venerdì 26 marzo 2021

Letture Cattoliche 2 - La Pazienza cristiana.

 

 

Letture  Cattoliche 

A  cura  di   Paolo  Pasqualucci

 

2 -  La  pazienza   cristiana

 

[ Da :  S. Francesco di Sales, La Filotea ossia introduzione alla vita devota,  tr. it. del Sac. Eugenio Ceria,  6a ediz. riveduta, Torino, S.E.I., 1945;  Parte Terza, Le virtù, cap. III, La pazienza, pp. 191-199 ]

A  cura  di  Paolo  Pasqualucci

 

N o t a -- La Filotea è neologismo con il quale il santo Autore indica “colei che ama Dio”, “l’anima che ama dio” [phylos, caro, amante, amico + theos, il dio, Dio] alla quale è indirizzata l’ Introduzione.  L’opera  non si rivolge a persone che vogliano esser “segregate” o “isolate” dal mondo, agli aspiranti monaci, insomma al clero regolare.  Come spiega l’ Autore nella Prefazione , “io invece ho in animo d’istruire coloro che vivono nelle città, tra le faccende  domestiche, nei pubblici impieghi, e che dalla propria condizione sono obbligati a fare, quanto all’esterno, la vita che tutti fanno. Costoro, d’ordinario, sotto pretesto di un’immaginaria impossibilità, non vogliono nemmeno pensare a intraprendere la vita divota, dandosi a credere che, come nessun animale osa gustare i semi dell’erba chiamata Palma Christi, così nessun uomo debba aspirare alla palma della pietà cristiana fin tanto che vive nella ressa degli affari temporali.  Ebbene io mostrerò a questi tali […] che un’anima energica e costante può vivere nel mondo senza imbeversi di umori mondani, può trovare sorgenti di dolce pietà nelle onde amare del secolo, può volare tra le fiamme delle concupiscenze terrene senza lasciarvi le ali dei santi desideri della vita divota.  L’impresa è ardua al certo, e per questo appunto mi piacerebbe che molti vi dedicassero il pensiero con più ardore che non siasi fatto sin qui:  io intanto nella mia pochezza mi studierò di portare con questo scritto un qualche aiuto a chi di buona voglia si accingerà in seguito ad un’opera sì degna” ( op. cit., pp. XV-XVII )].

 Ho conservato alla traduzione il suo carattere antiquato, di un italiano ancora ottocentesco.  Gli inserimenti miei nel testo sono accompagnati dalla sigla “ndr”, nota del relatore.  Le citazioni dei Testi Sacri, tutte dell’Autore, sono lasciate nel vecchio stile, che si serviva ampiamente dei numeri romani.

* * *

 

La pazienza è a voi necessaria, affinchè, facendo la volontà di Dio, entriate in possesso delle sue promesse”,  dice l’Apostolo [Hebr., X, 36].  Sì, è così; perchè , come aveva già dichiarato il Salvatore [Luc., XXI, 19], nella vostra pazienza possederete le anime vostre.

 Il possedere l’anima  propria è la più gran fortuna di un uomo, o Filotea, e quanto più perfetta sarà la nostra pazienza, tanto più perfettamente noi possederemo le nostre anime.  Ricòrdati spesso che, come il Signore ci ha salvati soffrendo e patendo, così dobbiamo anche noi operare la nostra salute per mezzo delle sofferenze e dei patimenti, sopportando le ingiurie, le contraddizioni e le croci con la maggiore soavità possibile.

