PARVA
PHILOSOPHIA 5
Se il principio di identità e non-contraddizione
comporti l’esistenza del tempo come realtà fuori di noi, nella durata dell’Essere che ci circonda da
ogni lato.
* *
1. Il principio di identità e non
contraddizione (A = A; B = B; A non è B; A non può essere nello stesso tempo B;
idem per B) comporta necessariamente l’esistenza del tempo come realtà a noi
esterna, indipendente da ogni misurazione?
La domanda scaturisce dal fatto che tale principio, per esser credibile,
ha bisogno di un riferimento temporale,
sempre presente nella sua formulazione.
Non
posso pensare che A nello stesso tempo sia e non sia: che una
determinata realtà sia nello stesso tempo il contrario di se stessa. Questa evidente verità va verificata sul
piano dell’esistenza spazio-temporale degli enti e su quello del loro significato,
quale risulti dalle loro dichiarazioni ed azioni.
L’essere
e il non-essere non esistono contemporaneamente, se riferiti al medesimo
ente. Quando sarò morto, il mio
corpo sarà entrato nel non-essere rispetto a ciò che era, corpo di un individuo
esistito in carne e ossa. Mentre ero
vivo, tuttavia, il mio corpo apparteneva esclusivamente all’essere poiché non
poteva nello stesso tempo non essere.
Mentre sono vivo non posso simultaneamente esser morto. E viceversa.
L’avverbio
di tempo gioca dunque un ruolo essenziale per la comprensione del principio.
2.
Perché allora K a n t , nelle Lezioni sulla
metafisica, in una sezione nella quale discute del rapporto tra “possibile”
e “impossibile” ha detto:
“Impossibile
est, simul esse ac non esse. Simul
significa: nello stesso tempo; ma il
tempo non è ancora spiegato. Si può
anche dire, piuttosto: nulli subjecto competit praedicatum ipsi oppositum.
Nihil negativum è ciò che non può
in alcun modo esser pensato”[1].
Il
tempo espresso dall’avverbio simul non sarebbe “ancora spiegato”. Il
riferimento al tempo rimarrebbe sostanzialmente oscuro, secondo Kant. Vediamo allora di spiegarlo.
3. Il principio di identità (A=A)
contiene in sé, possiamo dire, il principio di non contraddizione: A, in quanto sia se stesso, non può simultaneamente
esser identico a ciò che A non è: se A è
A, non può essere simultaneamente B. Chi
è nato maschio non può esser simultaneamente femmina. Le caratteristiche sessuali in senso
biologico sono normalmente definite dalla natura in modo marcato ed immutabile
nel singolo individuo, tanto da appartenere alla sua essenza, mostrando quindi
un carattere ontologico, visto che non si può oggettivamente
passare da un sesso ad un altro, come pur si ritiene stoltamente oggi, né con
uno sforzo della volontà, che non incide affatto sul sesso naturale dell’individuo,
non potendo mutarlo nel suo opposto, né con interventi chirurgici e ormonali
che in realtà si limitano ad alterare e mutilare il sesso esistente, senza
affatto trasmutarlo nell’altro.
L’impossibilità di cui al principio di
non-contraddizione deve dunque esser simultanea nel tempo. Posso essere in questa stanza, dove sto
scrivendo, o non esservi, ma solo in una successione temporale: vi entro poi ne esco. Ma non posso entrarvi ed uscirvi contemporaneamente:
le due azioni devono esser scalate nel tempo, posso compierle solo in
successione. L’impossibilità
dell’esistenza simultanea di due atti simili ma tra loro opposti da
parte dello stesso soggetto risulta quindi dall’esperienza dei nostri sensi. Per restare all’esempio proposto, l’entrare e
l’uscire da una stanza, in quanto attuato da un medesimo soggetto, può avvenire
solo in momenti successivi.
Questa constatazione è di una certezza assoluta.
