la linea che fronteggiava i tedeschi,
in via di rafforzamento con le truppe rese libere dal disfacimento dell’esercito
imperiale zarista. Le divisioni
americane in Francia erano all’epoca solo quattro.
Wilson fece la
sua dichiarazione dopo che, in durissimi combattimenti durati dal 10 al 26
novembre, avevamo definitivamente bloccato l’avanzata austro-tedesca sulla linea
Altipiani-Grappa-Piave, noi da soli in prima linea con le nostre fanterie (con
le divisioni che si erano ritirate dall’Isonzo, dalla Carnia e dal Cadore, dopo
lo sfondamento di Caporetto, ove fu distrutta l’ala sinistra del fronte
isontino non l’intero esercito (come qualcuno continua a ripetere falsamente ancor
oggi), abbandonando molto materiale e infrastrutture, ma mantenendo la coesione
e un buon ordine, combattendo), mentre alle nostre spalle si era in fretta
schierata una forte riserva strategica costituita inizialmente da 11 divisioni
franco-britanniche e relativa logistica (250.000 uomini ben provvisti di
artiglieria) poi ridotte rapidamente a cinque.
Per l’anno circa che restava di guerra, Wilson avrebbe mandato in Italia
un ospedale da campo con ricco parco di autoambulanze, seguìto dal 332°
Reggimento di fanteria, quattromila uomini al comando del colonnello Wallace,
aggregato da noi alla 31a divisione di fanteria, inserita nella
Riserva del Comando Supremo. Il Reggimento
prese parte alla fase finale della Battaglia di Vittorio Veneto, con perdite
minime. Questo fu il contributo strettamente militare di Wilson al fronte che
combatteva contro il supposto “ostacolo principale” da abbattere per vincere la
guerra. Dall’esperienza dell’ospedale militare
americano nacque il celebre romanzo A Farewell to Arms, di Ernst
Hemingway, volontario in quell’ospedale, nel quale è descritta la ritirata di
Caporetto, peraltro con ampio uso di particolari di fantasia, visto che lo
scrittore, imaginifico per natura, non vi partecipò personalmente. Non ci venne mai meno, tuttavia, il fondamentale
(non gratuito) aiuto americano in crediti, materiali e materie prime, viveri.
Quando annunciò al Congresso il 4 dicembre 1917 che
stava per dichiarare guerra all’Austria-Ungheria, Wilson si premurò di
sottolineare che, pur dichiarando guerra, “noi non desideriamo in alcun modo
menomare o risistemare l’Impero austro-ungarico”; concetto ribadito, in
sostanza, al n. 10 dei suoi famosi 14 punti, resi noti al mondo nel gennaio del
1918, per indicare le condizioni alle quali si doveva finire la guerra per
costruire una pace mondiale duratura (10. “Ai popoli dell’Austria-Ungheria,
alla quale noi desideriamo salvaguardare ed assicurare un posto tra le nazioni,
deve essere accordata la più ampia possibilità per il loro sviluppo autonomo”).
3.2 La verità è che per tutto il 1917 e fino alla
primavera del ’18 ci furono ripetuti tentativi angloamericani per indurre la
Duplice Monarchia ad una pace separata, staccandola dal mortale abbraccio
tedesco.
Wilson, sino alla fine di marzo del 1918, si associò
ai ripetuti tentativi inglesi, auspice il primo ministro Lloyd George, di
indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata, per isolare la Germania e
salvare lo Stato danubiano quale futuro fattore d’equilibrio in Europa
Centrale, sia pure a struttura federale e inevitabilmente ridimensionato. Si
trattava di iniziative serie, tant’è vero che se ne preoccupò vivamente Edoardo Beneš, uno dei capi all’estero del
partito cèco votato allo smembramento della Monarchia per ottenere una
Cecoslovacchia del tutto indipendente (Giusti).
Contatti segreti soprattutto con i francesi per una
pace non separata, l’imperatore Carlo li aveva presi abbastanza presto, dopo
esser succeduto il 21 novembre 1916 al prozio Francesco Giuseppe, deceduto per
vecchiaia, dopo un lunghissimo regno di quasi 68 anni. I complessi negoziati segreti condotti dal
cognato dell’imperatore, principe Sisto di Borbone-Parma, ufficiale
dell’esercito belga, non giunsero ad imbastire proposte concrete di negoziato,
anche perché l’imperatore escluse caparbiamente l’Italia da qualsiasi concessione
territoriale, cosa che francesi e
inglesi non potevano formalmente accettare.
Eravamo entrati in quella terribile guerra liberamente ma anche
richiesti da loro, sin dall’Agosto del ’14; da loro, che si trovavano nel 1914
e nel 1915 in notevole difficoltà: non potevano ora trattare con il nostro
nemico una pace separata ignorandoci completamente. L’atteggiamento austriaco nei nostri confronti
veniva giustificato con motivazioni moralistiche e storiche, quali l’aver noi “tradito” la loro alleanza, l’esser noi per
loro il “nemico ereditario”, anzi “ancestrale” cui tutto l’impero era da sempre
avverso, senza remissione (ci accusavano di aver tradito un’alleanza per loro
stessi falsa perché con “il nemico ereditario”). Il dato di fondo, a mio giudizio, era il
secolare disprezzo asburgico per gli italiani, in generale, considerati una
razza inferiore, dal Papa all’umile facchino: un sentire peraltro abbastanza
diffuso in Europa, accomunante aristocrazia e plebi.
“L’Italia era da secoli punto di convergenza
dell’Europa, scuola, campo di battaglia, premio al vincitore, santuario,
colonia di sfruttamento, terra di piacere e di riposo, demanio collettivo. Le genti si erano abituate a considerarla
soggetta ad una specie di servitù internazionale, in omaggio ai superiori
diritti dell’arte o della religione o della politica dei grandi Stati. Quindi, interesse grande; ma anche
contrarietà” (Gioacchino Volpe). E
dell’italiano l’unica immagine era quella negativa del settario e avventuriero,
dell’attaccabrighe, dell’imbroglione e donnaiolo. C’era ammirazione per i segni del passato
(presso i più colti) ma il più grande disprezzo per l’italiano del presente,
per “la terra dei morti”, come la chiamò il poeta francese Lamartine. Sempre Volpe ricordava un giudizio dello
storico prussiano Heinrich von Treitschke: “Questa nazione di vivo ingegno
passava nel mondo per un popolo servile, ricco di spirito e di perfidia,
incapace di libertà civile. Ogni anno,
migliaia di forestieri percorrevano la penisola e si formavano un giudizio
dalla marmaglia dei mendicanti e facchini e ciceroni che li assediava
mercanteggiando…”.
Che ci fosse stata una evidente decadenza,
rispetto alle virtù civiche e militari dei faziosissimi ma liberi e vitali
Comuni, delle Repubbliche marinare e alle glorie artistiche e culturali del
Medio Evo, dell’Umanesimo e del Rinascimento, non si poteva comunque negare: decadenza
civile, politica e militare, ma anche culturale, nonostante la presenza di
grandi figure isolate come Giordano Bruno, Galileo o Gian Battista Vico, e una
costante ripresa spirituale (nella cultura) a partire dalla seconda metà del
Settecento. Questa decadenza era stata
anche il risultato dell’asservimento secolare (anche economico) alle Grandi Potenze
europee, in primis alla Spagna asburgica. Al tempo dei Borboni di Napoli, l’Inghilterra
era l’unica beneficiaria dei proventi dello zolfo siciliano, del quale i suoi
capitalisti avevano il monopolio. Quando nel 1838 il governo borbonico tentò
una convenzione più vantaggiosa con capitalisti francesi, il governo inglese
impose una “umiliante retromarcia” (Spagnoletti).
Le “preponderanze straniere”, come le chiamava Cesare
Balbo, avevano accentuato i nostri difetti, sul piano civico e morale,
favorendo il tradizionale particolarismo e una vita senza ideali,
provinciale, dominata dal conformismo, se non dal servilismo nei confronti
dello straniero e dell’autorità locale, mentre le plebi rimanevano nella
miseria e nell’ignoranza. A questo
proposito sono sempre istruttive le riflessioni del Leopardi, nel suo Discorso
sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, del 1824: costumi, a
suo giudizio, incapaci di dar vita a una vera etica civile, poiché gli
italiani, dietro l’omaggio formale alla religione e alle autorità, vivevano
all’insegna di uno sconsolante “ognun per sè, Dio per tutti”.
“Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che
costumi. Poche usanze e abitudini hanno
che si possano dire nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose
che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto
per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per
forza di natura, perchè il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso
dal lato dell’opinione pubblica, come è nell’altre nazioni, e perchè quando pur
lo fosse, questo pericolo sia molto temuto.
Ma questo realmente non v’è, perchè lo spirito pubblico in Italia è
tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a
ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada,
senza che il pubblico se ne impacci […] Gli usi e costumi in Italia si riducono
generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che
egli si sia…” (Leopardi). Questa
situazione dipendeva anche dalla natura della vita sociale, chiusa da quasi tre
secoli in una sconfortante, gretta mediocrità:
“Ora il passeggio, gli spettacoli e le Chiese sono le principali occasioni
di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dire, tutta la
loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di
prima necessità), perchè gl’italiani non amano la vita domestica, nè gustano la
conversazione o certo non l’hanno. Essi
dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla
predica, alle feste sacre e profane.
Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in
Italia. Conseguenza necessaria di questo
è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer
diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun
senso” (Leopardi).
Eccessivi questi giudizi del grande poeta, costretto a
vivere in piccoli ed asfittici centri di provincia come Recanati? Davvero gli italiani del tempo “non amavano
la vita domestica e non gustavano la conversazione”? In Italia era pur sempre forte il senso
della famiglia, come si diceva una volta, e la famiglia era anche intesa come
quel porto sicuro, quel valore, sorretto dalla religione, che non tramontava e
aiutava a tener duro di fronte alle ambascie e angherie del mondo esterno, ai
soprusi dell’autorità, alle disgrazie, agli eventi che potevano travolgerci,
alle guerre…Forze vive non mancavano ma sembravano destinate a rimanere latenti
o ad esprimersi solo a livello individuale e spesso al servizio degli stranieri.
Ma Leopardi, credo, mirava soprattutto a denunciare un vuoto, la mancanza di
una vera dimensione civile nazionale, basata su costumi sottoposti al
giudizio di un’opinione pubblica che avesse il senso della dignità e dell’onore
nazionali. E in questo coglieva indubbiamente
nel segno.
Arthur J. May, nella sua celebrata monografia in tre
volumi sulla monarchia asburgica dal 1867 al 1918, scrive che, secondo
l’ambasciatore tedesco, si notavano “disprezzo e persino odio per
l’Italia: era questo l’unico punto sul quale l’opinione pubblica
fosse quasi unanime in Austria – soltanto una guerra con l’Italia sarebbe
veramente popolare nella monarchia asburgica”.
E lo scriveva, l’ambasciatore, non nel 1915 ma nel 1906!
Stupisce comunque, anche a distanza di un secolo, la
mancanza di realismo e di intelligenza politica della classe dirigente austro-ungherese,
nel momento decisivo. L’imperatore Carlo
era disposto a riconoscere le pretese della Francia alla restituzione
dell’Alsazia e della Lorena, cedendo in cambio all’impero tedesco possessi
austriaci (non ereditari) nell’Europa orientale: sarebbe bastato che
riconoscesse le aspirazioni italiane sul Trentino o gran parte di esso (Tirolo
di lingua italiana, per gli austriaci o Welschtirol – vedi supra)
con qualche piccola aggiunta o anche senza aggiunta. Escludendo a priori l’Italia dalle possibili
trattative di pace, rendeva a priori impossibili le stesse, pur trovandosi
ormai il suo impero in difficoltà interne sempre più gravi. Il principio plurisecolare che non si
dovessero mai cedere territori dell’impero, tanto meno al “nemico ancestrale” italiano,
ribadito ossessivamente da Francesco Giuseppe, venne mantenuto rigidamente da
Carlo sino al crollo dell’impero stesso, crollo cui contribuì anche
quella rigidità.
Lo scoglio della mancata offerta (come base negoziale)
di qualsiasi lembo di territorio, anche piccolo, all’Italia, fu poi di nuovo
una grossa pietra d’inciampo nelle successive trattative segrete con inglesi e
americani, durate sino alla primavera del 1918.
Tutto ciò è stato ben documentato da tempo, in pubblicazioni ufficiali e
non, e non è il caso di rifarne la storia qui.
Possiamo tuttavia chiederci:
perché le trattative non riuscirono mai a decollare? Forse perché
Wilson voleva distruggere la Duplice Monarchia? Nient’affatto. Nonostante
la mistica democratica che lo affliggeva, l’antipatia per l’Italia e
un’astrattezza di fondo, derivantegli dalla sua formazione culturale, di
protestante settario, Wilson era ben capace di valutazioni realistiche. Tutto
il suo atteggiamento, sino appunto al fallimento delle trattative segrete,
dimostra inequivocabilmente che egli
voleva salvare la Duplice Monarchia. Lo stesso deve dirsi del primo ministro
britannico, il gallese Lloyd George, personalità del tutto opposta a quella di
Wilson: un disincantato e pragmatico Realpolitiker, che ad un certo
punto, nel dicembre del 1917, poco dopo Caporetto ma quando il nostro fronte si
era stabilizzato sul Piave e sul Grappa, inviò in Isvizzera a trattare con l’ex ambasciatore
austriaco a Londra il generale sudafricano Jan Smuts, membro del potente War
Cabinet di Londra, uno degli esponenti politici più prestigiosi
dell’Impero. Smuts cercò di far capire agli austriaci che l’Intesa non poteva
non appoggiare certe richieste territoriali romene, serbe, italiane. Incitò pertanto a formulare il piano per una
trasformazione federale dell’Impero e ad indicare, tra l’altro, quali
specifiche concessioni Carlo volesse fare all’Italia. Insistette perché Carlo
si impegnasse a cedere all’Italia almeno il Trentino, oltre, ovviamente, allo
sgombero del Veneto occupato (Valiani).
In sostanza, si sarebbe trattato per noi di esser ristabiliti sulla
frontiera del ’14, migliorata dall’inclusione del Trentino (credo che, dopo la
batosta di Caporetto, per noi sarebbe bastato e avanzato, avremmo dovuto
persino ringraziare). Ma gli austriaci
risposero picche. Ugualmente, nel marzo
del 1918, replicando ad un messaggio di Carlo fattogli pervenire via Spagna,
Wilson chiedeva proposte austriache concrete per “il soddisfacimento
delle aspirazioni nazionali slave” e proposte concrete “delle
concessioni del tutto precise all’Italia” che la Duplice Monarchia sarebbe
stata disposta a fare (Valiani). Per discutere seriamente di pace, separata o
non, occorrevano proposte concrete dalle quali partire, per poter poi
negoziare. E non potevano escludere
nessun alleato minore delle Grandi Potenze.
Ma ancora una
volta, Carlo ribadì che all’Italia non era intenzionato a far alcuna concessione
di territorio dell’impero. In tal modo, ogni trattativa si arenò (Valiani). Non si può dire che l’imperatore facesse
delle proposte che poi gli italiani, superbi e infidi, rifiutassero persino di
discutere. L’imperatore Carlo non ci
vedeva proprio, come si suol dire, scartava a priori l’Italia dal negoziato,
come se non esistesse: un atteggiamento tipicamente asburgico nei nostri
confronti – non ci hanno mai riconosciuto il diritto di essere un popolo e uno
Stato – ma addirittura irresponsabile in quel particolare momento,
considerando in quali pessime acque stesse navigando il suo impero e quanto
fosse vitale giungere ad una dignitosa pace di compromesso, per la quale
comunque aveva buone carte in mano, ancora nella primavera del 1918, prima
della sconsiderata offensiva finale tedesca in Francia e asburgica in Italia.
3.3 L’errore
decisivo di Carlo d’Asburgo: puntare
alla vittoria sul campo, nell’estate del 1918.
Dopo la
vittoria di Caporetto e la conquista del Friuli e di parte del Veneto,
l’atteggiamento austriaco e ungherese si era irrigidito. Peggio ancora, si lasciò affascinare, la
dirigenza austro-ungarica, dal funesto miraggio dello Stato Maggiore tedesco,
quello di vincere la guerra anche in Occidente, prima che la presenza americana
crescesse oltre ogni limite. Alla fine del
1917 c’erano solamente 4 divisioni statunitensi in Francia, equivalenti ad
almeno 6 europee (le divisioni americane di fanteria erano potentemente armate
e a pieno organico potevano arrivare a circa 25.000 uomini, contro i 18.000 di
una grande divisione francese o britannica).
Nel marzo del ’18 erano 6, delle quali 3 in linea, nel maggio 13, 27 in
luglio. Nel luglio del 1919 avrebbero
dovuto essere 100, una forza gigantesca, da sola superiore all’intero esercito
tedesco (Bandini). Invece di pensare a vincere
anche ad Ovest con apocalittiche battaglie di annientamento, per le quali non
avevano mezzi sufficienti, gli Imperi
Centrali, dominatori dei Balcani (esclusa solo la parte meridionale dell’
Albania, tenuta da noi, e la Grecia, tenuta dall’Armata d’Oriente),
signori dell’Europa dell’Est dai Paesi Baltici sino alla Crimea dopo il crollo
della Russia, date anche le condizioni sempre più penose delle loro lacere e
affamate, esauste ed incupite popolazioni; dato, infine, anche l’alto numero di
caduti, feriti, mutilati, data insomma la decimazione in corso di un’intera generazione,
non avrebbero dovuto darsi attivamente da fare – in special modo il
cattolicissimo Carlo – per una seria e generosa pace di compromesso sulla base
dei 14 punti di Wilson? Non era forse in
questa direzione che si stava muovendo anche la diplomazia vaticana, premendo
anch’essa invano sugli austriaci perché, tra l’altro, si impegnassero a fare
qualche concessione all’Italia, anche piccola?
In realtà nessuno dei capi civili
e militari degli Imperi Centrali dimostrò di essere uno statista all’altezza
della situazione.
L’imperatore Carlo, cattolico fervente, persona
integerrima e animata da un forte senso del dovere e dello Stato, era tuttavia
ancor giovane ed inesperto, come uomo di governo. Gli mancò sia la forza di opporsi
ai tedeschi e imporsi agli ungheresi, per ciò che riguardava la giusta e vitale esigenza della pace, sia la
lucidità del vero statista, capace cioè di vincere le sue personali e
asburgiche avversioni in nome della Ragion di Stato, che qui avrebbe coinciso
con l’interesse supremo del suo Stato multinazionale, che si doveva trarre
urgentemente da quella sciagurata guerra, prima che fosse troppo tardi; cosa
che evidentemente richiedeva alcune concessioni territoriali, dolorose e
tuttavia sopportabili. Così il conte
Ottokar Czernin, il boemo ministro degli esteri austro-ungarico, poco dopo
l’inizio tanto folgorante quanto illusorio delle grandi offensive finali
tedesche in Francia, a fine marzo del ’18 fece un discorso di sfida al Reichsrat,
il parlamento austriaco, facendo capire che l’impero puntava sulla vittoria
finale tedesca. Il governo italiano
rispose organizzando dall’8 al 10 aprile successivo il Congresso di Roma delle
nazionalità soggette all’Austria-Ungheria, le cui conclusioni furono in pratica
per la dissoluzione della Duplice Monarchia, in caso di vittoria dell’Intesa.
Errore decisivo, imperdonabile, fu quello
dell’imperatore Carlo, nel piegarsi alle sollecitazioni tedesche, che lo
esortavano imperiosamente a partecipare alla grande battaglia per la vittoria
finale. Si ebbe quindi dal 15 al 24 giugno
sul nostro fronte l’ultima grande offensiva degli Asburgo, con tutte le forze
rese libere dal crollo del fronte orientale: la Seconda battaglia del Piave
o del Solstizio, come la chiamò D’Annunzio, un poderoso attacco su tutta la linea, per
travolgerci. Le affamate e lacere fanterie austro-ungariche speravano in una
seconda Caporetto per potersi rimpinzare nelle doviziose retrovie del Regio
Esercito, rifornite di ogni ben di Dio anche grazie agli aiuti dei suoi
alleati, dominatori dei mari, delle risorse agricole di mezzo mondo, delle
fonti di petrolio e di altre materie prime. L’ultima offensiva della vecchia Austria, come
è stata chiamata, si risolse in uno scacco cocente, nonostante un inizio
promettente sul Piave. Il fronte italiano tenne egregiamente e l’Imperiale e
Regio Esercito dovette ripassare il fiume: da quel momento, avendo bruciato
le ultime risorse, perse ogni capacità di iniziativa. Poteva solo sperare di resistere sino al
conseguimento di una pace possibilmente onorevole. Nell’autorizzare l’avventata offensiva, contro
il parere dei suoi generali più esperti, condotta sottovalutando il nemico e
per di più senza una direttrice principale d’attacco ben delineata, Carlo si dimostrò
inesperto e incapace di ben valutare la situazione, come comandante in capo
(Fiala). Fors’anche vanesio, se è
vera (come sembra) la storia dei timbri e delle targhe ricordo fatti preparare
per l’occupazione, data per scontata, di Venezia e Milano e la preparazione
della cerimonia per assegnare il bastone di Maresciallo all’imperatore, in
Vicenza non appena la si fosse conquistata (Cervone; Primicerj).
La sorprendente beatificazione di questo imperatore
ha prodotto in Italia una pubblicistica apologetica che ha fabbricato il santino
del Beato Carlo, uomo di pace piangente per le perdite sul campo di
battaglia, mirante solo a finire al più presto la guerra con una giusta pace
per tutti, un’anima pia imbevuta di amore del prossimo, frustrata nei suoi alti
propositi e preghiere dalla perfidia e dalla cattiveria dei nemici…È quasi
superfluo rilevare che una simile pappa del cuore non ha nulla a che vedere con
l’autentico Carlo d’Asburgo. Fu comandante
di battaglione sul fronte orientale e poi di un corpo d’armata, cioè di due
divisioni – circa 22.700 uomini su 26 battaglioni con 250 cannoni di vario
calibro, operativamente dirette da uno dei migliori capi di stato maggiore
austro-ungarici, il generale Alfred von Waldstätten. Il corpo combattè contro
di noi nel 1916 nella Battaglia degli Altipiani (la c.d Strafexpedition,
la fallita offensiva strategica di Conrad, vedi infra). Per le sue
qualità di comandante capace e coraggioso fu benvoluto dai soldati, tra i quali
militò anche il padre di Giovanni Paolo II.
Mise in atto i ricordati tentativi di pace ma non esitò mai nell’impiegare
con la massima determinazione tutti i mezzi in possesso del suo esercito, dalle
mazze ferrate e dalle corte accette delle sue fanterie all’uso massiccio dei
gas, per vincere le battaglie sul campo, in particolare contro di noi, il detestato
“nemico ancestrale”. Come dicono i
francesi, “la guerra è la guerra”. Era
il capo di un esercito e uno Stato impegnati in una lotta mortale per la
sopravvivenza, non delle Dame di San Vincenzo o delle Figlie di Maria.
Dopo il fallimento dell’offensiva del giugno del ‘18,
Carlo cambiò atteggiamento e cominciò a chiedere pressantemente la pace sulla
base dei 14 punti di Wilson, mentre in Francia iniziava da agosto l’inesorabile
riflusso dei tedeschi, incalzati dalle controffensive alleate: la richiesta divenne drammatica, dopo che il
29 di settembre improvvisamente l’alleata Bulgaria capitolò senza condizioni, aprendo la strada
dell’indifesa Sofia, di Belgrado, di Budapest agli eserciti dell’Intesa,
avanzanti dai Balcani meridionali: non c’erano più riserve per tappare la
falla. Ma a quel punto, sentendosi la
vittoria in pugno, gli Angloamericani
cominciarono a far orecchie da mercante.
Dopo il fallimento delle trattative segrete e la svolta bellicista
della dirigenza austriaca, la propaganda alleata, diretta dallo spregiudicato
Lord Northcliffe, un irlandese proprietario della stampa inglese più importante,
aveva iniziato a martellare lo slogan Austriam delendam (vedi supra). La dissoluzione dell’Impero era ormai inarrestabile, era cominciata
spontaneamente dal 16 di ottobre 1918,
di fronte al profilarsi della sconfitta, dopo la capitolazione della Bulgaria,
quando Carlo si era visto costretto ad esortare i suoi popoli a darsi un
ordinamento di tipo federale (ma ormai era troppo tardi), cosa che aveva spinto
gli ungheresi a dichiarare unilateralmente decaduto il Compromesso costituzionale
del 1867. La costituzione della Duplice
Monarchia non c’era più: stavano nascendo lo Stato cecoslovacco, il Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, uno Stato ungherese indipendente mentre i risuscitati romeni
addirittura avanzavano verso Budapest; la Polonia austriaca stava confluendo
nel nuovo Stato polacco. L’impero
cominciò a dissolversi nelle sue nazionalità ben prima dei Diktat imposti alla
Conferenza della Pace di Versailles.
Il 25 ottobre, un giorno dopo l’inizio della nostra
offensiva finale, i deputati italiani al Parlamento di Vienna, costituitisi il
giorno prima in Fascio nazionale italiano, con Alcide De Gasperi come
segretario, dichiararono “che tutti i territori italiani, finora soggetti alla
Monarchia austro-ungarica […] si debbono ormai ritenere come appartenenti allo
Stato italiano”(Craveri). I trentini molto avevano sofferto durante la guerra.
Rovereto, retrovia del fronte, fu brutalmente saccheggiata dalle stesse truppe
imperiali, nell’ultimo anno di guerra, quasi fosse territorio nemico. Quarantamila i richiamati, inviati sul fronte
orientale; decine di migliaia gli internati e deportati in Austria ed oltre;
molte famiglie vennero divise, furono imposte restrizioni di ogni tipo.
Trentacinquemila trentini riuscirono a fuggire nel Regno d’Italia. Vennero lasciati in loco soprattutto i
trentini di sicura fede asburgica, quelli che venivano mandati a dileggiare i
soldati italiani prigionieri (Pieropan). Ci fu una forte ripresa del
pangermanesimo tirolese dopo Caporetto (“un solo Sud Tirolo [tedesco] dal
Brennero alle Chiuse di Verona”, era il suo tipico slogan antiitaliano, che coagulava
quello dei nazionalisti tirolesi dell’Ottocento: “Non esiste alcun ‘Trentino’ né geograficamente,
né storicamente, né linguisticamente, né economicamente”)(Craveri; Ferrandi). Il nazionalismo tedesco e austro-tedesco non
si è mai accontentato della sola provincia di Bolzano, col Brennero. Ha sempre cercato di dominare l’intera
vallata dell’Adige, che gli apriva la strada al controllo della Pianura Padana
e all’invasione dell’Italia. Per i nazionalisti
tedeschi la frontiera con l’Italia dovrebbe essere addirittura al M i n c i o .
Wilson, agendo al di là e contro lo spirito dei suoi
stessi 14 punti, smentendo disinvoltamente il principio da lui tanto vantato
della “pace senza vincitori né vinti”, pretendeva ora abdicazioni e rese
incondizionate, imponeva la pace di Brenno.
Dichiarò superato il punto n. 10, appoggiando in pieno l’indipendenza
cecoslovacca e la formazione di uno Stato jugoslavo.
Dal punto di vista militare, tedeschi e austriaci
stavano tentando di ritirarsi a difesa dei rispettivi confini nazionali anche
se senza un piano organico comune. Lo
Stato imperiale stava scomparendo ma l’esercito imperiale e regio, nonostante
le diminuite scorte, le diserzioni e gli
ammutinamenti nelle retrovie, teneva ancora in prima linea. Gli austriaci
pensavano inizialmente di potersi ritirare con calma dal Veneto e dal Friuli, a
sezioni, in un tempo che poteva durare anche mesi! (Cervone) L’esercito tedesco, pur non avendo più
riserve e scarseggiando di viveri e munizioni, teneva ancora bene la linea, anche
se non più continua, soprattutto grazie alla qualità straordinaria dei suoi
ufficiali (Bandini). Cercava di ripiegare
per gradi sul Reno, l’armistizio lo sorprese ancora in Francia, quasi sui
confini del ’14; fatto che avrebbe poi consentito di fabbricare l’infame
leggenda di un esercito tedesco ancora vittorioso “pugnalato alle spalle” dai
politici che avevano accettato l’armistizio implicante la resa incondiazionata,
ovviamente “traditori” e ovviamente complici del “bolscevismo giudaico”. Il
deputato cattolico Matthias Erzberger, che aveva dovuto sottoscrivere il
documento armistiziale, fu poco dopo
assassinato da due tedeschi di estrema destra.
L’intenzione di tedeschi e austriaci era quella di resistere ancora per
qualche tempo, di arrivare all’inverno, nella speranza di strappare condizioni
di pace meno dure: gli Alleati, ad
eccezione degli americani, erano anch’essi stremati. Ma la pur tardiva offensiva italiana (24
ottobre - 4 novembre, Terza Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto),
durante la quale, dopo cinque giorni di aspri combattimenti, il Regio Esercito
italiano e i suoi alleati sfondarono (il 28 ottobre) il fronte dell’indebolito
Imperiale e Regio sul Piave, mandò all’aria questi disperati piani
dell’ultima ora.
L’Austria-Ungheria si vide costretta (dalla mattina
del 29 ottobre) a chiedere urgentemente un armistizio. Dopo convulse trattative, fu concesso dal Consiglio
Interalleato installato a Parigi solo in cambio dello sgombero immediato
del Veneto e di una resa incondizionata, cose che dovevano esser materialmente trattate con gli italiani (e
non con gli americani, come avrebbe voluto Carlo). Il crollo militare asburgico apriva l’indifesa
e ormai indifendibile Germania meridionale all’invasione da parte delle forze
dell’Intesa. I tedeschi, in
irreversibile ritirata ma non ancora battuti, furono quindi costretti ad accettare
rapidamente le condizioni dell’armistizio già chiesto da loro il 3 ottobre, in
un momento di panico poi rientrato, quando ebbero l’impressione errata che il
loro fronte stesse per cedere di colpo.
Queste condizioni contemplavano un’umiliante capitolazione incondizionata,
ordinante anche la consegna della
flotta: come si è detto, sottoscritta l’11 novembre, otto giorni dopo quella
austriaca. Tra il 29 e il 30 ottobre
cominciarono ad ammutinarsi i marinai della flotta tedesca, a Kiel, rifiutandosi
di obbedire all’ordine di uscire in mare per attaccare il traffico inglese
lungo le coste olandesi e belghe. Chiedevano la pace non la rivoluzione. Il 4
novembre gli ammutinati si impadronirono di Kiel ed elessero Consigli di
soldati, alla maniera bolscevica. Il moto diventò nazionale dal 9 novembre
(Rosenberg). Anche nella Duplice Monarchia vi erano in quei primi giorni di novembre
moti di piazza e conati rivoluzionari.
Il bolscevismo di colpo sembrava dilagare. La Battaglia di Vittorio Veneto non
decise l’esito della guerra, ormai segnato a favore dell’Intesa, a causa
dell’inarrestabile esaurimento dell’avversario; contribuì però ad accelerarne
la fine e in senso del tutto favorevole alla stessa Intesa, che ebbe un’arma in
più per costringere i tedeschi ad accettare rapidamente la resa incondizionata,
senza discutere.
“Un effetto importante di questa prolungata
discussione [nel War Cabinet imperiale britannico] fu che le condizioni
da proporre alla Germania furono definitivamente stabilite solo dopo la
capitolazione dell’Austria, cosa che, come aveva previsto astutamente Lloyd
George, consentiva agli alleati di “imporre alla Germania termini più duri” con
minori probabilità di rifiuto. I tedeschi
furono indotti ad accettare frettolosamente questi termini non tanto dalla
situazione esistente sul fronte occidentale quanto piuttosto dal crollo del
“fronte interno”, cui si aggiungeva il pericolo di un nuovo colpo alle spalle attraverso
l’Austria”(Liddell Hart). Il precedente
“colpo” era stato il collasso della Bulgaria. Il collasso militare austriaco in
Italia non lo provocò ma contribuì al “crollo del fronte interno” in
Germania: esso dimostrava all’improvviso
a tutti i tedeschi che la guerra era irrimediabilmente perduta.
Il generale Erich Ludendorff, Capo di Stato Maggiore
dell’esercito imperiale tedesco, uno dei maggiori responsabili della sconfitta
finale, scrisse ad implicita conferma in una lettera del 7 novembre 1919: “A Vittorio Veneto l’Austria non aveva
perduto una battaglia, ma aveva perduto la guerra e se stessa, trascinando la
Germania nella propria rovina. Senza la
battaglia distruttrice di Vittorio Veneto noi avremmo potuto, in unione d’armi
con la Monarchia austro-ungarica, continuare la resistenza disperata per tutto
l’inverno, avere in tal modo il tempo e la possibilità di conseguire una pace
meno dura, perché gli Alleati erano molto stanchi” (Faldella).