Non limitare la tua pazienza a qualche offesa o a qualche pena determinata, ma estendila a tutte quante quelle che a Dio piacerà di mandarti o di permettere.  Vi sono certuni che non vogliono soffrire se non pene che rechino onore, come per esempio essere feriti in battaglia, cadere prigionieri di guerra, ricevere maltrattamenti per la religione, rimanere impoveriti a motivo d’una lite vinta da essi;  ora questi tali non amano già la pena ma l’onore che ne deriva.  Il vero paziente e vero servo di Dio piglia senza distinzione croci ignominiose e croci onorate.  Il soffrire disprezzi, riprensioni, accuse e maltrattamenti dai malvagi, è cosa gradita a un uomo di animo forte; ma a tollerare di essere rimproverato, calunniato, trattato male da persone a modo, dagli amici, dai parenti, ci vuole del buono e del bello!  Io stimo più la dolcezza del grande san Carlo Borromeo in soffrire lungo tempo le pubbliche riprensioni fattegli sul pulpito da un insigne predicatore d’un Ordine assai osservante, che non per tutte le persecuzioni da lui patite in altre circostanze.  Perchè, siccome le punture delle api sono più cocenti che quelle delle mosche, così il male che si riceve da parte di gente rispettabile, e le contraddizioni che vengono da parte d’uomini dabbene, sono più insopportabili d’ogni altra cosa, avvenendo purtroppo sovente che due persone dabbene abbiano entrambe ottime intenzioni, e tuttavia per diversità di vedute si perseguitino e si facciano guerra a vicenda.

Nelle afflizioni che ti sopraggiungono, sii paziente non solo riguardo alle afflizioni per se stesse, ma anche riguardo alle circostanze accessorie che ordinariamente le accompagnano.  Molti vorrebbero, sì, avere qualche cosa da soffrire, ma purchè non ne venisse loro nessun incommodo.  Non mi rincrese, dice uno, d’essere diventato povero; mi dispiace solamente che questo m’impedisca di servire gli amici, di allevare i figli e di vivere con quel decoro che vorrei.  Un altro dirà:  non me ne importerebbe niente, se non fosse che il mondo penserà che questo mi sia succeduto per mia colpa.  Un terzo sarebbe contentissimo che si parlasse male di lui e lo soffrirebbe in pace, a patto però che nessuno prestasse fede al maldicente.  Altri accettano volentieri una parte degl’incomodi cagionati da qualche malattia, ma tutti no:  non s’inquietano già, dicono loro, di essere ammalati, ma perchè non hanno danaro per farsi curare o perchè quei di casa ne restano incomodati.  Invece io dico, o Filotea, che bisogna tollerare con pazienza non solo d’essere ammalati, ma anche d’essere malati della malattia che Dio vuole, nel luogo ch’egli vuole, tra le persone che vuole, e con i disagi che vuole;  e dico il medesimo delle altre sofferenze.

Quando ti verrà del male, adopera pure tutti i rimedi possibili, a te e conformi al volere di Dio, perchè il fare diversamente sarebbe un tentare il Signore; ma poi, fatto questo, attendi con piena rassegnazione quell’effetto che a Dio piacerà.  Se a lui piacerà che i rimedi vincano il male, ne lo ringrazierai umilmente; se invece gli piacerà che il male vinca i rimedi, benedicilo con pazienza.

Io sono del parere di san Gregorio [S. Gregorio Magno, papa - ndr]:  quando verrai accusata giustamente per una colpa da te commessa, umiliati profondamente, e confessa che meriti l’accusa contro di te [Moral., in Iob, XXII, 30-34].  Se invece l’accusa mossa è falsa, scùsati in bel modo, dicendo che non sei colpevole, perchè devi questo riguardo alla verità e all’edificazione del prossimo; ma se dopo la tua vera e legittima scusa continuano ad accusarti, allora non ti turbare nè affannarti più in volere  che siano menate buone le tue scuse:  perchè, fatto il tuo dovere con la verità, lo devi fare anche con l’umiltà.  Così non verrai meno nè alla sollecitudine che sei obbligata di avere per il tuo buon nome, nè all’affetto che hai da nutrire per la pace e la dolcezza del cuore e per l’umiltà dello spirito.

Lamèntati meno che puoi dei torti ricevuti;  poichè è certo che d’ordinario chi si lameneta cade in qualche peccato, facendoci sempre il nostro amor proprio comparire più grandi che non siano le ingiurie; ma soprattutto non fare i tuoi lamenti con persone facili a sdegnarsi e a pensare male.  Nel caso che ti paresse conveniente dolerti con alcuno o per rimediare all’offesa o per calmare il tuo spirito, devi procurare che sia con anime molto tranquille e davvero amanti del Signore; perchè altrimenti, invece di sollevarti il cuore, te lo getterebbero in maggiori inquietudini, e invece di cavarti dal piede la spina che ti punge, te la ficcherebbero dentro più di prima.