Ora, siffatta successione di eventi non è
posta dal soggetto pensante, non risulta dall’applicazione di una categoria mentale
che il soggetto possieda prima di ogni esperienza, apriori, ma
appartiene alla natura della cosa, alla conformazione stessa della
realtà esteriore: l’osservatore si limita a registrarla. Ciò significa che il tempo è qui un dato
obbiettivo, perché questa
impossibilità dell’attuarsi di modi tra loro opposti nell’azione temporalmente
determinata dello stesso individuo si configura all’esterno del soggetto che la
osserva e registra, ha cioè luogo nella realtà effettiva, che è la realtà costituita
dal succedersi nel tempo degli eventi appartenenti al mondo fisico; degli
eventi che esistono ed accadono nello spazio a noi esterno, a seconda dei casi
o contemporaneamente tra loro o appunto in successione: il prima e il dopo, la successione nel
tempo dell’agire mio o di altri, lo registro unicamente mediante
l’osservazione empirica. Il verificarsi esplicito di un “prima” e un “dopo” nei
movimenti nostri o di soggetti a noi esterni, in relazione per esempio ad un
“dentro” e un “fuori”, dimostra la presenza del tempo come realtà in sé,
obbiettiva. L’impossibilità fisica di
entrare e uscire simultaneamente in una stanza da parte di uno stesso
soggetto (o entra o esce, nello stesso tempo) non deriva quindi da
un’impossibilità che sia stabilita a priori, dal nostro raziocinio, che la
applichi alla realtà come categoria mentale capace di sussumere ogni esperienza
prima ancora di ogni esperienza.
Quest’impossibilità è innanzitutto fisica, dovuta al fatto,
oggetto d’esperienza quotidiana, che queste due azioni un qualsiasi soggetto,
non avendo normalmente il dono dell’ubiquità, può attuarle solamente una
dopo l’altra, in successione. Esse possono per noi susseguirsi unicamente
nel tempo, oltre che nello spazio, un tempo pertanto esistente come durata
al di fuori del nostro io che lo misura.
Sulla base dell’esperienza, elaboriamo qui il concetto, che poi
applichiamo ad ogni simile esperienza futura, quale categoria che la
ricomprenda.
Il
tempo è qui dunque la durata, nel cui àmbito avvengono certe
azioni. Esse durano nel tempo ossia
accadono nel tempo ma non sono il tempo, la durata che esiste e
si mantiene indipendentemente da queste azioni:
quando esse cessano, non per questo viene meno il tempo, la durata che
ci ha permesso di misurarle in quanto eventi temporali oltre che spaziali. Lo stesso dícasi per lo spazio. Quando sono entrato ed uscito dalla stanza, quest’ultima
non cessa di esistere in conseguenza del fatto di esser rimasta vuota: continua ad esistere come spazio che dura nel
tempo, finché dura, essendo uno luogo nello spazio ricavato dalla
congiunzione fatta ad arte di materiali deperibili, per quanto solidi possano
essere. E se elimino la stanza come
luogo nello spazio e poi la casa, la città, la nazione, il mondo stesso come
luogo dello spazio nel quale si trova questa stanza; alla fine, dopo questa totale
annihilatio mundi, mi trovo forse ad aver eliminato anche lo spazio e il
tempo? No. Se anche eliminiamo tutto l’universo (tutto
ciò che costituisce l’immenso universo, ossia milioni di galassie e tutta la
materia e l’energia che costituiscono per l’appunto il cosmo o universo), resta
sempre lo spazio vuoto precedentemente occupato da tutti gli enti e corpi
celesti che ora sono scomparsi. E il
vuoto, lo spazio inteso come pura estensione tridimensionale vuota, è pur
sempre una realtà fisica che, in quanto effettiva realtà, dura e si mantiene nel tempo.
