Crisi della
Chiesa -
Perché continua il silenzio su 7Q5,
il frammento papiraceo di Qumran databile al 50 d.C. circa, contenente
Marco 6, 52-53 ?
di Paolo
Pasqualucci
Con
la montiniana riforma liturgica è
invalsa la cattiva abitudine di recitare
nella Nuova Messa testi evangelici mutilati delle parti sgradite alla laica e
miscredente mentalità moderna. Ben 22
tagli sono stati identificati da un eminente studioso tedesco. Inoltre, le traduzioni in volgare dei testi
delle Orationes da recitarsi durante
la suddetta Messa, hanno maltradotto od
omesso ad abundantiam, sempre al fine di introdurre una visione edulcorata e
quindi falsa del cattolicesimo, in teoria più gradita all’uomo contemporaneo.[1] La cattiva abitudine del far passar sotto
silenzio parti della Rivelazione e dell’Adorazione essenziali alle verità di fede si è applicata,
possiamo dire, anche al campo esegetico. Infatti, si è sepolta nell’oblío una scoperta, scientificamente
ineccepibile, che conferma quanto sempre sostenuto dagli studiosi cattolici,
già sulla base della stessa analisi interna dei testi: esser cioè i Sacri Testi che riferiscono i
detti e i fatti del Signore di poco posteriori alla conclusione della sua
vicenda terrena e comunque sicuramente anteriori alla distruzione del Tempio e
di Gerusalemme, iniziatasi il 29 agosto
del 70 d.C. da parte dell’esercito romano assediante la città.
La
scoperta di cui stiamo parlando è avvenuta all’inizio degli anni Settanta del
secolo scorso. Divenne nota al grande pubblico all’inizio degli anni Novanta per poi sfilacciarsi nell’oblío
di fronte all’opposizione tetragona
dell’esegesi accademica. Si tratta dei famosi Rotoli di Qumran, località
sul Mar Morto non lontana da Gerusalemme, trovati casualmente nel 1947 in alcune
grotte presso questa località, dove anticamente esisteva una Comunità di Esseni. Le grotte, hanno stabilito gli archeologi,
furono chiuse nel 68 d.C. Due anni dopo
che era iniziata la ribellione giudaica contro l’occupante romano, conclusasi
con l’Apocalisse del 70. L’insediamento
degli Esseni, in zona desertica presso il Mar Morto, abbastanza vicina a
Gerusalemme, constava di un complesso di edifici circondati da mura, una vera e
propria cittadella quadrata, simile a un articolato complesso conventuale o ad
un accampamento militare. All’indagine
archeologica il complesso appare esser stato distrutto, quasi sicuramente dai romani.[2]
I
diciotto testi della settima grotta,
tutti frammenti di papiri in greco, sottoposti ad accuratissime analisi, con i
più perfezionati sistemi moderni, hanno rivelato un frammento essere con
certezza praticamente assoluta Vangelo di Marco
6, 52-53. Inoltre, secondo lo
studioso scopritore, Padre José O’ Callaghan SI, 1922-2001, uno dei frammenti
(7Q4) contiene un passo di una Lettera di san Paolo: 1 Tim 3, 16 – 4, 3. Il papirologo gesuita propose anche la natura
neotestamentaria di altri otto frammenti: tre di Marco, uno degli Atti,
quattro di Epistole degli Apostoli (Thiede, pp. 49-53, vedi infra).
La
scoperta del frammento di Marco, come si è detto, è di enorme importanza: essa inficia praticamente l’esegesi
predominante ormai da quasi cinquant’anni, fondata sull’ipotesi non dimostrata
che i Vangeli siano tutti posteriori al 70 d.C.
Tale ipotesi, come si sa, è presente nell’ambito del razionalismo
protestante sin dal XIX secolo, e si è
affermata anche in campo cattolico, dagli anni Sessanta del secolo scorso. Inevitabile che su una scoperta che di per sé
everte la metodologia dominante, il mondo accademico ecclesiastico e non abbia
opposto la strategia del dileggio e del silenzio.
Il
passo di Marco riportato dal frammento è il seguente :
“Ed
erano tutti stupiti dentro di sè perché non avevano capito circa
i pani, ché il loro cuore era insensibile. E
compiuta la traversata , giunsero nella contrada di Gennesaret
e presero terra. Sbarcati che furono…” (Mc 6, 52-53)
La
versione italiana utilizzata è quella della Sacra Bibbia delle Edizioni
Paoline, anteriore al Concilio Vaticano II, leggermente modificata da me. Il testo in corsivo è quello ricostruibile in
base al frammento, il cui effettivo contenuto
ho cercato di rendere (per dare l’idea) nelle parti di parole in grassetto e
sottolineate. La parola-chiave, che ha permesso l’identificazione è stata
: Gennesaret.
Per
rinfrescare la memoria su questo importante evento, pubblico qui di seguito tre documenti:
1. una breve intervista al gesuita autore della scoperta,
effettuata nel 1996; 2. un
articolo di mons. Francesco Spadafora, 1913-1997, ordinario di esegesi alla
Lateranense, apparso su un numero di sì
sì no no del 1995; 3. Estratti dal breve saggio del prof. Carsten
Peter Thiede, 1952-2004, linguista e filologo, studioso del Nuovo Testamento, archeologo,
papirologo di fama internazionale, luterano convertitosi all’anglicanesimo, pubblicato
nei Subsidia biblica nel 1987, n.10, nel quale egli confermava
autorevolmente la scoperta di Padre José O’ Callaghan, grazie anche alla sua
eccezionale capacità di usare tecniche paleografiche ultramoderne, che
permettevano di intendere correttamente caratteri altrimenti poco leggibili.
1. Intervista a P. José O’
Callaghan, gesuita spagnolo, papirologo
dell’Istituto Biblico, apparsa sulla rivista ‘Teologica’, n. 2 (I),
Marzo-Aprile 1996.
“Il
frammento di Marco tra i manoscritti del Mar Morto” è stato il tema di una
conferenza organizzata dall’istituto italiano “Jacques Maritain” presso il
Pontificio Istituto Biblico di Roma.