Certuni, quando cadono malati o sono afflitti o ricevono un’offesa, evitano bensì di querelarsi e di mostrarsi permalosi, perchè questo, a parer loro (ed è proprio così), darebbe chiaramente a vedere che mancano di fortezza e di generosità;  ma hanno tuttavia una gran voglia, e lo procurano con cento artifizi, che ognuno si dolga con loro, li compassioni, li stimi non solo afflitti, ma anche pazienti e coraggiosi.  Cotesta è, sì, una specie di pazienza, ma pazienza falsa, la quale in ultima analisi non si riduce ad altro che a una finissima ambizione e vanità; costoro hanno di che gloriarsi, dice l’Apostolo, ma non dinanzi a Dio [Rom., VI, 2].  Il vero paziente non piange il suo male, nè desidera di essere compianto dagli altri, ma ne parla con un linguaggio schietto, verace e semplice, seenza lamenti, senza rammarichi, senza esagerazioni:  se lo compatiscono, si lascia compatire in pace, tranne quando lo compatiscono di un male che non ha; in tal caso dichiara modestamente che non ha quel male, e se ne sta tranquillo fra la verità e la pazienza, dicendo il male che ha e non movendone alcuna lagnanza.

Nelle ripugnanze e difficoltà, che, praticando la divozione, non mancherai di provare, abbi a mente il detto di Nostro Signore:  la donna, allorchè partorisce, è in tristezza, perchè è giunto il suo tempo, ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perchè è nato al mondo un uomo.” [Ioann., XVI, 21].   Tu hai concepito nell’anima tua il bambino più bello che vi sia, cioè Gesù Cristo, e prima del mistico parto il travaglio ti è inevitabile; ma fatti coraggio, chè, passati i dolori, ti resterà la gioia eterna di aver dato alla luce un uomo di tal natura.  Ora egli sarà per te ben partorito, quando lo avrai ben formato nel tuo cuore e nelle tue parole, cosa che otterrai con lo studiarti d’imitarne la vita.

Quando cadi malata, offri a Gesù tutti i tuoi dolori, pene e miserie, e supplicalo di unirli ai tormenti da lui sofferti per te.  Obbedisci al medico, piglia le medicine, gli alimenti e ogni sorta di rimedio per amore di Dio, richiamandoti alla memoria il fiele ch’egli bevette per nostro amore.  Desidera di guarire per servirlo; non ricusare di patire per obbedirgli e sii disposta anche a morire, se così piace a lui, per andarlo a lodare e a godere in cielo.  Le api, nel tempo che fanno il miele, vivono mangiando un cibo amarissimo; e così noi non possiamo assolutamente fare atti di maggiore dolcezza, nè comporre bene il nostro miele di belle virtù, se non mangiando il pane dell’amarezza e vivendo in mezzo alle angosce.  E come il miele ricavato dai fiori di timo, erba piccola e amara, è il migliore di tutti, così la virtù praticata nell’amarezza delle più vili, basse e abbiette tribolazioni è più eccellente d’ogni altra.

Mira sovente con i tuoi occhi interni Gesù Cristo crocifisso, nudo, bestemmiato, calunniato, derelitto, e curvo sotto un gran peso di tedii, tristezze e travagli d’ogni maniera, e considera che tutte le tue pene non si possono nè per qualità nè per numero paragonare alle sue, e che per quanto tu soffra, sarà sempre un nulla a petto di quanto egli ha sofferto per te.  Considera le pene già sofferte dai Martiri e quelle patite ora da tanti e tanti, pene senza confronto più gravi di quelle che provi tu, e poi di’ così:  Eh, che i miei travagli sono consolazioni, e le mie spine rose, a confronto di coloro che senza soccorso, senz’aiuto, senza sollievo vivono in una morte continua, oppressi da tribolazioni  infinitamente più gravi delle mie!

lunedì 22 marzo 2021

Letture Cattoliche 1 - Il dono di sè a Dio Onnipotente

 

 

Letture   Cattoliche

(a cura di Paolo  Pasqualucci)

 

1 – Il dono di sè a Dio Onnipotente.