Sulla
base di queste considerazioni, mi sembra si possa legittimamente affermare che
il principio di identità e non contraddizione implica necessariamente un
concetto del tempo come durata della
realtà a noi esterna, concetto che non viene dato a priori ma dedotto
dall’esperienza nostra sensibile, percepita ed acquisita nel suo accadere
obbiettivo, ragion per cui tale
concetto costituisce una dimostrazione dell’esistenza del tempo come realtà effettiva fuori di noi,
quella nella quale gli enti durano (finché durano) e gli eventi
si succedono.
4. A questo punto, chi contesta
il principio in questione, potrebbe dire che esso non si può applicare ai significati
e ai valori, al mondo spirituale e morale dell’uomo, visto che ogni essere
umano appare esser contemporaneamente sia buono che cattivo. Qui non abbiamo a che fare con
impossibilità derivanti dalla struttura stessa fisica della realtà in cui
viviamo. Il bene e il male coesistono in
ogni singolo individuo, che ora fa il bene ora il male. E non dobbiamo dire, allora, che in lui essi
coesistono simultaneamente quali opposti mai domati? E se contemporaneamente, allora ognuno di noi
non è forse buono e cattivo nello stesso tempo, di continuo agitato
interiormente nella stessa unità di tempo tra l’essere e il non-essere, tra
l’esser buono e il non esserlo?
Ma
il principio si applica ugualmente, a mio avviso. Il bene e il male, come tendenze, coesistono
nel nostro animo, lottano in noi in quelle che si considerano le nostre
passioni: esistono quindi
simultaneamente dentro di noi ma ancora solamente in potenza. Quando si passa dalla potenza all’atto si
esce dalla situazione di interiore (potenziale) contraddizione. Ciò avviene quando una di queste due fondamentali tendenze si
quantifica in un distinto moto dell’animo, successivamente in un pensiero
consapevole, poi in una volontà d’agire ed infine in una nostra determinata
azione. Tutti questi nostri successivi modi di essere caratterizzanti il
nostro passare dalla potenza all’atto, non possono certamente considerarsi
nello stesso tempo buoni e cattivi.
Infatti, noi non possiamo pensare a due o più cose simultaneamente
– il contenuto determinato dei nostri pensieri, ma anche dei nostri sentimenti,
è sempre in successione nel tempo.
Provare, per credere. Pertanto, il nostro singolo stato d’animo o
pensiero potrà essere buono o cattivo ma non potrà essere
contemporaneamente buono e cattivo.
Idem, per le nostre azioni.
Quando una nostra azione viene valutata in modo difforme – buona per alcuni,
cattiva per altri – ciò non significa che in se stessa sia bifronte. Il giudizio discordante su di essa proviene
dall’esterno e semplicemente riflette le differenti opinioni di terzi su di
essa, confliggenti (quando lo sono) per i più diversi motivi, non appartenenti
all’azione stessa – opinioni che non mutano la sostanza della cosa. La quale è ciò che è – la nostra azione
– in relazione alle sue premesse e al suo fine, posti dal nostro intelletto e
dalla nostra volontà, vale a dire secondo le quattro categorie della causalità
così ben delineate da Aristotele (Phys., B, 3. 194b-195a). Essa si
caratterizza quindi nel suo proprio esserci esistenziale (per esprimermi
alla maniera del linguaggio filosofico corrente), finito e determinato nello
spazio e nel tempo, in modo tale da
impedire che possa simultaneamente esser inclusa in tutto l’Altro-da-sè.
5. Il B u d d i s m o , che affascina a quanto
sembra parte sempre più ampia delle persone sensibili in Occidente, in cerca
ormai affannosa di alternative spirituali di fronte alla perdurante e
spaventosa crisi e del Cristianesimo e delle filosofie profane sue nemiche, sembra
escludere completamente dal suo orizzonte il principio di identità e non
contraddizione. Al posto dell’anima
esso pone la mente. Ma cosa intende
esattamente con mente? Possiamo distinguere per i Buddisti la mente
da tutto ciò che essa non è, come risulta già dalla chiara intuizione del
significato del nous (mens) avuta nel V secolo a.C. da
Anassagora?[2] Vediamo l’insegnamento del Maestro tibetano
Gendün
R i n p o c h e (1918-1997), del quale è
stata tradotta recentemente un’importante opera in italiano.