Sì, “tutto crollò, il centro non resse più, sul mondo
si scatenò l’anarchia”. Ma in questo
tragico “crollo” finale di u n mondo, quanta parte vi ebbero anche gli errori
di valutazione e le vedute ristrette, i pregiudizi e la superbia dei militari
tedeschi e dei governanti e militari austro-ungarici, incluso l’imperatore Carlo? Forse la storiografia e la saggistica di
impostazione cattolica “tradizionalista” e tutti gli adepti del “mito
asburgico” dovrebbero porsi quest’interrogativo, a un secolo di distanza. E magari chiedersi quanto effettivamente
cattolico fosse rimasto il supposto centro dell’Europa costituito
dalla Monarchia Danubiana, pur continuando ad essere nel complesso uno Stato
cattolico.
4. Nell’impero
austro-ungarico il “riflesso della Christianitas medievale” appariva ormai opaco,
messo in crisi dalla rinascita del giuseppismo
e dal diffondersi dello spirito del Secolo:
4.1 Il rilassarsi della morale
L’immagine di una monarchia danubiana integralmente
cattolica sino alla fine, centro e baluardo immarcescibile
della fede e della morale cattolica nel mare magnum della cultura e
pseudocultura materialistica e anticristiana, di tipo positivistico e scientifico
da un lato, irrazionalistico dall’altro, che si era diffusa sin dalla seconda
metà dell’Ottocento, andrebbe a mio giudizio anch’essa rivista. In questo senso: è vero che si era conservata la “Christianitas medievale” ma piuttosto diluita,
per così dire, nell’inarrestabile processo di secolarizzazione, ben all’opera
anche nello Stato asburgico e non contrastato nel dovuto modo
dall’istituzione imperiale. Sotto il
lunghissimo regno di Francesco Giuseppe il giuseppismo non era stato
solo un ricordo del passato, c’era stata una sua riesumazione. Né si può dire che la morale della classe dirigente si fosse mantenuta al
livello richiesto dalla vera pratica cattolica.
Francesco Giuseppe ebbe un matrimonio infelice e la
moglie, l’imperatrice Elisabetta, irrequieta ed eccentrica principessa bavarese
(da lui scelta come sposa quando aveva solo 16 anni) insofferente della pesante
etichetta di corte, si distaccò di fatto da lui dopo la fosca tragedia del
suicidio del loro unico figlio maschio (gennaio 1889), iniziando una vita di
viaggi continui, con l’ausilio di una semplice dama di compagnia. Questa vita errabonda nel settembre del 1898,
sarebbe finita di colpo a Ginevra ad opera dello stiletto di un esaltato e criminale anarchico, l’italiano Luigi Lucheni.
L’imperatore emendò in qualche modo la
sua solitudine mantenendo una lunga e stabile relazione con una famosa attrice
austriaca dell’epoca, separata dal marito.
All’imperatrice Elisabetta la vox populi aveva attribuito una grande
simpatia (rimasta molto probabilmente platonica) per l’affascinante conte Gyula
Andrássi, ministro degli esteri. Sono umane
debolezze, dovute anche a circostanze avverse, sarebbe ingeneroso assumere
atteggiamenti moralistici.
Non si può
tuttavia sottacere la torbida atmosfera nella quale maturò la tristemente
famosa tragedia di Mayerling, allorché il depravato ed esaltato giovane erede
al trono, frequentatore delle più raffinate
cocottes viennesi, il trentenne e (infelicemente) maritato Rodolfo
d’Asburgo, si uccise subito dopo aver sparato alla sua ultima amante, la diciassettenne baronessa Maria Vetsera,
che, a quanto sembra, aveva accettato di morire con lui. Né lo scandalo del capo del controspionaggio
austriaco, il colonnello Redl, omosessuale, indotto dai superiori a suicidarsi
(nel maggio del 1913) perché ricattato per anni dai russi, che l’avevano
costretto a spiare per loro, con il pagargli i debiti del suo dispendiosissimo
regime di vita. Carlo I, esemplare marito e padre, è stato uno
dei pochi regnanti asburgici senza amanti o scappatelle checchesia, così come
sembra che solo san Luigi IX, Luigi XVI
e pochi altri siano stati i Re di Francia capaci di mantenere il talamo incontaminato.
La prima favorita ufficialmente in carica
di un Re di Francia si chiamava Agnese Sorel, morta nel 1450 poco dopo il
quarto parto. Diede quattro figlie a Carlo VII, tutte riconosciute e ben
sistemate dal monarca. Così i re
cattolici, cristianissimi e apostolici, istituzionalmente difensori della
morale cristiana e del matrimonio cattolico, svilivano di fatto l’una e l’altro, dando (in
troppi di loro) il cattivo esempio con le loro non esemplari vite private
(comunque acqua fresca rispetto a quello che succedeva con il Gran Turco, dove
la successione al trono era dominata dagli intrighi intrecciati da mogli,
concubine, schiave, eunuchi e per diverse generazioni visse la prassi mostruosa
di far strangolare i (numerosi) fratelli di colui che era stato indicato come
erede al trono, in un caso sino a sedici in una volta). La colpa dello svilimento del matrimonio
cattolico da parte dei regnanti era anche della politica dinastica, che
spesso imponeva a prìncipi e principesse che non si erano mai conosciuti prima
di sposarsi in nome della ragion di Stato, visto che la moglie portava in
genere in dote territori e popoli o
preziose alleanze, anche se a volte proprio da queste “doti” scaturivano guerre
tremende, come quella detta dei Cento Anni tra inglesi e francesi. O imponeva matrimoni troppo legati ad una
concezione angusta dei quarti di nobiltà necessari per la successione al trono.
Queste unioni
furono raramente felici. Lo furono, per
esempio, nel caso del citato Carlo I con sua moglie Zita di Borbone-Parma; di
Maria Teresa d’Austria con Francesco Stefano di Lorena; della coppia granducale
assassinata a Sarajevo. Nell’aristocrazia asburgica del tempo sembra che le
infedeltà matrimoniali e la licenziosità fossero abbastanza diffuse (il padre
di Carlo I, ad esempio, l’arciduca Ottone Francesco, era un libertino notorio;
dopo una vita di scandali, morì a soli 41 anni, lontano dalla famiglia, devastato
dalla sifilide). Ma anche tra i
contadini, in certe regioni dell’impero, e nella stessa Vienna, i figli
illegittimi erano relativamene frequenti, ci ricorda Arthur J. May (dal
censimento imperiale del 1910, meno del 10 % dei nati, in Dalmazia; più del 37%
in Carinzia). Anzi, l’Austria, da
statistiche ufficiali del 1909 risultava avere il tasso di illegittimi più alto
d’Europa, il 14-15% delle nascite tra il 1896 e il 1900 (Tannenbaum). Mentre
non si può dire che la borghesia in ascesa fosse immune da un certo lassismo:
la madre del citato grande scrittore austriaco Robert Musil impose al debole
marito la presenza ufficiale del suo amante, immortalato il ménage à trois in
una foto includente il giovane Robert, nella quale il “decoro borghese” non
riesce a nascondere il carattere stralunato e falso della situazione (Cases).
L’aristocrazia austro-ungarica perì in gran numero sui
campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, i nobili fecero coraggiosamente
il loro dovere sino in fondo, non mancarono di certo nel patriottismo e nel senso
dell’onore, nello spirito di sacrificio, allo stesso modo dell’aristocrazia
mobilitata negli altri eserciti. Ma nei
decenni precedenti la guerra quella fondamentale classe appariva in decadenza,
troppo presa anch’essa, salvo le inevitabili eccezioni, dalla tendenza
dell’epoca alla “gioia di vivere”, al materialismo, al carpe diem, alle
mode di una pseudocultura ammantata di “spiritualità” ovvero pervasa di
spiritismo, teosofia, occultismo et similia.
Non si sottraeva, quella classe, al clima decadente e al fondo
irreligioso della Belle Époque,
così ben rappresentato, per la Francia, in certe pagine della proustiana Recherche,
per ciò che riguarda il suo aspetto più raffinato. E per la stessa Austria, per l’appunto da L’uomo
senza qualità di Musil, il cui primo volume uscì nel 1931, ma dopo lunga
gestazione. L’aristocrazia, salvo
qualche eccezione, era anche ignorante, nel senso che si limitava ad una
cultura minima, superficiale, senza nulla sapere degli orientamenti di pensiero
dominanti, preferendo di gran lunga i balli e la caccia, lo sport (May). La grande scrittrice cattolica austro-morava,
baronessa Marie von Ebner-Eschenbach (1830-1916), nei suoi racconti e romanzi,
pur non trascurando di rappresentare nei suoi personaggi i nobili ancora
praticanti le antiche virtù nei confronti di inferiori e contadini, metteva in
rilievo la vacuità, l’aridità, la mollezza della vita della maggior parte
dell’aristocrazia, di contro alla condizione dura e a volte miserabile dei contadini,
incitando invano i nobili a mutare il proprio modo di vivere per dedicarsi
invece “a riforme per il progresso e la rinascita della monarchia”(May; Magris).
Il tumultuoso sviluppo industriale e commerciale,
demografico e sociale nell’impero, a
partire dal Compromesso del 1867 (Ausgleich),
positivo per i miglioramenti di vita e l’ampliarsi della cultura ma negativo
per la mentalità materialistica e utilitaristica che contribuiva a far sorgere,
sembrava livellare tutto, distruggendo tradizioni e valori secolari, anche
estetici e paesaggistici, demolendo antichi rapporti di classe e nello stesso
tempo instaurandone di nuovi, più fluidi; provocando l’accumularsi di forze materiali
e spirituali soverchianti, che sarebbero poi deflagrate nella guerra mondiale. Di questa situazione risentì in particolare
la religione cattolica.
In tutta la società colta europea era abbastanza
diffuso l’indifferentismo nei riguardi della religione, e persino l’ostilità
vera e propria, diffusa anche tra le masse dal socialismo e dal marxismo
avanzanti grazie allo sviluppo di un vasto proletariato urbano, provocato dalla
rivoluzione industriale. Anche esponenti
prestigiosi della cultura accademica più elevata, imbevuti com’erano di
positivistico disdegno per la religione, liquidavano il cristianesimo quale
espressione di una mentalità pre-scientifica, animistica, come dicevano. Da quella mentalità scaturì poi il noto
opuscolo dell’ateo e miscredente Sigmund Freud intitolato L’avvenire di un’illusione,
dove “l’illusione” sarebbe stata la religione, interpretata in termini di nevrosi
da sottoporre a terapia!
L’Austria-Ungheria non si sottraeva al clima generale,
nonostante la partecipazione dell’imperatore e della nobiltà ai riti religiosi quotidiani,
imposti anche nelle scuole militari, e alle imponenti festività religiose
tradizionali, con recite pubbliche del Rosario da parte del monarca, in
ginocchio come gli altri. E difatti
arrivò la Grande Guerra, che fu un castigo tremendo per tutti, vincitori
e vinti; anche se per noi italiani, non dobbiamo mai dimenticarlo, fu, con
l’eroico sacrificio di un’intera generazione, il prezzo di sangue che dovemmo
pagare per riscattarci da quasi quattro secoli di servitù e umiliazioni di ogni
tipo e ricostituirci finalmente come popolo libero e sovrano nella pienezza dei
suoi confini naturali.
4.2 Il Sacro Romano Impero tra ideale e realtà.
Bisognerebbe poi precisare, a mio modesto avviso, cosa
si intende effettivamente con
“Christianitas medievale”, al di là dell’idea di una religiosità mantenutasi
nell’Austria-Ungheria in modo per vari aspetti (formalmente) simile a quella
praticata nel Medio Evo, epoca cristiana per eccellenza. La nozione risulterebbe
discutibile se identificata, come suo simbolo,
con l’istituzione del Sacro Romano Impero, che in realtà di quella Christianitas
fu solo una componente, per di più contestata da monarchie nazionali, liberi
comuni, papato. Anzi, le lotte feroci
tra comuni italiani e impero e tra papato e impero per questioni temporali che
poi tracimarono nel dogma, con l’ereticale proclamazione della superiorità
dell’imperatore sul Papa, provocata, questa deriva, anche dalla crisi della
Scolastica scaduta nel nominalismo e nel volontarismo; tali lotte indebolirono
notevolmente la medievale Christianitas, mettendola in crisi prima ancora
dell’avvento dell’Umanesimo.
Il Sacro Romano Impero, che il miscredente ed irriverente
Voltaire definiva non del tutto a torto “nè romano, nè impero”, non coincise
mai con la totalità dei popoli europei occidentali. La sua “romanità” era un’astrazione, se da
riferirsi al “popolo romano”, scomparso da secoli, assieme al suo impero,
rimasto in piedi nella sua parte orientale, ma come Stato greco, bizantino
e non più romano. Il “rinnovato” o meglio reinventato impero, con
l’incoronazione di Carlo Magno, Re dei Franchi, da parte del Papa la notte di
Natale dell’AD 800, dalla fine del X secolo fu uno Stato tedesco con l’Italia
come sua appendice. Si aggiunsero secoli più tardi, sotto la dinastia
asburgica, le “appendici” vallone, slave e ungheresi. Si trovò
a dover sempre lottare contro altri Stati europei (p.e. contro la monarchia
francese e quella polacca) e al proprio interno (all’epoca degli imperatori
tedeschi) contro la nobiltà, i regni più piccoli, i comuni, le città libere:
una frammentazione politica che non si riuscì mai a ridurre, in Germania e in
Italia. Esiziale fu il conflitto con il
papato, che comunque non ne uscì affatto indenne, sul piano politico e
spirituale. Dopo la fase iniziale, delle
conquiste consolidatesi nella unitaria civiltà carolingia, che durò in buona
salute solo per qualche decennio, poco dopo la morte di Carlo Magno (814) l’impero fu
travagliato da crisi gravissime, devastato per circa un secolo dalle guerre
civili e dalle nuove invasioni barbariche (Vikinghi, Ungari, Saraceni);
sprofondò in un caos sanguinoso che coinvolse anche lo Stato della Chiesa e dal
quale risorse non come effettivo, restaurato impero (a parte il nome) bensì
come Stato tedesco in formazione, uno Stato accanto agli altri, p.e. alla
monarchia francese nascente a sua volta dalle ceneri dell’impero carolingio,
grazie ai Capetingi, e alla monarchie slave e ungheresi.
Ma lo Stato tedesco restò sempre suddiviso in
molteplici entità territoriali, sino al 1871, anche se non occupato dagli stranieri. Ciò dipese in larga misura dal fatto che il
peso dell’impero “romano” lo obbligò a sprecare grandi energie nello sforzo di
tenere l’Italia, troppo spesso ribelle, ragion per cui l’autorità imperiale
nella stessa Germania era debole, vittima di infiniti compromessi e lotte
(anche cruente) con il particolarismo interno. E le lotte medievali per
l’indipendenza comunale e pontificia concorsero a mantenere divisa anche
l’Italia, a farvi trionfare l’endemico e settario particolarismo, iniziatosi
dopo la nefasta Guerra Gotica (535-554) che riconquistò per breve tempo
l’Italia all’impero romano d’Oriente, ma devastandola completamente. Dall’appartenere all’impero, l’Italia ebbe
qualche vantaggio, per esempio quando l’imperatore scendeva con il suo esercito
a combattere contro i Saraceni, a difendersi dai quali tuttavia dovevano provvedere
in genere i potentati italiani, con le loro scarse risorse. E vantaggio ne ebbe
il Papa, quando invocava l’aiuto imperiale contro gli eretici o contro le
fazioni romane che lo attaccavano o i rivoluzionari isolati come Arnaldo da
Brescia o Cola di Rienzo. Ma non esitavano i Papi a chiamare il popolo e le
fazioni alla rivolta contro l’imperatore, quando era lui ad angariarli, il che
non accadde di rado. Maggiori furono gli
svantaggi, dipendenti in primo luogo dal fatto che le nostre organizzazioni
politico-territoriali (non ecclesiastiche) dovevano aver sempre il beneplacito
imperiale per esser considerate legittime ossia l’approvazione di un sovrano
nei fatti straniero, che procedè anche, come potè, all’intedescamento delle
nostre zone alpine. Quando il Sacro Romano Impero fu formalmente abolito da
Napoleone, scrisse Luigi Salvatorelli, “l’Italia fu liberata da una delle più
gravi schiavitù reali e ideali gravante da secoli su di lei, e da cui i vecchi
Stati italiani non erano per sé riusciti a liberarla mai”.
Rappresentava certamente, l’idea dell’impero,
un elevato ideale di governo universale cristiano, in accordo con il Papato. L’ideale di un governo che difendeva i
sudditi da tutti i pericoli, puniva i malvagi, premiava i meritevoli, insomma attuava
la giustizia in tutte le sue forme, mettendo sotto controllo la molteplicità
degli interessi e delle fazioni, delle passioni, nell’esercizio di un potere
uno e unitario perché fondato sulla vera religione e sui valori di
un’aristocrazia cosciente della sua missione. Ma, al dunque, questo alto e nobile ideale ebbe
sempre un’attuazione difficile, stentata, contestata e limitata da ogni lato,
sia per ragioni interne che esterne.
Quando l’ufficio imperiale divenne elettivo, aperto a tutti i maneggi
dei prìncipi, la sua autorità si indebolì ulteriormente. I momenti di unione, di slancio concorde dei
componenti la politicamente e socialmente frammentata Christianitas medievale,
furono rari, nonostante l’unità di fede e di costumi, garantita dal Magistero
della Chiesa.
Con la Pace di Westfalia del 1648, sigillante la
Guerra dei Trent’anni, iniziata per questioni religiose ma risoltasi con il
prevalere del nuovo soggetto politico, gli Stati nazionali sovrani, tutti monarchie tranne le repubbliche mercantili
olandese, svizzera, di Venezia, l’impero era in sostanza definitivamente
tramontato come realizzazione politica e spirituale di una Christianitas unitaria;
ben prima, dunque, che Napoleone ne imponesse la soppressione formale nel 1806.
Infatti, quella pace aveva riconosciuto
anche ai calvinisti la libertà di culto già concessa con la cinquecentesca Pace
di Augusta ai luterani (1555) e, tra le inutili proteste del Pontefice
Innocenzo X, aveva regolato la disposizione di numerosi beni ecclesiastici in
modo minuzioso, attribuendone molti in feudo a prìncipi protestanti. Inoltre,
aveva limitato il potere degli Asburgo, titolari dell’impero, dando vita ad una
elastica Confederazione Germanica e conferendo maggior libertà e potenza a
Stati tedeschi come la Baviera e la Prussia. È da notare che la Bolla di
protesta di Innocenzo X, del 26 novembre 1648, non fu nemmeno pubblicata a
Vienna, ormai acquisita al nuovo spirito (Bettanini).
Lo Stato che si
fondava sul suo proprio sovrano potere fu la risposta laica alle guerre di
religione che avevano devastato l’Europa per più di un secolo, creando una
situazione di guerra civile semipermanente, rivelatasi impossibile a risolversi
sul piano religioso, cioè con il riassorbimento dello scisma dei protestanti
eretici. Il potere sovrano si scindeva
dalla vera religione: si affermava, infatti, il principio della libertà di
culto, in modo che in ogni Stato si imponesse la religione del detentore del
potere, cattolico o protestante che fosse (cuius regio, eius religio: la
religione sia di colui cui appartiene il territorio).
L’impero austriaco, deciso nel 1804 sui domini
ereditari asburgici, si poneva in evidente successione ideale con il Sacro
Romano Impero, soppresso per imposizione di Napoleone nel 1806. Ma si trattava semplicemente di uno Stato cattolico
che riaffermava la continuità con le sue istituzioni, con se stesso, con la sua
tradizione, nella nuova forma costituzionale imposta dalle circostanze
storiche, esse stesse il risultato di una situazione maturatasi in un lungo
arco di tempo. Sparivano la sacertà
e la fittizia romanità. Finiva l’equivoco, restava lo Stato cattolico,
la monarchia multietnica austriaca, danubiana e balcanica, la cui creazione
specifica era la Mitteleuropa, che di “romano” non aveva nulla. Ma cattolico, come? Esteriormente, con molteplici “riflessi”
della Cattolicità medievale, in uno Stato che istituzionalmente proteggeva e
privilegiava la vera religione, fondamento del costume e dell’etica, sia
privata che pubblica, nel rispetto dei suoi istituti e della solennità e
puntigliosità delle forme di culto e devozionali tramandate; ma con cedimenti
anche vistosi alle infiltrazioni liberali, o comunque allo spirito del
Secolo, che già si spingeva oltre la “mentalità liberale”; cedimenti evidenti
nei rapporti fra Stato e Chiesa, nella vita morale e di famiglia, nel costume. E
anche nella cultura, che vedeva il predominio di concezioni del mondo sempre
più laiche e sempre meno cattoliche.
4.3 Le
contraddizioni dell’asburgico “cattolicesimo illuminato”, anticuriale,
filogiansenista e anticlericale prima della Rivoluzione Francese, filoliberale
all’epoca di Francesco Giuseppe.
L’assolutismo illuminato aveva trovato proprio
in Austria, in uno dei figli di Maria Teresa, fratello di Maria Antonietta, l’imperatore
Giuseppe II di Asburgo-Lorena, uno dei suoi artefici più radicali, deciso a
riformare la società in tutti i suoi aspetti secondo i canoni del razionalismo
illuminista allora culturalmente prevalente – razionalismo che, del resto, sotto
la spinta di necessità concrete sempre più forti, aveva cominciato ad apparire
anche nel riformismo teresiano. Molte riforme erano necessarie, a cominciare da
quelle riguardanti la riorganizzazione amministrativa dello Stato, la riduzione
dei privilegi fiscali della nobiltà e del clero, la pubblica salute, la lotta
all’analfabetismo, la possibilità di esprimere le proprie opinioni politiche, le
condizioni dei contadini.
Tuttavia
Giuseppe II, poco curandosi della sensibilità e delle tradizioni dei suoi sudditi,
diede alle riforme un taglio tendenzialmente astratto e, quel ch’è peggio,
accentuatamente anticlericale oltre che imposto dall’alto con maniacale
regolamentazione burocratica, con tendenza ad entrare nel merito delle
questioni di culto e religiose. Si
lasciò influenzare dalle tesi del Fabronius, al secolo Johan Nikolaus
von Honthein, vescovo suffraganeo, poi ritrattatosi in punto di morte, il quale
affermava che il Papa dovesse considerarsi solo un primus inter pares e
che dovessero crearsi delle chiese nazionali (S. K. Padover). Giuseppe II fece dei vescovi e del clero degli
impiegati dello Stato; concesse libertà
a tutti i culti con un editto di tolleranza; iniziò l’emancipazione civile
degli ebrei; attenuò la censura, avocandola allo Stato, e concesse la libertà
di stampa; cominciò a sviluppare un’istruzione pubblica obbligatoria, di Stato;
eliminò numerosi conventi degli ordini contemplativi e mendicanti,
incamerandone le vaste proprietà, il cui ricavato impiegava per il sostentamento
del clero e per le riforme civili.
La Massoneria, all’epoca molto diffusa in tutta
l’Europa colta sino ad esser diventata una vera e propria moda, fiorì
notevolmente sotto di lui, che non risulta esser stato iniziato. Del resto il padre, marito di Maria Teresa,
Francesco Stefano di Lorena, Granduca di Toscana e poi Imperatore, era massone,
gran maestro di una delle Logge viennesi (e difatti la scomunica della Setta,
fulminata nel 1738 da Clemente XII, non fu pubblicata in Austria [Padover]). In Toscana, Francesco Stefano, iniziatosi a
Londra, contribuì al fiorire delle Logge, ivi introdotte da residenti inglesi (Mola).
Il figlio Pietro Leopoldo, granduca di
Toscana e poi per due anni imperatore nel 1790 alla morte di Giuseppe II suo
fratello, fu in Toscana un grande riformatore però anticlericale anzi
anticuriale, favorevole al giansenismo e alla formazione di una Chiesa di
Stato, insomma promotore di una politica ecclesiastica simile a quella di
Giuseppe II. Nel 1786 favorì il famoso Sinodo di Pistoia, nel quale i
giansenisti subornarono la gran parte dei parroci ignari partecipanti (delle
sue 86 proposizioni, Pio VI ne condannò poi sette come eretiche e le altre come
“prossime all’eresia, false, scandalose” [Wandruzska]). Questi granduchi e imperatori imbevuti dello
spirito del Secolo praticavano in realtà, già nel Settecento, un cattolicesimo
cosiddetto ragionevole, illuminato, adattato ai tempi, pur
attuando sempre scrupolosamente i loro doveri formali di sovrani cattolici,
protettori della vera religione.
“Il cattolicesimo illuminato di derivazione lorenese,
ispirato a Fénelon e Muratori, non senza numerosi apporti postgiansenisti, e
con qualche venatura perfino massonica, non escludeva né in Francesco Stefano
né nei figli e neppure nei figli di questi uno stretto e coscienzioso
adempimento dei doveri religiosi.
Sappiamo che Francesco Stefano imponeva ai figli la quotidiana preghiera
del mattino, l’ascolto quotidiano della Messa, l’esame di coscienza serale, la
frequente confessione (caratteristico che tenesse molto più alla confessione,
assai meno alla comunione): tutti
princìpi che ritroviamo esposti in una delle memorie trovate tra le sue carte
dopo la sua morte. È anche vero che, pur
astraendo dal fatto che la stretta osservanza dei doveri religiosi era considerata
obbligo morale di un sovrano cristiano e imperatore del Sacro Romano Impero,
tanto per Francesco Stefano quanto più tardi per i figli Giuseppe e Leopoldo,
essa era anche premessa indispensabile per poter andare d’accordo con Maria
Teresa, di così stretta e così rigorosa osservanza religiosa. Che la coscienza di una assoluta ortodossia
cattolica presso Maria Teresa come presso Giuseppe e Leopoldo si accompagnasse
poi a forti interferenze nella vita ecclesiastica, a controversie violente con
la Curia di Roma, con aperte prese di posizione a favore di tendenze e personalità
gianseniste, può apparire a noi uomini del XX secolo una insolubile
contraddizione, ma secondo ogni più attendibile testimonianza dell’epoca, né
l’imperatrice né i suoi figli ebbero mai coscienza di una tale contraddizione”(Wandruzska).
Gli ultimi anni di Giuseppe II furono tristi. Anche per colpa delle numerose riforme oltre
che di una difficile guerra contro gli ottomani, il peso fiscale era diventato
greve, intere province si ribellavano, come l’Ungheria e soprattutto i ricchi
Paesi Bassi austriaci, l’attuale Belgio, che gli Asburgo avrebbero presto perso
nel turbine che stava cominciando ad investire l’Europa, a causa della
Rivoluzione Francese. Giuseppe II morì
nel febbraio del 1790, angosciato dalla Rivoluzione scoppiata solo l’estate
precedente, pentito delle sue riforme e dopo aver revocato la libertà di
stampa, che del resto aveva provocato anche notevoli effetti negativi, quali
l’impressionante diffondersi di una letteratura di bassissima lega, non solo anticlericale
ma anche libertina, per non dire pornografica (S. K. Padover).
4.4 L’Italia
“appendice austriaca” nell’epoca della Restaurazione
Dopo il turbine rivoluzionario e napoleonico, momentaneamente
scomparsa dalla scena la Francia, l’Austria appariva effettivamente la potenza
egemone nell’Europa continentale, in particolare in Italia, ridotta la nostra penisola
quasi ad una “appendice austriaca” (May). Si salvava solo il Regno di
Sardegna: Piemonte, Liguria, Sardegna, come Regno autenticamente
indipendente. All’inizio del Settecento,
venuto meno il lungo dominio spagnolo, l’Austria, dopo varie campagne militari
in casa nostra, si era impadronita della Lombardia, tranne la parte sotto la
sovranità veneziana. L’aveva persa ad opera di Napoleone, che ne aveva fatto il nucleo di
un piccolo Regno d’Italia sotto tutela francese ma strutturato come Stato
indipendente, esteso al nord sino al Brennero, ad Est sino all’Isonzo, a Sud
sino alle Marche, dotato di istituzioni civili e militari moderne, sul modello
francese. La Lombardia l’Austria l’aveva
riacquistata nel 1815. Al Congresso di
Vienna, l’impero austriaco dovette rinunciare ai Paesi Bassi meridionali e a
qualche possedimento lungo il Reno ma acquistò la Dalmazia, l’Istria
occidentale, alcune isole adriatiche, tutti possessi veneziani, la stessa
Venezia con il Veneto, la Lombardia. Fu creato il Regno del Lombardo-Veneto,
governato da Vienna tramite un Vicerè che risiedeva a Monza. Rami della dinastia austriaca continuavano a
regnare a Parma, Modena (considerata “terza progenitura asburgica”) e nel
Granducato di Toscana (“seconda progenitura asburgica”) mentre lo Stato del
Papa e il Regno delle Due Sicilie subivano fortemente l’influenza di Vienna, la
quale ottenne a Est anche la Galizia
polacca, assorbendo poi la piccola Repubblica di Cracovia.
In base a quale
principio del diritto internazionale l’Austria si annetteva la Repubblica di
Venezia con tutti i suoi possedimenti? Uno Stato neutrale e pacifico, in pratica
disarmato, dissolto e occupato da Napoleone, non avrebbe dovuto esser
ripristinato nella sua indipendenza e sovranità, se si fosse voluto applicare
il diritto? Ma si disse che i veneziani
non avevano combattuto contro il Tiranno, erano stati imbelli, quindi… Ai
milanesi e a tutti quegli italiani che cercavano di salvaguardare
l’indipendenza del napoleonico Regno d’Italia, in pratica ormai della sola
Lombardia, non si disse forse che essi avevano combattuto sino in fondo ma
dalla parte sbagliata, appoggiando il Tiranno sino all’ultimo, quindi… Anche la
Repubblica di Genova fu assegnata al Piemonte sabaudo, che aveva combattuto sino
in fondo contro Napoleone, il quale l’aveva persino incamerato nel suo effimero
impero. Il fatto è che la storia non fa
sconti. Le due antiche e gloriose
Repubbliche erano imbelli e decrepite, campavano solo di ricordi. Ugualmente senescente lo Stato Pontificio,
che però non poteva ovviamente esser tolto al Papa.
La Restaurazione aveva ristabilito per
l’appunto l’antico ordine, con i suoi pregi, costituiti soprattutto dalla
stabilità del governo e dal rispetto per l’autorità, dal ristabilimento della
famiglia tradizionale, ma anche con le sue chiusure sociali e tutte le sue
ipocrisie, a cominciare dall’occultamento della tradizionale, rapace politica
di potenza giustificata con alti princìpi morali, religiosi, dinastici. Lo aveva ristabilito, quest’ordine, anche e
soprattutto nei rapporti con la Chiesa cattolica, sanzionati in Austria dal
Concordato del 1855, che restituiva alla Chiesa molte delle prerogative
sottrattele da Giuseppe II, anche se l’Imperatore manteneva, tra altri antichi privilegi,
il diritto di nominare i vescovi: approvata la nomina imperiale dal
Papa, i vescovi dovevano poi giurare fedeltà all’imperatore (Huber-Dopsch).
La Restaurazione fu per vari aspetti un fatto
positivo. I popoli dovevano pur tirare
il fiato, dopo i 26 anni di rivoluzioni, guerre, ingenti perdite umane e
materiali, profondi sconvolgimenti spirituali
e sociali provocati dalla Rivoluzione Francese e dal Grande Còrso. Ma la quiete
durò poco. Le esigenze nuove, imposte dagli inizi dell’industrializzazione
collegata allo sviluppo della scienza, dall’espandersi planetario del colonialismo
europeo, dall’avanzata della borghesia,
dietro la quale già si affacciavano le masse dei proletari sradicati dalle campagne;
dall’inquietudine intellettuale di ceti che non si riconoscevano più (e da
tempo) nella visione del mondo del cristianesimo, messa in crisi dal pensiero scientifico e
filosofico: tutto ciò non trovava gli
sbocchi agognati. I quali sbocchi, nel campo politico, si traducevano nella richiesta di
costituzioni, anche conservatrici, e di libertà di associazione e di parola, di
stampa mentre le élites di popoli sottomessi e divisi da secoli cominciavano ad
anelare alla libertà nazionale. Così,
dopo conati minori nel 1821 e nel 1830-31, si giunse al 1848, quando, dopo
alcuni anni di seria crisi economica, tutta l’Europa andò in fiamme, ad
iniziare dalla Sicilia, cosa che non viene mai ricordata: preceduta da
agitazioni minori a Milano e a Livorno, Palermo insorse il 12 gennaio, esibendo
coccarde tricolori e chiedendo il ripristino della Costituzione del 1812. L’agitazione e i torbidi si estesero in tutta
Italia – Parigi insorse il 22 febbrario, cacciando il re Luigi Filippo, che
abdicò il 24, andando in esilio in Inghilterra: il 25 fu proclamata la Repubblica. L’impero austriaco sembrò addirittura sul
punto di crollare. Grazie alla disunione dei vari Stati italiani (il Regno
delle Due Sicilie, dotato di un discreto esercito e una buona flotta, purtroppo
si disimpegnò subito dalla lotta per l’indipendenza mentre il Papa toglieva il
suo appoggio morale, lasciando partecipare obtorto collo solo formazioni
volontarie di suoi sudditi, a titolo personale), l’occupante austriaco riuscì a
ristabilire rapidamente la situazione nel nostro Paese ma fu la Russia
dell’autocrate moscovita (chiamato in soccorso da Francesco Giuseppe, appena asceso
diciottenne al trono) a salvarlo in Ungheria, dando un contributo decisivo alla
repressione della rivoluzione nazionale. La Prussia represse senza troppi
affanni i rivoluzionari tedeschi. In Austria
e Ungheria, si ebbe una vera e propria guerra, civile e convenzionale, molto
cruenta (Deák).