[Da :  G. Schryvers, C. SS. R,  Il  dono  di  , versione italiana pubblicata da  Marietti  nel 1926, successivamente ristampata più volte anche da altri editori.]

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[Che significa “darsi a Dio”]

“ Darsi a Dio vuol dire affidargli anima e corpo, vuol dire abbandonargli tutte le proprie potenze, le proprie aspirazioni e i propri sentimenti, i propri desideri e i propri timori, le proprie speranze e i propri progetti per l’avvenire, riservandosi solo la cura di amarlo.

Darsi a Dio vuol dire dimenticar se stesso, deporre nel Cuore di Gesù tutte le preoccupazioni, tutte le sollecitudini e le mille noie della vita quotidiana, confidargli i propri interesssi, incaricandolo di provvedere a tutto, di rimediare a tutto.

Darsi a Dio vuol dire non occuparsi più di sè e non pensare ad altro che a Dio; vuol dire consacrarsi alle opere che si riferiscono alla sua gloria, dilatare, nella misura delle proprie forze, il regno del vero e del bene; vuol dire dedicarsi ai propri fratelli per amore del Maestro, vuol dire istruire, confortare, aiutare, vuol dire, soprattutto, convertire e condurre a Dio.

[…]  Dio è il nostro principio.  Egli ci ha creati, ci conserva, partecipa a tutte le nostre azioni; opera continuamente in ciascuna nostra facoltà, in ciascun nostro senso, in ciascuna delle cellule che compongono il nostro corpo.  Riconosciamo con amore il suo sovrano dominio.  È questo il dono di sè.”

(Parte I, Cap. I, È giusto darsi a Dio; Art. I, Dio è il principio di tutte le cose, ediz. con imprimatur del 1945, pp. 3-4; 6).

[L’unica vera nostra guida è lo Spirito Santo]

“Oh, quanto devo diffidare di me stessa e appoggiarmi alla mia guida!

Questa guida è lo Spirito divino, il Paracleto, il Consolatore nella tristezza e negli scoraggiamenti, il sostegno nelle difficoltà della vita, la luce nella notte.

Egli fa della santificazione delle anime il suo unico affare.   Che gl’importa la sorte degl’imperi, quando le anime che guida raggiungono la santità?  La sua provvidenza governa il mondo, dispone delle corone, conferisce o toglie il potere, e tutto secondo la sua volontà e per il bene delle anime.  Perchè le rivoluzioni, le guerre, l’epidemie, le grandi sventure sociali?  Perchè le persecuzioni, l’oppressione dei paesi deboli, il trionfo della brutalità?  Perchè i flagelli pubblici, i lutti delle famiglie, l’ecatombe di vite umane, le lacrime delle madri?  Oh!  quanto è corta la vista della ragione umana!  Vi sono anime elette, numerosissime forse, le quali saranno purificate e santificate da queste prove.  Vi sono anime che senza di esse non si salverebbero mai.  Il mondo intero non vale una sola di tali anime.   Per avere un atto di amore di più da una piccola anima nascosta in fondo a qualche casolare, Dio permetterebbe sconvolgimenti terribili.

O savi e potenti del secolo!  credete di essere gli arbitri del mondo, di poter dettare la pace o la guerra, e Dio si ride della vostra potenza di un giorno.  Siete strumenti di cui si serve un istante e poi sparite.  E l’opera divina si compie, le anime di buona volontà si santificano.”

(Op. cit., Parte I, cap. II, È cosa savia darsi a Dio, Art. VIII, Guidata dallo Spirito divino, tutto concorre al progresso dell’anima semplice, pp.  50-51).

 

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[La pratica perfetta del “dono di sè”]

“La vita dell’uomo è una successione non interrotta di doveri da compiere; è una serie di avvenimenti felici e penosi.

La ragione umana non vede se non il presente, ma Dio abbraccia il complesso dei fatti che costituiscono la vita intera.  Ne ha regolato precedentemente i particolari, ne ha contrassegnato i momenti, mischiando il piacevole allo sgradevole, le gioie alle pene, la buona riuscita ai rovesci di fortuna.  Ne ha determinato la durata e fissato il termine.  Tutto, nel pensiero divino, deve servire alla sua maggior gloria, e alla santificazione degli eletti.