Sull’argomento il Sir ha intervistato P. José O’ Callaghan, papirologo del Biblico e
autore dell’identificazione di alcune parole del Vangelo di Marco su un piccolo
frammento di papiro del 50 d.C. proveniente dalle grotte di Qumran, l’ormai
celebre località sulle rive del Mar Morto dove furono ritrovati nel 1947,
nascosti in alcune giare, numerosi rotoli con testi religiosi risalenti
all’epoca di Cristo.
D. Qual’è l’importanza di questa scoperta?
R. Il potere avere qualche papiro dell’anno 50
che corrisponde al capitolo 6 di Marco è molto importante perché rende minimo
il distacco tra i primi documenti del cristianesimo e la vita del Signore sulla
terra. Praticamente “tocchiamo” il
Signore, perché ci troviamo a pochi anni dalla sua morte come uomo.
La
datazione al 50 d.C. al massimo e l’identificazione delle venti lettere
contenute nel frammento con una sequenza del Vangelo di Marco è confermata da
molti studi, in particolare, la possibilità che non si tratti del Vangelo di
Marco, secondo un’analisi di tipo matematico effettuata dallo studioso catalano
Dou, è di 1 contro 36 milioni di miliardi.
D. Questo può servire a controbattere le tesi
secondo le quali Gesù sarebbe stato mitizzato nel tempo trascorso tra la sua
morte e le prime stesure scritte dei Vangeli?
R. Arrivando a pochi anni dalla morte di Gesù
dobbiamo accettare sempre una tradizione orale, ma non così lunga da far
pensare che, a causa delle esagerazioni
nel tramandare i racconti della sua vita, essi siano stati amplificati fino a
trasformarlo da uomo molto grande in Dio.
In altre parole, viene consolidata la storicità dei racconti evangelici.
D. Il frammento potrebbe confermare l’esistenza
della “fonte Q”, un protovangelo utilizzato nella stesura dei sinottici?
R. Non lo so!
Molti me lo hanno domandato.
Alcuni pensano che il Vangelo di Marco sia stato scritto nel 40 o nel
42. Io dico soltanto che questo papiro,
questo brano, è dell’anno 50 e potrebbe essere anche una fonte primitiva o la
fonte Q, ma siamo nel terreno delle ipotesi.
D. Qual è il senso scientifico e religioso di
queste ricerche?
R. Anche se la nostra fede non è modificata da
queste scoperte, è importante vedere che il cristianesimo non è soltanto una
fede fideista.”
Osservazione
del relatore, Paolo Pasqualucci : con
l’espressione “fede fideista”, che potrebbe sembrare ripetitiva, lo studioso
spagnolo voleva sicuramente dire che il cristianesimo, oltre a basarsi sulla
fede nell’autenticità della Rivelazione, si fonda su fatti sicuri, storicamente
accertabili ed accertati, con metodo scientifico.
2. Articolo di mons. Francesco
Spadafora apparso il 30 settembre 1995 su ‘sì sì no no’, con il titolo
: “7Q5 s’impone”e la firma ‘Paulus’, poi
ristampato nel volume : Mons. Francesco
Spadafora, La ‘Nuova Esegesi’, Les Amis de saint François de Sales,
Sion, CH – diffusione in Italia: Fraternità San Pio X, V. Trilussa 45, 00041
Albano Laziale (Roma), pp. 327-335.
Questo volume raccoglie 27 articoli di Mons. Spadafora apparsi su ‘sì sì
no no’, dedicati alle deviazioni dottrinali e metodologiche inquinanti
l’esegesi cattolica, diventata succube dei metodi del razionalismo protestante
a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.
“Avvenire
venerdì
31 maggio 1995, p. 21: “Al convegno di
Venezia sui manoscritti di Qumran, padre O’ Callaghan spiega ai biblisti la
‘prova matematica’. Il frammento
papiraceo 7Q5 sigillo dell’infinito.” Finalmente!
Nel resoconto utilissimo che del suddetto convegno ha offerto ai lettori
in sintetica esposizione, il quotidiano raccomandato dalla CEI dà il risultato
definitivo degli studi sulla identificazione 7Q5 = Mc
6, 52-53 ovvero sulla identificazione
del quinto frammento papiraceo scoperto nella settima grotta di Qumran sul Mar
Morto con i versetti 52-53 del sesto capitolo del Vangelo di San Marco.
L’importanza
della scoperta è così illustrata: “Se
7Q5 è davvero Mc 6, 52-53, verrebbe confutata la tradizionale ipotesi [del…
Bultmann, 1920 appena, di moda ad opera dei neo-modernisti cattolici solo dal
1960!] della datazione “tardiva” del Vangelo, che sarebbe non più il frutto di
una elaborazione della comunità dei credenti…Già, perché quando ancora il
nostro frammento [indecifrato] era uno dei ventuno trovati nella settima
grotta, era stato dissipato il dubbio sulla loro data di nascita: 50 d.C.”.
In
altri termini: viene (non “verrebbe”)
distrutta scientificamente la base sulla quale poggia l’intero castello
fantastico dei due ultimi sistemi razionalistici Formengeschichte e Redaktionsgeschichte
[storia delle forme letterarie e storia della redazione del testo - ndr],
che ritardano, contro la tradizione (essa, sì, tale) della Chiesa cattolica, la
data di composizione degli Evangeli al 70-100 dopo Cristo.
A
Venezia, il padre O’ Callaghan a conferma della sua scoperta, “abbandona le
deduzioni della sua amata papirologia, per rimettersi alla esattezza delle
cifre: ‘Ora posso dire con assoluta
certezza che quel frammento di papiro del 50 d.C. riporta un brano
dell’Evangelo di Marco’. La possibilità
infatti, che un qualsiasi altro brano letterario registri la stessa sequenza di
lettere è di una su 900 miliardi e, nell’ipotesi più realistica, una su 36 milioni
di miliardi.
Lo
studio del padre O’ Callaghan apparirà tra due mesi in Spagna e in Germania col
titolo: Le testimonianze più antiche
del Nuovo Testamento. In Italia già circola un volume (Vangelo e
storicità, ed. Rizzoli), nel quale sono raccolti articoli decisamente
favorevoli alla scoperta del padre O’ Callaghan S.J.