5. La vera
missione storica dell’Austria: difendere l’Europa dalle invasioni
provenienti dall’Est e dai Balcani, civilizzare sia l'Est che i Balcani,
abbattere la potenza ottomana.
Seguì un periodo di crisi, anche economica, il cui
punto più basso non fu la sconfitta in Italia nella Guerra del 1859 contro
Francia e Regno di Sardegna, dovuta soprattutto alla superiorità francese,
coniugata all’inettitudine di alcuni generali austriaci e alle cattive condizioni
dell’esercito imperiale: fu nel 1866, quando la nascente potenza prussiana spacciò
l’esercito austriaco con una rapidità impressionante, in una sola grande
battaglia, a Sadowa o Königgrätz, in Boemia, il 3 luglio 1866 (Guerra delle
sette settimane). Magro contentino per
gli austriaci la duplice vittoria, terrestre e navale, contro di noi, che avevamo
le forze armate e la flotta ancora in fase di rodaggio unitario, poco
amalgamate e soprattutto mal dirette da un comando supremo nei fatti incapace
di operare. La guerra finì quasi subito,
per gli italiani non ci fu neanche il tempo di riorganizzarsi e cercare di
vendicare le due sconfitte subite, mentre l’avanzata vittoriosa di Garibaldi e
del generale Medici nel Trentino dovette essere bloccata e poi annullata, non
rientrando il Trentino nei territori che al tempo si potevano togliere
all’Austria.
Nel ‘66 l’Austria
perse anche il Veneto, concessoci comunque da Bismarck in ottemperanza ai patti
pregressi, acquisto confermato da un plebiscito praticamente unanime dei veneti. In sette anni l’Austria aveva visto svanire
la Lombardia e il Veneto, due province importanti, soprattutto dal punto di vista agricolo,
preziose nell’economia dell’impero, in particolare la Lombardia. Non solo.
I disprezzati e detestati italiani, soggetti in vario modo agli Asburgo
da più di tre secoli, si stavano costituendo come Stato unitario, potenziale
minaccia da Sud, per via dell’aspirazione ai confini naturali della Penisola,
sino al Brennero, a Tarvisio, a Trieste, e dei desideri di espansione in
Adriatico e nei Balcani. L’emergente
potenza tedesca che si poneva come la prima nel mondo tedesco ed anzi europeo,
unita alla perdita delle due province italiane, costringeva l’Austria a ripiegarsi
sulla sua missione originaria, di Marca di frontiera e poi Stato, “Regno a
Oriente”, come dice il suo nome (dal 996 si trova Ostarrichi [Ost-reich
ossia Österreich], il cui confine orientale, con l’Ungheria, era il
fiume Leith --- Huber-Dopsch); Stato a difesa dell’Europa dalle invasioni
dall’Est e dai Balcani cioè, in sostanza, dai turchi e poi dai russi, succedendo
nell’opera al monarca tedesco, che in
passato aveva posto fine con la forza alle devastanti incursioni magiare, sul
declinare del X secolo (battaglia di Augusta, 955). E subentrando al Re d’Ungheria, quando questa
nazione fu in gran parte sottomessa dai turchi dopo la disastrosa battaglia di
Mohács, nel 1526. Difesa, ovviamente,
che era e non poteva non essere anche conquista: politica, militare,
culturale, religiosa. Nel rapporto vitale
e drammatico tra difesa ed espansione si crea una civiltà, se la conquista si
tramuta in effettiva opera di governo.
“Un contributo letterario di notevole interesse, e che
si distingue per alcune sue peculiari caratteristiche, giunge dalle estreme
terre orientali dell’impero, quelle in cui più si accentuano i contraddittori
problemi della monarchia austro-ungarica.
Galizia e Lodomiria [Volinia], Bucovina e Transilvania, le remote
province al confine russo e rumeno che ricordavano le gesta e la colonizzazione
tedesca di Maria Teresa, s’inseriscono con un tono particolare nel mosaico
absburgico, e nella letteratura paesana e locale. In queste terre d’oriente, che Franzos chiama
“Halb-Asien”, russe per civiltà e stirpe, lo sforzo di creare un patriottismo
austriaco, vasto e rispettoso delle caratteristiche locali, è particolarmente
intenso. Anzi, proprio il loro carattere
asiatico, lontanissimo dalla cultura tedesca, farà di esse in un certo senso i
tipici paesi absburgici, legati cioè alla monarchia danubiana da un ideale
etico-culturale, sovranazionale. Terre
che erano un crogiolo di popoli, un punto d’incontro di stirpi […] Era la Zwischen-europa
[l’Europa intermedia], che era stata il teatro della secolare missione
dell’Austria, colonizzatrice militare ed economica dei paesi posti fra la Russia e la Germania, vero e proprio
cuore della tradizione absburgica la cui vera ragion d’essere era stata la
reciproca incapacità tedesca e slava di costituirsi in confini geografici
nazionali”(Magris, che sviluppa uno spunto di Scipio Slataper).
Giustamente Cesare Balbo, esponente liberale moderato
del Risorgimento, esortava l’Austria a riprendere la via dell’Oriente e a farvi
persino conquiste, a “inorientarsi” ai
danni dei turchi, lasciando libera l’Italia e facendosi magari alleata degli
italiani. Visione politicamente utopistica quella di Balbo, quanto alle concrete
possibilità di attuazione, però di larghe vedute e confortata da un dato di
fatto inoppugnabile: la vera missione storica dell’Austria non era
conquistare la pianura padana e dominare in tal modo l’Italia, logorandosi in
guerre secolari contro l’espansionismo francese, vòlto testardamente ed ottusamente
allo stesso obbiettivo (Richelieu: “chi tiene Milano, tiene l’Europa”), bensì
quella di essere la protettrice della religione cattolica contro gli eretici,
gli scismatici e l’Islam, l’educatrice dei popoli balcanici e orientali suoi
sudditi (come hanno riconosciuto anche i politici ed intellettuali
slavomeridionali e romeni più obbiettivi, nonostante la loro ostilità al centralismo
asburgico). O la “protettrice” di alcune
nazionalità, come quella cèca, altrimenti schiacciata dai tedeschi (come ricordava
un secolo fa Giani Stuparich, citando il celebre detto di un illustre storico
cèco, che propugnava una completa autonomia nazionale ma all’interno di un impero
austriaco confederato: “se l’Austria non ci fosse stata, si sarebbe dovuto
inventarla”). Protettrice, anche e soprattutto di fronte all’avanzata poderosa
dei turchi e nonostante l’oppressione e le dure repressioni da essa
inflitte dopo la Guerra dei Trent’anni, il cui scopo era anche quello di
estirpare l’eresia hussita; scopo tuttavia riuscito solo in parte, essendo poi
successivamente riemerso quel tipico atteggiamento di ribellione in nome della
libertà assoluta della coscienza individuale, quale connotato peculiare
dell’intellettualità ma anche dell’anima nazionale cèca, sia pur privo ormai di
autentico risvolto religioso.
Ma non solo nei riguardi dell’I t a l i a, anche
contro la P o l o n i a possiamo dire
che l’Austria, a partire da un certo momento, sia venuta meno alla sua missione
storica, di potenza cattolica, per di più imperiale e quindi
maggiormente tenuta ad una politica ispirata ai principi del cattolicesimo. Superati precedenti contrasti, dopo essersi
alleato ai polacchi nelle guerre contro i turchi e averne ricevuto un aiuto
decisivo, l’Asburgo quasi un secolo dopo partecipò tuttavia alle tre
spartizioni che la Polonia subì da parte
di Prussia e Russia, e incamerò territori polacchi e ucraino-polacchi nella
prima e nella terza. Solo nel 1918 la
Polonia avrebbe riacquistato la sua integrità di Stato e nazione. Così agendo, Vienna si allineò alla luterana
Prussia e alla grecoscismatica Russia per cancellare dalla carta geografica un
antico e cattolico Stato come la Polonia, ai cui troppo vasti domini (per un
breve periodo dal Baltico al Mar Nero) gli Asburgo opposero loro precise aspirazioni,
soprattutto sulla Galizia. C’era stato
un espansionismo polacco, aggressivo come tutti gli espansionismi, ma non era
quello il modo di contrastarlo per una Potenza che si voleva cattolica, ovvero
applicando i metodi della Ragion di Stato,
finendo quindi col coooperare alla scomparsa di uno Stato cattolico che
avrebbe dovuto invece cercare di mantenere sempre in vita e con il quale
avrebbe dovuto essere sempre alleata, nei limiti del possibile.
Non credo di peccare di presunzione nell’affermare che
la condizione dell’Italia, nonostante le sue miserie e arretratezze, era alquanto
diversa da quella dei popoli balcanici e nemmeno da porre sullo stesso piano di
quella della Boemia soverchiata dai tedeschi. Forse che la Lombardia, le
Venezie, il ducato di Parma, la Toscana (attribuite le ultime due arbitrariamente
dalle Potenze agli Asburgo dopo l’estinzione dei Medici e dei Farnese, nonostante
le proteste dei diretti interessati, con il pretesto che erano ancora feudo imperiale,
del quale l’Imperatore poteva disporre come voleva), avevano bisogno di essere “civilizzate” da
un’occupazione asburgica o asburgo-lorenese diretta e indiretta? O di essere
“protette” contro popolazioni straniere?
Lo straniero invasore era proprio l’occupante austriaco, efficiente
amministratore e freddamente civile ma puntuale nell’avvantaggiarsi delle
risorse locali, severo nel tassare e senza remore nell’infliggere carcere e
forca ad oppositori e ribelli, nel mostrare (quando ritenuto necessario) il
volto truce del gendarme croato che picchiava, incarcerava, fucilava e impiccava. L’espansione austriaca in Italia
(raccomandata all’imperatore da uno dei suoi migliori generali, l’italo-savoiardo
Principe Eugenio, il gran nemico di Luigi XIV) era pura conquista, pura
politica di potenza; tradizionale lotta con le altre Potenze europee, in
particolare contro la Francia, una volta scomparsa dalla scena italiana la
Spagna, per il dominio diretto della pianura padana e indiretto dell’intera Italia (indiretto, su
alcuni territori, poiché bisognava pur lasciare ai veneziani o al Papa la loro
formale indipendenza, anche se poi, quando occorreva, se ne violava impunemente
e brutalmente la neutralità con i propri eserciti, facendo sprezzantemente
spallucce di fronte alle alte quanto inutili proteste del disarmato Pontefice o
della decaduta e non meno disarmata Serenissima – vedi supra). Il grande condottiero, il “nobile cavaliere”
Eugenio di Savoia scriveva in proposito al suo imperatore: “preferisco sentire le loro proteste
piuttosto che vedere il mio esercito sbandarsi” (Henderson).
Nei domini austriaci, i trentini si sentirono “protetti”
contro l’elemento tedesco avanzante da Nord; gli italiani di Dalmazia, Istria,
delle città sino a Trieste e Gorizia, si sentirono “protetti” contro l’elemento
slavo, incalzante dal contado: da qui la
loro lunga fedeltà all’impero, che tuttavia cominciò ad incrinarsi, quando,
dopo il 1859 e il 1866, Vienna cominciò a favorire l’avanzata tedesca e slava
contro di loro (vedi supra). Il
Trentino fu separato dalle altre provincie italiane dell’Impero e sottomesso
all’egemonia istituzionale del Tirolo tedesco, la cui capitale era Innsbruck
- cosa che imbaldanzì i nazionalisti
tedeschi, quelli che affermavano, mentendo spudoratamente, l’inesistenza di un Trentino italiano. In Dalmazia l’elemento slavo potè iniziare
una politica di graduale assimilazione forzata nei confronti degli
italiani. “Nei territori italiani
d’Austria anche dopo la conclusione della Triplice continuò la politica del
governo austriaco mirante al ridimensionamento dell’influenza dell’elemento
italiano e italofilo nel Tirolo e nelle regioni adriatiche, attraverso il
sostegno ai partiti nazionalistici slavi, tirolesi tedeschi o cattolici lealisti”(Monzali). Più che del tradizionale “divide et impera”
praticato più volte dalla dirigenza austriaca e ungherese, che evidentemente
non sapeva come altrimenti sbrogliarsi dal viluppo dei contrasti delle
nazionalità, nei confronti delle popolazioni italiane sembra si sia voluta
attuare, ad un certo punto, una loro progressiva emarginazione,
che avrebbe portato al loro finale assorbimento o alla loro cacciata dalle loro
antiche sedi, se non ci fosse stata la nostra vittoria nella Grande Guerra.
Il tracollo del periodo 1859-1866 aveva dimostrato che
l’Austria era mancata in due tra quelli che la geo-politica poneva come suoi
tre obbiettivi fondamentali, al fine di
mantenere una posizione di predominio continentale: impedire la nascita di un forte Stato
unitario tedesco e di uno Stato unitario italiano. Il terzo obbiettivo, impedire la formazione
di uno Stato unitario degli slavi meridionali, alla fine non si potè ugualmente
conseguire e fu la lotta per mantenerlo a provocare il tracollo finale
dell’impero, nella Grande Guerra. Ma
forse questi tre obbiettivi, che si imponevano contemporaneamente, erano
superiori alle forze della Duplice Monarchia, che, al pari della Germania,
cominciava anche a sentire il peso massiccio della crescente potenza russa, il
“rullo compressore” da tutti temuto. Superata la grave crisi del 1848-49 anche
grazie all’aiuto zarista, e, indirettamente, a quello prussiano, dopo l’ancor
più grave crisi del periodo 1859-1866, Vienna, per mantenersi e per mantenere
lo status di grande Potenza, dovette associarsi agli ungheresi, facendo
incoronare l’imperatore come monarca costituzionale in quel paese, protettore
delle antiche e tradizionali prerogative di quella nazione. La costituzione stessa della monarchia di diritto divino venne a mutare, diventando
di fatto quella di un regime costituzionale, di taglio
liberal-conservatore: accanto all’Indice dei libri proibiti e alla censura, ad
un Esecutivo ancora di nomina regia, si concedevano quasi tutti i diritti del
cittadino o civili, tipici dello Stato borghese liberale. La polizia, efficiente ed occhiuta, continuava
a godere di una certa discrezionalità ma sempre nell’àmbito della legge.
* *
La monarchia
austriaca, da Stato solo tedesco-vallone che era inizialmente, aveva cominciato
a diventare plurinazionale nel 1526 quando l’arciduca Ferdinando d’Austria, in
nome dei diritti della moglie, di un trattato e del fatto che non ci fossero
eredi reclamò le corone dei regni di Boemia e d’Ungheria. Il giovane Luigi II, re d’Ungheria e di Boemia,
era morto senza eredi nella citata battaglia di Mohács. I turchi erano alle porte, così “le assemblee dei due regni alla fine ratificarono
la sua pretesa e lo nominarono re pur avanzando delle riserve intese a
salvaguardare l’indipendenza e le libertà nazionali dei loro paesi “(May;
Huber-Dopsch). In Ungheria ci furono dei brevi combattimenti con un pretendente
locale. Dal punto di vista di cèchi e
magiari non si trattava di un’unione fondata sul diritto divino quanto
piuttosto di un’unione che dava vita a una sottomissione fondata su un
contratto, con un patto pubblico che aveva valore costituzionale, una sorta
di covenant. Il motivo della
salvaguardia delle rispettive tradizioni nazionali, con le loro autonomie,
avrebbe costituito la causa principale dei susseguenti conflitti con il centralismo
asburgico. Ma rinforzatosi con le
accessioni dei due nuovi regni, il regno asburgico fu capace nel 1529 di
resistere a Solimano il Magnifico giunto con le sue poderose e crudeli schiere
sotto le mura di Vienna, costringendolo dopo tre settimane a retrocedere nella
parte di Ungheria che aveva da poco conquistato. Fu quella una vittoria
difensiva assai importante, per la sopravvivenza dell’Europa, dilaniata dai
conflitti religiosi scatenati dallo scisma protestante e dalle guerre in corso
tra gli stessi Asburgo e i re di Francia per la conquista della debole e divisa
Italia, mentre il Gran Turco puntava al cuore stesso dell’Europa e stava
sviluppando una sempre più audace
strategia navale offensiva nel Mediterraneo occidentale, grazie all’apporto delle
notevoli capacità degli abili e spietati comandanti delle flotte dei pirati barbareschi.
La vittoria del 1529, dunque, non impedì dunque ai
turchi di consolidarsi in Ungheria e nei
Balcani. I tempi di una decisiva
controffensiva cristiana, guidata dagli Asburgo d’Austria e dai polacchi in
occidente e dalla nascente potenza russa in oriente, si stavano però
avvicinando. Gli Asburgo erano impegnati
su molti fronti : nelle Guerre
d’Italia contro i francesi, che terminarono formalmente solo nel 1559, con
il Trattato di Cateau-Cambrésis, che sanzionò il predominio degli Asburgo di
Spagna sulla nostra penisola; nelle
guerre civili e non contro i protestanti, che si appoggiavano ai turchi, in
particolare i calvinisti, la cui setta veniva in Ungheria favorita dal Sultano
(Inalcik); contro i corsari barbareschi nel Mediterraneo occidentale, i quali,
dalle basi nei loro criminali domini (Algeri, Tunisi, Tripoli) inquadrati ormai
nell’impero ottomano, martoriavano anche le coste spagnole, mantenendo il
collegamento tra i moriscos iberici e la Sublime Porta.
Nella seconda metà del Cinquecento aveva fatto la sua
comparsa l’espansionismo russo, con lo zar Ivan IV detto Il terribile. Tra il 1552 e il 1556 conquistò e annettè i
khanati mussulmani del bacino del Volga (Kazan e Astrakan), spingendosi sino al
Caucaso del Nord, in tal modo iniziando a minacciare il Caucaso e il Mar Nero,
controllati direttamente ed indirettamente dagli ottomani, con cordoni di
fortezze e con l’ausilio di popolazioni vassalle come i tatari della Crimea,
regolarmente impiegati dal Sultano in crudelissime scorrerie di masse di
cavalieri che si spingevano sino alle pianure polacche.
Nella seconda metà del Cinquecento, gli austriaci non
smisero di lottare contro gli ottomani per il possesso dell’Ungheria, subendo
una serie di sconfitte, seguìte da “pagamenti di tributi e paci umilianti”,
anche se i turchi non riuscirono a riprendere subito la via di Vienna,
obbiettivo difficilmente rinunciabile, possedendo già essi Belgrado e Buda (Leoni).
Ma la marea mussulmana, che sembrava inarrestabile
anche sul mare, tra il 1565 e il 1571, nel giro di sei anni, subì una battuta
d’arresto decisiva. Nell’estate del 1565
la flotta turca unita ai barbareschi, che da alcuni anni scorazzava impunemente
per il Mediterraneo, dopo aver distrutto quella cristiana nel 1560 alle Gerbe,
isolotto di fronte alla costa tunisina, ed essersi avvantaggiata (dal 1536) dell’alleanza
fedifraga del Re di Francia, che aveva anche concesso per un certo tempo Tolone
come base, tentò la conquista di Malta, difesa dai Cavalieri di S. Giovanni,
espulsi dai turchi da Rodi e successivamente incardinati da Carlo V a Malta, da
dove, con le loro piccole ma audaci flotte, conducevano una molesta guerra di
corsa contro il naviglio turco, ripagando l’Islam aggressore con la sua stessa
moneta anche se non con l’identica crudeltà.
Tale conquista – un passaggio obbligato della strategia offensiva
ottomana – avrebbe praticamente chiuso ai cristiani il Mediterraneo orientale e
aperto ai turchi la porta del Mediterraneo occidentale. Inotre, avrebbe messo
in pericolo la Sicilia, granaio della Spagna imperiale nonché antemurale
difensivo della penisola italiana contro l’Africa. Ma l’assedio, dopo un’epica e feroce lotta durata
circa quattro mesi, finì in un clamoroso scacco per gli ottomani, che dovettero
reimbarcarsi, decimati dai combattimenti e dalle malattie, intimoriti da un
modesto corpo di spedizione italo-spagnolo sbarcato in tardivo soccorso.
L’anno dopo, Solimano riprese la via di Vienna con un
formidabile esercito ma dovette attardarsi inaspettatamente parecchi giorni per
conquistare la fortezza di Szigetvár in Ungheria, difesa con una modesta
guarnigione in gran parte croata dall’eroico conte croato Nikolas Zriny. Durante
l’assedio il Sultano, sempre più irato per il prolungarsi dell’intoppo, che
durò un mese e finì con una carica suicida di Zriny e dei resti della guarnigione,
seguita dall’esplosione della fortezza sui turchi assalitori, morì
all’improvviso, sembra stroncato da un colpo apoplettico (1566). Pertanto, la spedizione si arenò e Vienna fu
di nuovo salva.
Il successore attaccò Cipro, ricco possesso veneziano,
che fu conquistata dopo un’eroica resistenza da parte della guarnigione,
massacrata contro i patti di resa dai turchi, che avevano subito enormi perdite.
Il comandante, l’impavido Marcantonio Bragadin, che aveva rifiutato di
convertirsi all’Islam, fu scorticato vivo tra i bestiali dileggi della
soldataglia maomettana (1571). Ma la
strapotenza navale ottomana, che mirava a togliere ai veneziani i loro ancora
numerosi possedimenti nell’Egeo e all’imbocco dell’Adriatico, nonché ad
invadere l’Italia, forse sbarcando in forze ad Ancona una volta messo sotto
controllo l’ingresso dell’Adriatico, provocò una Lega Santa delle potenze cristiane
mediterranee (Francia esclusa), auspice l’azione energica e formidabile di papa
S. Pio V, sorretta anche da gravi sacrifici sul piano economico. Si venne quindi il 7 ottobre 1571 alla famosa
battaglia navale di Lepanto, nel greco Golfo di Patrasso, nella quale l’intera
flotta turca (quasi duecento galee) fu cancellata dalle acque: 170 galee
distrutte o catturate, 30.000 turchi morti o feriti (circa 25.000 i morti),
3000 prigionieri. Alla vigilia della
battaglia, i veneziani vennero a sapere da un mercantile di passaggio delle
atrocità commesse dai turchi a Famagosta, capitale di Cipro; di come questi
ultimi avessero trucidato a sangue freddo tutti i superstiti della guarnigione,
compresi gli ufficiali e tecnici veneziani arresisi dietro (ingannevole)
promessa di un salvacondotto --- cosa
che (comprensibilmente) inferocì i
veneziani, che fecero pochi prigionieri e sterminarono a loro volta i quadri turchi catturati (Beeching; Crowley;
Leoni). Le perdite cristiane non furono
leggere: solo dieci galee ma quasi 8000 i morti e 21.000 i feriti. In compenso, vennero liberati 15.000
cristiani incatenati al remo sulle galee turche (Konstam).
Più che dall’azione voluta dei supremi reggitori politici
delle Potenze cattoliche, l’imprevista battuta d’arresto subita dai turchi fu
dovuta al coraggio e alla eroica tenacia di pochi, quali il Maestro dei
Cavalieri di Malta, il francese Jean de la Valette, che fu l’anima e la mente
della disperata resistenza contro un avversario molto superiore; il comandante
croato della fortezza che bloccò l’enorme esercito di Solimano; la determinazione
a combattere, infine, dei comandanti veneziani a Cipro e a Lepanto, o di Marecantonio
Colonna, capitano delle galee ingaggiate e schierate dal papa, unitamente alla
vocazione alla lotta del comandante della flotta cristiana, Don Giovanni d’Austria,
il figlio naturale della relazione di Carlo V vedovo con una donna tedesca
nubile, fermamente deciso alla battaglia nonostante l’atteggiamento cauto e
calcolatore del suo fratellastro, Filippo II di Spagna, el rey prudente,
come veniva chiamato, sempre attento, come il padre del resto, agli equilibri
strategici, che per la Spagna si fermavano al Mediterraneo Occidentale, sulla
verticale Meridione d’Italia-Messina-Malta-Tripoli. Nei combattimenti mediterranei
contro l’aggressore islamico, notevole fu anche il contributo di sangue
italiano, che non mancò anche in altri settori.
A Malta, sui circa 9000 difensori al comando di La Valette (contro quasi
40.000 turchi e alleati africani) 5000 erano residenti maltesi e 4000 fanti siciliani,
toscani, marchigiani, mentre su 600 Cavalieri, 171 erano di lingua italiana,
200 francese, 130 circa spagnola e tedesca.
Dei difensori solo 600 sopravvissero (Panetta). A Lepanto, su circa 80.000 “genti di guerra,
di capo e di remo” delle flotte cristiane, vi erano 20.000 fanti italiani
“assoldati dalle varie potenze”, accanto a 8.000 fanti spagnoli (Panetta). Le perdite maggiori le ebbero i veneziani,
più di 4000 morti, un salasso notevole.
Ancor oggi
storici pur competenti diminuiscono il valore strategico di quella vittoria,
che fu invece grandissimo. Dopo la disfatta cristiana alla Gerbe, in Europa si
era sparso il terrore dell’invasione mussulmana dell’Italia e di Roma: un
incubo del quale si compiacevano solo i protestanti più fanatici, come i
calvinisti. La fece festeggiare, la
vittoria di Lepanto, persino l’eretica Elisabetta d’Inghilterra, dotata però di
fine intuito politico. Si capì subito che quella straordinaria vittoria aveva
spezzato l’egemonia mediterranea globale che gli ottomani stavano acquisendo. Certo,
si sarebbe dovuta sfruttare, la grande vittoria, per attaccare l’inesperta flotta
ricostruita in tutta fretta dai turchi: le probabilità di distruggerla erano
buone, nonostante l’abile strategia difensiva perseguita dal suo nuovo
comandante, il pirata Ulugh-Alì, sanguinario rinnegato calabrese, eccellente uomo
di mare. Ma la Spagna non voleva
avvantaggiare Venezia, unico Stato italiano rimasto indipendente dal suo
dominio: non per nulla, le flotte da
essa controllate (genovesi, napoletane, oltre alle proprie) avevano quasi
sempre la raccomandazione di non impegnarsi in battaglia assieme ai veneziani
contro i mussulmani, nelle campagne navali condotte in comune in quegli anni,
spesso per istigazione del papa (“No sepan Venecianos que Su Majestad tracte
de que no se pelée” - Panetta). Non
si trattava di viltà ma di miope calcolo politico, che impediva quell’alleanza operativa
permanente in tutto il Mediterraneo con la flotta veneziana, potente e ricca di vittorie
ma numericamente sempre inferiore a quella turca,; un’alleanza onesta unico
mezzo per spazzar via i barbareschi dal Nordafrica e conquistare la supremazia
navale in tutto il Mediterraneo; alleanza da costituirsi in chiave permanente,
inutilmente caldeggiata ripetutamente dal Papa in nome della Crociata contro
l’infedele.
Ma appare comunque fantasioso credere che, dopo Lepanto,
le potenze cristiane avrebbero addirittura potuto abbattere l’impero turco,
sbarcando a Costantinopoli e altrove, come pure si è letto. Quell’impero restava fortissimo e bisognava
sconfiggerlo per via di terra. La
vittoria di Lepanto non rappresentava un minimo ma un massimo, conseguito con
enorme sforzo e solo grazie all’iniziativa politica, organizzativa e religiosa
di un Pontefice di eccezionale tempra come S. Pio V.
Il valore strategico di quella vittora risulta da
altre considerazioni. Se avessero vinto,
i turchi, che da decenni erano (con i barbareschi alleati) all’offensiva sempre
più audace anche nel Mediterraneo occidentale, avrebbero fatto dell’intero Mare
Nostrum, Adriatico incluso, un Mare Turcicum, cosa che avrebbe
sicuramente comportato un loro attacco diretto a Roma (la Mela Rossa, al
pari di Vienna, da tagliare in due con la spada dell’Islam) e a Venezia. Un disfatta così totale come quella subita a
Lepanto, tale da far sparire di colpo, oltre alle navi, i migliori quadri della
flotta, ebbe anche un notevole effetto sul morale: “dopo Lepanto, le forze
militari delle province [dell’impero ottomano] fecero tutto il possibile per
evitare di partecipare alle campagne navali”(Inalcik). Non solo. I barbareschi tornarono a lavorare
prevalentemente in proprio, per così dire, ingrassando nell’amata pirateria,
continuando ad infierire ma perdendo il collegamento strategico con la flotta turca,
ricostruita in gran numero di navi in tempi velocissimi e pertanto inesperta. Per alcuni decenni questa flotta rimase praticamente
inattiva, per quanto riguarda operazioni strategiche, e nemmeno riuscì ad
imporsi nel Mediterraneo orientale su quella veneziana, come si vide nella successiva
lunga guerra per la riuscita ma dispendiosa conquista di Creta (Candia), ultimata
nel settembre del 1669.
Due anni dopo Lepanto, vedendosi abbandonata di fatto
dagli spagnoli, che non mostravano alcun desiderio di chiudere nell’angolo
l’inesperta flotta turca, nonostante le opportunità presentatesi, la
Serenissima, che si trovava anche in una difficile situazione economica, fece
inaspettatamente la pace con il Sultano.
Una pace onerosa e, si disse, vergognosa. Un tradimento della causa, provocato però, a
ben vedere, dal comportamento ambiguo e sleale del rey prudente, che con
i veneziani cercava sempre di menare il can per l’aia. Filippo II tenne la flotta spagnola a Messina
nel 1572, mentre i veneziani e le navi a servizio del papa cercavano
inutilmente di provocare i turchi a battaglia. Nel 1573 mandò Don Giovanni
d’Austria alla conquista di Tunisi, che però Ulugh Alì riprese l’anno dopo, fidando
sul numeero cioè impiegando tutta la numerosa flotta turca e un gran corpo di
spedizione. La situazione si stabilizzò,
con il Nordafrica in mano ai mussulmani, Malta ai cristiani, un trattato tra
Filippo II e il Sultano, tra quest’ultimo e Venezia. Ma la pace, se era costata a Venezia la perdita
di Cipro e il pagamento di una forte indennità, fece anche sì che per decenni
essa non venisse molestata da flotte turche in quei traffici internazionali sui
quali si fondava la sua ricchezza (e le cui vie di terra erano tutte in mano
ottomana). Inoltre, nel Mediterraneo
orientale si rafforzò alquanto la guerra di corsa dei Cavalieri di Malta e di
quelli livornesi di S. Stefano contro le linee di traffico ottomane, che ebbero
parecchio a soffrirne (Inalcik) mentre una serie di campagne contro l’Austria e
la Persia si trascinarono straccamente costringendo alla fine ad un trattato di
pace (Zsitva-Torok, 1606, richiesto sin dal 1595), nel quale la Sublime Porta
riconosceva all’imperatore come legittimo il possesso delle parti di Ungheria
che era riuscito a conservare e lo sollevava dal pagarle il tributo annuo di 30.000 ducati
(Inalcik).
* *
Se gli Stati europei fecero enormi progressi nel campo
degli armamenti e dell’arte della guerra, perfezionando l’uso dell’artiglieria
e facendo valere nelle fanterie, nella cavalleria e sulle navi da guerra la
potenza di fuoco mentre gli ottomani restavano indietro in questo campo, il
sopravvenire della Guerra dei Trent’anni, impedì agli Asburgo d’Austria di continuare
la loro lotta contro il turco invasore.
Di continuarla, nel senso di prendere l’iniziativa. Ci si doveva limitare a difendersi, a
mantenere una situazione dove le incursioni di frontiera ottomane erano però frequenti. Questa arcigna tregua fu interrotta dai
turchi, quando l’imperatore Leopoldo I decise di appoggiare gli ungheresi in
rivolta, nel 1661. L’armata del Sultano
prese di nuovo la via di Vienna ma all’attraversamento del fiume Raab subì una
tremenda sconfitta da parte dell’esercito austriaco, comandato dal modenese
Raimondo Montecuccoli, uno dei migliori generali del suo tempo, rinforzato da contingenti di principi
dell’impero e da un agguerrito corpo di cavalleria francese, cosa rara, data
l’alleanza tra la monarchia francese e la Sublime Porta (10 agosto 1664).