L’anima semplice quando ha acquistato, a forza di esercizio, l’abitudine del dono di sè, si lascia condurre da Dio attraverso tutti gli avvenimenti della vita.

Non sapendo nulla, nè volendo saper nulla antecedentemente, si contenta di tener la mano di Dio e di accompagnare il buon Maestro durante tutta la giornata.

Non indica alla sua Guida la via da seguirsi, non le prescrive le soste da farsi, nè i riposi da prendere.  Questo spetta a Dio, il suo ufficio è di stringere la mano che la conduce e di camminare.

Non va nè più presto, nè più lentamente della sua Guida, non la prega affatto di affrettare il passo.  Sa che Dio è padrone del tempo e degli eventi e che arriverà al termine nell’ora fissata da Lui.

L’anima, condotta da Dio attraverso la vita, non si meraviglia di nulla.  Tutte le creature che incontra per via vengono a servirla, perchè tiene la mano di Dio.  Ma molte la servono a malincuore.  Essa lo sa, ma non se ne inquieta nè se ne affligge.  Nota anzi che molte cercano di nuocerle, ma non le teme, essendo vicina a Dio.

Spesso non capisce nulla degli avvenimenti che si succedono intorno ad essa, e dei cambiamenti operati in lei.  Non si preoccupa di tale ignoranza, perchè sa che Dio tiene la chiave di tutti i fatti della storia e di tutti i particolari della vita di ogni uomo.  Ha imparato per esperienza che certi avvenimenti, in apparenza senza importanza, erano destinati ad avere grandi conseguenze; che tal fatto, esteriormente insignificante, era voluto da Dio per sottrarla ad un pericolo.

Perciò, non giudica nulla come superfluo o poco importante nella vita, e raccoglie i minimi doveri, gli avvenimenti più insignificanti, le più piccole croci con grande rispetto unito all’amore.  Sa che sono come tanti frammenti dell’Ostia divina che, nonostante la loro piccolezza, contengono Dio tutto intero.

Ella non fa alcuna scelta tra le croci da portare e gli obblighi d’adempiere, accogliendo gli uni, trascurando gli altri.  Tutti hanno un valore uguale dinanzi a Dio.  Parimente, non vede alcuna ragione di sbrigare più rapidamente tal lavoro per incominciarne un altro.  Ai suoi occhi tutto è oro puro, tesoro divino;  non deve fare altro che raccogliere, senza scegliere.

L’anima semplice non si lamenta mai; non vede di chi o di che cosa potrebbe lamentarsi.  Essa ha tutto in abbondanza.  Ogni momento le porta Dio con i suoi beni infiniti; le creature per forza o per amore la servono; gli avvenimenti si accomodano meravigliosamente e sempre a suo profitto.

Non si lamenta di non aver tempo da consacrare alla preghiera, perchè tutto le serve per unirsi a Dio.  Non mormora dell’opposizione che le si fa ingiustamente, perchè tale opposizione rientra nei disegni di Dio.  Non biasima gli altri nè critica la loro condotta, perchè le loro intenzioni le sono nascoste.

Si contenta di fare il suo dovere, non desiderando troppo vivamente la riuscita dei suoi sforzi.  Spesso, le anime migliori si turbano vedendo che il loro lavoro, iniziato così puramente per la gloria di Dio, non riesce a nulla, deplorano questa delusione e se ne consolano a stento.  L’anima veramente spirituale non cade in tali angustie; sa che spesso Dio vuole lo sforzo e la pena e non la buona riuscita.

Lasciamogli la cura della sua gloria, nessuno lo impedirà di raggiungerla; non ci affliggiamo di un insuccesso che sembra contrario agl’interessi di Dio.  Le sue viste sono più vaste delle nostre, abbracciano tutto il complesso della creazione e si estendono fino all’eternità.