*
* *
La
relazione del gesuita ha avvinto l’attenzione e i cuori del folto e qualificato
pubblico veneziano, in particolare quando ha narrato il suo stato d’animo
allorché giunse alla decifrazione del quinto frammento: “Personalmente cercai di dimenticarmi di
questa identificazione: la consideravo
inaccettabile; ‘questo non può essere’, dicevo.
E dopo aver lavorato nella biblioteca del Biblico, tornai nella mia
stanza, nella quale poco dopo entrò un mio collega…uno scienziato molto bravo
in glottologia, al quale timidamente proposi la possibilità di aver
rintracciato un papiro di Marco, databile all’anno 50…Immediatamente mi
interruppe, dicendomi: ‘ È
impossibile’. Mi mancava soltanto questo
per perdere ogni coraggio. Non volevo
più pensarci, ma di fatto non riuscivo ad evitare quel pensiero; e se per un
caso fortuito tutto quello era vero? Io
proseguivo nei miei lavori accademici, le mie lezioni, i miei seminari,
all’Istituto Biblico; ma quasi con
ossessione s’impadroniva di me quel pensiero al quale cercavo di
resistere. Infine, dopo una settimana,
tornai con maggior calma a verificare l’identificazione con il frammento di
Marco.”
È
stato il Signore che ha voluto venire
incontro alla sua Chiesa, a conferma dell’autenticità e storicità dei
quattro santi Evangeli, contro lo smarrimento che dal 1960 ha indotto alcuni ad
accettare i due ultimi sistemi razionalistici tedeschi: Formengeschichte e Redaktionsgeschichte.
Il
padre O’ Callaghan ha rievocato nei dettagli il lungo iter che lo portò
finalmente alla pubblicazione della soprendente identificazione 7Q5 = Mc 6,
52-53 (v. Biblica 1972) dando risposta esauriente alle tre difficoltà che
sembravano opporsi e delle quali parleremo.
Solo
nel 1986 l’intervento del papirologo Carsten Peter Thiede ruppe la greve coltre
di silenzio, calata sulla sensazionale scoperta per suggerimento di Carlo Maria
Martini S.J. Dal 1990 in poi si
sono moltiplicati i consensi dei competenti.
La pubblicazione della relazione del padre O’ Callaghan al convegno di
studio di Venezia del 30-31 maggio 1995, a compimento delle celebrazioni per il
nono centenario della traslazione del corpo di San Marco (1090-1094), toglierà
ogni residuo dubbio sulla provvidenziale scoperta 7Q5 = Mc 6, 52-53.
*
* *
Nello
stesso numero di Avvenire, G. Ravasi in “Marco il giornalista” si
dilunga sulle caratteristiche del vivido stile di Marco. Questa volta concede che “è giusto discutere
sul celebre frammento 5 della grotta 7 di Qumran per decidere se esso contenga
o no Mc 6, 52-53”, ma con distacco parla del dibattito già tenutosi a Eichstätt
nell’ottobre 1991 sulla questione e le cui relazioni sono state pubblicate a
Regensburg, ed. Pustet 1992. È comunque
già un progresso per il Ravasi, se si considera la sua opposizione aprioristica
e …”viscerale” all’identificazione del
padre O’ Callaghan ancora pochi giorni prima sul quotidiano Il Sole –
Ventiquattro ore, di domenica 14 maggio 1995, p. 38: “Ci sono alcuni opliti che conducono
personali battaglie. Uno lo vogliamo
citare per nome e cognome: è il tedesco
Carsten Peter Thiede che, impugnando come clava l’esilissimo papiro 7Q5 di
Qumran con quelle poche lettere greche [in un primo momento il Ravasi parlò di
lettere ebraiche!] ritenute dal gesuita O’ Callaghan appartenenti al testo di
Marco (6, 52-53), volle colpire il tradizionale [solo dal 1960…!] pattuglione degli esegeti storico-critici” (e
cioè neo-modernisti ex alunni del Biblico nuovo-corso, dal 1950 in poi). Con in testa i 20 “esperti” che usurpano
attualmente il nome della già gloriosa Pontificia Commissione Biblica,
ufficialmente sepolta nel 1971 dall’amletico papa Montini. Gianfranco Ravasi ne fa parte, con l’amico
Segalla, per il quale San Giovanni non ha scritto nessun Evangelo (v. sì sì
no no, 15 giugno 1992, pp. 1 ss.),
con l’amico Byrne, per il quale Lazzaro non è risorto (v. sì sì no no, 28
febbrario 1995), e l’ex rettore del Biblico, Albert Vanhoje S.J., per il quale
Gesù è un semplice laico! (v. sì sì no no, 15 marzo 1987). Ecco perché il Ravasi si è dato da tempo a
propagandare e a difendere quel misero libretto L’interpretazione della
Bibbia nella Chiesa (novembre 1993), parto infelicissimo della “nuova”
Commissione Biblica (v. sì sì no no, 31 dicembre 1994).
*
* *
Altre
due “novità” del Ravasi. La prima: “Vorremmo ora parlare dell’”anima” dei
Vangeli, anzi del primo dei Vangeli, Marco (65-70 o 50 d.C., secondo le
differenti su accennate ipotesi cronologiche)”.
La priorità di Marco su Matteo è
creazione del secolo scorso, contro l’antichissima tradizione (già Papia, 125
d.C.), che attesta al prmo posto l’Evangelo di S. Matteo, scritto in ebraico (o
aramaico) per i fedeli di Palestina, prima di partire per l’evangelizzazione
delle genti (a. 40 circa). Come per
tutte queste novità, ci si è serviti della critica interna, fondata sull’esame
del testo, con esclusione arbitraria delle testimonianze storiche. Si veda Höpfl-Gut-Metzinger, la più classica
introduzione speciale per il Nuovo Testamento (Introductio specialis in N.T.
, ed. V. Napoli, Roma, 1949, pp. 166
ss. § 202), dove questi pretesi
“argomenti” sono esposti, vagliati e respinti.