In questa fase, si fece in particolare valere nella
lotta contro gli ottomani la Polonia, nazione che era riuscita a resistere sia
ai mongoli che agli stessi turchi. La
Polonia era ambìta dalle monarchie europee a causa dell’instabilità provocata
dalla sua costituzione. Essa contemplava un monarca elettivo fortemente
condizionato da una nobiltà bellicosa, capace di grandi slanci patriottici e
nello stesso tempo anarchica, per la quale il re era solo un primus inter
pares. La Dieta polacca (Sejm)
comprendeva il re, il Senato, la Camera dei nobili, e i nobili erano gli unici
titolari dei diritti politici. Lo Stato
si considerava una Repubblica regia. Purtroppo si era imposto ad un
certo punto il disastroso principio del liberum veto, ossia
dell’unanimità obbligatoria per le deliberazioni della Dieta nazionale, cosa
che portò gradualmente al caos e al collasso dello Stato. Inoltre, la nobiltà era anche incline ad
eleggere monarchi stranieri e a far comunella, a volte, con interessi stranieri. L’esercito polacco era di notevole valore,
soprattutto nella sua celebre cavalleria pesante (gli “ussari alati”), l’arma
più adatta a combattere sulle estese pianure polacche (Leoni). I turchi avrebbero voluto raggiungere il
Baltico ma non riuscirono mai a superare l’ostacolo rappresentato dai polacchi. Nel Seicento la Polonia era ancora
considerata “antemurale e baluardo” contro i turchi, i tartari, i moscoviti
(Halecki); possiamo dire, ancor più dell’Austria. I suoi monarchi, federati con la Lituania dal
1565, si erano tenuti fuori dalla Guerra dei Trent’anni, riuscendo ad estendere
il loro dominio per l’appunto sino all’Ucraina e alla Russia centrale, occupando
per breve tempo anche Mosca: uno sforzo eccessivo e anche megalomane, che
difatti non potè essere mantenuto a lungo, contro avversari che li attaccavano
da tutte le direzioni e sfruttavano cinicamente le debolezze della sua
costituzione nonché l’immaturità di parte della nobiltà.
La Polonia fu aggredita, durante la Guerra dei Trent’anni,
dalla luterana Svezia e dai turchi, che
sostenevano i calvinisti ungheresi nei loro tentativi di assalire Vienna. Sconfitti a Cecora in Moldavia (1620) dai
turchi, le cui forze erano almeno il triplo dei
circa diecimila polacchi impegnati,
questi ultimi si rifecero ampiamente nel 1621 a Chocim (Chotin) sul fiume Dniester,
bloccando la loro avanzata (Halecki). Ma
in quello stesso anno gli svedesi di Gustavo Adolfo, il re capofila dei
protestanti, attaccarono la Polonia lungo il Baltico, togliendole la Livonia e
possedimenti prussiani. La Polonia si
trovava quindi a combattere su due fronti.
Nell’Ucraina (nome dato ai voivodati di Kiev e Braclaw ---- Halecki)
scoppiò l’insurrezione dei cosacchi locali, fino a quel momento alleati dei
polacchi, i quali si allearono con il Khan tataro di Crimea ossia con uno degli
strumenti militari più efferati del nemico turco. “Tutto il mondo mussulmano volle sfruttare la
guerra interna dell’Ucraina per abbattere definitivamente l’ultimo baluardo
della Cristianità. La battaglia di Beresteczko
[in Volinia, regione tra Polonia ed Ucraina], durata tre giorni e cioè dal 28
al 30 giugno 1651 ebbe dunque un’importanza decisiva per l’Europa. Il Re, che era riuscito finalmente ad
organizzare un nuovo esercito, riportò una magnifica vittoria su Chmielnicki
[il capo dei cosacchi ribelli] che era alla testa di forze tre volte maggiori
con aiuti turchi e tartari” (Halecki).
Ma il capo dei cosacchi, sconfitto ma non domo, nel 1654 sottomise
l’Ucraina all’autorità dello zar di Mosca, Alessio, in cambio della promessa di
una larga autonomia, che non venne mantenuta (Halecki). In tal modo Mosca dava impulso alla sua
marcia verso il Mar Nero e verso Ovest. Il problema rappresentato dai tatari (nome
dato dai russi a tribù turcofone della Crimea e dell’Asia centrale, detti anche
impropriamente “tartari” cioè mongoli), razziatori a vasto raggio in nome
dell’Islam e del Sultano, l’avrebbero risolto non i polacchi ma i russi, quando
la zarina Caterina annettè la Crimea, abolendo l’ultimo Khanato tataro (1783).
In quegli anni, riprese l’assalto svedese. Il nuovo re, Carlo Gustavo, ruppe la tregua instaurata
dal suo predecessore. Grazie anche al tradimento di alcuni magnati riuscì ad
avanzare all’interno della Polonia. “I veterani della guerra dei trent’anni
occuparono Varsavia l’8 settembre 1655.
In seguito, anche Cracovia fu costretta a capitolare qualche settimana
più tardi. Il legittimo sovrano, abbandonato
e scoraggiato, si rifugiò alle frontiere della Slesia, e tutte le province, una
dopo l’altra, resero omaggio a Carlo Gustavo.
Soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare la Repubblica “(Halecki). Forse vale la pena ricordare come avvenne il
miracolo.
“Come l’arca di Noè in mezzo al diluvio, così il
Convento di Czestochowa resistette al nemico.
Il Priore, Agostino Kordecki, radunò un pugno di soldati intorno alla
immagine miracolosa della Vergine, venerata da secoli. Dopo 40 giorni di assedio, gli Svedesi [tutti
luterani, e quindi eretici iconoclasti] furono costretti per la prima volta a
ritirarsi. Questo avvenne il giorno dopo
Natale. La nazione, impressionata da un fatto così straordinario, tanto simile
ad una leggenda, si ridestò” (Halecki). Il re, Giovanni Casimiro, tornò dall’esilio e
la nazione si sollevò contro l’invasore svedese, soprattutto nelle campagne. Giovanni Casimiro proclamò solennemente, a
nome di tutta la nazione, che “la Madonna sarebbe stata venerata da quel
momento come Regina del Regno di Polonia” (ivi).
Si combattè ancora a lungo ma la Polonia, avuti anche
rinforzi dagli Asburgo, si salvò dall’annientamento, pur dovendo subire perdite
dolorose nei confronti della Svezia, della nascente potenza prussiana, della
Russia (in Ucraina: con l’accordo del 1667 Mosca si prese parte dell’Ucraina
orientale, sino a Kiev)(ivi).
La situazione interna della Polonia non era comunque
stabile. Le Potenze europee, soprattutto
Francia e Austria, vi continuavano i loro giochi (la posta era sempre l’avere
un re che rispondesse ai loro desideri o la frammentazione dello Stato). E si profilò di nuovo un preoccupante assalto
turco, dall’Ucraina, dove i cosacchi continuavano ad agitarsi. Il loro capo si sottomise al Sultano Maometto
IV. Nel 1672 gli ottomani occuparono la
fortezza di Kamenec, chiave di accesso alle pianure polacche e strapparono una
pace che dava a loro quanto di Ucraina ancora fosse rimasto ai polacchi. Ma nel 1763, ripresa la guerra, Giovanni
Sobieski, dopo averne decimato le feroci avanguardie predatrici composte da
cosacchi, tatari, ausiliari moldavi, distrusse l’esercito turco di
invasione nella seconda battaglia di Chocim
(Chotim). Pur disponendo di soli 1500
cavalieri, sorprese nel suo accampamento il numeroso oste nemico, il 9
novembre. “L’attacco della cavalleria
polacca avvenne su un terreno reso candido dalla neve scesa durante la notte, e
nemmeno la presenza del sultano tra le proprie truppe valse a impedire la rotta
dell’esercito turco. Con una magistrale
battaglia d’ala [attaccandoli in diagonale su un’ala non frontalmente],
Sobieski sfondò i trinceramenti ottomani, effettuò una gigantesca conversione e
schiacciò il nemico contro le rive del fiume annientandolo completamente e
catturando lo stendardo verde del Profeta.
Fu una vittoria così eccezionale da fruttargli, pochi mesi dopo,
l’ascesa al trono il 21 maggio del 1674” (Leoni).
I turchi si
spinsero sino ad assediare Leopoli, capoluogo della Galizia, senza riuscire a
prenderla. I turchi, pure battuti altre
volte da Sobieski in scontri minori, riuscirono ad imporre, due anni dopo, una
pace onerosa ai polacchi, mantenendo parte dell’Ucraina e parte della Podolia,
regione di confine tra Ucraina e Polonia, dove si trovava la fortezza della
battaglia di Chotim. Il genio militare
di Sobieski fu una fortuna anche per gli Asburgo. Infatti, gli ottomani, incoraggiati anche da
Luigi XIV, sempre in guerra con Casa d’Austria, ripresero l’offensiva e
giunsero nel 1683 con un gigantesco esercito di fronte a Vienna, dove furono
alla fine sbaragliati, il 12 settembre, nella famosa battaglia di Kahlenberg, nome
di una collina prospicente Vienna dalla quale gli “ussari alati” di Sobieski si
slanciarono sull’esercito ottomano. La battaglia,
impegnata dall’esercito imperiale al comando di Carlo di Lorena, fu risolta
dalla carica finale della cavalleria pesante di Sobieski. Da quel momento, iniziò una controffensiva
cristiana condotta soprattutto dall’esercito imperiale austriaco, che portò
alla riconquista dell’Ungheria. In
queste campagne, come è noto, si confermò il genio di Eugenio di Savoia, che
davanti a Vienna, ancora giovane e sconosciuto, aveva combattuto come semplice
“principe volontario”. Furono
conquistate Buda e Belgrado. La
controffensiva inflisse ai turchi, tra le altre, una disfatta apocalittica a
Zenta, sul Tibisco, dove l’intero esercito messo in campo fu praticamente
distrutto (10 agosto 1697). Gli ottomani,
mantenendo fede alla loro proverbiale tenacia e forniti ancora di larghe
risorse, si erano rifatti sotto, avevano ripreso Belgrado, vinto un’importante
battaglia a Seghedino, rimesso piede in Ungheria. Ma la disfatta di Zenta fu decisiva: da quel
momento il loro declino militare fu inarrestabile, nonostante conservassero
sempre la capacità di vincere battaglie e di battersi valorosamene sino
all’ultimo.
Negli anni successivi al regno di Sobieski, la Repubblica
polacca sprofondò in una crisi politico-istituzionale dalla quale non riuscì a risollevarsi,
dovuta anche agli intrighi delle potenze straniere, che fomentavano il
particolarismo e le megalomani velleità di grandezza del ceto nobiliare. Nel XVIII secolo la Polonia fu pertanto
spartita per ben tre volte tra Prussia, Russia ed Austria, sino all’estinzione
dello Stato: 1772, 1793, 1794 -- dimostrandosi l’Austria per la verità
piuttosto ingrata nei confronti di quella nazione il cui esercito, un secolo
prima, aveva contribuito in modo decisivo alla salvezza di Vienna dai turchi, impresa
dovuta anche all’applicazone di un trattato.
Sobieski aveva infatti stipulato un’alleanza con l’Austria, contemplante
“un reciproco soccorso immediato nel caso di un attacco contro la capitale di
una delle due parti contraenti” (Halecki); alleanza patrocinata dal grande Papa
Innocenzo XI, intensamente impegnato a suscitare
una nuova Santa Alleanza contro l’ennesima invasione ottomana, grazie anche
all’opera del formidabile Padre cappuccino e predicatore Marco d’Aviano, dallo
stesso Innocenzo XI scelto e inviato al fronte quale condottiero spirituale
dell’armata cristiana.
Per infliggere sconfitte decisive ad uno Stato forte
come quello turco occorrevano solide alleanze tra le Potenze cristiane. Ma questo non era possibile finché le
alleanze erano solo occasionali, per determinate campagne, ricadendo poi le
Potenze nelle loro sempiterne lotte reciproche, in conseguenza delle quali la
monarchia francese si era addirittura alleata in modo stabile con il nemico
della fede. Da questo punto di vista
anche la politica austriaca fu manchevole, non riuscendo essa a risolvere la
contraddizione tra politica di potenza e politica volta a superarla, perché politica
di oneste alleanze con gli altri Stati cristiani, rivolte contro l’impero
ottomano, nemico della fede e della nostra civiltà. Possiamo dire che la politica austriaca fu
manchevole soprattutto nei confronti della Polonia, il cui esercito aveva
dimostrato di essere in grado di contenere vittoriosamente gli ottomani. Una Polonia che fosse rimasta integra,
indipendente, riformatasi nella sua costituzione, anche se ridotta alla sola
Polonia etnica, non avrebbe permesso alla Prussia di ascendere a grande potenza
e avrebbe sicuramente rappresentato un ostacolo per l’avanzata russa verso
Ovest, come si vide successivamente, nell’estate del 1920, quando l’Armata
Rossa avente come obbiettivo Berlino, fu sconfitta nella battaglia della
Vistola dall’esercito del rinato Stato polacco e costretta ad una caotica
ritirata.
6. I guasti prodotti dall’anticlericalismo di
taglio liberale durante il regno di Francesco Giuseppe, il quale sanzionò
l’introduzione del matrimonio civile (1868) e reagì negativamente al dogma
dell’infallibilità pontificia (1870) denunciando unilateralmente il Concordato
del 1855.
Ai fini del tema che qui ci interessa maggiormente –
l’effettiva continuazione della Christianitas medievale da parte
dell’impero asburgico e della Duplice Monarchia – bisogna dire che la
tradizione di anticlericalismo inaugurata da Giuseppe II non scomparve ed anzi
riprese vigore sotto Francesco Giuseppe, a partire dal tracollo del 1866. L’imperatore chiamò al governo un protestante
tedesco liberale anti-prussiano come il barone Ferdinand Beust nonché il
principe austro-boemo Karl Auersperg, grande nemico del “clericalismo”,
considerato ora responsabile della generale arretratezza dell’impero nei
confronti dell’emergente potenza prussiana. Era ormai convinzione diffusa, nella classe
dirigente, che fosse necessario modificare profondamente la struttura ancora
assolutistica dello Stato, forse la causa principale dell’immobilismo austriaco,
dell’inefficienza dimostrata dall’esercito, delle ripetute sconfitte. L’ampia e originale riforma costituzionale che
diede vita alla Duplice Monarchia dimostra che la classe dirigente
austro-ungarica non era affatto votata all’immobilismo: essa attuò un trasformazione che rafforzò lo
Stato e ne prolungò sicuramente l’esistenza, anche se in tal modo venne a compromesso
con le istanze liberali e a urtarsi seriamente con la Chiesa. A partire dal compromesso del ’67, che fece
progredire notevolmente l’Ungheria, l’impero fu sempre in pace, cessarono le
rivolte interne, si effettuarono riforme sociali e si diffuse un certo
benessere medio, anche se ad un certo punto cominciò la grave crisi politica
con la componente slava, che voleva anch’essa esser riconosciuta, al pari di
quella ungherese. L’unica attività
bellica fu la repressione della guerriglia-brigantaggio dei bosniaci, passati
sotto ammnistrazione austro-ungarica nel 1878 e annessi nel 1909, con gran
scorno dei serbi e dei russi, che avrebbero
appunto cercato di rifarsi nel 1914. In Bosnia, l’amministrazione
austro-ungarica sollevò rapidamente il paese dalle condizioni pietose nelle
quali l’aveva lasciato l’impero ottomano, con il risultato che le divisioni
bosniache, in gran parte composte da musulmani, largamente impegnate contro di
noi, furono tra le migliori e più fedeli nella Grande Guerra (Deák).
La costituzione
nata dal Compromesso (Ausgleich) all’origine della Duplice Monarchia o Monarchia
Austro-Ungarica era piuttosto elaborata e complessa. Un caso unico nella storia, che merita la
nostra ammirazione per l’ingegneria costituzionale escogitata e per le capacità
della burocrazia imperiale e regia di farla funzionare in un modo che possiamo
considerare eccellente, nonostante gli inevitabili limiti e difetti, dovuti anche
alla complessità del meccanismo messo in opera, assai più complicato, per
esempio, di quello operante nello Stato federato polacco-lituano (vedi supra).
Si creava un dualismo istituzionale. Esistevano due Stati, separati ed
indipendenti, con la loro legislazione, il loro Parlamento, il loro governo,
con proprie regolamentazioni, amministrazione, sistema giudiziario. Erano
separati dal Leith, fiumiciattolo a Est di Vienna. L’Austria (Cisleithania
perché al di qual del Leith) includeva: Boemia, Moravia, Slesia austriaca,
Galizia, Bucovina, più le terre ereditarie austriache, compresi i distretti
sloveni. L’Ungheria (Transleithania,
perché al di là del Leith) includeva l’Ungheria vera e propria più i possessi
della Corona di S. Stefano: Croazia, Voivodina, Transilvania, parte della
Romania, Slovacchia. I due Stati
venivano però inscindibilmente connessi in un’ unione reale, che
comprendeva, oltre alla Dinastia, i soggetti, gli enti che dovevano occuparsi
della politica estera, delle forze armate, delle finanze statali. Queste attività “comuni” dovevano esser
esercitate da tre ministeri comuni, restando tuttavia l’organizzazione e
la direzione delle forze armate di competenza esclusiva dell’imperatore. E
difatti l’esercito si denominava kaiserliche und koenigliche Armee (k.
u. k. Armee) o Imperiale e Regio Esercito, poiché era l’esercito
dell’imperatore d’Austria e re d’Ungheria.
Era ancora l’antica concezione della forza armata come forza
personale del Sovrano: nel giurare
fedeltà alla sua augusta persona si giurava fedeltà allo Stato che il sovrano
incarnava. Questo era indubbiamente un “riflesso” medievale, comune tuttavia a
tutte le altre monarchie dell’epoca, anche a quella costituzionale britannica. Accanto all’esercito comune c’erano
quelli nazionali austriaco (Landwehr) e ungherese (Honvédség). In
quello ungherese erano ricomprese le milizie locali della Croazia-Slavonia (Deák).
Inoltre, si introducevano (come si è detto) molti
elementi del moderno Stato di diritto, riallacciandosi ai Diplomi di
Giuseppe II. La costituzione garantiva
al suddito determinati diritti individuali e la protezione delle leggi nei confronti
degli eventuali soprusi dell’autorità.
L’imperatore conservava la possibilità di legiferare direttamente
mediante ordinanze (art. 14) ma solo in caso di necessità e con l’assunzione di
responsabilità del Ministero competente, quando il Parlamento (Reichsrat
o “consiglio dell’impero” per l’Austria, Reichstag o “Dieta dell’impero”
per l’Ungheria) non era convocato e sempre sul presupposto che il suo decreto
non violasse la costituzione. L’ordinanza
imperiale perdeva forza di legge se dopo un mese non era presentata al
Parlamento o se una delle due Camere del Reichsrat non la ratificava. Il Parlamento, bicamerale, veniva eletto su
base di ceto e censo, ma dal 1907 fu concesso il suffragio universale maschile,
fatto che mise in crisi nell’irrequieta Boemia (la regione più ricca ed evoluta
dell’impero) la componente tedesca, divenuta minoritaria rispetto a quella
cèca. Le materie di interesse comune,
elaborate dai tre ministeri competenti, dovevano essere approvate dai due
Parlamenti. “Nessuno dei ministri comuni poteva essere simultaneamente un
membro dei gabinetti austriaci o ungheresi”(May). Non c’era un esecutivo comune nominato dal Parlamento, i ministri erano di
nomina imperiale allo stesso modo del capo del governo. L’imperatore poteva
dimettere qualsiasi ministro o capo del governo, ungherese o austriaco. La funzione comune di governo era
esercitata, al di fuori della costituzione in senso formale, anche da un Consiglio
della Corona, presieduto dall’imperatore, organo “di carattere informale,
che comprendeva i ministri in comune ed i primi ministri dei due paesi; di
tanto in tanto altri funzionari di gabinetto, uomini politici di rilievo e capi
militari erano presenti a questo consiglio che si occupava di questioni di
interesse generale, specialmente di affari esteri”(May; Huber-Dopsch).
Venivano poi garantiti al suddito “diritti del cittadino” tipici del
costituzionalismo liberale, quali l’uguaglianza di fronte alle leggi, l’accessibilità
di tutti i sudditi ai pubblici uffici, l’inviolabilità della persona, della
proprietà, della corrispondenza privata; il diritto di associazione, di parola
entro i limiti stabiliti dalle leggi, completa libertà di fede e di coscienza, di
ricerca scientifica e di insegnamento.
Si tutelava maggiormente l’individualità delle nazionalità e l’uso delle
loro rispettive lingue. Si riconosceva
poi libertà di culto pubblico e di organizzazione nell’ambito delle leggi
esistenti ad “ogni Chiesa e Comunità religiosa riconosciuta dalle leggi” (per
tutti i dettagli sopra esposti, Huber-Dopsch, pp. 362-372; May).
Il taglio liberale della nuova Costituzione sembrava
mettere la religione cattolica sullo stesso piano delle altre, cosa grave per
uno Stato ufficialmente cattolico e in patente contraddizione con il Concordato
del 1855, espressione per molti aspetti dello spirito della Restaurazione e,
per l’appunto, ancora “riflesso della Cristianità medievale”. Da qui le
inevitabili sdegnate rampogne di Pio IX.
Ma nel maggio del 1868 furono emanate tre leggi che
colpivano duramente la Chiesa e la religione, approvate dalla maggioranza liberale
del Reichsrat e sanzionate dall’imperatore, anche per influenza della
moglie, si disse. Esse stabilivano:
1. La possibilità del matrimonio civile, nella forma
di un “matrimonio civile di necessità”(Notzivilehe) quando ci fossero
impedimenti ecclesiastici ma non di diritto civile. Si applicava soprattutto ai matrimoni
misti. In pratica, un cattolico poteva
ora sposare civilmente una protestante, che non era più obbligata a convertirsi
e a sposarsi in chiesa. Inoltre, le
questioni matrimoniali erano tolte ai tribunali ecclesiastici ed affidate a
quelli civili. In regime concordatario,
i tribunali laici si occupavano solo degli aspetti civili del matrimonio.
2. L’istruzione e l’educazione della gioventù fu tolta
alla Chiesa e passò allo Stato; rimase al clero solo l’istruzione religiosa,
peraltro facoltativa. (Rimanevano le
scuole private, i collegi gestiti dal clero, in particolare dai Gesuiti, tra i
migliori - May).
3. Si davano nuove regole per i rapporti interconfessionali
tra i cittadini nell’ambito dei matrimoni misti: a 14 anni si poteva scegliere la propria
religione liberamente e persino dichiarare di non averne alcuna, concedendosi
così di fatto la possibilità di uscire dalla Chiesa (Maigesetze (Österreich-Ungarn)
wikipedia.de;
Huber-Dopsch).
Ci furono ovviamente violente manifestazioni
anticlericali e drammatici dibattiti alla Camera Alta, con i prelati cattolici
(anch’essi tra i deputati) che uscivano dall’Aula per non votare l’iniqua legislazione. La legislazione ecclesiastica imponeva altre
limitazioni: per esempio, non si potevano
negare le esequie a un membro di una fede diversa se la parrocchia comprendeva
una sola chiesa. I “liberi pensatori”
non potevano più esser perseguiti né imprigionati. Lo Stato non interferiva
nella autonomia amministrativa della Chiesa e non si appropriava della sua
vastissima proprietà fondiaria, ma gli ecclesiastici dovevano presentare ogni
anno un bilancio dei loro conti alle autorità civili (May). Il vescovo di Lienz, mons. Rudigier invitò in
una ferma lettera pastorale i cattolici a resistere a questa legislazione, cioè
alla disobbedienza contro l’autorità macchiatasi di leggi inique perché ostili
alla religione e alla Chiesa. Fu processato e condannato a 14 giorni di
prigione, contro i sei mesi chiesti dall’accusa, ma l’imperatore lo graziò. Ci
furono manifestazioni popolari a suo favore.
La nuova legislazione ecclesiastica, dal taglio
fortemente giurisdizionalistico, smantellò
sensibilmente l’opera della Restaurazione.
Le proteste e anche ribellioni degli uomini di chiesa austriaci furono
molte e accanite. Pio IX definì in un Concistoro tutta questa legislazione
“assolutamente dissacrante, corruttrice, abominevole e condannabile”, dichiarando
inoltre che non aveva valore legale (come aveva spiegato san Tommaso, una legge
di per sé ingiusta non doveva ritenersi vincolante) (May). L’Allocuzione di condanna di Pio IX fu
violentemente contestata dal primo ministro austriaco, il succitato protestante tedesco Friedrich
Ferdinand von Beust, in nome della libertà dello Stato nei confronti della Chiesa,
come se questa normativa non colpisse profondamente la morale cattolica e il
suo fondamento religioso, e cioè quei valori che lo Stato austro-ungarico, in
quanto monarchia cattolica di origine divina, riconosceva come supremi e si
impegnava a far rispettare e difendere. Con la piena approvazione
dell’imperatore, lo Stato asburgico perseguiva nei confronti della Chiesa una
politica che, pur non facendo venir meno la tradizionale collaborazione tra
Trono e Altare, ne riduceva l’ambito e ne minava le fondamenta. Non sembrava tanto diversa, come impostazione,
da quella del “libera Chiesa in libero Stato”, messa in atto dal detestato
conte di Cavour e dai liberal-massoni in quell’epoca al governo nel Regno d’Italia;
i quali erano riusciti (con il Codice
civile del 1865) ad istituire anch’essi il matrimonio civile, però addirittura quale
unico riconosciuto dallo Stato, fallendo nel contempo il tentativo di
introdurre il divorzio, anche a causa dell’opposizione di Casa Savoia, oltre a
quella della Chiesa, che mobilitò tutte le sue organizzazioni. Nella Duplice Monarchia, che era uno Stato
con forti minoranze protestanti (in Boemia e Ungheria soprattutto) e ortodosse
(in Dalmazia e Transilvania) si voleva,
inoltre, promuovere la parificazione di tutti i culti.
L’anticlericalismo era appoggiato dalle classi
medie e da ampi settori del mondo politico; avversato dalle masse rurali,
soprattutto in alcune regioni, per tradizione più conservatrici, come il Tirolo
ed il Vorarlberg (May). L’introduzione
del matrimonio civile portò ad una progressiva modificazione dell’istituto
matrimoniale in senso laico ed ugualitario.
L’illustre giurista Eugen Ehrlich, ebreo della Bucovina, uno dei padri
della sociologia del diritto, poteva affermare, in una conferenza del 1906,
dedicata a “Sociologia e giurisprudenza”, che il diritto di famiglia
austriaco era diventato uno dei più individualisti d’Europa. La moglie
rispetto al marito e i figli rispetto ai genitori godevano di notevole
indipendenza patrimoniale e il marito, formalmente pater familias, era
ridotto piuttosto alla posizione di un tutore.
Unitamente alla Baviera, la dirigenza austro-ungarica
si oppose al dogma dell’infallibilità del Romano Pontefice, quando si
pronuncia in modo solenne sulla fede e i costumi, proclamato dal Concilio
Vaticano I. Francesco Giuseppe, in un rescritto
imperiale, dichiarò che il dogma dell’infallibilità alterava i rapporti tra
Chiesa e Stato, così come regolati dal Concordato del 1855, che doveva esser
riconsiderato. Con questo pretesto, il
Concordato fu abrogato nel 1871. Un
nuovo Concordato si sarebbe avuto solo il 5 giugno 1933, firmato per lo Stato
austriaco dal Cancelliere Engelbert Dollfuss, cattolico conservatore e amico
personale di Mussolini, assassinato l’anno dopo dai nazisti. Diversi vescovi austriaci erano pubblicamente
contrari al dogma dell’infallibilità. Si
allinearono poi rapidamene alla posizione ufficiale, tranne il famoso mons.
Josip Juraj Strossmayer, patriota croato, sostenitore dell’illirismo,
cioè di quell’ideologia che contemplava uno Stato croato ma già jugoslavo
sempre ricompreso nell’impero e tuttavia autonomo rispetto all’Ungheria, alla
quale la Croazia allora apparteneva; Stato che avrebbe dovuto includere, oltre
alla Bosnia-Erzegovina e alla Dalmazia (parte dei possessi austriaci), anche
Gorizia, Gradisca, Trieste; insomma, profeta di quel trialismo che
avrebbe dovuto dar finalmente spazio agli slavi meridionali nell’impero,
ponendoli sullo stesso piano degli ungheresi;
progetto politico che si dimostrò di impossibile attuazione per la rigida opposizione dell’elemento
magiaro da un lato e dei tedeschi della Boemia (ma anche dell’Austria)
dall’altro. Il molto stimato mons.
Strossmayer auspicava che la curia romana e lo stesso papato venissero
“deitalianizzati”. Egli era avverso al
Primato di Pietro, favorevole all’abbraccio “ecumenico” con gli Ortodossi
scismatici. Si piegò al dogma dell’infallibilità solo verso la fine della sua
lunga vita (morì nel 1905, a novant’anni).
Il trialismo, in verità, era ben visto
dall’arciduca Francesco Ferdinando, l’assassinato di Sarajevo, anch’egli, come
Strossmayer, fortemente ostile all’Italia (e ancor di più, ma per altre
ragioni, all’Ungheria). L’arciduca
Francesco Ferdinando, pur essendo divenuto erede al trono, non coltivava
rapporti con le comunità italiane dell’impero e sarebbe stato favorevole alla proditoria
guerra preventiva contro di noi, nonostante fossimo alleati, auspicata dai
circoli militari austriaci oltranzisti nel 1908 e nel 1911 (vedi supra).
Ma l’arciduca non avrebbe voluto guerre contro la Serbia. L’arciduca aveva un carattere difficile, autoritario
e i suoi pregiudizi, ma era senz’altro uomo preparato ad affrontare gli ardui
problemi dell’impero, dei quali aveva lucida percezione: era convinto che il “dualismo” fosse stato un
male perché aveva indebolito il potere centrale senza risolvere le questioni di
fondo; pertanto, “egli intendeva
ripristinare un forte potere centrale unitario, ma lo riteneva possibile solo
con la contemporanea concessione di larghe autonomie amministrative a tutte le
nazionalità della monarchia” (Valiani).
Si trattava di ridurre l’oppressione esercitata dagli ungheresi sui
romeni della Transilvania, sugli slavi del pari sudditi della Sacra Corona
Ungherese (slovacchi, croati, serbi) con l’instaurare un “federalismo
supernazionale”: Croazia, Dalmazia, Bosnia-Erzegovina riunite in un Regno autonomo nell’àmbito di una “riforma federalistica di
tutto l’impero”(Valiani).
L’imprescindibile riforma costituzionale dell’impero
implicava tuttavia una redifinizione del concetto stesso di Austria o meglio
del principio ideale che quello Stato doveva far proprio. Finivano sempre col contrapporsi due visioni,
come ha messo in modo eccellente in rilievo il prof. Giovanni Franchi, cogliendole
nelle riflessioni su questo vitale tema sviluppate in articoli e saggi del
periodo di guerra e dopoguerra da due scrittori e intellettuali del calibro di
von Hoffmanstahl e Musil. Secondo il primo, l’Austria doveva superare la
dimensione plurinazionale per diventare “sovranazionale”, costituirsi cioè come
patria in primo luogo “culturale o storico-spirituale”, continuando in tal modo
a svolgere in chiave europea la sua missione di “mediatrice” tra Est e Ovest.
Ciò poteva avvenire solo recuperando determinati valori tradizionali.
Hoffmanstahl fu il primo ad usare il termine “rivoluzione conservatrice”, in
una conferenza del 1927. La concezione
di Hoffmanstahl sembrava una proiezione in chiave sovranazionale, europea della
nozione di “Austria dello spirito”, intesa sempre come autentico valore (e non
come semplice metafora) da parte delle élites dell’impero. Essa faceva
prevalere, in chiave ideale e federativa sul piano istituzionale, l’elemento
della nazione di contro a quello dello Stato. Una nazione, però, che doveva
intendersi in modo “sovranazionale”, prospettiva non priva di un taglio
utopistico anche se coerente con la tradizione culturale austriaca.
Di contro, Musil riaffermava la necessità di uno Stato
centrale, ben solido nelle sue prerogative, senza concessione di autonomie
nazionali che avrebbero trasformato i tedeschi in minoranze più o meno
oppresse. Lo Stato non poteva essere
“federale” e quindi largamente aperto alle tendenze centrifughe. Esso doveva
basarsi su una nazionalità egemone, compatta nei suoi valori e soprattutto
nella sua lingua e cultura, come quella tedesca, alla quale si doveva del resto
la fondazione della monarchia danubiana. L’impostazione di Musil era simile a
quella dell’Arciduca Ferdinando, senza però concedere, almeno in linea di
principio, le autonomie amministrative che quest’ultimo giudicava
indispensabili alle varie nazionalità. Musil, nel difficilissimo Primo Dopoguerra,
era favorevole allo Anschluss, all’unione con la Germania, come molti
altri intellettuali dalle più disparate tendenze: l’esistenza di un’Austria solo tedesca, come
Stato indipendente, gli sembrava una contraddizione in termini.