Oh! di quanti incanti divini è piena simile vita!  Comincia dunque, anima mia, a condurla fino da oggi.  Hai fatto a Dio il tuo atto fondamentale, ti sei data a Lui per amore, accompagna ora la tua Guida attraverso tutti i doveri, tutti gli avvenimenti, tutte le pene della giornata.  Contentati di amarla, accetta quello che Essa ti dà, fa’ quello che ti comanda, porta le croci che t’invia; poi lasciale la libertà di fare in te e di te tutto quello che vorrà.  La tua santità è assicurata, come la tua felicità.

O Maria!  Madre tenerissima, io ti amo quanto il mio cuore è capace di amare.  Voglio rimaner sempre vicino a te, come Giacobbe accanto a sua madre.  Divina Rebecca!  Insegnami il segreto di piacere al Padre mio, affinchè Egli mi benedica e mi santifichi.”

(Op. cit., Parte II, Cap. I,  La pratica dell’abbandono in generale, Art. VI, L’anima arrivata alla pratica perfetta del dono di sè, pp. 104-109).

 

* * *

[L’anima pia deve attendersi la persecuzione]

 “ Chiunque voglia vivere piamente in Cristo Gesù, soffrirà la persecuzione:  Qui pie volunt vivere in Christo Iesu, persecutionem patientur “ (2 Tim  3, 12).  Lo dice S. Paolo sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. 

Nei suoi primi passi, l’anima naturalmente buona s’immagina che tutto nella via le sorrida.  Si dedica senza troppo pensare a quello che le piace e l’attrae, e crede che tutti gli uomini siano retti e semplici come lei.

Ahimé!  tale illusione dura poco.  Presto si accorge che l’amore che le si porta, che la bontà che le si attesta, sono mischiati con altri elementi e spesso non sono altro che vernice, apparenza, diciamo un velo, sotto il quale si nasconde più di una volta un vile egoismo.

Quante più relazioni ha con gli uomini, tanto più scopre nella maggior parte di essi la freddezza del loro cuore, la meschinità dei loro sentimenti, la piccolezza del loro spirito.  Questi difetti li considera in quelli stessi che le sembrano virtuosi e istruiti.  È vero che finisce, dopo una serie di esperienze personali, con osservarli anche in se stessa.

Essa non s’inganna.  Ogni uomo è per sua natura limitato; limitato in fatto d’intelligenza e di prudenza, limitato in fatto di riflessione e di consiglio.  Il cuore umano è eccessivamente oppresso dall’amor proprio e lo spirito è ristretto dall’ambizione.  Ahimè! La meschinità, la ristrettezza di vista, l’ostinazione nei giudizi sfigurano le anime migliori. […]

L’anima piena di buona intenzione, si vede sospettata, contrariata e ostacolata nelle sue migliori imprese.  L’anima semplice, credendo di andare direttamente a Dio con un moto del cuore, si vede fatta oggetto di sospetti, di esami, di censure;  non si tollera che essa operi differentemente dagli altri, che si allontani dalla società e dal contatto con gli uomini, che si obblighi ad ore di preghiera, che non si dia alcun riposo o spezzi relazioni, giudicate necessarie.

L’anima sospinta da un grande zelo si vede combattuta nei propri disegni, abbandonata dai suoi migliori amici, criticata dai giudici più competenti, tradita dai suoi più fedeli confidenti:  si trova quello zelo mal regolato, quella attività eccessiva, quell’applicazione e quella cura esagerate.  La sua costanza è tacciata di ostinazione, la sua umiltà d’ipocrisia, la sua fermezza di orgoglio, la sua perseveranza ambizione mascherata.

E non ci si ferma ai giudizi e alle parole.

Se l’anima persiste nella sua linea di condotta, comincia la persecuzione, talora nascosta, talora aperta.  Si mettono in gioco tutti gli espedienti per raggiungere l’anima e paralizzarla:  lo scherno, le informazioni sfavorevoli, talora la calunnia.  Chi, più dell’anima che ne è stata vittima, sa quanti mezzi può inventare la malizia umana, quanti dardi può lanciare, quanti tranelli può tendere per nuocere a un preteso avversario?   […]

L’anima non deve meravigliarsi se incontra la persecuzione, neppure se le viene da persona dabbene.