Si veda anche la ricca introduzione al Vangelo secondo S. Marco,
dei padri conventuali Uricchio e Stano, ne La Sacra Bibbia: Nuovo Testamento, Marietti, Torino-Roma,
1966, pp. 1-161, che così conclude:
“L’ingenua convinzione dell’assoluta, totale priorità di Marco rispetto
agli altri due sinottici – nel complesso e nei particolari – è risultata
inesatta, giacché in divesi casi la narrazione di Matteo-Luca risulta più
vicina alle origini di quella di Marco”
(p. 42). Inoltre l’esegesi di pericopi
strettamente sinottiche, condotta sui testi originali, conferma l’esattezza
della tradizione unanime sulla priorità di Matteo (F. Spadafora, Gesù e la
fine di Gerusalemme, II edizione, IPAG, Rovigo, 1971, pp. 1-160; Mt 24; Mc
13; Lc 21, dalla domanda v. 3, v. 4, v. 7, alla conclusione vvv. 32-35; vv.
28-31; vv. 29-33).
*
* *
L’altra
novità del Ravasi è il suo scetticismo, espresso in modo sibillino, sulla nota
testimonianza di Papia: “Marco, divenuto
interprete di Pietro, scrisse accuratamente tutte quante le cose che ricordava,
non però con ordine, sia le cose dette sia le cose fatte dal Signore…”. Il Ravasi aggiunge: “…il nesso di Marco con
Pietro a Roma è dedotto dalla prima lettera di Pietro dove si legge: ‘Vi
abbraccia la comunità radunata in Babilonia (Roma?) e Marco figlio mio” (5,
13).
Veramente
“il nesso di Marco con Pietro” è evidente dalle testimonianze storiche dallo
stesso testo evangelico, che conferma la verità della testimonianza di Papia,
come rileva il padre Andrés Fernandez S.J.
nella introduzione alla Vita di Gesù, (Roma 1954), illustrando le
caratteristiche dell’Evangelo di San Marco (v. anche l’introduzione già citata
dei padri Uricchio-Stano).
Il
18-19 aprile 1994 si sono celebrate aa Torino le Giornate patristiche sul
tema Cristianesimo antico e istituzioni politiche. La relazione di Maria Sordi, professore
ordinario di storia greca e romana all’Università Cattolica di Milano,
ha suscitato il maggiore interesse ed ha monopolizzato il dibattito nella
tavola rotonda che ha chiuso il convegno.
La relazione è stata pubblicata in 30 Giorni, maggio 1994. La dottoressa Maria Sordi presenta i
risultati delle sue accurate ricerche sugli inizi del cristianesimo nella
capitale dell’impero. Mi limito a
qualche passo essenziale:
“L’allontanamento
di Pietro da Gerusalemme è registrato dagli ‘Atti degli Apostoli’ (12-17) dopo
la miracolosa liberazione dalla prigionia di Erode Agrippa I, con un laconico
“uscito, se ne andò in un altro luogo”.
Agrippa I morì nel 44 e questo è il “terminus ante quem” per la partenza
di Pietro: la data del 42 per l’arrivo a Roma si trova nella traduzione latina
di Gerolamo, al Chronicon di Eusebio (pag. 179, ed. Helm). Ma le testimonianze più importanti, riferite
dallo stesso Eusebio nella sua ‘Storia ecclesiastica’ sono quelle di Papia di
Gerapoli (vissuto nell’ultimo quarto del I secolo e la prima metà del II), di
Clemente di Alessandria e di Ireneo, ambedue della seconda metà del II
secolo. La testimonianza di Papia è conservata
da Eusebio in due citazioni distinte.
Nella prima (“Storia ecclesiastica” II, 15), dopo aver detto che Pietro
predicò a Roma all’inizio del regno di Claudio [41-54 AD - ndr], e che i suoi
ascoltatori chesero a Marco di mettere per iscritto l’insegnamento che avevano
ascoltato a voce e che essi furono così responsabili della stesura del Vangelo
detto di Marco, osserva: dicono che
Pietro avendo conosciuto il fatto per rivelazione dello Spirito, godette
dell’entusiasmo di quegli uomini e confermò lo scritto facendolo leggere nelle
chiese. Ed Eusebio aggiunge che la vicenda è raccontata da Clemente nel VI
libro delle “Hypotyposeis” e da Papia vescovo di Gerapoli. La seconda citazione di Papia è invece
testuale (III, 39, 15): ‘ Marco
interprete di Pietro scrisse con esattezza ma non in ordine le cose che
ricordava, ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli infatti non aveva udito il Signore né lo
aveva seguito ma più tardi, come ho detto , aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni,
ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore. Cosicchè Marco non sbagliò, avendo scritto
alcune cose così come le ricordava”.
Qui
Papia sembra voler rispondere alle critiche fatte da Luca ai suoi predecessori
nel prologo del suo Vangelo: lo rivela
la ripresa quasi testuale di alcune parole (Lc 1,3: akribas kathekses = con esattezza e in ordine
), con cui Papia vuole giustificare il “disordine” di Marco, che, diversamente
da Luca, consapevole del metodo storiografico greco e delle sue esigenze, non
aveva la pretesa di esporre in ordine la narrazione degli avvenimenti
(anataksasthai diéghesin perì tou….pragmátou) ma solo di dare gli insegnamenti
(tàs didaskalias) secondo i bisogni e come ricordava, preoccupandosi solo di
non tralasciare nulla di ciò che aveva udito e di non falsificare nulla. [3]
Oltre
a Papia e a Clemente anche Ireneo, Adversus Haereses (III, 1, 1,; cfr.
Eusebio, Storia eccl., V, 8, 3 ) ricorda che Matteo aveva scritto il suo
Vangelo mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e osserva che, dopo la loro
partenza (metà…tèn tutou éksodon), Marco, discepolo e interprete (ermeneutés)
di Pietro, trasmise anche lui per iscritto il Vangelo da lui (Pietro)
annunciato (tó yp’ ekeinou kerussomenon euanghélion). Ireneo,
associando la predicazione di Pietro e di Paolo, si rivela sui fatti più
generico e meno preciso di Papia e di Clemente;
il termine éksodos, inoltre, aveva fatto pensare che egli
collocasse il Vangelo di Marco dopo la morte di Pietro e di Paolo. Ma éksodos, come è stato dimostrato di
recente, non significa in Ireneo morte ma partenza: secondo Ireneo, dunque, Marco e Luca, di cui
parla subito dopo, scrissero i loro Vangeli seguendo rispettivamente la
predicazione di Pietro e di Paolo e dopo la partenza dell’uno e dell’altro da
Roma.