6.1 Francesco
Giuseppe non fu “buon figlio devoto al Santo Padre”, anche se fu un imperatore
sollecito dei suoi sudditi, amato dal gran numero, rispettato da chi non lo
amava.
L’atteggiamento
di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria e Re Apostolico d’Ungheria,
Francesco Giuseppe I, nei confronti del dogma dell’infallibilità, sembra
l’opposto di quello di un fedele servitore e difensore della Chiesa, obbediente
in tutto al suo insegnamento innanzitutto per ciò che riguarda la religione. Il divorzio restava al bando ma l’imperatore
aveva approvato l’introduzione di una forma di matrimonio civile, grave lesione del concetto del matrimonio e
della famiglia, come intesi ed insegnati dal Cattolicesimo. Maria Teresa, nelle Istruzioni lasciate
al figlio Pietro Leopoldo, che un giorno sarebbe stato imperatore (vedi supra),
scrisse: “Mostrati buon figlio, devoto
al Santo Padre su ogni questione di religione e di dogma. Ma ricordati di essere sovrano, e non
consentire la sia pur minima interferenza della Corte di Roma negli affari di
Stato”(Wandruszka). Ma il dogma
dell’infallibilità e l’istituto del matrimonio cattolico, non riguardavano
forse “la religione e il dogma”?
Rifiutando di riconoscere nei suoi Stati il primo e autorizzando un tipo
di matrimono civile accanto a quello religioso, Francesco Giuseppe non si
dimostrava per nulla “buon figlio, devoto al Santo Padre”, come aveva
raccomandato la grande imperatrice. Né
dava il buon esempio con la sua vita privata.
Voglio dire, il buon esempio che avrebbe dovuto dare come
imperatore, monarca cattolico per diritto divino a capo di uno Stato
cattolico, avente l’obbligo morale di difendere la fede innanzitutto con
il suo esempio di vita conforme in tutto (o comunque il più
possibile) a quella fede. Ma,
prescindendo dalla sua vita privata, come uomo di Stato cattolico aveva
comunque l’obbligo di legiferare mantenendosi sempre nell’insegnamento della
Chiesa per ciò che concerneva questioni fondamentali della fede, rilevanti anche politicamente, o un istituto come il matrimonio.
In queste contrapposizioni, non si rinnovavano forse
(in chiave moderna) gli antichi e dolorosi conflitti che nel Medio Evo avevano
a lungo contrapposto impero e papato? Ma
non è certo questa la Christianitas medievale che il prof. De Mattei
vede ancora riflessa nella Duplice Monarchia.
Era rimasta, ovviamente, la tradizione di mutua collaborazione tra
Chiesa cattolica e Stato asburgico (“fra trono e altare”), ma il rapporto con
la Chiesa, rimessosi al bello con la Restaurazione e il Concordato del 1855,
dopo lo shock delle riforme del mangiapreti Giuseppe II, si era di nuovo
incrinato e in maniera che possiamo definire profonda. Non conferire riconoscimento ufficiale al
dogma dell’infallibilità appena proclamato, significava misconoscere l’autorità
del Romano Pontefice che quel dogma aveva voluto far definire solennemente da
un Concilio Ecumenico, indebolire quell’autorità agli occhi del Secolo e di
tutti i suoi sudditi. Sul piano della morale e del costume, ugualmente grave
era poi l’introduzione del matrimonio civile, anche se circoscritto ai
matrimoni misti. Sul piano dei rapporti tra Stato e Chiesa, grave era la pretestuosa
denuncia unilaterale del Concordato del 1855, che il Papa non aveva violato in
alcun modo.
Se l’alta concezione della propria missione di
reggitore per grazia di Dio induceva Francesco Giuseppe ad atteggiamenti
anticuriali, giurisdizionalistici e persino anticlericali nei confronti della
Chiesa o comunque a tollerarli e a farsene in certi casi interprete, egli
mostrò comunque di possedere sempre un alto senso del dovere, applicandosi
giornalmente con sollecitudine al disbrigo degli affari correnti e non facendo
mai venir meno, per quanto possibile, quel contatto personale con i
sudditi tipico delle monarchie del
passato. Per questo era amato dalla gran
maggioranza dei suoi sudditi e comunque rispettato anche da chi gli era politicamente
avverso.
“Cortese e ad
un tempo distaccato, Francesco Giuseppe non aveva difficoltà a ridimensionare
quanti si presentavano da lui con delle lagnanze. Ogni settimana egli concedeva oltre cento
udienze, durante le quali riceveva ogni visitatore – si trattasse di arciduchi,
membri del gabinetto o del più povero dei poveri – nella stessa atmosfera di
dignità e rituale accuratamente orchestrato.
Fermo sull’attenti, l’imperatore e re faceva assumere ai suoi ospiti la
stessa postura militare ed esigeva che essi riferissero in modo breve e
preciso. Al minimo segno di un contegno
scorretto, l’ospite veniva congedato prima dello scadere del tempo a lui
concesso con un appena percettibile battere di tacchi o con un cenno
dell’imperiale capo. Alla sua augusta
presenza, ogni passione e ogni odio venivano ridotti a semplice cerimoniale e
routine burocratica”(Deák).
L’ironia finale dello storico che ci rammenta questo
stile di governo con i sudditi, mi sembra fuori luogo. Va apprezzato, invece, lo sforzo dell’imperatore
di mantenere l’autentica dimensione imperiale, quella che fa del governante non
un nume inaccessibile bensì un capo di Stato che, come un buon padre di
famiglia, ascolta le lagnanze e le suppliche di tutti i sudditi per deciderle
in modo imparziale, secondo equità e giustizia.
E in questo c’era indubbiamente il “riflesso” della Christianitas medievale,
anche se essa a sua volta, dobbiamo dire, riprendeva, arricchendolo di
contenuti cristiani, il modello di un
governare imperiale che ritroviamo nei migliori monarchi dell’antica Roma. Francesco
Giuseppe viveva in modo semplice, con il suo patrimonio privato soccorreva
poveri ed indigenti, soprattutto fra i militari (Deák). Con la sua esemplare
dedizione all’ufficio, dava il buon esempio ai suoi funzionari, ispirandoli
nelle loro qualità migliori: il senso
del decoro, la rigida disciplina, il dovere di essere al servizio di tutti senza
preferenze di sorta, l’orgoglio di appartenere ad un corpo di élite improntato allo spirito di fedeltà
all’istituzione nella persona del Sovrano.
La burocrazia imperiale avrà anche avuto i suoi aspetti negativi, quali
ad esempio una tendenza ad accentrare, un’eccessiva pignoleria e troppo rigide
vedute su determinate questioni, ma vale comunque il giudizio complessivo che
ne ha dato la storia: essa era “in
Austria, se non in Ungheria, scrupolosa ed imparziale” (Valiani – nato Weiczen,
ebreo magiaro-tedesco di Fiume, di sentimenti italiani, costretto dal fascismo
ad “italianizzare” il suo cognome).
L’efficienza della burocrazia era una delle ragioni del relativo
benessere economico goduto da larghe fasce della popolazione dell’impero, anche
se ovviamente esistevano zone di povertà e miseria, soprattutto nelle campagne
e in certe periferie operaie viennesi.
Chi ritiene che il quadro angosciante e sinistro di
una burocrazia impersonale, prevaricatrice e anche corrotta, quale emerge dalle
pagine de Il Processo di Kafka, sia in realtà una rappresentazione
crudele ma giustificata della burocrazia dell’impero asburgico, erra
grandemente, come ha sostenuto a ragione Ladislao Mittner. L’atmosfera da incubo de Il Processo , con
l’accusato che ignora quale sia l’accusa, il processo che si svolge per via
solo amministrativa, ad opera di un’entità che non compare mai in prima
persona, pur incombendo continuamente, la feroce esecuzione finale: tutto ciò anticipa profeticamente l’atmosfera
diabolica dei processi bolscevici e staliniani, la mostruosità di un apparato
dominato da un arbitrio assoluto e tutto avvolgente, come quelli del totalitarismo,
comunista prima e nazista poi.
Aspetti negativi nella società e mentalità asburgica
risultano piuttosto da certi eccessi repressivi in tempi di crisi nonché
dall’atmosfera mefitica che si poteva installare nelle scuole ed accademie
tecnico-militari, con la loro severissima e persino disumana disciplina, cui
facevano da contraltare il sadismo e la prevaricazione serpeggianti tra gli
allievi, tra i quali in genere dominavano quelli superiori agli altri non tanto
per meriti quanto per origine sociale ed etnia.
Mali riscontrabili in consimili istituzioni di altre nazioni, testimoniati
comunque per l’Austria con particolare pathos da grandi scrittori come Rilke e
Musil, costretti a frequentare quegli istituti in giovanissima età, inadatti
com’erano al mestiere delle armi, dal quale infatti subito rifuggirono. Musil, com’è noto, trasfigurò la sua
personale, amarissima esperienza nel suo primo romanzo: Die Verwirrungen des Zõgling Tõrless
(1906), titolo che viene tradotto con “I turbamenti (o le deviazioni) del
giovane Tõrless”. (Da notare, per
inciso, che la vittima preferita del sadismo dei cadetti è nel romanzo “il
vilissimo e abulico Basini” (Mittner), personaggio che porta un cognome italiano.
E difatti non poche volte i personaggi abietti o moralmente deboli o
intellettualmente ambigui e quindi in generale “negativi” nel romanzo
austro-tedesco di quest’epoca, portano cognomi italiani: vedi il Settembrini de La montagna
incantata di Thomas Mann. Anche
questo dettaglio, dimostra, credo, il basso conto nel quale era tenuta la
nostra non numerosa etnia nella Felix Austria ).
* *
Durante il regno di Francesco Giuseppe, si ebbe anche
una ripresa del Protestantesimo. Estintosi con la Controriforma, grazie
anche alle maniere forti impiegate, era timidamente riemerso in séguito
all’editto di tolleranza di Giuseppe II.
Nel 1861 ottenne la libertà religiosa, effettiva solo dopo il 1875. I
protestanti godevano di una certa autonomia amministrativa e di aiuti
statali. All’Università di Vienna fu
creata una Facoltà teologica evangelica (May).
La Massoneria era stata soppressa dalla
Restaurazione, in quasi tutta Europa. In
Austria era fuori legge ma non in Ungheria.
Karl Popper, filosofo della scienza e teorico del liberalismo, ritenuto uno
dei più importanti pensatori del XX secolo, nato a Vienna nel 1902, figlio di
un avvocato molto colto e umanista, tipico esponente della borghesia ebraica laboriosa
e benestante dell’impero, ricorda che il padre era Maestro Venerabile di una
loggia massonica, che finanziava anche un orfanatrofio, nella cui
amministrazione, come in quella di altre organizzazioni simili non massoniche,
il padre prestava la sua opera. “Il
lavoro di assistenza sociale di mio padre ricevette un inaspettato riconoscimento
quando il vecchio Imperatore lo fece Cavaliere dell’Ordine di Francesco
Giuseppe (Ritter des Franz Josef Ordens), cosa che costituì non solo una
sorpresa ma anche un problema. Infatti,
mio padre, per quanto, come la gran maggioranza degli austriaci, rispettasse
l’Imperatore, era un liberale di tendenze radicali, cioè della scuola di John
Stuart Mill, e non approvava la politica del governo. In quanto massone, era persino membro di una
organizzazione che era stata dichiarata illegale dal governo austriaco di
Francesco Giuseppe ma non dal governo ungherese di Francesco Giuseppe. Pertanto
i massoni si riunivano spesso poco dentro il confine ungherese, a Pressburgo
(ora Bratislava in Cecoslovacchia [oggi, 2022, Slovacchia, all’epoca inclusa
nell’Ungheria])” (Popper).
Popper ricorda come il Parlamento fosse limitato nei
suoi poteri dal fatto di non poter far cadere i due primi ministri o i due
governi e come la censura, anche politica, fosse assai attiva, sequestrando libelli
di satira politica (tra cui uno del padre) e iscrivendoli nell’Indice dei
Libri Proibiti. Tuttavia, rammenta
anche come l’Università di Vienna, “con i suoi molti insegnanti di alto
livello, godesse di un alto grado di libertà e autonomia”(Popper). Ciò favoriva indubbiamente lo sviluppo della
scienza e in generale della cultura.
Allo sviluppo dell’economia, della società e della
cultura gli Ebrei diedero un importante contributo. Dopo l’emancipazione (1867-1870), erano
presenti nel cuore della società: nelle
professioni, nel commercio, nell’industria, nella finanza, nella cultura. Secondo il censimento del 1910 costituivano
quasi il 5% della popolazione. La maggior parte viveva nella provincia della
Galizia, zona di povertà dalla quale emigravano verso Ovest e verso gli Stati
Uniti, dopo il 1870.
“Il venditore ambulante ebreo era un personaggio
familiare in ogni parte dell’impero austriaco.
Nel 1914 non c’era villaggio senza un negoziante od un proprietario di
osteria ebreo e molti praticavano contemporaneamente l’usura insieme al loro
lavoro, mentre molti erano impiegati nelle grandi proprietà come camerieri. A
Vienna, Praga ed in altre città gli ebrei si contavano a migliaia. L’Austria
doveva gli ebrei molte industrie d’avanguardia, come quelle del cuoio e della
seta, la lavorazione del tabacco e la distillazione su grande scala di bevande
alcoliche […] Mentre si andava prodigiosamente allargando la partecipazione
ebraica nel mondo del commercio e della finanza, rimaneva comunque sempre in
proporzione più numerosa la loro presenza nelle categorie dei piccoli operatori
all’ingrosso e al dettaglio. Per quanto
non si abbiano dati statistici attendibili si può affermare con sicurezza che
verso il 1914 l’industria e il commercio di Vienna erano in misura
preponderante in mano agli ebrei. Spesso
si notavano esponenti cristiani negli uffici delle più importanti imprese
commerciali e se essi erano quelli che il grosso pubblico notava, dietro le
quinte chi veramente teneva i fili erano degli ebrei”(May).
Si stava formando una industriosa, ricca e colta
borghesia ebraica, che si stava integrando, convertendosi in parte consistente al
cattolicesimo. Cosa che a molti non
piaceva, neppure tra gli ebrei. “Tra gli
ebrei che abitavano nelle città occidentali, in modo particolare a Praga e a Vienna,
c’era la tendenza spiccata ad abbandonare la fede dei padri, ad accettare il
battesimo cristiano e a mescolarsi completamente al resto della
popolazione. Questi ebrei che si erano
assimilati scoprivano però spesso di esser considerati traditori e rinnegati
dagli ebrei rigidi e conformisti e di venir considerati come degli
indesiderabili intrusi dai nemici dell’ebraismo”(May).
Il tumultuoso sviluppo capitalistico e sociale,
provocò ad un certo momento un prevalere del desiderio di arricchirsi, una diffusa
febbre speculativa: ci furono scandali politico-finanziari
ed episodi di corruzione, nel 1873 si ebbe un clamoroso crollo alla Borsa di Vienna.
Data la evidente presenza ebraica fra capitalisti e finanzieri, ciò contribuì al diffondersi (con l’ausilio di
politici demagoghi) di un virulento antisemitismo tra il popolo, combattuto
però dalle autorità civili e dai vescovi.
Nel 1869 e nel 1872 ci furono convulsioni finanziarie minori prima del
grande crollo del 1873: la situazione ritornò alla normalità solo verso la fine
degli anni Novanta. Espressione del
malessere spirituale del quale soffrivano gli ebrei fu l’azione politica e
culturale di Theodor Herzl, ebreo ungherese trapiantato a Vienna: da
sostenitore acceso dell’assimilazione divenne poi all’opposto acceso
sostenitore del “sionismo messianico”,
ideologia di origine ebraico-orientale, da lui rielaborata e teorizzata
nell’opera Der Judenstaat, del 1896 (May).
Accanto alla borghesia ebraica che si integrava
socialmente e voleva integrarsi anche spiritualmente, c’era invece una parte
che, pur integrandosi socialmente, confluiva nell’opposizione ideologica,
prevalentemente di sinistra, e quindi socialista e marxista. La socialdemocrazia austriaca era forte ed
anche ben attrezzata culturalmente; diversi dei suoi intellettuali di spicco
erano ebrei. Ciò favoriva
l’antisemitismo di coloro che volevano vedere negli ebrei solamente la
partecipazione ai movimenti di opposizione o addirittura rivoluzionari, traendone
spunto per considerarli in blocco un
elemento dissolvente da restringere nuovamente nei ghetti. Lo stereotipo negativo dell’ebreo era duplice
e anche contraddittorio: o il finanziere speculatore o il rivoluzionario
socialista. Quando non partecipava dei
mali del capitalismo, speculando in Borsa o controllando settori troppo ampi
del commercio, contribuiva attivamente a quelli della rivoluzione in marcia,
come se fosse nell’essenza dell’ebraismo concorrere da due lati opposti,
e per di più tra loro nemici, alla distruzione della società borghese e
ancora cattolica. Ma la falsità di
questo modo di considerare l’ebraismo era dimostrata dal fatto che larga parte
della borghesia ebraica in ascesa cercava sinceramente di assimilarsi,
diventando cattolica.
Intellettuali
ebrei si trovavano anche tra i liberali di tendenza nazionalista, i liberal-conservatori.
Tra i cinque estensori del primo Programma di Linz, nel 1882, promosso
dal nazionalista Georg Ritter von Schönerer, c’erano due intellettuali
ebrei: Victor Adler, che avrebbe poi fondato la socialdemocrazia austriaca, e
lo storico Heinrich Friedjung, allievo di Momsen e Ranke. Il programma degli
austriaci nazionalisti tedeschi, non ancora inquinato da Schönerer con il suo
feroce antisemitismo accompagnato dalla conversione (politicamente motivata) al
protestantesimo al grido di Los vom Rom!, via dalla Roma cattolica,
voleva salvare l’Austria tedesca dalla preponderanza demografica slava, separare
le due nazionalità con una serie di riforme, territoriali e sociali, far
gravitare la monarchia danubiana verso la Germania (Wandruszka). Si preparava così di fatto la via che avrebbe
condotto al pangermanesimo, un’involuzione ovviamente rifiutata dagli
Adler e dai Friedjung oltre che dalla maggioranza dei cattolici, fedeli
all’impero. Da notare in von Schönerer il connubio di antisemitismo e odio per
il cattolicesimo, che ritroveremo poi nell’austriaco Adolf Hitler, originario
della periferia dell’impero, in quegli anni squattrinato déraciné nella
Grande Vienna, pittore di acquarelli. Il
fatto è che il mondo ebraico, cadute tutte o quasi le restrizioni civili di un
tempo, partecipava totalmente alla vita della società, presentando al proprio
interno le medesime divisioni di quella, riconducibili grosso modo alla
contrapposizione di progressisti e conservatori. È vero
che la maggioranza degli intellettuali ebrei era di tendenza liberale, e
sosteneva l’indirizzo anticlericale del governo, attirandosi ovviamente
l’avversione (spesso assai polemica) dell’antigiudaismo cattolico tradizionale,
il cui fondamento era religioso e non razziale (May), ma è anche vero che
questa intellighenzia non metteva in discussione il sistema-politico
economico vigente e la fedeltà all’impero.
Contro le ingiuste e malsane generalizzazioni a danno
degli ebrei, foriere di ben più gravi atteggiamenti ostili, bisogna ricordare
che, in conseguenza dell’emancipazione, anche gli israeliti sudditi
austro-ungarici furono chiamati al servizio militare. E fecero interamente il
loro dovere, allo stesso modo degli ebrei tedeschi, nella Grande Guerra. Contro la leggenda insensata degli ebrei
“traditori” che avrebbero pugnalato alle spalle i due imperi, portandoli alla
sconfitta, valgano i fatti, che qui riporto per l’Imperiale e Regio : “circa 300.000 ebrei, fra i quali 25.000
ufficiali, servirono nella prima guerra mondiale. Furono numerosi gli ebrei che
raggiunsero il grado di generale. Oltre al Generaloberst [colonnello
generale] Hazai, ci furono altri ventiquattro generali ebrei o ebrei
convertiti. Delle tante onorificenze
militari guadagnate dagli ebrei, bisogna almeno ricordare le 76 medaglie d’oro
al valore e i 22 ordini della Croce di Ferro di terza classe. Ufficiali ebrei prestarono servizio anche in
formazioni elitarie, ad esempio, nel Primo Reggimento Kaiserschützen della
Landwehr, una celebre unità da montagna”(Deák). Tra gli intellettuali e
gli scrittori che hanno ricordato con grande nostalgia, non scevra però di
notazioni critiche, il defunto impero, spiccano notoriamente su tutti tre
ebrei: il saggista e romanziere austriaco Stefan Zweig, l’illustre
storico ungherese François Feitö, il
celebre scrittore austriaco Joseph Roth.
7. Nella
cultura della “Grande Vienna”, prevalentemente positivista e antimetafisica, si
delineava la dissoluzione della recta ratio, la fuga nell’irrazionale in
accoppiata con la subcultura esoterica e völkisch.
Oltre ai vantaggi, materiali e spirituali ma avvolti
entrambi nel turbine intrinsecamente distruttivo del “progresso”, si diffondevano dunque anche certi evidenti mali
della modernità nella Duplice Monarchia.
Il fatto è che anche nella Felix Austria il cattolicesimo non era
più in grado di rappresentare un argine, di raccogliere le sfide del Secolo. Raccoglierle, nel senso di
contrapporvi una visione del mondo capace di attrarre ed imporsi, come nel
passato ormai lontano. Capace, pertanto,
di orientare la società in senso autenticamente cristiano. Proprio verso la fine dell’Ottocento
(scomparsi in apparenza i problemi creati dal giansenismo e dal liberalismo)
non cominciò a diffondersi nel cattolicesimo il successore di entrambi, l’errore
modernista, che mirava a rendere la religione rivelata succube del pensiero
moderno, adottando il soggettivismo di quest’ultimo per reinterpretare i dogmi,
con il fine ultimo di dissolvere la Chiesa nell’umanità in marcia verso la
supposta democrazia universale? Nella
Duplice Monarchia la Chiesa ne restò forse immune? E la cultura cattolica? Uno Strossmayer, con la sua contestazione del
Primato e le sue aperture “ecumeniche” agli Ortodossi, fino a che punto era un
isolato?
La Grande
Vienna tra fine Ottocento e inizio Novecento, lasciando da parte la patina
brillante ma vacua e superficiale dei balli, di corte e popolari, dell’Operetta,
del teatro popolare e tutto il contorno Kitsch che ne scaturiva,
incapace però di nascondere “un’atmosfera [ormai] crepuscolare, da tramonto di
una civiltà”(Magris), risplendeva per le sue istituzioni scientifiche, per la
sua cultura di grande capitale cosmopolita, per le tendenze innovatrici che vi
apparivano, come in altre capitali europee e forse in misura maggiore. Le scuole austriache nell’economia, nel
diritto, nella filosofia del diritto, nella filosofia, nella storiografia, in
vari rami della scienza, davano contributi essenziali alla cultura europea, ma
nello spirito per l’appunto della modernità.
Da un lato, certamente influenzate dai difficili
problemi politici e costituzionali dell’impero, si slanciavano nelle
speculazioni più ardite, miranti a conciliare contrapposte esigenze in una
armonia superiore, secondo la migliore tradizione austriaca: penso ai Merkl, ai Verdross e ai Kelsen, alla
loro costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico, da quello nazionale
a quello internazionale, in un sistema armonioso anche se astratto di norme, realizzante
la perfetta immagine giuridica del mondo; norme poste da norme in base
al principio di validità, riposante kantianamente sulla validità di una norma
fondamentale presupposta, fondamento della validità dell’intero ordinamento; o
allo stesso austromarxismo, che tentava, ispirandosi anch’esso al
neo-kantismo, di coniugare Marx con l’etica kantiana e di costruire una
razionale via parlamentare e democratica al socialismo, che ne eliminasse il
terribile carico di violenza rivoluzionaria, suscitando con ciò il dileggio e l’ira
funesta di un Lenin, il genio crudele della Rivoluzione alle porte, levatrice
la Grande Guerra.
Se la cultura dominante, in apparenza del tutto sicura
di sé, tendeva ad una visione il più possibile razionale del diritto, dello
Stato, dell’economia e persino del socialismo, la determinazione delle leggi
della natura, quale avrebbe pur dovuto risultare dalle speculazioni della
fisica e della filosofia della conoscenza in senso stretto, risultava invece
per più aspetti problematica. I
fondamenti forniti alla scienza fisica dal positivismo, che sembravano
solidissimi, venivano in realtà ad esser messi in discussione dalla scoperta
dell’atomo e poi (soprattutto) del quanto elementare di energia,
nell’anno 1900; cose tutte che introducevano la discontinuità e la
probabilità nell’ordine della natura, almeno dal nostro punto di vista,
puramente umano e limitato quanto agli strumenti di conoscenza. Ne discendeva un inevitabile ripensamento
delle categorie fondamentali del conoscere, a cominciare dal principio di
causalità. Tutto ciò, in filosofia, portava ad accentuare sempre più
l’indirizzo antimetafisico inerente al positivismo, a credere (ad un certo
punto) di poter risolvere il problema della conoscenza riducendo la filosofia
all’analisi logica del linguaggio, con il viennese Ludwig Wittgenstein, per
esempio, che finì di scrivere il suo celebre Tractatus durante la Grande
Guerra e in prigionia in Italia; o con il ridurre la filosofia alla “logica
della ricerca scientifica”, come titolava il famoso volume pubblicato nel 1934
da un altro celebre viennese, Karl Popper: una “logica” che metteva in
discussione il principio di induzione dell’univerale dal particolare e in
sostanza la possibilità stessa di un concetto dell’universale,
riaprendo, senza risolverle, antiche questioni metafisiche (anche se a Popper
va riconosciuto il merito di aver impostato una articolata critica filosofica
del metodo scientifico, aprendo così il necessario confronto tra filosofia e scienza).
Il supposto “centro [ancora] cattolico” dell’Europa,
dal punto di vista culturale era in realtà dominato dalla contraddizione tipica
della Weltanschauung dei moderni, risultante dal suo sempre più radicale
antropocentrismo. Da un lato, lo sforzo
intensissimo di costruire una visione integralmente razionale della realtà, a
cominciare dal mondo della natura per finire a quello sociale e storico, pur
escludendo da queste realtà la presenza e l’azione di un Creatore, ossia di
ogni prospettiva trascendente – riducendo pertanto il principio di causalità
alla sola causalità efficiente, intesa tuttavia come sistema di nessi il
cui determinismo non rinviava ad una Causa Prima. Dall’altro, il contestuale emergere di
pulsioni irrazionali coinvolgenti non solo la sensibilità ma anche i valori: l’esponente più evidente di questo movimento
spiritualmente eversivo è notoriamente Nietzsche, morto pazzo nell’anno 1900,
con la sua dissacrante opera di “rovesciamento di tutti i valori”, come diceva,
per sostituirvi il “nichilismo” ossia un vuoto morale e spirituale riempibile
dalla creatrice “volontà di potenza” del soggetto naturalisticamente inteso, in
ogni sua azione legge a se stesso.
La spinta
irrazionalista si esprimeva soprattutto nelle ben note forme di decadentismo
letterario e artistico fin de siècle. Alle “scuole”codificanti la tradizione, si
opponevano “i circoli” e “le secessioni”, famosa la Secessione viennese
nelle arti figurative. Soprattutto in Austria e in Boemia (a Vienna e a Praga)
nei letterati e negli artisti più significativi di questo periodo (nei von
Hofmannsthal, nei Rilke, nei Kafka, nei Trakl; in pittori come Klimt, Schiele,
Kokoschka) si mostrava una sensibilità visionaria, morbosamente attratta dal
tema della morte, della dissoluzione, della catastrofe, del finis Austriae.
Aleggiava l’attesa angosciosa della fine dolorosa di un mondo, e un’attesa
simile pervadeva anche certi ambienti dell’intellettualità russa, la cosiddetta
“san Pietroburgo mistica” degli anni anteriori alla Grande Guerra; si intende,
“mistica” nel senso “spiritualistico” del termine, ovvero di una sensibilità
impregnata di esoterismo, occultismo, teosofia (Webb).
In un grande e
difficile poeta come Rainer Maria Rilke, anticipante la “disperazione” del posteriore
esistenzialismo heideggeriano con il suo fascinoso lirismo, prodigo tuttavia di
un “misticismo naturistico che ignora completamente Dio, in cui vede, se mai,
una via dell’anima, non uno scopo da raggiungere” (Mittner), il senso della
morte occupa un posto assolutamente centrale.
Delle sue celebri Duisener Elegien, le elegie composte quasi
tutte quad’era ospite nel castello di Duino, vicino a Trieste, nel 1912,
scrisse che “affermazione della vita e della morte sono una sola cosa nelle Elegie”(Traverso). Affermazione della vita, chi non la condivide? Ma, “della morte”? Perché questo volersi tuffare nel non-essere,
come se da esso zampillasse chissà quale arcana conoscenza?
“Ma le notti!
Ma le alte notti d’estate, e le stelle,
le stelle della terra.
Oh, un giorno essere morti
e senza fine saperle, tutte le stelle – ahimè, come,
come dimenticarle?”
(Settima Elegia - tr. it Leone
Traverso)
Oh, un giorno esser morti…O einst tot sein: sembra quasi un’invocazione alla
felicità. E nelle città, anche
nell’amata Parigi, non regna forse la morte nelle piazze?
“Piazze, oh piazza in Parigi, infinito teatro
dove madame Lamort, la modista,
le inquiete vie della terra, nastri senza mai fine,
annoda e piega e inventa dai loro intrecci le nuove
asole, gale, fiori, coccarde, frutti finti – dai falsi
colori tutti, - pei poveri
cappelli invernali della sorte” (Quinta Elegia)
Ma cosa c’è, secondo il poeta, al di là della
morte? Forse una vita nuova, una vita
eterna che può, come speranza, dare un senso al nostro presente sofferente e
mortale? Vita e morte in realtà si
confondono, sprofondando nell’abisso dell’Indeterminato, nel gorgo cosmico:
“………………..Ed essere morti è fatica
e molto ha da ristorare perduto, chi attinga
a grado a grado un poco d’eternità. Ma i viventi
errano, troppo chiari delineando i confini.
Gli angeli (è fama) sovente non sanno
se tra i viventi vadano o i morti. L’eterna corrente
ogni età fra i due regni trascina e sovrana risuona…”
(Prima Elegia).
Anche l’erotismo, specchio della diffusa
sensualità dell’epoca, veniva rappresentato da due indubbiamente grandi pittori
austriaci come Gustav Klimt e il suo allievo Egon Schiele non certo
“tizianescamente” bensì in modo malato e deforme, nudità scheletriche afflitte
da pallori mortali, tali da riuscire a render sgradevole il corpo della donna,
trasformandolo in simbolo di malattia e morte. Il movimento verso il disordine, la decomposizione,
il caos, la “perdita del centro” per l’appunto (Sedlmayr), e quindi dell’equilibrio
e dell’armonia, iniziatosi da tempo in Europa, investiva in modo sempre più
ampio le arti figurative e la musica. E
proprio nella patria di Mozart, con la teoria e la musica del viennese Arnold
Schönberg, che sembrava voler codificare la disarmonia e creare un nuovo ordine
in realtà impossibile, si iniziava nella musica quel processo di autoannientamento
dell’espressione artistica in generale, che oggi ha raggiunto in Occidente
livelli inimmaginabili di degrado e squallore, almeno nell’arte prevalente sul
mercato d’arte. Se l’architettura civile
e industriale, in particolare con Walter Gropius e l’esperienza della Bauhaus,
conservava ancora un’impostazione razionale, che in Italia avrebbe dato i
migliori risultati negli anni Venti e Trenta, all’epoca del fascismo, oggi siamo
arrivati ad edifici storti, sghembi, contorti, deformi, siamo cioè giunti alla
fine di un cammino iniziatosi allora.
Accanto alla ricerca della razionalità, separatasi però dal divino, anche
nella Felix Austria abbiamo dunque (forse proprio a causa di questa separazione)
l’emergere di un fondo oscuro e tenebroso, l’irruzione di un irrazionalismo,
l’inizio di un’involuzione che, in filosofia, sembra ben rappresentata da
pensatori come Wittgenstein.
7.1 L’irrrazionalismo a sfondo nichilistico di Wittgenstein, emblematico del tramonto di
una cultura e di una civiltà.