“La
mente non si lascia definire, si sottrae all’analisi e alla descrizione. Non possiamo dire che la mente esiste, poiché
lo stesso Buddha non riesce a trovarla.
Allo stesso modo non possiamo sostenere che la mente non esiste, poiché
è la fonte di tutti i fenomeni, del samsāra ma anche del
nirvana. Tutt’al più si può dire che
essa va oltre tutte le immaginazioni, oltre la natura di tutte le cose animate
e inanimate e della stessa realtà; oltre i pensieri e le immaginazioni, è
incomprensibile e indescrivibile. Se si
vede, non è vista, non ha né colore, né forma e neppure caratteristiche. Se si riconosce, non è veramente riconosciuta
perché non è paragonabile a nessun oggetto riconoscibile. Se si realizza, diventa non realizzata,
poiché non c’è niente e nessuno che
realizzerebbe qualcosa. Non possiamo
trovare nessuna definizione per designare la “mente” […] La mente va oltre tutte le immaginazioni
intellettuali, è “esistente” e anche “non esistente”, oppure esistente e non
esistente allo stesso tempo, o nessuno dei due. Essa è oltre il pensiero, dal quale non può
esser catturata. Si dice che sarebbe “il
grande centro”, oltre ogni fissa estrema concezione; oltre ogni riferimento
concettuale…”.[3]
L’indefinibile
mente può dunque essere o non essere nello stesso tempo. Che significato bisogna dare a simile affermazione? E a quella secondo la quale né può essere né
può non-essere (“nessuno dei due”)? Non
ci troviamo qui in una dimensione di tipo mistico assai peculiare,
nient’affatto religiosa in senso proprio, che sembra situarsi completamente al
di fuori delle categorie fondamentali del pensiero razionale? Questa mente che resta indefinita, sfuggente
al logos, non inquadrabile nell’autentica Rivelazione religiosa, sarebbe
tuttavia l’origine di tutto ciò che appare realtà per noi (il mondo) che in
effetti non sarebbe altro che illusione, un’illusione che dobbiamo riconoscere
e superare nel momento della morte.
Nella morte, “non c’è una vera interruzione: la mente continua a essere com’è per natura,
percepisce con le stesse tendenze di quando il corpo era ancora in vita. Il riferimento di base delle percezioni però
cambia, anche se fondamentalmente resta lo stesso processo di prima, questo
vale anche per le percezioni della mente.
In verità la morte è simile alla vita:
un’illusione; uno stato intermedio temporaneo, un bardo [“stato
intermedio”], con il quale non si ferma semplicemente tutto come forse
supponiamo. La morte è il proseguimento
della vita: un cambio di scena nel continuo processo del cambiamento…”.[4]
Mi chiedo: come può essere la mente “per natura” se, per
natura, essa nello stesso tempo esiste e non esiste? Comunque sia, che la morte prosegua nella
vita, attuandosi con essa solo un “cambio di scena”, è affermazione che si
spiega solo nell’ambito della fede nella reincarnazione: la nostra mente
trapasserebbe, per così dire, in un altro corpo o altro essere, molte volte,
fino ad ottenere, grazie alla giusta gnosi finale, la liberazione
definitiva, nel nirvana; annientamento ed estinzione del proprio Sè liberato
da tutte le passioni, e quindi dal dolore di ogni esistenza, nel “corpo della
Potenzialità assoluta”, corpo di luce o della “coscienza luminosa”, che si
dissolve in un “Là indefinibile” subentrato al Qui immerso nel dolore.[5] Il Buddismo non ha il concetto della
creazione, vi manca anche quello di Dio, in senso proprio, né esiste un
Giudizio dopo la morte. Tutto sembra
risolversi in una illusione della mente – dal punto di vista dei non
iniziati esso appare una sorta di panpsichismo cosmico nel quale al
posto dell’ellenica psiche bisogna invece mettere l’asiatica mente. Le distinzioni tra la vita e la morte, tra
il finito e l’infinito, l’umano e l’animale, l’umano e il divino, ed anzi la
possibilità stessa di distinguere, tipica della recta ratio e dell’intelletto,
qui sembrano non solo attenuarsi ma addirittura scomparire, navigando così la
nostra mente in un indistinto, in una gnosi che non può
evidentemente ammettere un principio razionale dal significato assoluto e
fondamentale come quello di identità e non contraddizione, valido di per sè,
indipendentemente dalla nostra mente, perché inerente alla natura immutabile
delle cose.