Così
intesa la notizia di Ireneo, per quel che riguarda Marco, conferma pienamente
la notizia che Eusebio ricavava da Papia e da Clemente, secondo cui il Vangelo
di Marco fu scritto a Roma, mentre Pietro era vivo, ma dopo la sua partenza.
L’arrivo
a Qumran da Roma di un testo di Marco scritto prima del 50, non solo non
contraddice la tradizione della Chiesa primitiva, ma la conferma con l’autorità di un documento
contemporaneo. Dal punto di vista
storico non esistono obiezioni valide ad accogliere l’identificazione di 7Q5
con un frammento di Marco e a riportare a prima del 50 la composizione di
questo Vangelo”.
*
* *
I
neo-modernisti, però, non demordono.
Sullo stesso mensile 30 Giorni luglio-agosto 1994, si ritornava
sulla identificazione del papiro n. 5 della settima grotta di Qumran (7Q5) coi
vv. 52-53 del cap. 6 dell’Evangelo di San Marco, assegnato con assoluta certezza
al 50 d.C., neppure 20 anni dopo la morte di Gesù. L. Brunelli illustrava la moda invalsa “nel
mondo dei biblisti di datare gli evangeli ad un periodo oscillante tra gli anni
70 e 100 dopo Cristo”, mentre 7Q5 “non può essere posteriore al 50 d.C.”.
La
sorprendente identificazione (1972) con Marco 6, 52-53, fu un vero colpo di
fulmine contro la moda (spacciata dal Ravasi per “tradizione”): “Fredda fino al sarcasmo, è stata la reazione
dei più in voga tra i biblisti cattolici [nuovo corso…dal 1960 in poi]”. “Congettura assurda e ridicola di un povero
gesuita”, la liquidò Pierre Grelot (giù membro della nuova e fasulla
Commissione Biblica) dell’Institut Catholique di Parigi. Scettica e infastidita la reazione di
Gianfranco Ravasi, che ridicolizzò l’ipotesi di O’Callaghan e…se stesso
parlando di lettere “in ebraico” mentre i papiri della settima grotta sono scritti
in greco! Caso limite: don Vittorio
Fusco, che, “docente di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia
meridionale, dedica alla scoperta 7Q5 soltanto una nota, un po’ sprezzante,
nella lunga introduzione (pp. 100) al recentissimo volume sui Vangeli sinottici
del ‘Corso di studi biblici’, pubblicato da poche settimane dall’ed. LDC”. Sulle
riviste Il Regno (aprile 1993) e Jesus (luglio 1993) egli
contesta la datazione del frammento, rimandandolo alla fine del I secolo e
attribuendo allo stesso padre O’ Callaghan una tale stupidaggine storica. La grotta di Qumran, infatti, fu chiusa dagli
Esseni prima che arrivassero le legioni di Roma a cingere d’assedio Gerusalemme
e cioè prima del 68 [del 70 – ndr]! Deus quos vult perdere, dementat.
A
Venezia il padre O’ Callaghan ha ricordato l’autorevole risposta della
papirologa Orsolina Montevecchi, docente emerita di papirologia all’Università Cattolica di
Milano, alle tre difficoltà che sembravano opporsi all’identificazione di 7Q5
con Mc 6, 52-53:
“Si
tratta di “varianti normali” nella trascrizione dei papiri. Sarei tentata di dire che sarebbe sospetto se
non ci fossero”. Nel papiro mancano tre
parole (epì ten ghen = verso terra) rispetto al brano di Marco: “Avendo attraversato il lago verso
terra”. Ma questo “verso terra” è
superfluo. Dopo lo stesso verbo,
l’omissione è frequente…Altri casi ne sono stati citati dal padre O’ Callaghan
a Venezia. Altra fonte di
opposizione: una tau (t) al posto di un
delta (d). “Ma anche questo è un errore
frequente. I testi venivano dettati e
frequenti erano gli errori di pronuncia” è la risposta della papirologa, che
conclude: “Ci sono state molte conferme
date da papirologi ed altri esperti, come quelle ascoltate durante il primo
simposio scientifico sul frammento 7Q5 svoltosi a Eichstätt, in Baviera,
nell’ottobre 1991…L’identificazione fa progressi, anzi la scoperta era stata
così combattuta all’inizio, che anche molti esperti non ne erano a conoscenza
[la concertata e vile congiura del silenzio!].
Adesso più se ne discute, più se ne trovano prove interdisciplinari a
conferma” (30 Giorni cit.).
3.
Estratti da: Carsten Peter Thiede, Il
più antico manoscritto dei Vangeli? Il
frammento di Marco di Qumran e gli inizi della tradizione scritta del Nuovo
Testamento, tr. it. dall’inglese di Suor Cecilia Carniti, Rome, Biblical
Institute Press, 1987, pp. 63.
“La
settima grotta, scoperta e aperta nei mesi di febbraio e marzo del 1955, non
offriva a prima vista nulla di così sensazionale come i rotoli della prima
grotta [contenenti ampie parti dell’Antico Testamento in ebraico - ndr],
scoperti nel 1945 e divenuti famosi nel 1947, con cui era iniziata la scoperta
e valorizzazione di Qumran. Ci vollero
addirittura sette anni prima che i frammenti della settima grotta venissero
pubblicati nel 1962. Tuttavia già il
resoconto della scoperta, del 1962, sottolineava un fatto che se fosse stato subito
osservato, avrebbe dovuto suscitare la massima attenzione: tutte le grotte di Qumran, con pochissime
eccezioni, contenevano esclusivamente testi ebraici (e aramaici) – sia di libri
veterotestamentari, sia di scritti della comunità di Qumran – e quasi mai si
trovava papiro come materiale usato. Invece
la grotta 7 aveva solo testi
greci, ed esclusivamente papiri (ed inoltre, il frammento 19: l’impronta a rovescio di un frammento di
papiro, indurita nel terreno).