Ludwig Wittgenstein, rampollo (e pecora nera) di una
prolifica famiglia della colta e benestante borghesia ebraica, il cui padre,
magnate dell’acciaio convertitosi al cattolicesimo, era uno degli uomini più
ricchi d’Europa, nel suo celebre Tractatus muove dalla necessità, tradizionale
nel metodo filosofico di tipo empirico, di mettere ordine nel mondo, che appare
a noi, in quanto “eventualità” o “caso” (Fall), costituito da mere “circostanze
di fatto”, semplice “connessione esteriore di oggetti (cose, enti)[Der
Sachverhalt ist eine Verbindung von Gegenständen (Sachen, Dingen)]”(Tractatus,
2.; 2.01). Elabora quindi i consueti nessi (usuali, da Locke in poi) tra realtà
e immagine della realtà, ove l’immagine (Bild) nostra del reale deve
avere (ovviamente) un elemento in comune con la realtà che essa contiene (2.1 ss.; 2.161). L’immagine è “la forma
logica della realtà”(2.18), intesa sempre la realtà come “fatto” o “realtà di
fatto, effettuale”(Tatsache). Il
pensiero allora è “l’immagine logica delle realtà di fatto”; “Das logische Bild der Tatsachen ist der
Gedanke” (3.). Ma nel bilden c’è l’idea del formare, costruire: l’idea che il pensiero costruisce, forma logicamente la realtà. E
come avviene questa “costruzione”? Non
con concetti a priori, nuova forma di kantismo, ma con un sistema ugualmente
del tutto formale, costituito dalle proposizioni
e dai segni del linguaggio (3.1
ss.: “Im Satz drückt sich der
Gedanke sinnlich wahrnehmbar aus”:
“Nella proposizione il pensiero si esprime in modo da essere sensibilmente percepito”).
Ma le connessioni
analitiche che Wittgestein stabilisce, con un procedere che sembra a scatole
cinesi, tra proposizione, segni, significato, nomi, forma e
contenuto, simbolo, etc., sono tali da permetterci di giungere ad una soddisfacente
conoscenza della c o s a , della realtà oggetto di questa conoscenza, così com’è in sé, anche
senza pretendere di esaurirla? I “nomi”,
scrive, sono “i segni semplici”che si ritrovano nelle proposizioni
(3.202). Qual è il loro significato? “Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato. (“A“ è lo stesso del segno di ”A”)(3.203). Alla configurazione dei segni semplici nei
segni della proposizione corrisponde la configurazione degli oggetti [Gegenstände] nella realtà di fatto. Il
nome rappresenta l’oggetto nella proposizione”.
Abbiamo qui concordanza di realtà esteriore e pensiero nella
proposizione che contiene il nome con cui definiamo razionalmente questa
realtà? Anche la semplice possibilità di questa concordanza,
presente in noi in potenza già per il fatto di possedere un intelletto
razionale? No. Qui il discorso subisce,
a mio giudizio, uno scarto che non appare giustificato, nemmeno dal discorso
stesso: “Gli oggetti posso solo nominarli
[nennen]. I segni
li rappresentano. Posso solo parlare di essi, non
posso esprimerli [Ich kann nur von ihnen sprechen, sie aussprechen kann
ich nicht]. Una proposizione può dire
solo come una cosa sia non cosa sia [Ein Satz kann nur sagen, wie ein Ding ist, nicht was
es ist]”(3.202-3.221; corsivi nel testo).
A cosa si riduce allora la
nostra conoscenza? E siamo qui veramente oltre Kant e i neo-kantiani? La conoscenza della realtà è sminuita a mera
possibilità di conoscere le nostre “proposizioni” sulla realtà. Il pensiero non è ciò che realizza la concordantia
tra il soggetto conoscente e
l’oggetto conosciuto. Visto che esso si
deve intendere, in generale, come “la proposizione fornita di senso”(“Der
Gedanke ist der sinnvolle Satz”). E poiché
la “totalità delle proposizioni è il linguaggio”(4.001) ecco che “ogni
filosofia dovrà ritenersi “critica del linguaggio”(4.0031). Pertanto, “il fine
della filosofia è la chiarificazione logica del pensiero. La filosofia non è una dottrina filosofica
bensì un’attività. Un lavoro filosofico
risulta essenzialmente di chiarimenti [Erläuterungen]. Il risultato della filosofia non consiste di
“proposizioni filosofiche” bensì nel chiarificarsi di proposizioni”(4.112).
Bisognerebbe forse dire,
parafrasando il Petrarca, “povera e nuda vai filosofia”, così ridotta, umile e
disprezzata ancella del linguaggio. Il
Wittgenstein del Tractatus era convinto di aver
trovato la pietra filosofale cioè una “forma universale della proposizione”
costituente “la forma universale della funzione di verità [die allgemeine
Form der Wahrheitsfunktion]”, funzione che egli esprime con i segni della
logica simbolica (6-6.001 ss.). Tale
“forma universale” resta del tutto astratta, come del resto l’intera
costruzione di Wittgenstein, con la sua pretesa di aver trovato nel linguaggio
una forma che permette di accedere alla verità, in quanto linguaggio, non
in quanto verità di ciò che è significato nel linguaggio. La “verità” lo è qui sempre della
“proposizione”, si viene a costituire mediante l’articolazione delle “proposizioni”,
secondo la loro logica formale, coerente con determinate premesse o meglio
definizioni, non è la verità del contenuto delle proposizioni e quindi della
realtà indagata dal pensiero, mediante l’articolazione delle proposizioni nel
discorso razionale.
La “ricerca della logica significa la ricerca
di ogni regolarità. E al di fuori della logica tutto è a caso [Zufall]”(6.3). Non possiamo che concordare. Ma questa Gesetzmässigkeit nel senso appunto di “conformità alla norma,
regolarità” non ci permette di giungere alla legge causale vera e propria. Per Wittgenstein, “la legge causale non è una
legge bensì la forma di una legge”. Le
“leggi causali” della fisica, per esempio della meccanica, sono solo “ un nome
di genere [ein Gattungsname]”(6.32-6.321). Il nominalismo di Wittgenstein salta
fuori ad ogni pie’ sospinto. Per lui, la
meccanica newtoniana si limita a “conferire forma unitaria alla descrizione del
mondo”, dove l’unitarietà è da intendersi sempre nel senso formale, risultante
dalla logica che regola i rapporti tra proposizioni fornite di senso. Non si può pertanto dire che esistano “leggi
di natura” nel senso nel quale comunemente si intende tale nozione ma solamente
“connessioni regolari” tra i fenomeni (6.36-6.361). La critica al principio di causalità risente
qui in parte delle discussioni sull’argomento tra i Fisici, dalla fine
dell’Ottocento in poi.
La realtà rimane pertanto
sconosciuta e il “significato del mondo” resta per noi indeterminato. Dal par.
6.373 sino alla fine, par. 7, abbiamo la
parte “mistica” del Tractatus, che ne rappresenta per l’appunto la conclusione
nell’irrazionale, per non dire nel nichilismo.
Muovendo dalla ovvia
constatazione che “il mondo è indipendente dalla mia volontà”, Wittgenstein afferma
tuttavia che “il significato del mondo deve trovarsi al di fuori di
esso”(6.41). Ma dove? Presso un Dio creatore? No. “Nel mondo tutto è com’è e accade come
accade; in esso non v’è alcun valore – e se vi fosse, non
varrebbe [a sua volta] nulla. Se vi si
trova un valore che ha valore, deve situarsi al di fuori di tutto l’accadere e
l’esserci [del mondo stesso]. Infatti
ogni accadere ed esserci dipendono dal caso [Denn alles Geschehen und So-Sein
ist zufällig]. Ciò che rende l’accadere non
casuale non può trovarsi nel mondo, altrimenti diverrebbe a sua volta
casuale. Deve trovarsi fuori del
mondo”(6.41, corsivi nel testo).
Trovarsi allora in Dio? In nessun
modo. “Ciò che sta più in alto” è del tutto indifferente al mondo: Dio non si rivela nel mondo (6.432). L’aver-senso del mondo non appartiene al
mondo ma nemmeno a Dio. Da dove ricavarlo, allora? Dove trovare il nostro ubi
consistam?
Stabilito questo principio,
che il c a s o domina nel mondo rendendolo in sostanza privo
di senso, principio che appare del tutto irrazionale già per esser in
contraddizione con l’esistenza stessa di una logica checchesia, anche del
linguaggio - Wittgenstein ne trae le seguenti proposizioni: “Pertanto ne consegue che non si dà alcuna
proposizione concernente l’etica. Le
proposizioni non possono esprimere ciò che è superiore [Sätze können nichts Höheres ausdrücken]”(6.42):
non possono esprimere una realtà spirituale, per di più trascendente. In
ogni caso non possono esprimere niente di spirituale, se si vuol rendere in
questo modo il termine Höheres (letteralmente: ‘ciò che è più alto, superiore’). Allora l’etica
(conclusione gravissima) non appartiene alla dimensione di questo mondo. “È chiaro
che l’etica non si lascia esprimere.
L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono la stessa
cosa)”(6.422). Eppure, osservo, niente è più facile ad “esprimersi” dei
comandamenti del Decalogo, immediatamente comprensibili a chiunque, istruito
o illetterato che sia; perfettamente intuibili nel loro nesso con quella che è
stata sempre chiamata morale naturale (onora il padre e la
madre, non rubare, non ammazzare, non commettere atti impuri, non mentire, non
desiderare la donna d’altri, etc.). Per
qual motivo sarebbe impossibile “esprimere” l’imperativo, il comando contenuto
nelle proposizioni dell’etica, ciò resta pertanto un mistero.
Wittgenstein deve comunque
ammettere come valida l’esigenza di una “ricompensa e punizione in senso
morale”, conseguenti a determinate azioni.
Ma pena e ricompensa, scrive, “devono sempre
ricavarsi dall’azione stessa [aber diese müssen
in der Handlung selbst liegen]”(6.422).
Dall’azione, non dall’applicazione di una norma superiore,
contenuta in una “proposizione” indipendentemente dall’azione e ad essa
anteriore, che costituisca il parametro in base al quale giudicare il valore
morale dell’azione stessa. Come poi le
conseguenze dell’azione possano ricavarsi dall’azione senza applicare a
quest’ultima i criteri di valutazione (buono-cattivo) stabiliti in una
“proposizione” che deve avere significato normativo, significato di legge e
norma del giudizio, non si riesce a comprendere. La prospettiva di Wittgenstein implica il
concetto assurdo che l’azione debba giudicare se stessa, contenere occasionalisticamente in se stessa la norma che
deve stabilire la sua punizione o ricompensa.
Il giudizio morale , come concetto, viene qui
arbitrariamente espunto dalla
realtà. Cosa dobbiamo dire, allora,
della volontà morale? Esiste una volontà eticamente orientata nel
soggetto, nell’essere umano? Una volontà
consapevolmente orientata ai valori morali e, all’opposto, alla loro
consapevole negazione?
Una volontà del genere non
esiste, per Wittgenstein. “Non si può
parlare della volontà come protagonista della dimensione etica [Träger
des Ethischen]”(6.423). La volontà è fenomeno che interessa la sola
“psicologia”(ivi). Su questo rifiuto
dell’etica, fondato sulla ripulsa del nesso tra volontà e morale, aleggia
indubbiamente lo spirito di Nietzsche, oltre a quello dello scientismo di marca
positivista. Ma vi si riflette
chiaramente la personalità tormentata e torbida di Wittgenstein, il quale non
teme di cadere in ragionamenti che appaiono del tutto privi di fondamento pur
di costruire una “mistica” che sollevi il soggetto da ogni imperativo etico e
dal timore della morte. Che significa,
infatti, scrivere che l’etica “non si lascia esprimere” o che etica ed estetica
“sono uno”? A ben vedere, niente significa.
Si tratta di affermazioni apodittiche, del tutto sinnlos, prive di senso. Affermare che l’etica sarebbe la stessa cosa
dell’estetica, sa, in questo contesto, di ricercata quanto ingiustificata
cancellazione dell’etica dal nostro orizzonte assai più che di richiamo a uno
Schiller.
Riecheggiando in qualche
modo Epicuro, scrive poi Wittgenstein sulla morte: “La morte non è un evento della vita. Della morte non c’è esperienza vissuta [Den
Todt erlebt man nicht]”(6.4311). Come dobbiamo allora intendere questo
superamento della morte, che non sarebbe “un evento della vita”, kein
Ereignis des Lebens? Convincendoci del
fatto che la nostra vita è in realtà senza fine o meglio che può esser
percepita come un esser senza fine. La seguente proposizione del Tractatus
spiegherebbe l’arcano: “Chi per eternità
non intende la durata infinita bensì il non vivere nel tempo giusto [sondern
Unzeitlichkeit], costui vive in eterno già nel presente. La nostra vita è senza fine così come senza
confini è il nostro campo visivo”(6.4311).
La chiave della spiegazione è costituita dalla nozione di Unzeitlichkeit,
termine inusuale praticamente intraducibile, che rinvia all’idea dell’esistenza
di colui che si trova nella Unzeit, nel “tempo inopportuno” e quindi
“inattuale”, se vogliamo vedervi una sfumatura nietschzeana. Allora, considerando la nostra esistenza come
inattuale o inopportuna, rispetto al suo tempo storico: inattuale perchè non
limitabile ad esso o ad esso opposta sul piano dei valori e quindi, rispetto ad
esso, sempre “fuori tempo”, “nel momento sbagliato”, noi ci astraiamo dal
presente finito e con ciò guadagnamo l’eternità già qui, nella condizione nella
quale ci troviamo?
Ma come può una
concezione del genere sostituirsi in modo valido ed efficace a quella
dell’eternità in senso proprio? Per
Wittgenstein, l’eternità sarebbe solo la proiezione di una presa di coscienza
del soggetto, del modo di (ipoteticamente) concepire il suo rapporto con il
tempo della sua esistenza storica, dal quale tempo non può sentirsi mai
limitato e cui può contrapporsi sul piano dei valori. Ma valga il vero: nell’idea dell’eternità ciò che ci atterrisce
è proprio la sua natura oggettiva, di eterna durata, sulla quale assolutamente
nulla possiamo e che si impadronisce implacabilmente di noi non appena siamo
morti, scomparendo per sempre da questo mondo. Non c’è consapevolezza di sé
come soggetto astrattamente (e oscuramente) fuori del proprio tempo che
possa sostituirvisi, creando un surrogato accetto alla nostra mente.
Tutto il discorso finale del Tractatus mira a
stabilire un’atmosfera mistica nella quale di chiaro c’è solamente il
rifiuto della possibilità di ogni etica in
nome della mancanza di ordine e razionalità che si registrano nel mondo,
dominato dal caso. E il rifiuto di Dio, relegato nella sfera
sideralmente lontana degli dèi impotenti di Epicuro, entità del tutto indifferenti
a ciò che accade nel mondo.
L’enigma della vita – conclude il Nostro – lo si
vorrebbe risolvere nel tempo e nello spazio, ovvero (sottolineo) utilizzando
categorie razionali, ma esso richiede una soluzione al di fuori del
tempo e dello spazio (6.4312). Ma di
nuovo egli scarta l’ipotesi trascendente.
Al di fuori del tempo e dello spazio - osservo -
ci può essere soltanto Dio, che
ha creato il tempo e lo spazio, oltre al cosmo e al mondo. Invece, per Wittgenstein, “all’esterno del
tempo e dello spazio” vi è solo l’essere incomprensibile e inspiegato del
mondo, che rappresenterebbe in sé la realtà mistica per eccellenza (das
Mystische).
“Come il mondo sia, ciò è assolutamente
indifferente per il Principio Superiore.
Dio non si rivela nel mondo.
Le realtà effettuali individuano tutte i nostri compiti, non le soluzioni.
Non come è il mondo bensì il fatto di esserci, quest’è la
dimensione mistica [das Mystische]. La visione del mondo sub specie
aeterni, è la sua visione come-Tutto-delimitato. Mistico è il sentimento del mondo
come-Tutto-delimitato [Das Gefühl der Welt als begrenztes-Ganzes ist das
mystische]….Non c’è alcun enigma”(6.432-6.5).
L’autentica visione “mistica” consiste dunque non
nell’elevarsi dell’anima verso l’infinito, cioè verso Dio, andando spiritualmente
al di là, per quanto possibile, della nostra finitezza di limitati esseri
umani: consiste, all’opposto, nel
sentimento (ben consapevole) della finitezza del Tutto, di tutta la realtà
nella quale ci troviamo immersi. Il vero sentimento mistico sarebbe
dunque non l’anèlito verso l’infinito ma quello verso il finito, verso “il
Tutto delimitato”, circoscritto da un confine (Grenze) e quindi chiuso
in se stesso, rappresentato dal mondo (nel quale, non dimentichiamolo, tutto,
per Wittgestein, è e accade secondo il caso, l’arbitrarietà più completa). Abbiamo qui un rovesciamento completo del
concetto della mistica in senso proprio.
Ma Wittgenstein è convinto che affidandosi a questa concezione
mistica si avvierebbe “la soluzione dei problemi della vita”, di quelli che
sono “i nostri problemi”(6.52 e 6.521). Una soluzione, tuttavia, alquanto
peculiare. Non tanto perché destinata a
restare individuale e personale, quanto perché essa, per definizione vorrei
dire, non si può “esprimere”, tant’è vero che spesso, precisa il Nostro, viene
sostituita dalla negazione dell’esistenza stessa del problema, del fatto cioè
che la nostra vita presenti a ciascuno gravi problemi (6.521). Ma ciò che non si può esprimere non dovrebbe
esser escluso dalla “mistica”, come la concepisce Wittgenstein, se tale
“mistica” si sostanzia soprattutto nel “sentimento” del carattere “delimitato”
del Tutto che ci ricomprende?
“Delimitato”, osservo, vuol dire evidentemente finito, il che
implica una actio finium regundorum che non può non esser condotta
all’insegna delle misurazioni, di diverso tipo, che l’intelletto è in
grado di fare - all’insegna insomma del discorso razionale. Ma il Nostro include invece anche l’inesprimibile
nella sfera della “mistica”.
“Vi è senza dubbio l’inesprimibile. Esso si mostra, è il Mistico” (6.522: Es
gibt allerdings Unaussprechliches. Dies
zeigt sich, es ist das Mystische).
Non ci ricorda, questo dictum, il di poco posteriore e heideggeriano mostrarsi,
svelarsi dell’Essere nell’Essente, ma tale da restare sempre nel nascondimento
e quindi in una sfera che resta inesprimibile? Ma che vuol dire “il mostrarsi
dell’inesprimibile”? Interpreto: non che
l’inesprimibile venga espresso e cessi pertanto di esser tale, ma che esso si renda
evidente, sempre come “inesprimibile”. In
altre parole, la nostra realtà quotidiana ci
mostra di continuo che essa è pervasa da un “inesprimibile” che mai si
disvela, mai entra nel discorso. È lì ma non può esser detto. Ma se l’inesprimibile
vien fatto coincidere con il Mistico in sé, il quale a sua volta è la realtà e
il sentimento che dobbiamo averne, allora questo misticismo ci appare del tutto
oscuro e impenetrabile: da sentimento
del mondo, che coglierebbe il senso mistico del mondo come realtà assolutamente
finita e delimitata, esso trapassa nell’indicibile e inesprimibile. Ma può esistere un nostro sentimento
del tutto indicibile, inesprimibile? L’esperienza
mostra che no, non può esistere. Proprio
perché l’uomo ha la possibilità di esprimersi con il linguaggio, nelle sue
variegate forme.
In realtà, risulta inesprimibile ciò che prova il vero
asceta elevatosi ai livelli appunto indicibili nella vera contemplazione
mistica, che è quella che mira ad immergersi nel divino. Di questo inesprimibile testimonia san
Paolo, in un celebre passo della II Lettera ai Corinti, quando accenna
ad “un uomo in Cristo [lui stesso] il quale, 14 anni fa, - se nel suo corpo o
fuori del suo corpo, lo sa Iddio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che
quest’uomo – se nel suo corpo o fuori del suo corpo, non lo so, lo sa Iddio –
fu rapito in Paradiso e udì parole ineffabili, che non è dato all’uomo di poter
esprimere [et audivit arcana verba quae non licet homini loqui]”(2 Cr
12, 2-4). Ma Wittgenstein esclude a
priori il divino dalla sua peculiare “mistica”, il suo “inesprimibile” lo
sarebbe (assurdamente) di sentimenti e pensieri solo umani, anche troppo umani,
di una realtà mondana dichiarata peraltro priva di significato.
Comunque sia, e proprio qui credo che il discorso di
Wittgenstein volesse andare a parare, siffatto “inesprimibile” riguarda anche
la filosofia, in particolare la metafisica. La filosofia, conclude il
filosofo viennese, dovrebbe pronunciarsi solo su ciò che le viene concesso da
parte della “scienza della natura”; limitarsi pertanto:
(1) alla “critica della conoscenza scientifica”, come
faranno poco dopo il Circolo di Vienna e Popper; (2) a dimostrare a chi vuol “dire qualcosa di
metafisico, che non ha conferito alcun significato a determinati segni
contenuti nelle sue proposizioni”(6.53).
In altre parole: compito della filosofia, tenuta con le dande dalla
scienza, dovrà essere quello di criticare, dimostrandone l’inutilità, ogni
possibile metafisica, passata, presente e futura.
La “mistica” propugnata dal Tractatus rappresenta
oltre che un’inversione una caricatura della vera mistica. È una pseudo-mistica nella quale ciò che
domina è l’abdicazione ad ogni vero discorso razionale al fine di rinchiudere
il soggetto pensante in un’oscurità – vera notte della ragione – nella quale
l’unico atteggiamento possibile è il silenzio, ma un silenzio impotente
che si annuncia carico d’odio, ben diverso da quello dei veri mistici, immersi
in quella ricerca della Divinità che di per sé purifica dalle passioni. Il Tractatus termina con la celebre
proposizione n. 7 e ultima, spesso citata fuori contesto: “Su ciò di cui non si può parlare, è
necessario tacere”. La frase sembra
chiarissima nella sua apparente ovvietà ma in realtà è ambigua, considerata nel
contesto. Il silenzio che essa ordina
non è quello della recta ratio di fronte a ciò che non si conosce e
richiede studio e approfondimento prima di pronunciarsi. È l’inespresso ed inesprimibile della sfera
“mistica” nella quale dovrebbe rinchiudersi il pensiero ossia la filosofia,
lasciando campo libero alla “scienza della natura”. Il Mistico di Wittgestein è solo
concime per la pianta velenosa dello scientismo, terra d’asporto nella quale si
sono decomposti i buoni semi della vera filosofia. Abbiamo qui una autentica abdicazione
dal pensare, consistente, nella maniera più vistosa, nel dichiarare impossibili
le proposizioni dell’etica e quindi i concetti morali, impossibile il
fondamento di senso del mondo in un Dio trascendente (concetto invece già chiaro
ai primi pensatori greci, ad un Anassagora, per esempio), impossibile la
determinazione del principio di causalità quale principio d’ordine di un mondo
che si vuol arbitrariamente supporre governato dal c a s o .
Questo radicale, nichilistico immanentismo è irrazionale:
si fabbrica tortuosamente uno strumento, la chiarificazione logico-formale del
linguaggio, scarnificato nel sistema delle proposizioni, per dichiarare alla
fine l’inutilità del suo uso, di fronte al Mistico. La contraddizione è
clamorosa: la filosofia viene costruita unicamente come filosofia del linguaggio
per arrivare alla conclusione che bisogna in ultima analisi affidarsi all’inesprimibile
e quindi smettere di parlare, tacere.
Tutta la costruzione di Wittgestein, il suo sistema di “proposizioni”
affonda nell’incoerenza nella parte finale, ove si proclama per l’appunto l’avvento del
momento mistico, preclusivo di ogni autentico discorso. Potremmo
applicare all’irrazionalismo e al nichilismo di Wittgenstein, la dichiarazione
di inguaribile malattia spirituale fatta fare da Hugo von Hoffmansthal, altro
tipico esponente della “sensibilità morbosa e decadente”(Magris) diffusa all’epoca,
al personaggio da lui creato, quale autore della immaginaria Lettera di Lord
Chandos, 1902: “Il mio caso, in
breve, è questo: ho perduto ogni facoltà
di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento”.
7.2 Filoni
austriaci della pseudo-cultura esoterica e völkisch.
Il vasto sottobosco della cultura detta völkisch, termine tradotto con “nazional-popolare”, “inerente
al Volk”, era cresciuto anche nella “cattolicissima” Austria, soprattutto in
quella robusta e composita minoranza che si volgeva al pangermanesimo, ideologia
estremista che attraeva in particolare i giovani. Intessuto di occultismo nelle sue varie forme, tale sottobosco tendeva o ad inquinare il sano
concetto di tradizione cattolica reinterpretandola alla luce di una supposta
”sapienza” iniziatica, pagana o orientale o, più frequentemente, ad avversare il
cristianesimo in nome di quella stessa “sapienza” e di forme radicali di
neo-paganesimo. L’esoterismo e il neo-paganesimo, mescolandosi all’odio per la
civiltà industriale distruttrice della natura, della vita contadina di un
tempo, delle tradizioni popolari e dei sani (e magari idealizzati) costumi di
un tempo, e al diffuso social-darwinismo, alimentavano poi il razzismo e l’antisemitismo.
“Il più influente dei
gruppi di occultisti fu quello che si costituì a Vienna, nei due ultimi decenni
del diciannovesimo secolo, avendo a mentore Guido von List [1848-1919], un erudito
austriaco ossessionato dal desiderio di provare che Vienna era stata la città
santa dell’antichità. È significativo il fatto che le idee di List siano nate in una regione
di confine del mondo germanico, soggetta a continui scambi con i viciniori
paesi slavi. List operava una commistione
di natura e storia, ove la prima era intesa quale guida divina dalla quale promanava
un’incessante forza vitale. E, diceva la sua formula, quanto più una cosa
era vicina alla natura, tanto più era vicina alla verità; il passato ariano
tedesco era vicinissimo a tutto ciò che era vero, a tutto ciò che era degno di
lode e di emulazione; in esso, materialismo e razionalismo non avevano avuto
posto: si trattava in realtà di calamità
affatto moderne. Ma come avrebbe potuto l’uomo contemporaneo ritrovare il
passato? Stando a List, tutto ciò che
occorreva era l’immediata partecipazione col paesaggio che ancora recava le
tracce indelebili della gloriosa civiltà germanica […] La natura costituiva la
guida al divino, poiché la ricerca della verità doveva procedere sulle orme
della volontà creativa. Ma questa
comprensione del paesaggio richiedeva una più profonda iniziazione: era necessario che l’individuo si accostasse
al passato storico del Volk, che si impregnasse dell’elemento più genuino della
forza vitale, l’antica sapienza germanica, quella che era stata soffocata dai
rigori del cristianesimo, il dogma straniero che aveva tentato di sradicarla quale
vestigio del paganesimo”(Mosse).
Volk è termine più pregnante che
il semplice “popolo”, in quanto denota “un insieme di individui legati da una
“essenza” trascendente, volta a volta definita “natura”, o “cosmo” o “mito”, ma
in ogni caso tutt’uno con la più segreta natura dell’uomo e che costituiva la
fonte della sua creatività, dei suoi sentimenti più profondi, della sua
individualità, della sua comunione con gli altri membri del Volk”(Mosse). Questa concezione “mistica” del Volk, era
alla base della balzana “sacralità” che List voleva ritrovare in Vienna. “Nel 1889 pubblicò il romanzo Carnutum
[arcaico insediamento celtico sul Danubio poi centro e base militare romani],
che magnificava la sacralità di Vienna sulla base del fatto che era stata la
patria di Gluck, Haydn, Mozart, Beethoven e dello scopritore della “Forza
odica”, il barone Reichenbach. Era il
luogo dove, secondo un’antica profezia, la futura Chiesa degli ariani sarebbe
sorta per diffondersi in tutto il mondo [oggi, AD 2022, dopo Bruxelles, Vienna
sta diventando la città più islamizzata d’Europa]. Nel 1891 von List pubblicò
un lavoro di “occultismo archeologico”, che forniva un’interpretazione
romantica dei paesaggi germanici e dei resti preistorici come le iscrizioni
runiche e i tumuli sepolcrali. Nello stesso anno ebbe l’ispirazione di comporre
un catechismo panteistico e germanico.
Il dio di von List, Allvater, veniva onorato conducendo una vita virtuosa,
lavorando e servendo il Volk”(Webb).
Mosse ha dimostrato che
l’ideologia völkisch, prima della Grande Guerra,
era diffusa tra i giovani perché era ampiamente penetrata nel sistema
scolastico tedesco pubblico. “Le idee nazionalistiche radicali ebbero un
influsso relativamente forte su associazioni e leghe (Federazione ginnica,
società alpinistica, cori, Associazione scolastica tedesca) e in seguito sui
gruppi del Movimento Giovanile Tedesco in Austria” (Wandruzska). Tuttavia la gioventù studentesca austriaca,
che subì questo influsso più di ogni altro gruppo sociale, spesso abbandonava
quest’ideologia estremista “dopo aver conosciuto, durante il servizio militare
o come funzionari statali, i vantaggi dell’Impero multinazionale”(Wandruzska).
Ma contro la visione del
mondo “nazional-popolare” e le sue componenti esoteriche, non costituiva un
valido baluardo la cultura cattolica tradizionale? Per alcuni certamente lo costituiva ma in
generale essa era ridotta da lungo tempo sulla difensiva, sostituita dalla
cultura laica nel sistema scolastico pubblico e obbligatorio, preso in carico
dallo Stato. Giocando su di un concetto
spurio di tradizione, l’ideologia “nazional-popolare” tendeva, invece, ad
inquinare il cattolicesimo. E la cultura laica dominante non riusciva ad esorcizzare
gli spiriti maligni presenti nell’indirizzo “nazional-popolare”? Non ci riusciva, così come l’austromarxismo
non riusciva ad esorcizzare lo spirito crudele della rivoluzione montante. Ad
addomesticare l’irrazionale in noi, non avrebbe dovuto dare un forte contributo
la scoperta delle forze oscure dell’inconscio da parte di Freud; insomma, l’inizio della psicoanalisi? Le antiche riflessioni di
filosofi e moralisti sulle passioni, sulle forze profonde che le muovono, non
venivano ora sostituite da un’analisi che si poteva condurre su base
scientifica, sì da rendere più facile la loro disciplina?
In realtà, le cose stavano
così solo in apparenza. Per il semplice motivo che Freud avrebbe ricavato anche
da una fonte inquinata come quella rappresentata dalla subcultura esoterica
elementi utili alla sua interpretazione pansessualistica delle malattie mentali e
poi delle caratteristiche stesse della nostra psiche; interpretazione inaccettabile nella sua evidente
unilateralità, tradottasi poi in quella ben nota filosofia di vita superficiale
e decadente che crede di render libero e felice l’esser umano con l’insegnargli
ad abolire la repressione degli istinti.
Anche se pubblicato da lui nel 1927, il citato saggio L’avvenire
di una illusione, riprendendo argomenti delle vecchie polemiche anticristiane libertine
e illuministiche, trattava la religione in modo estremamente superficiale, come
una proiezione infantile del desiderio di sicurezza dell’uomo, originata quindi
dalla paura dell’ignoto. Questo sciagurato saggio considerava la religione in
sostanza una forma di nevrosi, auspicando persino una educazione dei fanciulli del
tutto irreligiosa nei suoi princìpi, da fondarsi sulla scienza (oggi AD 2022 ci
siamo da tempo arrivati e ne vediamo i risultati). Ma il saggio esprimeva una mentalità e un
modo di considerare il Sacro e la religione ben radicati nella mentalità positivistica
di fine Ottocento. Tal modo, ostile non
solo al cristianesimo ma ad ogni forma di religione in quanto tale, aveva
creduto di darsi una patina scientifica, cominciando appunto con l’analisi delle
“varietà dell’esperienza religiosa”, come titolava una celebre opera di William
James, del 1902 (la religione intesa solo come religiosità individuale, avente quindi il suo fondamento solamente nella nostra
psiche, anzi nella nostra “emotionality”). L’analisi psicologica della religione si
coniugava allo studio antropologico del
Sacro presso i popoli primitivi, ancora legati a forme “animistiche” di
esperienze religiose, che la mentalità positivistica dominante cercava di trasformare
scorrettamente in parametri fondamentali di ogni esperienza religiosa, anche la
più evoluta, come quella cattolica.
Ma quali sarebbero state le
componenti della subcultura esoterica, il “sostrato occulto” che avrebbe
influenzato Freud? Ad esempio, la
bislacca teoria di una supposta bisessualità di ogni essere umano, già
elaborata nell’ambiente occulto da intellettuali dediti all’esoterismo e alla
teosofia, elucubranti sui miti dell’Androgino primigenio, sulla numerologia
magica e simili vanità, con i quali il giovane Freud aveva avuto provati e
prolungati contatti: come Wilhelm Fliess, un otorino tedesco appassionato di
esoterismo, il quale aveva stabilito che la vita di ognuno era governata da
periodi di 28 e 23 giorni, connessi al ciclo mestruale, e che tutti gli esseri
umani erano bisessuali (Webb).