Deve persuadersi che questa miseria è una conseguenza fatale della meschinità dello spirito umano, e dell’egoismo inerente alla natura dell’uomo. […] 

L’uomo vede le apparenze, giudica dall’esterno, segue le proprie impressioni, simpatie e antipatie, disapprova e vuol correggere tutto quello che non è conforme alle sue idee e ai suoi modi di fare.

L’anima deve persuadersi fortemente che quaggiù non troverà nessuno, sulla cui approvazione e sul cui appoggio possa fare assoluto assegnamento.  L’amico più fedele, il direttore più stimato, il confidente più intimo, il superiore più benevolo possono sparire e mancarci nel momento nel quale speravamo il loro consiglio o la loro autorità.

Finchè l’anima non si sarà radicata nella convinzione che sulla terra essa non deve cercare appoggio da nessuna parte, non sarà preservata da penose delusioni e da cocenti  inganni.   Bisogna decidersi.  La natura umana è fatta in modo che non può con sicurezza appoggiarsi interamente sopra alcun uomo; Dio ha voluto così, affinchè l’anima non abbia, in ultima analisi, altro che Lui e non si riposi altro che in Lui.

L’anima, ben persuasa di tal verità, non deve temere la persecuzione sotto qualunque forma si presenti.

Una volta che ci siamo dati a Dio definitivamente, non si fa più caso della stima degli uomini.  Le loro critiche, le loro violenze, i loro scherni non hanno più il potere di scuoterci.  Non già per esser loro graditi, o per conquistarci la loro stima, abbiamo rinunciato a tutto.

Se il mondo intero si sollevasse contro l’anima che si è data a Dio, in che cosa dunque potrebbe nuocerle?  L’anima non ha bisogno del mondo, nè della sua approvazione, sa che l’opinione degli uomini non ha alcun valore dinanzi a Dio.  Se tutto l’universo si collegassse contro di lei, non potrebbe toglierle neppure il merito di una sola azione.

Il mondo non è potente se non contro chi lo teme.  Chi affronta le sue minacce e le sue grida, lo trova impotente.

Bisogna dunque ripetersi spesso in fondo al cuore:  verrà un tempo, nel quale mi vedrò abbandonato da tutti, privo di consiglio e d’incoraggiamento, sospettato dai miei superiori e condannato dai miei uguali. Non temerà tale situazione, perchè non ho bisogno di altri all’infuori di Gesù.  Faccio fin d’ora il sacrificio della stima, dell’affetto e della fiducia di tutti quelli che mi sono cari; starò bene attento solamente a non allontanarmi mai dall’obbedienza.   Quanto più sarò respinto dalle creature, tanto più mi stringerò a Gesù. Egli solo conosce la rettitudine delle mie intenzioni, la semplicità del mio cuore.

Questo atto rinnovato con frequenza, nel tempo dell’orazione, crea nell’anima una grande libertà di cuore, una santa indipendenza da qualunque apprezzamento umano.

Vengano la persecuzione, la calunnia, l’abbandono degli amici, la sfiducia dei superiori; l’anima non è più colpita. […]

Dio, del resto, non lascia l’anima senza difesa.  Quanto più si abbandona a Dio, tanto più Egli la prende sotto la sua direzione.  Quanto più trascura i suoi interessi e la sua giustificazione personale, tanto più Dio si occupa di difenderla e di farla progredire spiritualmente.

Fa servire ai suo disegni i suoi stessi nemici.  Le loro calunnie, le loro critiche maliziose, le loro violenze o i loro inganni contribuiscono a mettere in luce l’innocenza e il buon diritto dell’anima perseguitata.  […]

O Gesù!  la mia condotta nelle contraddizioni e nelle persecuzioni è dunque molto semplice.  Non devo fare altro che gettarmi nelle tue braccia, affidarti la mia difesa e amarti.  È più facile che periscano il cielo e la terra, piuttosto che l’anima che si è affidata a Te.