Questa
scoperta, in sé e per sé già sensazionale, rimase tuttavia senza
conseguenze. C’era il compito urgente di
decifrare i frammenti, diciannove complessivamente. Per la verità, i papirologi incaricati di
questo, M.E. Boismard e P. Benoit, non andarono molto lontano. Per la maggior parte i frammenti erano troppo
piccoli, contenevano troppo poche parole o combinazioni di lettere per potere –
semmai – venir ordinati abbastanza rapidamente. Così Benoit e Boismard si
limitarono alla decifrazione di due dei cinque maggiori frammenti: 7Q1, Esodo
28, 4-7 e 7Q2, Baruc (Lettera di Geremia) 6, 43-44; per i frammenti 3-5
avanzarono solamente l’ipotesi che si potesse ancora trattare di testi
biblici. Per il frammento 5 si accennava
al fatto che la singolare combinazione – nnēs – nella quarta riga poteva forse
far parte della parola eggenēsen [generò - ndr] e dunque provenire da
una sezione genealogica.
Gli
inutili tentativi di localizzare anche questi frammenti nell’Antico Testamento
greco, compresi gli “Apocrifi” dei Settanta,
portarono ad un’interruzione del lavoro.
All’idea che tra i “testi biblici” ci potessero essere frammenti
neotestamentari naturalmente non si arrivò: il Nuovo Testamento, l’annuncio di
Gesù Cristo, non aveva niente a che fare con gli Esseni di Qumran, e il fatto
storicamente ed archeologicamente attestato che le grotte di Qumran con i loro
manoscritti fossero state sigillate nell’anno 68, quando gli abitanti
dell’insediamento fuggirono di fronte alle truppe romane guidate da Vespasiano
contro Gerusalemme (cfr. nota 35), consolidò questa opinione: tutto quello che si sarebbe trovato in queste
grotte doveva essere stato scritto prima dell’anno 68. Secondo la convinzione comune [tale solo a
partire dagli anni Sessanta del XX secolo, vedi sopra – ndr] questo poteva
riguardare solo le “lettere autentiche di Paolo” (Thiede, op. cit., pp. 12-13).
La
data di chiusura della grotta rappresenta ovviamente il punto essenziale. Nella nota n. 35 del suo saggio, il prof.
Thiede cita il resoconto ufficiale del direttore degli scavi della settima
grotta, il domenicano Padre R. De Vaux,
il quale, nel 1962, senza sapere ancora
nulla di (futuri) ritrovamenti di frammenti
dei Vangeli, aveva concluso con assoluta certezza che “il termine ultimo
per l’utilizzazione della grotta è da porre nell’anno 68; la grotta in seguito
non fu dunque più aperta neppure una volta” (op. cit., p. 27). Dopo le vittorie iniziali dei rivoltosi
ebrei, nel 66-67, proprio nel 68 – ricordo - era iniziata la controffensiva
romana, che cominciò col soggiogare le province per poi “ripulire”
metodicamente tutte le zone che
gravitavano verso Gerusalemme, in previsione del suo assedio, iniziatosi nella
primavera del 70 e drammaticamente conclusosi tra fine agosto e l’inizio di
settembre.[4] L’anno 68 doveva dunque ritenersi una data
certa e immodificabile.
Ma
dov’era il problema? Nessun problema,
dal punto di vista archeologico: tutto quello che si trovava di scritto nella
grotta doveva esser anteriore al 68. Il
problema nasceva per gli esegeti del Nuovo Testamento, una volta accertato che
nella grotta c’era un frammento di un Vangelo: un problema terrificante. Infatti, come si è visto, la teoria dominante
originatasi in ambito razionalista protestante era quella che poneva l’origine
dei Vangeli in epoca molto tarda, comunque
d o p o la distruzione del Tempio
e di Gerusalemme, avvenuta nel 70. Una
teoria che rifiutava a priori le testimonianze della Tradizione dei Padri (vedi
articolo di mons. Spadafora). Tale
teoria, non credendo in realtà al soprannaturale doveva negare validità alle
profezie di Nostro Signore sulla distruzione del Tempio e di Gerusalemme, che
dovevano pertanto ritenersi fabbricate a posteriori, ben dopo i fatti, dalla c.d. “comunità primitiva” dei fedeli nel suo tentativo di
divinizzare Gesù di Nazareth. Così
ragionavano eruditi di origine luterana come Bultmann, il quale voleva
“demitizzare”, come diceva, i Vangeli per farne un documento adatto alla
mentalità dell’uomo moderno, per natura scettico di fronte ad ogni forma di
profezia o miracolo ed anzi intrinsecamente ostile alla religione in quanto
tale. Ora, nel Vangelo di Marco, che
raccoglie i ricordi del Beato Pietro, la profezia sulla distruzione del Tempio
e della Giudea (e, implicitamente, di Gerusalemme) era chiaramente documentata (Mc cap. 13). Scoprire un frammento di Marco in un papiro
scritto con certezza prima del 68 d. C., costringeva ad ammettere che quella
profezia era testimoniata in uno scritto ben anteriore al 70 d.C.! Un colpo mortale per l’impalcatura lambiccata
ed artefatta dell’esegesi dominante. Se
gli Esseni ne avevano una copia, di quel Vangelo, ciò significava che esso
doveva esser stato scritto diversi anni prima, che doveva esser in circolazione
da anni! Altro che profezie inventate dalla
c.d. “comunità primitiva” dei fedeli!
Ma
chi erano gli Esseni? Gli E s s e n i , forse da “haššaim”, “i silenziosi”, erano una
confraternita ebraica, forse già esistente al tempo dei Maccabei (attiva
pertanto dal 150 a.C. al 70 d.C.).
Praticavano in modo strettissimo le regole della purità legale, come i
Farisei, ma vivevano in comune, mettendo in comune anche i loro beni, sotto dei superiori cui si obbligavano con
giuramento. Erano celibi, tranne alcuni, e prendevano i pasti in
comune. “Lo scopo di questa vita è
religioso e morale. Il primo oggetto del
loro impegno è la venerazione della divinità.