Nell’ambito della sottocultura esoterica, incline di nascosto alla
libertà sessuale più completa e totale, si dava un’importanza rilevante
all’influenza del sesso sulla psiche e sull’inconscio. Più in generale, “nella teoria e nella
pratica psicoanalitica, si incontrano idee che sono versioni laicizzate
di concetti che trovano la loro espressione naturale nel linguaggio
dell’occultismo contemporaneo. Non
vogliamo dire che questa fosse l’intenzione di Freud, ma sul suo atteggiamento
nei confronti dell’occulto è stato detto tanto da poter mostrare che un contatto
esisteva effettivamente e che non poteva nemmeno esser evitato. Le teorie erano
disponibili e, che egli se ne rendesse conto o meno, influenzarono Freud nella
sua interpretazione dell’Inconscio”(Webb).
Nel Nuovo che avanzava si celava dunque e già
mostrava l’antico, “l’antico serpente”, che seduceva gli uomini con lo spirito
di ribellione a Dio e il conseguente cedimento agli istinti, dietro il
paravento di filosofie e terapie originali ma
f a l s e quanto al loro contenuto
di verità. Contro di esse anche in Austria mancava la replica di una cultura
cattolica capace di opporsi
vittoriosamente alla “modernità” sul piano del concetto. Il contributo della
cultura cattolica alla vera scienza c’era ancora ma soprattutto a livello individuale
e nascosto, come nel caso dello scopritore delle leggi dell’ereditarietà, il
monaco agostiniano Gregor Mendel (1822-1884), il “padre della genetica”, come
fu poi salutato. “E fu nel monastero di Brünn [Brno] che l’abate Gregor Mendel,
di origine contadina [la famiglia era di israeliti convertiti], dedicandosi ai
suoi doveri ed ai suoi piselli, fece scoperte sulla fisiologia dei processi
ereditari che gli meritarono un posto di poco inferiore a quello di Darwin
nella biologia. I suoi studi, pubblicati
su un’oscura rivista [nel 1865], rimasero sconosciuti al mondo della scienza
fino ad una generazione dopo la sua morte”(May), ossia per quasi
cinquant’anni.
8. L’impero
austro-ungarico non era più in grado di svolgere la sua missione storica, il
suo tempo si era ormai compiuto.
Cento anni dopo il 1918, l’impero asburgico rivive
dunque come mito di una perduta età dell’oro e lo si può comprendere, guardando al cupo
presente, dominato dalla decadenza sociale, demografica, morale, culturale
delle nazioni europee, ingabbiate nella laica e mercantilistica Unione. L’Unione ha accentuato una decadenza già in
corso invece di interromperla e rovesciarla. La multinazionale Unione non può in alcun modo
reggere il paragone con il multinazionale impero che fu, paragone che si è
tentato periodicamente di proporre, anche di recente. Innanzitutto perché la
Duplice Monarchia, nonostante gli evidenti cedimenti alla mentalità e ai
costumi del Secolo, era ancora uno Stato cristiano. Inoltre, era un vero Stato, che ha concorso
a creare una civiltà evoluta, caratterizzata da una splendida cultura, non
un’unione contrattuale di Stati tenuti insieme da vincoli economico-finanziari
regolati da un’oligarchia strettamente connessa alla finanza internazionale;
ispirata, quest’unione, sul piano dei princìpi, al rovesciamento di
tutti i valori apportato dalla Rivoluzione Sessuale diffusasi in Occidente
negli ultimi decenni, recepita con tutti gli onori nelle leggi dell’ “Unione”
stessa, in nome di un concetto esasperato, materialista, edonistico all’estremo
di libertà individuale. Quest’ “Unione” sembra piuttosto la caricatura di un vero
Stato. E quale “cultura” è capace di
esprimere? Vi domina la pseudo-cultura
del “politicamente corretto”.
La ricerca di
un valido rimedio alle infamie e nequizie del presente non può tuttavia oscurare
il giudizio storico, che vuol essere il più possibile obbiettivo, razionale, né
può approdare alla riesumazione di modelli definitivamente scomparsi, frutto di
situazioni storiche e sociali irripetibili.
Il mito asburgico ha assunto aspetti sconcertanti
in Italia, soprattutto presso i cosiddetti “tradizionalisti” cattolici, da non
confondere con i cattolici “fedeli alla Tradizione della Chiesa”, dal momento
che il c.d. tradizionalismo risente in genere di un concetto di
tradizione di tipo “sapienziale”, non cattolico, a sfondo esoterico, che
vediamo all’opera, ad esempio, nell’idea ad esso cara dell’origine e natura
c.d. “sacrale” del potere legittimo, attuantesi mediante l’uso cerimoniale di
determinati simboli. Da quando si è
avuta la beatificazione a sorpresa di Carlo d’Asburgo sembrano risuscitati gli “austriacanti” e i “codini”
di un tempo in quegli italiani che hanno celebrato il centenario della Grande
Guerra schierati dalla parte dei nemici ed oppressori storici dell’Italia;
beatificando, per così dire, anche Francesco Giuseppe e piangendo calde lacrime
per la sconfitta della Duplice Monarchia, dovuta, si capisce, a non meglio precisate
oscure mene, tradimenti e complotti. Un
atteggiamento a dir poco indecoroso questo non richiesto, piagnucoloso scodinzolare
e prostrarsi di fronte alle immagini di imperatori, re, generali e statisti
stranieri che ci hanno sempre disprezzato noi italiani, in blocco; sempre detestato
e odiato, dominato e sfruttato in tutti i modi, profittando dei nostri secolari
difetti per tenerci il più possibile divisi e sottomessi: nient’altro che una
“espressione geografica” l’Italia, come disse il principe Klemens von
Metternich, il famoso cancelliere austriaco (tedesco di nascita) protagonista
della Restaurazione, cacciato dalla rivoluzione del 1848.
Il giudizio negativo che bisogna dare della politica
austriaca e asburgica nei confronti dell’Italia e degli italiani, perché
politica sempre di conquista e divide et impera, che dimostrò il suo
fallimento quando scoppiarono le grandi rivolte popolari milanesi, bresciane,
veneziane e venete del 1848-1849; nonché della politica austriaca nei confronti
della Polonia, a partire da un certo momento di conquista e spartizione, quando
l’Austria cattolica avrebbe dovuto difendere la cattolica Polonia aggredita
dalla luterana Prussia e dalla Russia greco-scismatica, non impedisce, ovviamente, il riconoscimento dei
molteplici meriti del defunto impero, sopra sinteticamente ricordati. Né lo impedisce, il riconoscimento, la
constatazione secondo la quale la monarchia asburgica ha logorato le sue forze
nel lungo e secolare conflitto con la monarchia francese per il controllo del
corso del Reno da un lato, della pianura padana e dell’Italia dall’altro – non
meno colpevoli i francesi di tale conflitto, la cui posta voleva essere il
dominio dell’intera Europa. Questo conflitto fu esiziale non solo per la Francia,
l’Austria, l’Italia e per l’Europa (ha impedito per secoli l’unione delle forze
contro l’assalto ottomano e barbaresco), ma anche per la Cattolicità tutta, a
causa delle ricadute pesantemente negative che ha avuto per la possibilità stessa
di attuare in modo valido e coerente l’ideale dello Stato cristiano. Il conflitto terminò in Italia di fatto solo
nel 1861, quando nacque finalmente uno Stato italiano unitario, anche se al
prezzo di una grave frattura con la Chiesa, ricomposta tuttavia con la Conciliazione
del 1929.
* *
Negli Stati come negli individui, le qualità si
intrecciano sempre ai difetti e i meriti ai demeriti. Per questo, all’ascesa e
allo splendore seguono sempre, per implacabile naturale decorso, la decadenza e
il tracollo. Quale forma statale, quale
società, quale impero potrebbe durare in eterno? Solo il Dio degli Eserciti è da sempre
e sempre sarà, eterno ed immutabile. Le
vicende umane sono dominate dalla caducità e dal mutamento, che ovviamente si
intrecciano alla crescita e al mantenimento: popoli e Stati si formano,
crescono, progrediscono, si mantengono anche per secoli, ma poi comincia implacabile
la decadenza e infine giunge la rovina mentre altri popoli e Stati si
presentano sulla scena della storia, avanzando con ferrea determinazione.
Come già notò il filosofo illuminista tedesco Moses Mendelssohn (nonno del più
famoso Felix, il grande compositore romantico), contro la filosofia della
storia di Lessing e di Kant, che ammetteva, come principio regolativo, l’idea
di un progresso continuo del genere umano, se non dell’individuo,
verso il bene e il meglio, sotto l’educazione della ragione, ritenuta capace di
creare, in prospettiva, una federazione di Stati, un “ordinamento cosmopolitico”
governato dalle leggi; contro questa utopia, Mendelssohn, strenuo difensore
dell’immortalità dell’anima individuale su basi platoniche, sostenne,
all’opposto, la possibilità del progresso individuale, mediante l’educazione e
la cultura, ma non quello del genere, non il progresso costante dell’intero
genere umano. Il genere non è “un’unica
persona” ed è “nello stesso tempo fanciullo, uomo e vecchio, solo in diversi luoghi
e regioni della terra”. Pertanto,
“vediamo che il genere considerato complessivamente compie delle piccole
oscillazioni e non avanza di qualche passo senza scivolare poco dopo, con
velocità raddoppiata, nella sua posizione iniziale”. In definitiva, “l’uomo va oltre, ma l’umanità
oscilla stabilmente al di sopra e al di sotto di limiti fissi. Considerata
nell’insieme, ritiene in tutti i periodi di tempo all’incirca gli stessi gradi
di moralità, la stessa quantità di religione ed irreligione, di virtù e vizio,
di felicità e miseria”(Mendelssohn). Senza dirlo apertamente, egli attaccava la
nozione di maggior età del genere umano, caratterizzata dall’uso consapevole
della ragione, posta da Kant alla base dell’idea di “illuminismo” come modo di
essere dello spirito umano e tassello fondamentale della sua concezione della
storia.
La kantiana “uscita di minorità” ad opera della ragione
(l’orgoglioso sapere aude!) può aver luogo a livello degli individui o
dei singoli popoli (“in diversi luoghi e regioni della terra”) ma m a i per
l’umanità in blocco: ad un popolo in ascesa
se ne contrapporrà uno in decadenza, in un altro luogo ma nello stesso tempo
storico, onde il risultato generale sarà sempre il medesimo, dal punto di
vista del progresso del genere: le oscillazioni saranno trascurabili. Kant, com’è noto, ribadì contro Mendelssohn
la sua fede nel “continuo progresso verso il meglio” dell’umanità, nel III
paragrafo di un suo breve scritto del 1793: Sopra il detto comune: ‘Questo
può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica’.
La filosofia della storia dell’Illuminismo, basata
sull’idea del progresso continuo del genere umano affrancatosi dalla Religione
Rivelata, non dava ragione alcuna del problema del Male nel mondo né, in
relazione all’idea della storia, dei periodi di decadenza, nel senso che non
riusciva ad inquadrarli nell’ambito della sua concezione razionalistica e
ottimistica, unilineare della storia ed anzi persino dualistica, in
quanto contrapposizione elementare di luce (la ragione, faro della nuova era) a
tenebra (la fede, il cattolicesimo impregnato di Medio Evo). Tale inquadramento è riuscito invece a Hegel,
con la sua concezione dialettica della storia, manifestazione dello Spirito
Assoluto nel cui realizzarsi si dovrebbero risolvere le contraddizioni che la
storia ci offre: la decadenza e la rovina sarebbero la preparazione di una
nuova epoca dello Spirito, che rinascerebbe come Fenice dalle ceneri di ciò che
è irrimediabilmente trascorso.
Che questa “filosofia della storia”, a cominciare dal
concetto dello Spirito, sia pienamente soddisfacente, anche dal punto di
viseta strettamente laico, sarebbe tuttavia temerario affermare. Quello che possiamo dire con sicurezza,
guardando ai fatti, è che si riscontrano sempre nella storia popoli ascendenti contemporaneamente
a popoli in decadenza, destinati (aggiungo) ad esser conquistati e sottomessi
ai primi, fino a scomparire. Al mutamento
che è l’ascesa di alcuni si contrappone il mutare che è la discesa negli
Inferi di altri, il “lato negativo” del divenire storico, quello che più ci
colpisce.
“Il lato negativo di questa idea del mutamento ci
arreca dolore. Ciò che può deprimerci è
il fatto che la formazione più ricca, la vita più bella, trovino nella storia
il loro tramonto, che noi ci aggiriamo fra le rovine di ciò che fu
eccellente. Da ciò che è più nobile e
bello, e a cui ci lega l’interesse, la storia ci strappa: le passioni lo hanno distrutto, esso è transeunte. Tutto appare caduco, nulla stabile. Ogni viaggiatore ha sentito questa
malinconia. Chi avrebbe potuto fermarsi
tra le rovine di Cartagine, Palmira, Persepoli, Roma, senza esser mosso a
considerazioni sulla caducità dei regni e degli uomini, a rimpianto per la
forte e ricca vita di un tempo?
Rimpianto che non si attarda, come presso la tomba di esseri amati, su
perdite personali e sulla caducità dei fini propri, ma che è disinteressato
dolore per il tramonto di una splendida cultura umana”(Hegel).
Chi, meditando tra le rovine del Foro Romano, non ha
mai provato pensieri simili, in modo più o meno cosciente? Si vedono solo lastroni di sconnessa pietra,
sul selciato ove sfilavano le legioni celebrando i loro trionfi, e di quei
remoti tripudii resta nel ricordo attònito solo la frase (oh, quanto vera!)
sussurrante al console vincitore la caducità delle umane vicende, pronunciata
dallo schiavo al séguito, secondo il protocollo: “Hominem te esse memento! Memento mori!”.
* *
La gloriosa monarchia danubiana era dunque giunta alla
fine dei suoi giorni. Avevano ragione tutti
coloro che ne paventavano il crollo in una futura guerra europea, da Bismarck a
studiosi e politici europei di varie nazioni (May). Auspicato da pochi, temuto da molti, il
crollo alla fine arrivò e vi contribuirono anche gli errori della classe di governo
austro-ungarica (e quelli, più gravi, dei generali tedeschi, Ludendorff in
testa, che dirigevano di fatto la politica del loro paese in guerra e
prevalevano sull’alleato). Che l’impero
asburgico fosse ancora vitale, capace di sopravvivere, però in forma ridotta e
con una struttura federale, simile a quella di un Commonwealth, e quindi non più come la grande potenza di un
tempo, ma comunque sempre di dimensioni rispettabili, lo dimostra il fatto che
combattè tenacemente per tutta la durata della guerra, quattro anni e tre mesi,
sino alla consumazione finale. L’Esercito
Imperiale e Regio fu l’ultima istituzione a cadere, ma sul campo. Si battè
tenacemente e valorosamente ma le crepe nell’edificio e i suoi limiti erano
ormai evidenti. Mostrò di non avere le
forze sufficienti per sconfiggere da solo nessuno dei suoi nemici, nemmeno
quelli di inferiore caratura, come l’Italia, la Romania, la Serbia. Da solo,
vinse alcune battaglie minori contro i serbi, i montenegrini, i russi e diverse
battaglie difensive, sempre contro i russi e contro di noi. Obbligò i montenegrini a capitolare e ci
costrinse ad abbandonare Durazzo, occupata durante l’evacuazione dell’esercito
serbo nel 1915, alla quale la Regia Marina aveva dato un contributo fondamentale.
Ma nelle
offensive importanti, da solo fallì sempre.
Nel ’14, contro la Serbia, dopo i successi iniziali subì nettamente la
controffensiva nemica, su un terreno aspro e difficile. La Serbia fu sconfitta (non definitivamente)
nel ’15 ma con l’aiuto determinante di tedeschi e bulgari. Nel ’16, partecipò alla rotta inflitta ai
romeni, assieme ai tedeschi, che svolsero il ruolo principale e decisivo. A Caporetto, fu tedesco l’audace e geniale
piano d’attacco nell’Alto Isonzo, dove lo sfondamento di un punto mal protetto
della nostra linea avrebbe permesso di prendere alle spalle, scendendo lungo
l’Isonzo o il Tagliamento, tutto il nostro fronte, schierato a semicerchio sino
al mare e in gran parte al di là dell’Isonzo e sull’arco alpino. Senza le sette divisioni scelte tedesche (che
assieme a sette scelte austro-ungariche formarono la leggendaria XIV armata
mista – vera e propria élite della fanteria mondiale – protagonista dello sfondamento, comandata dal generale
tedesco Otto von Below) un’offensiva di quel calibro non si sarebbe nemmeno
potuta concepire. Le offensive del
maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, il nostro implacabile nemico, condotte
con le sue sole forze sugli Altipiani fallirono per ben tre volte: nel maggio-giugno
del ’16 (la più imponente, la c.d. Strafexpedition), nell’autunno del
’17, nell’estate del ’18, così come fallì l’offensiva finale generale del
giugno del ’18 (vedi supra).
Contro i russi, l’Imperiale e Regio subì per due volte disfatte
impressionanti, riuscendo a riprendersi (ma forse mai del tutto dalla prima) e
a passare alla vittoriosa controffensiva solo in cooperazione con i tedeschi. Sul fronte orientale si ebbero casi di singoli
reparti slavi, soprattutto cèchi, che si arresero senza combattere “ai loro
fratelli slavi”. Contro di noi, l’Imperiale
e Regio vinse tutte le battaglie difensive, le famose, terribili “battaglie
dell’Isonzo”, tranne una, la sesta, quella che portò alla nostra
conquista di Gorizia, allora importante piazzaforte sulla frontiera con il
Regno d’Italia, nell’estate del 1916. E
fu portato sull’orlo del collasso dall’undicesima, evitato anche grazie
all’errore del generale Capello, che non sostenne a sufficienza l’attacco
principale, sull’arido altopiano della Bainsizza, nel momento decisivo.
L’impero non
aveva in realtà le forze per dominare tre fronti contemporaneamente (orientale,
balcanico, alpino e isontino ossia italiano); ce l’aveva per tenerli,
difendendoli accanitamente anche se a fatica ma non per piazzare con le sue
sole forze un colpo risolutivo in uno di questi tre. Nell’undicesima battaglia dell’Isonzo,
l’esercito italiano, sia pure con le consuete alte perdite, del resto tipiche
di quella guerra di posizione su tutti i fronti, aveva aperto una breccia nello
schieramento nemico sull’arido altopiano carsico della Bainsizza, penetrando a
cuneo per circa 12 km nel punto massimo temporaneamente raggiunto (distanza notevole per le avanzate sanguinosissime
ma striminzite di allora) e occupandolo in gran parte, sospingendo pertanto il
nemico verso il bordo dell’altopiano stesso, una fascia poco profonda, al di là
della quale si aprivano avvallamenti coperti da boschi e scarsi d’acqua (il
Vallone di Chiapovano) nei quali un esercito non avrebbe più potuto retrocedere
e riorganizzarsi. L’Imperiale e Regio riuscì con grande tenacia e valore
a ricostituire una precaria linea e a bloccarci. Convinti i generali austriaci
di non poter più resistere alla prossima offensiva italiana, che l’implacabile
Cadorna avrebbe sicuramente sferrato nonostante la forte usura delle sue
truppe, l’imperatore Carlo richiese l’aiuto tedesco per una spallata di
alleggerimento nei confronti degli “italiani spergiuri”. Nacque così
l’offensiva che sfondò a Caporetto, 12a
battaglia dell’Isonzo, un’azione
limitata che gli strateghi tedeschi trasformarono in un colpo da K.O.; ben
riuscito, grazie anche alla perfetta preparazione e alla totale sorpresa sia
tattica che strategica realizzata nonché alla fortuna (la fitta nebbia che per
giorni impedì alla nostra ricognizione aerea di scorgere la grande
concentrazione nemica in formazione); colpo che tuttavia non eliminò affatto
l’Italia dalla guerra (come continua a ripetere una vulgata bugiarda e
disonesta), tant’è vero che fu sempre lo stesso Regio Esercito, due settimane
dopo Caporetto, a inchiodare gli austro-tedeschi sul nuovo fronte, retrocesso
in tutta fretta di circa 120 km ma raccorciatosi di 200, il fronte del Piave e
del Grappa (vedi supra). “Il generale Konopicky, capo di stato maggiore
del fronte sud-ovest (Arciduca Eugenio)[il fronte dell’Isonzo] e quindi buon
testimone, scrisse, dopo la battaglia d’arresto sul Piave e sul Grappa:
‘Sarebbe sembrato incredibile che un Esercito, il quale usciva da una così
immane catastrofe, potesse tanto rapidamente risollevarsi” (Faldella}.
Il ridimensionamento dell’Austria quale grande potenza
cattolica e fulcro dell’equilibrio europeo, cominciato già da quando dovette
mutarsi in Austria-Ungheria, risulta anche dall’analisi degli obbiettivi di guerra.
Vienna non voleva certamente imbarcarsi in una guerra all’ultimo sangue
contro l’impero russo, per di più sorretto da altre grandi potenze. Tuttavia si era invischiata nel ginepraio
balcanico. Voleva liquidare il problema serbo soggiogando militarmente la
Serbia e il suo alleato montenegrino in modo da rafforzare ed estendere la sua
influenza nei Balcani e ridimensionare le pretese della componente slava del
suo impero, tenendovi fuori la Russia, che esercitava una forte attrazione
sull’elemento cèco. Oltre a sottomettere Serbia e Montenegro, essa mirava anche
ad occupare tutta l’Albania, escludendovi l’Italia, acquistando in tal modo la
supremazia completa nell’Adriatico. I
suoi obbiettivi essenziali erano prevalentemente balcanici e adriatici,
connessi alle questioni sorgenti dal difficile rapporto tra slavi e tedeschi e
alla necessità di tenere lontana l’Italia (oltre alla Russia, si capisce) dagli
sbocchi dell’Adriatico e dagli stessi Balcani. Intrecci strategici comunque complessi, che
Vienna non aveva ormai più la capacità di risolvere con le sue sole forze. Come
già nel 1909, quando annettè la Bosnia, dovette appoggiarsi fortemente
all’alleato tedesco, che alla fine la trascinò nella guerra europea (tra
l’altro contro gli inglesi, tradizionali alleati della duplice monarchia) e
nell’alleanza sciagurata, contro natura possiamo dire, con l’impero ottomano. Il
5 agosto del ’14, come si ricorderà, l’Austria-Ungheria dovette dichiarare a
sua volta guerra alla Russia. Il 7 il
Montenegro le dichiarò guerra, l’11 la
Francia, il 12 la Gran Bretagna, il 25 agosto il Giappone, che il 23 aveva
dichiarato guerra alla Germania.
Gli obbiettivi espansionistici di Vienna, in sostanza
il dominio dei Balcani e dell’intero Adriatico, pur rilevanti, erano tuttavia
modesti in confronto a quelli dei suoi imperiali alleati.
Il programma di pace che circolava nella dirigenza
tedesca, dopo l’auspicata vittoria, era il seguente.
“La Francia avrebbe dovuto cedere Belfort, la linea
delle fortezze in Lorena, da Verdun a Toul e ad Épinal, la costa da Dunkerque a
Boulogne, e soprattutto il bacino di minerale ferroso di Briey-Longwy,
indispensabile allo sviluppo dell’industria metallurgica tedesca; avrebbe
firmato un accordo commerciale che l’avrebbe messa ‘alle dipendenze economiche
della Germania’. Il Belgio avrebbe
dovuto cedere Liegi, forse Anversa; sarebbe divenuto uno “Stato vassallo” che
avrebbe ospitato guarnigioni tedesche e sarebbe entrato nel “sistema economico”
tedesco. Il Lussemburgo sarebbe stato
unito all’Impero tedesco. L’Olanda
sarebbe rimasta, all’inizio, indipendente, ma avrebbe dovuto contrarre “strette
relazioni” con l’Impero. Ad Est, i
popoli “non russi” (polacchi, lituani, ruteni [etnicamente ucraini]) sarebbero
stati separati dall’Impero russo e avrebbero formato una zona di
Stati-cuscinetto, che avrebbe tenuto la Russia lontana dalle frontiere
tedesche. In Europa centrale, la Germania avrebbe costituito un’unione doganale
che avrebbe compreso non solo l’Austria-Ungheria ma la Francia, il Belgio,
l’Olanda, la Danimarca e i territori polacchi.
L’Africa centrale sarebbe diventata una colonia tedesca.
Nonostante l’esito della battaglia della Marna [dove
la loro travolgente avanzata iniziale verso Parigi fu bloccata e respinta], i
dirigenti tedeschi non abbandonano questo programma. In un rapporto del 6 ottobre 1914,
l’ambasciatore austro-ungarico a Berlino constata che nessuno, in questi
ambienti, rinuncia alla convinzione che la Germania potrà sconfiggere non solo
la Francia, ma anche la Russia e la Gran Bretagna.
A Parigi, a Londra, a San Pietroburgo, la vittoria
della Marna ha destato speranze che durano anche al termine della “corsa al
mare” [allorché i due eserciti contrapposti estesero il fronte sino al mare,
cercando ognuno di aggirare l’ala scoperta dell’altro senza riuscirci e stabilizzando
il fronte nella guerra di posizione, che sarebbe durata quattro anni]. I discorsi tenuti negli incontri tra
Delcassé, ministro degli Affari esteri francese, e l’ambasciatore russo, a
Parigi, e tra Nicola II e l’ambasciatore francese a San Pietroburgo, testimoniano di parecchie
illusioni. La Francia, dice Delcassé,
non vuole solo recuperare l’Alsazia-Lorena;
essa auspica “la distruzione dell’Impero tedesco”. La Russia vorrebbe ottenere una parte della
Prussia orientale, la Poznania, la Galizia e il Nord della Bucovina; spera di
regolare a proprio vantaggio la questione dei distretti ottomani [vuole cioè
Costantinopoli e gli Stretti]; dà per scontato lo smembramento
dell’Austria-Ungheria [la Russia già possedeva parte notevole della Polonia, i
paesi baltici, la Finlandia, l’Ucraina, la Bessarabia, quest’ultima regione contesa dalla Romania].
Nonostante l’equilibrio delle forze che si è stabilito
sul fronte della battaglia, in Francia e in Russia, dopo vicende che hanno
finito per neutralizzarsi reciprocamente, nessuno pensa alla pace”(Renouvin).
Era troppo presto, per pensarvi, ma è pur vero che si
era già entrati nell’ottica dell’annientamento totale dell’avversario. L’Italia è stata spesso criticata per le sue
pretese territoriali, dovute accettare nel 1915 dalle Potenze dell’Intesa,
militarmente in difficoltà, quando fu stipulato il Patto di Londra. L’Italia sarebbe stata egoista e megalomane
perché convinta di dover recitare il ruolo della Grande Potenza e gli altri
all’opposto pieni di buon senso, correttissimi e moderati nelle loro pretese
avrebbero dovuto poverini cedere ai nostri ricatti? Ma di chi stiamo parlando? I francesi, che non
volevano inizialmente concederci Trieste o i politici inglesi che, in privato,
lanciavano insulti sanguinosi ai politici italiani, tutti e due poi a difendere
virtuosamente la lettera del Trattato, nel ’19 a Versailles, in appoggio a
Wilson, a noi quasi sempre ostile, e ai serbi, perché effettivamente non vi si
parlava di Fiume, richiesta aggiunta da noi alla fine della guerra, avendo la
maggioranza italiana della città richiesto l’annessione al Regno d’Italia (vedi
supra) – questi difensori della morale internazionale si erano già messi
d’accordo in segreto nel 1916 (accordo Sykes-Picot) per dividersi tra loro le
spoglie opime dell’impero ottomano in tutto il Medio Oriente, la penisola
arabica, il Golfo Persico. Il testo
dell’accordo segreto fu rivelato dai bolscevichi, una volta al potere. I russi, che ne erano a conoscenza, non vi si erano opposti perché la
loro parte dell’auspicato bottino comprendeva nientemeno che Costantinopoli e
gli Stretti, quale piatto principale..
Ma cosa ci concedeva il famoso Patto segreto, se
andiamo a rileggerlo? Il Trentino, il
Tirolo cisalpino cioè l’Alto Adige sino al Brennero sua frontiera naturale (da
sempre porta d’ingresso dell’Italia, privilegiata da tutti gli invasori,
frontiera strategica irrinunciabile per noi), Trieste, Gorizia, Gradisca, tutta
l’Istria sino al Quarnaro (senza Fiume) e una serie di isolette istriane, parte
della Dalmazia con una serie di isole (art. V).
Insomma, la frontiera naturale sino all’Istria + un pezzo di Dalmazia.
Inoltre: Valona, l’isola di Saseno e un territorio (albanese) sufficiente ad
assicurarne la difesa (art. VI). Contro
la Turchia: la piena sovranità delle
isole del Dodecaneso, già occupate nel 1911, durante la guerra conclusasi con
la conquista di fatto della Libia, consolidata solo negli anni venti (art.
VIII); l’occupazione della provincia di Adalia, sulla costa turca, dove avevamo
già diritti e interessi, se le altre Potenze avessero occupato la Turchia
asiatica [ossia l’Anatolia] durante la guerra (art. IX.3).
Poteva sembrare eccessivo volere Trieste con tutta
l’Istria sino al Quarnaro (senza Fiume) e una parte di Dalmazia. Tuttavia, per difendere adeguatamente Trieste
almeno una parte della costa occidentale dell’Istria era necessaria. Comunque,
non si parlava di smembrare l’impero asburgico ma solo di ritagliarsi tutta una
serie di territori indispensabili alla sicurezza delle nostre frontiere, tranne
la Dalmazia, dove c’erano però antiche e laboriose comunità italiane da
proteggere. Si mirava evidentemente a
stabilire un forte perimetro difensivo, che aveva un suo perno marittimo in
Valona, sulla costa albanese, antica porta d’accesso all’Adriatico, che noi
volevamo in nostre mani per difendere i 700 km di indifendibile piatta costa
adriatica. Le altre parti della costa adriatica venivano attribuite a Croazia,
Serbia, Montenegro, Albania, con ampi tratti dichiarati smilitarizzati. Di fatto,
l’Austria-Ungheria veniva di fatto ricacciata all’interno, mantenendo però Fiume,
che restava croata. Ma non si parlava di
distruzione della Duplice Monarchia. Anche le nostre pretese contro l’impero
ottomano erano ben lungi dal rappresentarne il dissolvimento. A ben vedere, i
nostri obbiettivi di guerra, pur abbastanza ampi, erano più moderati di quelli
degli altri. Per l’esercito serbo il
confine del loro futuro Stato jugo-slavo o degli slavi meridionali avrebbe
dovuto essere ben al di qua dell’Isonzo, al Natisone, a pochi km da Udine
(Galli).
Né si può dire che le nostre richieste fossero al di
là del giusto in quanto ispirate unicamente dal malsano desiderio di affermarsi
come “grande potenza”, endiade che pur risuonava (ahimè) nella retorica dei
nostri politici. L’aspirazione a
ristabilire le nostre frontiere naturali su tutto l’arco alpino sino all’Istria
rientrava sempre in una visione prettamente difensiva, allo stesso modo del
possesso di Valona e della Dalmazia del Nord.
Tuttavia, con queste ultime due andavamo ad occupare territori altrui,
anche se in Dalmazia c’erano folte nostre, antiche comunità (espulse poi in
massa dalla Jugoslavia comunista alla fine della II gm, con i sistemi barbari
della ben nota “pulizia etnica” di marca staliniana). La strategia difensiva diventava allora
offensiva, sviluppo difficile da evitare, che comunque, come si vide in
séguito, avrebbe potuto esser negoziato e limitato con il nuovo Stato jugoslavo. L’eventuale eccesso di pretese da parte nostra
appare ad ogni modo poca cosa rispetto agli appetiti dimostrati dalle Potenze
imperiali, Francia inclusa, essendo anch’essa fornita di un vasto impero coloniale,
e da certe altre potenze, minori ma non per questo meno voraci. A Versailles non ottenemmo né Fiume né la
Dalmazia, dopo violenti litigi con i Tre Grandi. Si cominciò a parlare, sulla stampa
benpensante, di “vittoria mutilata”, una convinzione che si diffuse
spontaneamente, trasformata poi da D’Annunzio in un mito politico dalle
potenzialità eversive.
8.1 Contro tutta la propria storia, la
Duplice Monarchia si trovò alla fine a dover sostenere il megalomane
espansionismo panturco dei Giovani Turchi,
nemici spietati dei cristiani.
La Germania, nella sua ambiziosa politica di espansione
imperiale a tutto campo, aveva coinvolto nel suo gioco l’impero ottomano. Il “ grande malato d’Europa”, come veniva
chiamato, era stato mantenuto in vita con l’accordo reciproco delle Potenze,
nella sua parte anatolica ed asiatica, con l’appendice trace, al fine di
lasciargli il controllo degli Stretti –
gli Stretti cerniera contro l’espansionismo russo, da tutti temuto. Nello stesso tempo, “il grande malato” doveva
lasciare spazio alla penetrazione tedesca in altre parti del suo impero, nel
Medio Oriente e in Mesopotamia, dove c’erano le fonti di petrolio, scoperto da
non molto, anche in Iran (ed entrato in circolazione come bene strategico da
quando la Royal Navy aveva cominciato a sostituirre nelle sue navi i
motori alimentati da caldaie a carbone con quelli alimentati a nafta). Ma anche gli osmanlı (dal nome del
loro primevo capotribù turco medievale Osman, iniziatore delle conquiste, ottomani
nella versione occidentale), avevano le loro esigenze ed ambizioni, cui
bisognava concedere spazio. In un ultimo
sussulto prima della morte per mano soprattutto dei britannici, l’impero ottomano
potè riprendere i suoi tradizionali, grandiosi e anticristiani piani di
conquista e questo grazie all’appoggio di due imperi formalmente cristiani, uno
dei quali cattolico, da secoli difensore della vera fede.