6. Torniamo per un momento a K a n t .
Nel
testo citato egli spiega le categorie del “possibile” e dell’”impossibile”. Pur senza negare che la coesistenza
simultanea di essere e non-essere nel medesimo ente o atto sia da ritenersi del
tutto impossibile perché di per sè impossibile a concepirsi, egli
sembra tuttavia voler ridurre la portata del “principio di non-contraddizione”
(Satz der Widerspruchs, principio di contraddizione). Ridurla, nel senso di proporre anche un altro
criterio per valutare la suddetta impossibilità, il criterio della contradddizione,
figura logica indipendente dalla determinazione del tempo. Difatti, per Kant, bisogna dire che
“impossibile è ciò che si contraddice”.[6] Scambiando definizione e definito,
sottolinea, si ottiene lo stesso risultato, quindi la definizione è buona. Pertanto: “ Ciò che si contraddice è impossibile”. Ne consegue che “ciò che non si contraddice
non è impossibile. E ciò che non è
impossibile, è possibile.”[7] Questo è un criterio valido, secondo Kant,
per stabilire la verità (in relazione alla possibilità o meno di essere in modo
coerente alla natura di ciò che è).
Ma qual’è allora la differenza con il modo
tradizionale di esprimere il principio di non-contraddizione, quello che si
appoggia sul simul? Non contiene
anch’esso il concetto della contraddizione quale elemento qualificante? Lo contiene ma ha il torto, agli occhi di
Kant, di far riferimento (con il simul) al tempo come realtà obiettiva,
conoscibile in modo indipendente dalle categorie a priori del nostro
intelletto. Kant vuole pertanto trovare un criterio che si basi sulla pura
logica dell’esser in contraddizione, senza alcun riferimento alla dimensione
temporale. E difatti non fa forse capire
che il principio sarebbe meglio formulato nella frase latina: “a nessun soggetto compete [si può
attribuire] un predicato ad esso opposto”, cioè che sia, con ogni evidenza, in
contraddizione con la natura specifica, particolare di questo soggetto,
quale essa sia?
Il “principio di contraddizione” tradizionale non
viene tuttavia escluso, non sarebbe possibile.
Viene ribadito, ma in questo modo:
“Il
Principium contradictionis è un criterium della verità, che
nessuna conoscenza può contraddire. Criterium veritatis è il segno
distintivo della verità. Il Principium
contradictionis è il più alto negativum criterium della verità. È una conditio sine qua non di ogni
conoscenza; ma non è il criterium sufficiente [per stabilire] ogni
verità.”[8]
La
“conditio sine qua non” si applica dunque al principio di identità e
non-contraddizione come il massimo “criterio negativo” per determinare la
verità. Il criterio negativo è quello, si è visto, denominato “nihil negativum”,
cioè il criterio in base al quale nulla può esser pensato. Questo criterio, per Kant, è una “conditio
sine qua non” e tuttavia non è “sufficiente” per determinare ogni verità. Potremmo forse dire: condizione necessaria ma non sufficiente? E
perché non sufficiente? Perché, possiamo
interpretare, si limita ad imporre l’impossibilità di pensare la cosa, giocando
sull’elemento del tempo, lasciando quindi fuori altri aspetti, a cominciare
dall’impossibilità di essere derivante dall’ esser in contraddizione tra
soggetto e predicato, modus in quanto tale scisso da ogni determinazione
temporale.