Inoltre, l’obbligo di praticare la giustizia, la verità, le regole della
confraternita, che esigono continenza, lavoro, vita sobria, studio dei libri
santi.”[5] La Confraternita di Qumran deve aver avuto
rapporti pacifici con gli ebrei convertitisi al cristianesimo o comunque aver
avuto interesse per esso, sì da studiarne i relativi papiri, che circolavano da
tempo presso i cristiani (Thiede, op. cit., pp. 53-55, per ulteriori dettagli).
L’opinione
dominante sull’origine dei Vangeli era dunque quella erronea, volutamente
contraria alla Tradizione dei Padri; un vero dogma, che tuttora resiste, contro
l’evidenza e il buon senso. Essendo in
pratica condivisa da tutti, nessuno poteva pensare di decifrare il frammento
7Q5 andando a pescare nel Nuovo Testamento.
“Anche
J. O’ Callaghan – continua il prof. Thiede – che riprese il lavoro dieci anni
dopo la pubblicazione dei reperti, non mirava assolutamente a trovare un
frammento di Marco o di qualunque altro testo neotestamentario. Lavorava ad un catalogo di manoscritti dei
Settanta, e cercava quindi ancora di scoprire passi nell’Antico Testamento
almeno per i maggiori frammenti della settima grotta. Solo dopo aver sperimentato l’insuccesso come
i suoi predecessori, gli venne l’idea che quella singolare combinazione nella
quarta riga del quinto frammento , - nnēs - , non fosse forse parte di un
termine genealogico, ma della parola Gennēsaret. Ora, il lago o territorio di Genesaret
nell’Antico Testamento, compresi gli Apocrifi, ricorrono una sola volta con questa
grafia: 1 Maccabei 11, 67, Gennēsar
(di solito si trova Chenereth o Chenara). Ma nessun’altra delle lettere sicure del
frammento corrisponde a questo passo, per non parlare degli altri segni. Prima di rinunciare, però, O’ Callaghan, più
per curiosità scientifica che per vera convinzione, tentò quello che era da
considerare impossibile a priori:
esaminò il Nuovo Testamento.
Chi
ha provato, in un ambito qualunque, a seguire una traccia del tutto
inverosimile, e poi ha constatato che proprio quella ha portato al risultato in
cui ormai non si sperava più, potrà facilmente immaginarsi la reazione di O’
Callaghan quando constatò che nel Nuovo Testamento c’era effettivamente un
passo a cui tutto corrispondeva: il
gruppo di lettere – nnēs – da “Gennesaret”, come pure le altre particolarità
del frammento: uno spazio nella riga 3,
chiamato paragraphos, che negli antichi manoscritti divideva due sezioni
del testo (in certo modo, quello che anche oggi chiamiamo un “paragrafo” [ossia
un “capoverso”, che in inglese si dice
appunto “paragraph”- ndr], e la frase
dopo questo paragrafo, che comincia con un kai (“e”). In Marco 6, 52-53 col versetto 52 finisce il
racconto di Gesù che cammina sulle acque e al versetto 53 inizia quello delle
guarigioni a Genesaret – ed inizia con kai, la forma stilistica della
paratassi (“coordinazione”) caratteristica proprio di Marco.
Quando
risultò che anche le altre lettere conservate concordavano con questa identificazione,
O’ Callaghan pubblicò il suo risultato.
E sebbene avesse ogni fondamento per pubblicare un risultato sicuro, fu
abbastanza cauto e volle prima avviare un dibattito internazionale tra esperti. Espresse questo nel titolo del suo articolo
con un punto di domanda: “¿Papiros
neotestamentarios en la cueva 7 de Qumrân?” (Thiede, op. cit., pp. 13-14).
Le
reazioni, continua il prof. Thiede, furono di segno opposto tra loro. Non lo dice, ma anche violente, in senso
negativo. Furono queste a prevalere. Bisogna capire: tante carriere accademiche
ecclesiastiche costruite sui presupposti errati del razionalismo, dalla famosa,
ottocentesca Scuola di Tubinga a
Bultmann e ai suoi epigoni nel Novecento, venivano a perdere seriamente di
prestigio a causa della rivoluzionaria scoperta del gesuita spagnolo. In un altro dei suoi articoli apparsi su Sì
sì no no , mons. Spadafora riportava le dichiarazioni dello stesso padre O’
Callaghan al settimanale Il Sabato, il 25 maggio 1991: “Nel caso di 7Q5 ho avuto più attacchi
personali che controversie scientifiche…Più che una controversia scientifica è
stato un calvario”, soggiungendo:
“troppi dovrebbero capovolgere posizioni assunte da sempre sulla
datazione dei Vangeli”.[6]
Istruttivo
sapere come il dibattito fu lasciato cadere nei paesi di lingua tedesca. Torniamo al prof. Thiede.
“Nei
paesi di lingua tedesca si lasciò cadere il dibattito sulle identificazioni
dopo che Kurt Aland, il direttore dell’Istituto per la ricerca sul testo del
Nuovo Testamento di Münster, coeditore dell’edizione “Nestle-Aland” del Novum
Testamentum Graece e del Greek
New Testament, prima in diverse interviste e comunicazioni alla stampa e
poi in due lunghi articoli, aveva preso una posizione decisamente
contraria. L’autorità di Aland,
indiscussa sul piano internazionale, si impose; i neotestamentaristi non fecero
molto caso al fatto che, come già M. Baillet e P. Benoit alle cui critiche
sostanzialmente si appoggiava, egli non aveva lavorato da un punto di vista
papirologico con tutta la precisione dovuta: come si mostrerà in seguito, erano
stati trascurati criteri di O’ Callaghan essenziali e caratteristiche decisive
dei papiri, soprattutto del papiro 7Q5 con il suo paragraphos.
Successivi
tentativi, negli Stati Uniti, di sottolineare la correttezza della decifrazione
trovarono dunque fuori dell’ambito anglofono poca considerazione. Eppure uno storico del testo che senza
preconcetti prenda in considerazione quanto di fatto un papiro presenta, soprattutto
per l’unica identificazione di cui anche secondo O’ Callaghan in primo luogo si
trattava, restano pochi dubbi: 7Q5
corrisponde a Marco 6, 52-53” (Thiede, op. cit., pp. 14-15).