Dopo mesi di preparazione, il 2 agosto del 1914 fu
stipulato un trattato segreto tra la Germania e il governo di Enver Pascià,
esponente del Comitato dei Giovani Turchi, la formazione politica
rivoluzionaria che, ispirandosi all’Occidente, stava tentando (dalla rivoluzione
del 1908, che aveva imposto al Sultano una costituzione) di riformare il decrepito
impero, ricorrendo anche all’uso della violenza. Il trattato “contemplava, tra
altre cose, la pianificazione di una comune strategia difensiva e offensiva da
attuarsi in collaborazione con l’Austria, potenza che aderì anch’essa al patto”
(Rosselli). Data la lentezza della mobilitazione
turca, si stabilì che all’inizio i turchi si sarebbero dichiarati neutrali, per
intervenire in un secondo momento. Due
incrociatori tedeschi, il Goeben e il Breslau si rifugiarono a
Costantinopoli, all’inizio della guerra, dopo aver bombardato basi francesi in
Algeria. Ma trovarsi nella zona degli
Stretti era vietato alle navi da guerra straniere dai trattati
internazionali. Così furono acquistati
dal governo ottomano e battezzati con nomi turchi. Il 29 ottobre, assieme ad
unità ottomane bombardarono basi russe nel Mar Nero. La Russia allora dichiarò guerra all’impero
ottomano, l’1 novembre 1914, seguita il 5 da Francia e Gran Bretagna (Rosselli).
Ma com’ erano gli obbiettivi di guerra dei
turchi? Amplissimi: “La riconquista dei territori caucasici
occupati dagli zaristi nel 1878, l’invasione delle provincie mussulmane
transcaucasiche e della Persia settentrionale [Azerbaigian persiano],
l’occupazione dei porti russi del Mar Nero (Poti, Suchumi e Batumi) e quella
dei grandi campi petroliferi di Baku sul Mar Caspio” (Rosselli).
Per quanto concesso dalle circostanze, si trattava
della ripresa in grande stile del tradizionale espansionismo osmanlı. Il vero fondatore del grande impero turco, il
Sultano Mehmed Fâtih, ossia Maometto II il Conquistatore, colui che
prese Costantinopoli nel 1453 dopo un drammatico assedio di 53 giorni, ed estese
il dominio turco in Anatolia e in Europa sino al Danubio, da Belgrado alla foce
del grande fiume, morto nel 1481, si dichiarava
“Signore delle due terre”, l’Anatolia e la Rumelia (nome ricomprendente
tutta la parte europea dei suoi domini) e “Signore dei due mari”, il
Mediterraneo e il Mar Nero (Inalcik; Babinger).
Gli ottomani per secoli avevano perseguito il tentativo di fare del Mar
Nero un lago turco e c’erano in pratica riusciti, con la dominazione diretta e
gli Stati vassalli, ma nella seconda metà del Cinquecento cominciò a
affacciarsi verso quelle rive la potenza del nuovo Stato russo, la Moscovia
scòssasi alla fine dalla sudditanza ai mongoli: contro i turchi lanciò armate
composte in prevalenza da cosacchi e divenne il loro nemico più accanito e
spietato. I Giovani Turchi, riorganizzati
i loro eserciti dai tedeschi e in misura minore dagli austriaci, potevano
riprendere dunque l’espansione ottomana verso il Mar Nero, il Caucaso, oltre il
Caucaso, verso il Caspio e nella Persia
settentrionale, antico e implacabile loro rivale la Persia sciita (essendo i
turchi sunniti), dichiaratasi allo scoppio della Grande Guerra subito neutrale
ma nonostante ciò rapidamente occupata da forze russe nel nord del paese e
britanniche nel sud. Questo perché la
Persia si era scoperta ricca di petrolio, della cui estrazione la britannica Anglo-Iranian
Oil Company aveva ottenuto il monopolio.
Nel rimanente dell’ancor vasto impero osmanlico
(comprendente, oltre all’Anatolia con l’Armenia, il Medio Oriente sino alla
penisola del Sinai, la penisola arabica, l’odierno Irak, chiamato Mesopotamia
dagli occidentali) si riteneva sufficiente una tenace difensiva (sotto la
supervisione tedesca) contro l’articolata offensiva montata dai britannici, che
attaccarono in modo sistematico e senza mai mollare l’osso su tre direttrici:
dall’Egitto, ufficialmente dichiarato loro protettorato, lungo la costa
libanese, verso la Palestina; dall’Arabia, occupando lo Yemen e organizzando la
guerriglia araba sotto il comando del colonnello Lawrence; dalla Mesopotamia,
muovendo lentamente dal delta del Tigri e dell’Eufrate verso Nord, prendendo
Bagdad nella primavera del 1917. Nell’ottobre del 1918, dopo quattro anni circa
di guerra, raggiunsero il confine tra Turchia vera e propria e mondo arabo,
dove la ferrovia Berlino-Bagdad si biforcava da un lato verso Damasco e Medina,
dall’altro proseguendo per la futura capitale dell’Irak (Rosselli). Furono campagne molto dure, anche a causa dei
fattori ambientali. I britannici subirono anche una pesante sconfitta, quando
persero un’intera armata (anglo-indiana) a Kut in Mesopotamia, in parte
decimata dalle malattie, nella fase iniziale della lotta. Ma, con la loro proverbiale tenacia e
organizzando metodicamente le grandi risorse del loro immenso impero grazie al
dominio dei mari, alla fine annientarono completamente l’apparato militare turco,
impadronendosi dei Luoghi Santi, di Amman, di Damasco, attestandosi all’ormai indifeso
confine meridionale della Turchia vera e propria, che a quel punto capitolò.
I Giovani Turchi commisero anch’essi l’errore di
estendere le loro ambizioni su obbiettivi troppo vasti, privilegiando l’avanzata verso il Caucaso e
l’Asia centrale a scapito di tutto il resto. Ma l’espansione caucasica e
trans-caucasica, pur guidata dall’esigenza di impadronirsi dei campi petroliferi
di Baku, corrispondeva alla loro ideologia, che accoglieva le istanze del
cosiddetto panturchismo o panturanismo. Vale a dire: costituire uno Stato, a guida turca,
che comprendesse tutti i popoli abitanti il cosiddetto Turan, ossia l’enorme
fascia che si estendeva dai Balcani e dalle coste del Mar Nero al Caucaso e
alle zone più lontane dell’Asia Centrale sino ai confini della Cina, abitata da
numerose popolazioni di etnia turca o turco-mongola. Si trattava di rifondare (ed estendere)
l’impero degli Osmanlı ma non più su base
dinastica e mussulmana bensì sul corpo della nazione turca che si voleva ricostruire
come Stato moderno sul suo bastione anatolico.
Un programma forse non lontano dalle ambizioni dell’odierna dirigenza
turca, considerata neo-ottomana perché intenta a rivalutare il passato
ottomano e mussulmano senza rinunciare al nuovo Stato (laico) creato dal kemalismo. Rispetto al passato, i neo-ottomani possono
pensare di includere nel Turan anche le folte e fedeli comunità turche
in Europa, in particolare in Germania.
Il turchismo fu elaborato dal pensiero politico
turco nei vivaci dibattiti che coinvolsero, tra fine Ottocento ed inizio
Novecento, gli intellettuali ben coscienti della crisi irreversibile
dell’impero e dei suoi valori tradizionali, fondati sulla sintesi di politica
di conquista e religione (la spada e il Corano). Per la rinascita, suggerì un intellettuale
tataro (della Crimea) emigrato in Turchia, Yusuf Akçura, bisognava rinunciare
alla fedeltà dinastica ottomana e al fondamento pan-islamico dello Stato e
impostare “una politica nazionale turca basata sulla razza turca”. Una simile politica avrebbe provocato “la
lealtà della razza turca dominatrice nell’impero e di tutti i milioni di turchi
viventi al suo esterno, in Russia e altrove” (Lewis). Si trattava quindi di creare una “nazione
turca” sino a quel momento inesistente.
Il multinazionale impero era infatti “ottomano”, osmanlı. Anche se i turchi ne costituivano l’etnia
dominante, una “nazione turca” territorialmente definita con una corrispondente
personalità giuridica all’interno dell’impero, non esisteva, e non esisteva
nemmeno nella mentalità dei sudditi del Sultano. Il turchismo, come ideologia, diffusasi
nell’Asia centrale dominata dalla Russia zarista (Feltrinelli-Fischer, vol. 16),
si poneva di per sé come panturchismo, ponendo la base di una nuova
visione imperiale, transnazionale e nello stesso tempo eversiva di tutti quegli
Stati che avessero al loro interno comunità o popoli turchi o affini ai turchi,
a cominciare dallo Stato russo e senza escludere quello persiano, che nel nord si
trova gli atzeri, popolazioni turche (Azerbaigian persiano, con capitale Tabriz).
L’esercito ottomano (il Sultano era ancora sul trono,
sarebbe stato dichiarato decaduto nel 1922 dalla Grande Assemblea Nazionale Turca
riunita ad Ankara, ora capitale della Repubblica Turca dichiarata dal 29
ottobre 1923, mentre il Califfato sarebbe stato abolito il 3 marzo del 1924) si
slanciò nel 1914-15 in troppo audaci e spericolate offensive nel Caucaso
subendo pesanti sconfitte dalle armate zariste.
Le aveva volute l’esaltato e militarmente incompetente Enver Pascià, uno
dei capi dei Giovani Turchi, contro il parere dei generali tedeschi (Pascià è
titolo onorifico, dato a civili o militari, equivale a Sir). Male armata ed equipaggiata, la III Armata
turca fu costretta dal megalomane Enver ad addentrarsi su più colonne
simultaneamente nelle montagne alte sino
a 5000 metri, in pieno inverno, con passi posti a 2000 metri di quota. Non riuscì a superare il Caucaso ed anzi fu
ricacciata indietro in una serie di disastrosi combattimenti, tra gli alti passi
montani innevati e le grandi foreste della zona, riducendosi da 160.000 uomini
a soli 18.000 in grado di combattere (Rosselli). Migliaia di soldati turchi morirono di
freddo, pare 25.000; il rimanente combatté con grande valore (i russi ebbero
16.000 tra morti e feriti), ma l’armata fu distrutta (33.000 morti in
combattimento e 10.000 negli ospedali, migliaia di prigionieri) durante le tre
settimane della Battaglia di Sarikamish (22 dicembre ’14 – 17 gennaio
1915), la cittadina dell’Anatolia orientale posta in una vallata dal valore
strategico essenziale, obbiettivo dell’avanzata turca. I Giovani Turchi persero successivamente anche
parte del territorio nazionale, nel nord-est, nonché il porto di Trebisonda. Anche in Persia l’offensiva ottomana
nell’Azerbaigian persiano fallì (The Battle of Sarikamish,
en.wikipedia.org).
L’esercito turco, pur antiquato, male armato e con un
corpo di ufficiali non all’altezza, tranne le eccezioni individuali, dimostrò
tuttavia di non aver perso le sue antiche doti di tenacia, coraggio, valore e
nemmeno, in certe circostanze, la sua tradizionale spietatezza. Conseguì anche qualche importante vittoria. Riuscì a bloccare a ridosso delle spiagge e a
costringere al reimbarco il folto corpo di spedizione britannico, con
contingenti francesi, sbarcato nella penisola di Gallipoli (marzo-dicembre
1915) nel tentativo di impadronirsi degli Stretti e aprire ai rifornimenti
alleati la via della Russia. Furono
combattimenti durissimi. I turchi, agli ordini del generale tedesco Liman von
Sanders, erano inquadrati da ufficiali e comandanti tedeschi accanto ai loro,
sorretti da specialisti e reparti d’artiglieria tedeschi e austriaci. Qui si distinse in particolare Mustafa Kemal
Pascià, onorato in seguito ufficialmente del titolo di Atatürk (“Padre dei
Turchi”), all’epoca tenente-colonnello, futuro artefice della riscossa
nazionale contro i greci che, subito dopo la fine della guerra mondiale,
avevano occupato parte consistente dell’Anatolia, e fondatore della Turchia
laica, nel 1922-23.
Gli armeni, da secoli sudditi ottomani, nella
condizione giuridicamente ed economicamente inferiore di “protetti” ossia dhimmi,
perché cristiani, anche se provvisti di qualche minima autonomia, furono
vittime di crudeli anche se saltuarie persecuzioni sotto gli ultimi sultani e
da parte dei Giovani Turchi, soprattutto dopo la prima guerra balcanica
(1912-1913), in conseguenza della quale gli ottomani persero definitivamente
tutta la parte europea del loro dominio, la Rumelia, tranne la Tracia a ridosso
degli Stretti. Gli armeni dovettero aderire
alla leva obbligatoria imposta a tutti gli altri sudditi dell’impero. Il loro comportamento in guerra fu leale. Ma
c’erano anche gli armeni confinanti, abitanti nell’impero zarista. Tra questi sudditi dello zar, i russi
crearono dei corpi franchi che combatterono nella citata battaglia. Ma tra le popolazion armene della zona,
angariate a più riprese dall’armata di Enver, spesso affamata e quindi dedita
al saccheggio e altro contro i villaggi locali, si crearono anche bande di tipo
partigiano, che appoggiarono l’esercito russo avanzante (Rosselli). Ciò fu sufficiente perché Enver Pascià desse
pubblicamente (e scorrettamente) la colpa della disfatta di Sarikamish al
“tradimento” degli armeni, già visti come un corpo estraneo in quanto
cristiani. Il loro contributo alla vittoria
russa era stato comunque del tutto marginale.
Ma il governo, creata questa sinistra leggenda, con la motivazione di
garantire la sicurezza del fronte contro una popolazione accusata di essere
infida e traditrice, fece iniziare la deportazione in massa degli armeni verso
sud, sino in Siria, tra violenze e massacri, deportati lasciati morire di fame
per via o in campi di concentramento, atrocità di ogni genere, nelle quali si
distinsero per efferatezza le bande a cavallo dei curdi da sempre acerrimi nemici
dei cristiani, inquadrate nell’esercito ottomano come cavalleria leggera: la deportazione assunse le forme di un vero e
proprio genocidio, nonostante le autorità turche negassero e neghino ancor oggi
di aver avuto un’intenzione sterminatrice (Rosselli).
Ma il crollo della Russia nel novembre del 1917 riaccese
inopinatamente le ambizioni dei Giovani Turchi, il cui governo aveva comunque
mandato alcune divisioni a combattere con gli austro-tedeschi sul fronte russo
vero e proprio. Il fronte del Caucaso
era ora tranquillo a causa del dissolvimento dell’avversario. Tuttavia, invece di inviare massicci rinforzi
in Tracia e soprattutto in Palestina, dove i turco-tedeschi erano in grave difficoltà
sotto la pressione sempre più forte dei britannici e della guerriglia araba da
loro organizzata, “Costantinopoli preferì approfittare del crollo russo per
scatenare una duplice offensiva verso l’Azerbaigian, con l’obbiettivo di
conquistare i pozzi petroliferi di Baku, e in direzione della Persia
settentrionale, riprendendo, nel contempo, la persecuzione contro i resti della
popolazione armena che si erano rifugiati proprio nelle impervie regioni caucasiche”
(Rosselli).
Tedeschi e turchi si installarono rapidamente nei
paesi caucasici, i tedeschi in Georgia, i turchi nell’Azerbaigian. Parte della
Georgia, paese in gran maggioranza cristiano, fu occupata dai turchi. Gli armeni venivano crudelmente sacrificati
alla rinnovata espansione turca e vani furono i tentativi dei generali tedeschi
di intervenire per proteggerli. Smirne,
ove esisteva una folta comunità armena, fu salvata dall’occupazione dell’esercito
turco, a quanto pare dall’intervento personale del generale Liman von Sanders
(Rosselli). Nella Caucasia, “unità
tedesche supplementari giunsero dalla Germania e altre truppe turche vi vennero
spedite da altri fronti. ‘I Turchi
stanno sacrificando tutta l’Arabia, la Palestina e la Siria a queste loro
imprese senza limiti nel Caucaso’, si lagnava col conte von Bernstoff, ambasciatore
di Germania a Costantinopoli, Liman von Sanders, Comandante in Capo delle
armate turche in Siria. La Turchia aveva
in animo di annettersi il Caucaso ed il Governo del Sultano, completamente
dominato da Enver Pascià [di fatto capo dei Giovani Turchi], inviò dei propagandisti
panturanici fin nel Daghestan e perfino in Crimea [tra le popolazioni tatare
ivi residenti]” (Fischer).
Nella propaganda panturchesca non è tuttavia da
credere che l’elemento religioso fosse assente, l’appello al patriottismo
“turco” si coniugava sempre alla guerra santa agli infedeli, dichiarata la
“guerra santa” (la famigerata jihad) dal Sultano (autonominatosi
Califfo, ossia Capo dei Credenti), quando il suo impero entrò in guerra contro
l’Intesa. I bolscevichi al potere in Russia aiutarono
inizialmente i Giovani Turchi con
l’invio di armi e rifornimenti e abbandonarono nelle loro mani le popolazioni
cristiane del Caucaso, protette in passato dalla Russia zarista. Del resto, il cristianesimo lo volevano anch’essi
estirpare dalla faccia della terra, al pari di ogni altra religione: perseguitavano e ammazzavano i cristiani
anche a casa propria, a cominciare dai preti ortodossi. Il governo bolscevico, con Trotskij ministro
degli esteri (Commissario del popolo agli Esteri), in esecuzione del durissimo
Trattato di pace di Brest-Litovsk imposto dagli Imperi Centrali (3 marzo 1918),
“restituì a Costantinopoli tutti i territori armeni conquistati dalle armate
zariste nel corso delle campagne del 1916 […] Lasciati al loro crudele destino
dai bolscevichi, gli armeni si ritrovarono costretti a combattere una battaglia
pressoché disperata. Nell’arco di poche
settimane, infatti, i reparti cristiani, furono sopraffatti dall’esercito e
dalla polizia turchi [molto più numerosi e meglio armati], coadiuvati
efficacemente dalle bande curde” (Rosselli).
La Germania era costretta ad appoggiare l’avanzata del
suo scomodo alleato turco verso le fonti di petrolio e non riusciva a far nulla
per fermare i massacri dei cristiani,
Idem per gli austriaci, peraltro assai meno presenti dei tedeschi in
quel teatro. È interessante ricordare
quanto aveva acquistato la Germania imperiale dalla pace imposta ai russi
sconfitti.
“La Quadruplice Alleanza [Germania, Austria-Ungheria,
Impero ottomano, Bulgaria] era padrona di un’estesa frazione dell’antico Impero
russo. Oltre ai territori consegnati
alla Germania dal Trattato di Brest (perché conquistati dalle truppe
tedesche: Polonia, Lituania, Curlandia,
Livonia ed Estonia) e alla Turchia (Kars, Batum, Ardagan) le armate delle Potenze Centrali avevano
occupato tutta l’Ucraina, inclusovi il Bacino del Don, ricco di ferro e
carbone, e tutto il Caucaso colle sue risorse petrolifere. Una fascia continua del paese, dal Golfo di
Finlandia e dal Baltico ai Mari Nero, di Azov e Caspio, comprendente circa 400.000
miglia quadrate [circa 640.000 km2] ed abitata da circa sessanta
milioni di abitanti, era caduta in mani straniere. Da essa proveniva una gran parte
dell’esportazione cerealicola russa, la maggior parte del petrolio ed almeno
l’80% del suo carbone e ferro, nonché la maggior parte del suo zucchero e del
suo tabacco. In essa erano inoltre
situati grandi centri dell’industria dell’acciaio, chimica e tessile”(Fischer).
Gli austro-ungarici erano dislocati in particolare in
Ucraina, territorio da loro occupato soprattutto per assicurarsi la produzione
granaria e agricola della regione, della quale avevano disperatamente bisogno, anche
se al di fuori dei loro interessi strategici immediati, concentrati nei Balcani
che ora, dopo la sconfitta della Serbia, del Montenegro e della Romania, essi
dominavano assieme ai bulgari potenza minore, tranne l’Albania, ancora tenuta
dagli italiani nella parte meridionale, e la Grecia, presidiata dall’Armata d’Oriente.
L’obbiettivo
dei turchi era quello “di occupare le regioni transcaucasiche ex-russe a forte
componente mussulmana, per poi continuare la marcia in direzione del Turkmenistan
e dell’Uzbekistan ormai sgomberati dalle forze zariste. Manovra quest’ultima assai temuta dal Comando
Supremo britannico che paventava un’infiltrazione turca in Asia centrale [zona
ricca di petrolio e materie prime, come ben sappiamo oggi]. Le divisioni di Costantinopoli dilagarono
quindi in Armenia, Azerbaigian e Georgia, approfittando dell’occasione per
sterminare le colonne di profughi e le residue bande armate armene che tentavano
disperatamente di mettersi in salvo”(Rosselli).
Arroccattesi nelle zone più impervie del Caucaso, le ormai sparute colonne
armene furono decimate e quasi sterminate dalle feroci minoranze mussulmane del
Caucaso, composte di tartari, atzeri (ivi).
Era in pratica un’avanzata nel vuoto, dal punto di
vista militare, quella dei turchi, essendosi dissolto l’esercito zarista, che
fino a quel momento aveva inflitto loro ripetute batoste, perdendo solo qualche
battaglia minore. Cominciò una complicata corsa a tre fra tedeschi, turchi,
britannici al fine di giungere per primi a Baku e ai suoi pozzi. Alla fine, strappata l’autorizzazione dei
tedeschi, la spuntarono i turchi, appoggiati anche dai nazionalisti mussulmani
atzeri. Occuparono Baku, abitata per
metà da cristiani, che venne proclamata il 18 settembre 1918 capitale del nuovo Stato azerbaigiano
indipendente. Nel voler insistere con la
sua offensiva transcaucasica, militarmente poco impgnativa, Enver Pascià aveva
visto giusto, dunque. La nascente
Turchia, ufficialmente ancora ottomana, era riuscita a metter le mani sui
ricchi giacimenti di Baku, al tempo tra i più importanti al mondo. Non solo, era ora riuscita ad occupare anche
la Persia settentrionale, con la città di Tabriz, e si era spinta sino al
Caspio meridionale, per occuparvi un importante porto, anticipata tuttavia da
un piccolo corpo di spedizione inglese proveniente dalla Mesopotamia (Rosselli).
Ma la soddisfazione dei Giovani Turchi per i successi
caucasici e persiani durò assai poco. L’esercito ottomano di Palestina era denominato
Gruppo d’Armate Yildirim, ossia “folgore”, soprannome del Sultano
Bajazet I, il conquistatore della Bulgaria e della Valacchia, il trionfatore a
Nicopoli sull’esercito “crociato” che veniva a soccorrere Bisanzio, preso
prigioniero da Tamerlano dopo una terribile disfatta ad Ankara, il 27 luglio
del 1402, suicidatosi l’anno dopo in prigionia.
Quest’esercito era integrato da quadri
e soldati tedeschi e austriaci (tre reggimenti tedeschi di fanteria e
specialisti vari più l’aviazione, costituenti l’Asien-Korps e reparti
austriaci di specialisti nonché di artiglieria campale, da montagna, mortai,
presenti anche a Gallipoli), Il suo comandante era il citato generale tedesco
Liman von Sanders (Liman Pascià). Il Gruppo d’Armate (struttura mutuata
dagli eserciti austro-tedeschi) fu in pratica abbandonato a se stesso, e
finì con l’esser annientato nella battaglia
di Megiddo, in Palestina, iniziata il 16 settembre 1918: furono distrutte due sue armate su tre. I britannici (inglesi, australiani,
neozelandesi, indiani, sudafricani, con aggregato un piccolo corpo di
spedizione francese) avevano una netta superiorità in uomini, mezzi, cannoni,
aerei ma il loro comandante, generale Edmund Allenby, seppe comunque manovrare
in modo brillante, scardinando rapidamente le difese turco-tedesche presso la
costa ed iniziando un inseguimento implacabile con la cavalleria, durante il
quale imperversarono l’aviazione inglese e australiana, che fecero strage delle
lunghe colonne in ritirata, nelle quali si mescolavano soldati turchi,
tedeschi, austriaci (Yildirim Army Group; Asia Corps; en.wikipedia.org).
Dopo Megiddo, gli ottomani persero rapidamente
Palestina e Siria mentre dalla Macedonia unità dell’Armata d’Oriente erano ormai
giunte alle porte di Costantinopoli. A
questo punto, il governo ottomano chiese ed ottenne un armistizio, in cambio
della resa incondizionata. Dopo tre
giorni di colloqui esso fu firmato il 30 ottobre sulla corazzata britannica Agamemnon,
ancorata davanti al porto di Mudros nell’isola di Lemno (Armistizio di Mudros.
Gli esponenti principali del governo dei Giovani Turchi intanto fuggivano su
una motosilurante tedesca verso il Mar Nero. “Una flotta alleata di sessanta
navi sfilò sotto i silenti cannoni dei Dardanelli e il 13 novembre si ancorò
nel porto di Istanbul […] L’8 dicembre una amministrazione militare alleata si
installò in Istanbul. Truppe alleate [francesi, britanniche e italiane]
occuparono diversi quartieri della città, fu stabilito dagli occupanti uno
stretto controllo sul porto, tramways, forze di difesa, gendarmeria e
polizia. L’8 febbraio 1919 il generale
francese Louis Franchet d’Espérey [comandante dell’Armata d’Oriente], allo stesso
modo di Mehmed il Conquistatore 466 anni prima, entrò nella città su un cavallo
bianco, donatogli dalla locale comunità greca” (Lewis – Secondo alcuni storici,
l’episodio del cavallo bianco sarebbe leggendario). L’entrata sul cavallo bianco voleva in ogni
caso simboleggiare che l’impero ottomano era caduto e finito – e sicuramente lo
era, a parte le entrate più o meno spettacolari dei suoi vincitori in
Costantinopoli. L’occupazione alleata
durò sino al 6 ottobre del 1923. L’art. 11 dell’armistizio di Mudros impose
agli ottomani di sgomberare Baku e ritirarsi da tutti i territori che avevano
occupato (Rosselli).
Cosa suggeriscono questi drammatici eventi storici,
lontani da noi solo poco più di un secolo, in relazione al tema che stiamo qui
trattando, ossia l’estinguersi della missione storica dell’Austria, antico e
glorioso Stato e impero cattolico? A
rimorchio delle megalomani ambizioni della luterana e laica Germania, peraltro
mai distintasi troppo in passato nella lotta contro l’Islam invasore, l’Austria
cattolica fu costretta a sostenere gli ultimi sanguinari conati imperiali,
sempre ferocememte anticristiani, di quello Stato ottomano nemico implacabile
della nostra fede e civiltà, da essa Austria per quasi quattro secoli
gagliardamente e con successo combattuto, da sola e in proficua unione d’armi
con la cattolicità orientale, soprattutto polacca e ungherese. Una sorta di riedizione in chiave moderna
della politica traditrice della cristianità posta in essere, come si è detto,
dal Re di Francia, Francesco I, quando nel 1536, messo alle corde dalla potenza
di Carlo V, stipulò appunto con il Sultano (Solimano il Magnifico) un’alleanza
operativa, tale da poter prendere tra due fuochi i domini mediterranei e
italiani degli Asburgo.
* *
La storia ci offre sempre le stesse dramatis
personae, come se in modo imperscrutabile ed arcano si realizzasse sempre
la medesima rappresentazione, il
medesimo archetipo tragico. Si
assiste al crescere e al rafforzarsi, in senso materiale e morale, di una determinata forma di società e di
Stato, il formarsi di un popolo che mostra determinate virtù. La crescita è dovuta
in parte alle circostanze esteriori, che agiscono con la forza di una necessità
cui ci si deve opporre senza discutere, mettendosi alla prova; in parte ad una
volontà di sopravvivenza e poi di dominio che si attua via via in forme più
razionali, creando rapporti e istituzioni secondo un principio d’ordine, a sua
volta al servizio di un determinato ideale.
Così quella società e quello Stato diventano l’attuazione
dell’idea della società e dello Stato, in quanto idea che caratterizza
tutto un periodo storico e il destino di un popolo. Dalla conquista, con le sue sofferenze,
brutalità e crudeltà, si passa per gradi al buon governo e alla crescita di una
civiltà, che, soprattutto nel caso di un impero, coinvolge anche gli sconfitti
di un tempo.
Ma poi comincia, in modo inizialmente sottile ed
indiretto, la decadenza. Circostanze esteriori nuove pongono problemi
che appaiono di difficile soluzione mentre la spinta interiore, la fede nei
propri ideali, la confidenza nella propria forza e la relativa coerenza di vita
cominciano a venir meno. Appaiono nuovi
nemici, più forti (la Germania unita attorno all’arcigna Prussia;
l’espansionismo russo – polo di forte attrazione per serbi e cèchi - sempre più
aggressivo nei Balcani, manifestazione di un disordinato ma possente sviluppo interno);
o più deboli, come lo Stato italiano unificato, tuttavia potenziali fonti di
guai, che si sarebbero puntualmente verificati.
Si modificano in modo irreversibile i rapporti economici a livello
mondiale, si impone l’industrializzazione massiccia, con i suoi grandi vantaggi
accompagnati tuttavia da molti e gravi mali.
I problemi politici interni più seri (quali il conflitto delle
nazionalità) si rivelano insolubili mentre la vita famigliare e i costumi
cominciano a decadere (segno infallibile, la cosiddetta emancipazione della
donna). La religione si sfilaccia da un
lato nell’agnosticismo, dall’altro nel formalismo mentre visioni del mondo ad
essa ostili, come il marxismo e il positivismo, prendono sempre più piede,
favorendo lo sviluppo di una mentalità utilitaristica, materialistica, avversa
ai fondamenti stessi di una società cristiana e nello stesso tempo portatrice
di un suo allucinato messianesimo secolare, incentrato sul mito del progresso e
del trionfo della scienza. In nome della
libertà e di una più matura coscienza di sè, spesso illusoria e spesso maschera
di un feroce narcisismo, l’ugualitarismo comincia ad erodere il principio di
autorità, senza il rispetto del quale nessuna società può mantenersi. Nella classe dirigente la percezione della
crisi comincia a sedimentare ma la si respinge, cercando di attribuire la crisi
stessa a fattori solo occasionali, emendabili con riforme o conquiste. Quest’autoinganno non funziona: comincia ad
insinuarsi, a vari livelli, l’angosciosa sensazione che la decadenza di quella
bella forma di Stato e di società, cristallizzata in costumi civili che si
credevano eterni, sia ormai inarrestabile, la sua fine solo questione di tempo.
Lo spirito inquieto della minoranza intellettuale e artistica mescola il sacro
e il profano ossia la ragione con gli impulsi irrazionali più diversi, aprendo
la via al fondo più oscuro dell’animo umano.
Il giudizio storico, che contiene sempre una filosofia
della storia, è fatalmente in una certa misura antistorico dal momento
che conosce il risultato finale, sa già “com’è andata a finire”. Come scrisse Hegel, nel famoso passo della Prefazione
ai Lineamenti di filosofia del diritto, nel 1820, “come pensiero del
mondo, la filosofia appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta”. Perciò, “quando la filosofia dipinge a
chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso
non si lascia ringiovanire ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul
far del crepuscolo”. Nel riconoscere,
ci si sforza di trovare una logica, una razionalità che spieghi in modo convincente
l’accadere storico, che non è neutrale spettacolo o racconto libresco o mera
pantomima bensì v i t a di tutti noi, autentica vita vissuta, lo
sperare e il soffrire, le gioie e i dolori di un’umanità che è la nostra
stessa. Ma la lotta contro i nostri limiti per
giungere a cogliere il vero del passato, appare spesso indecisa. Si ha quasi sempre la sensazione che la
storia avrebbe potuto andare diversamente, se determinati errori non fossero
stati compiuti nel momento decisivo o se la fortuna fosse girata in altra
direzione. Nello stesso tempo, si ha la sensazione opposta, che le cose non
potevano andare diversamente, che quegli errori erano inevitabili, dato
l’incastro ormai immodificabile delle situazioni di fatto, delle passioni,
degli odi, dei grandi interessi, delle forze formidabili che si stavano
scatenando. Il dramma storico doveva esser evidentemente recitato in quel
modo e sino in fondo: i Giorni dell’Ira dovevano sopravvenire con
la Grande Guerra e la Rivoluzione Bolscevica, quattro imperi dissolversi,
un’intera generazione perire sui campi di battaglia.
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