Il
tema è complesso e richiede approfondimenti che ci porterebbero lontano. Intanto mi basta aver messo in rilievo, spero
in modo chiaro ed evidente, un fatto a mio avviso di fondamentale importanza
ossia che il principio di identità e non-contraddizione implica l’esistenza del
tempo come durata effettiva, indipendente dal soggetto pensante: l’implica e a ben vedere la dimostra.
Paolo Pasqualucci
20 agosto 2021
[1] I. KANT, Vorlesungen über die
Metaphysik, ediz.
postuma, Erfurt, 1821, rist. anast. WBG, Darmstadt, 1975, p. 21: “ Impossibile est simul esse ac non esse. Simul bedeutet zu gleicher Zeit; die
Zeit ist aber noch nicht erklärt. Man kann also lieber sagen: nulli
subjecto competit praedicatum ipsi oppositum. Nihil negativum ist das, was gar nicht
gedacht werden kann.” Le kantiane Lezioni
sulla metafisica risultano dai manoscritti del filosofo. Hanno pertanto un aspetto schematico. Sono comunque ritenute attendibili, quale
espressione del genuino pensiero kantiano.
[2] Anassagora, Testimonianze
e framenti, introduz. tr. it. e commento a cura di Diego Lanza, La Nuova
Italia, Firenze, 1966, con testo a fronte:
“Tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza [vous]
è illimitata, indipendente e non è mescolata ad alcuna cosa ma sta sola in
sé. Se, infatti, non stesse sola in sé,
ma fosse mescolata a qualche cosa d’altro, parteciperebbe di tutte le cose, se
fosse mescolata a qualcuna. In tutto si
trova infatti parte di ogni cosa, come ho detto prima, e le cose mescolate le
sarebbero d’ostacolo, sí che non avrebbe potere su alcuna cosa, come lo ha
stando da sola in sé. È infatti la più
sottile e la più pura di tutte le cose e possiede piena conoscenza di tutto e
ha grandissima forza. E quante cose hanno vita, le maggiori e le minori, tutte
domina l’intelligenza…” (op. cit., pp. 224-229). Questo nous è stato sempre inteso
dalla tradizione occidentale come primeva intuizione dell’esistenza della Mente
divina, ontologicamente separata (intellectus immixtus – san Tommaso
d’Aquino) da tutta la realtà visibile nel suo complesso, natura e uomini; Mente che tutto domina e governa. Di essa la nostra mente è solo un pallido e
limitato riflesso.
[3] Gendün Rinpoche,
Istruzioni spirituali. Dal cuore di un Maestro Mahāmudrā, ediz. italiana a
cura di Vincenzo Noja, Le Lettere, Firenze, 2021, p. 118. Si tratta di una traduzione dal tedesco dello
stesso Noja. L’edizione tedesca opera di
un Maestro tedesco, Lama Sönam
Lhündrup (Tilmann
Borghart). Corsivi miei. Il samsāra è il divenire della nostra
esistenza, di reincarnazione in reincarnazione, dominato dal dolore. Mahāmudrā significa “grande
sigillo” e designa un tipo particolarmente elevato di meditazione.
[4]
Op. cit., p. 205, nella sezione intitolata “Prepararsi alla morte”, pp.
199-220.
[5] Giuseppe Tucci, Premessa
a Il libro tibetano dei morti (Bardo
Tödöl), a cura di
Giuseppe Tucci, con Introduzione dello stesso, UTET, 1972, pp.
12-13. Ma vedi, Rinpoche, cit., p. 207
ss., più in dettaglio.
[6]
Kant, op. cit., p. 22: “Unmöglich ist das, was sich
widerspricht”.
[7]
Kant, op. cit., ivi.
[8] Kant, op. cit., ivi. La parte finale del periodo recita in
tedesco: “…aber nicht das hinreichende
Criterium aller Wahrheit.”