Perché
il prof. Thiede sottolineava il ruolo del capoverso, nel frammento? Perché, grazie ai calcolatori elettronici, si
sono potuti scannerizzare tutti i testi del Nuovo Testamento, oltre a quelli
della traduzione dei Settanta dell’Antico, compresi gli Apocrifi dell’uno e
dell’altro. Pertanto, padre O’ Callaghan
è stato in grado di trovare rapidamente il capoverso che calzava a pennello con
il frammento, quello appunto di Mc 6, 52-53.
Un
altro elemento è da tener presente. Come poteva il prof. Thiede affermare che il
testo del frammento risaliva molto probabilmente al 50 d.C.? Grazie alla precisa determinazione
paleografica del tipo di caratteri usato, detto “stile ornato”: questo stile permetteva per l’appunto di
risalire a quegli anni. Si tratta di un
tipo di scrittura presente anche in altri papiri. Pertanto, per la copia di Marco in possesso
degli Esseni, “paleograficamente la data più probabile è la metà del I secolo
d.C.”.[7]
Aggiungo,
infine: si noterà come il testo del
frammento di Marco, pur nella sua brevità, sia in sostanza identico a quello
giunto sino a noi.
Ben
ha detto mons. Spadafora: con questa
formidabile scoperta, “è stato il
Signore che ha voluto venire incontro alla sua Chiesa, a conferma
dell’autenticità e storicità dei quattro santi Evangeli”.
Battiamoci,
per quanto è possibile a noi fedeli, affinché questa preziosa scoperta venga di
nuovo riproposta all’attenzione, come merita, per la Gloria del vero Dio, Uno e
Trino, la rinascita della Chiesa, la
Salvezza delle anime, la restaurazione della vera scienza biblica.
Paolo Pasqualucci
Sabato, 13
novembre 2021
S.
Diego, Confessore
[1] Tutto ciò è stato messo in rilievo da Rudolf
Kaschewski, Tendenzen in den Orationen des Neuen Missale, II, ‘Una Voce
Korrespondenz’, 12, Heft 2 und 3,
Marz-Juni 1982, pp. 89-115; spec. pp. 111-115.
Quest’articolo fu citato da
Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa
cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli, 19862, § 288, intitolato : Bibbia
e liturgia (si trova nel cap. XXXVIII, La riforma liturgica).
[2] Vedi: Herschel Shanks, Of Caves and Scholars. An Overview, in: Hershel Shanks (ed.), Understanding the
Dead Sea Scrolls. A Reader from the
Biblical Archaelogy Review, Random House, New York, 1992, pp. XV-XXXVIII. Si tratta di una antologia di interventi di
intellettuali e di studiosi qualificati
sui Rotoli del Mar Morto. Le grotte
erano undici. Il totale dei testi
rinvenuti supera gli ottocento, gran parte dei quali in frammenti, anche
piccolissimi.
[3] Il Chronicon è
opera di Eusebio di Cesarea, morto nel 339, noto soprattutto come storico della
Chiesa: una compilazione di tabelle
sincronistiche della storia dei popoli, a partire da Adamo. Opera rimasta in forma frammentaria in greco,
la seconda parte fu rielaborata in latino da san Girolamo. Le Hypotyposeis
sono uno scritto perduto di Clemente di Alessandria, morto prima del 215,
otto libri di schizzi o considerazioni a commento di passi scelti di tutta la
S. Scrittura. Ci sono state tramandate solo delle citazioni e alcune parti in
latino. Papia, vescovo di Gerapoli in
Asia Minore, “fu uditore dell’Apostolo Giovanni e compagno di Policarpo”. Nel 130 scrisse cinque libri di Spiegazioni
delle sentenze del Signore, tratte in maggioranza dall’insegnamento orale
dei discepoli degli Apostoli . Ne restano pochi frammenti, “tra i quali uno
concernente l’origine dei due primi Vangeli”.
Fonte: Berthold Althaner, Patrologia,
tr. it. delle Benedettine del Monastero di S. Paolo in Sorrento, riveduta dal
dr. Sac. S. Mattei, aggiornata e corretta dall’Autore, Marietti, 1940, sotto i
nomi dei Padri indicati. Papia,
cristiano della terza generazione, la fonte più antica sull’origine dei
Vangeli, si abbeverava direttamente ai discepoli degli Apostoli. Le sue informazioni erano di prima mano. Da esse recepì, per ciò che riguarda il
vangelo di Matteo, che il santo evangelista aveva “riunito in lingua ebraica i logia
[I detti del Signore] e ciascuno li intese [o tradusse, hermeneuse] come
era capace” (vedi: Jean Carmignac, La
nascita dei Vangeli Sinottici, tr. it. dal francese di Rosanna Brichetti,
Edizioni Paoline, 1985, pp. 63-66. Il
Padre Carmignac, 1914-1986, è stato uno specialista indiscusso dei manoscritti
di Qumran, che ha edito e tradotto.)
[4] Vedi: Giuseppe Ricciotti, Storia d’Israele. II.
Dall’Esilio al 135 dopo Cristo, SEI, Torino, 19355, tutta la
parte dedicata a “La guerra di Vespasiano e Tito”, pp. 471-521, ampiamente
basata su La guerra giudaica di Flavio Giuseppe. Vedi anche:
Pierre Prigent, La fine di Gerusalemme, tr. dal francese di G.
Gandolfi, Edizioni Paoline, Roma 1972, spec. pp. 31-50.
[5]
Vedi: Dizionario Biblico, diretto
da Francesco Spadafora, Editrice Studium, Roma, 19633, voce Esseni.
[6][6] Mons. Francesco Spadafora, op. cit., p. 314,
nell’articolo: La ‘Formengeschichte’
non si tocca! Il prof. Carsten P. Thiede
e la datazione degli Evangeli, pp. 311-318.
[7] Thiede, op. cit, p.
32. L’analisi puntuale delle
caratteristiche di 7Q5, viene fatta alle pagine 27-44 del suo breve saggio.