L’ufficio dell’anima interiore, perciò, non cambia mai.  In seno all’abbondanza, alla buona fortuna, alle consolazioni, alla luce, all’approvazione degli uomini, essa non ha altro che un atto:  il dono incondizionato di sè a Gesù.  In mezzo alle tenebre, alla miseria, alle critiche e all’avversità, non ha, parimente, altro che un atto:  darsi a Dio con un ardente atto di amore.  Ecco tutto il suo segreto, tutta la sua sapienza.”

 (Op. cit., Parte II, cap. III, Art. III, L’anima che si è abbandonata a Dio deve aspettarsi la persecuzione;  Art. IV,  Condotta dell’anima nel tempo della persecuzione, pp. 161-170 – estratti).    

 

domenica 7 marzo 2021

Commento Dogmatico del Tempo della Quaresima, tratto dal Messale Romano Ordo Vetus

 

 

Esposizione del “Commento dogmatico” del tempo di Quaresima del P. D.C. Lefebvre O.S.B., tratto dal “Messale Romano”, rito dell’Ordo  Vetus, edizione aggiornata al 1962, stampato da : Edizioni S. Francesco di Sales, Priorato S. Carlo, Via Mazzini, 19,  Monalenghe (TO), 1992 ; pp. 295-297. 

A  cura  di  Paolo  Pasqualucci

 

 

“Il tempo della Settuagesima ci ricorda la necessità di unirci collo spirito di penitenza, all’opera redentrice del Messia.  Il Tempo di Quaresima, col digiuno e le pratiche di penitenza, ci dà modo di associarsi ancor più strettamente ad essa.  Ribelle a Dio, l’anima nostra è infatti diventata schiava del demonio, della carne e del mondo.  In questo santo Tempo la Chiesa ci mostra Gesù nel deserto (1a Domenica di Quaresima)  e nella sua vita pubblica, che combatte per liberarci dalla triplice catena dell’orgoglio, della lussuria e dell’avarizia che si attacca alle creature.  E allorchè Cristo ci avrà, con la sua dottrina e le sue sofferenze, strappati alla nostra cattività e resi alla libertà di figli di Dio, ci darà, a Pasqua, la vita divina che avevamo perduta.  Perciò la liturgia quaresimale, così ricca degli insegnamenti del Maestro e dello spirito di penitenza del Redentore, serviva anticamente per istruire i Catecumeni e per suscitare la compunzione nei pubblici penitenti che aspiravano a risuscitare con Gesù, ricevendo, il Sabato  Santo, i Sacramenti del Battesimo e della Penitenza.  Sono questi i due pensieri che la Chiesa svilupperà durante tutta la Quaresima, mostrandoci nei Giudei infedeli, i peccati che non possono ritornare a Dio, se non associandosi al digiuno di Gesù (Vang. della 1a Dom.), e nei Gentili, chiamati in loro vece,  gli effetti del Sacramento di rigenerazione (Vang. della 2a e 3a Dom.) e dell’Eucaristia nelle anime nostre (Vang. della 4a Domenica).

Nell’Ufficio Divino [con la recita del Breviario] si seguono le letture dell’Antico Testamento (vedi tavola, p. 268).  La prima Domenica di Quaresima l’immagine di Isacco è assorbita dal pensiero di Gesù nel deserto.  Si è del resto già accennato al figlio di Abramo quando, nella Domenica precedente, la Chiesa ha parlato di questo gran patriarca.  Nella seconda settimana di Quaresima la Liturgia legge la storia di Giacobbe che è la figura di Gesù Cristo e della sua Chiesa, che Dio protegge e benedice come fece per questo santo patriarca.  Nella terza settimana di Quaresima, le letture dell’Ufficio trattano di Giuseppe e la Chiesa vede in lui la figura di Cristo e della Chiesa che hanno reso benefici per gli oltraggi e che brillano di speciale splendore per la loro vita purissima.  Finalmente la quarta settimana di Quaresima è consacrata a Mosè che liberò il popolo di Dio e lo condusse verso la terra promessa, figura di quello che Gesù e la sua Chiesa fanno per le anime a Pasqua.  “Al lume del Nuovo Testamento, dice la Liturgia, Dio spiega i miracoli compiuti nei primi tempi, mostrandoci nel Mar Rosso l’immagine del Sacro Fonte e nel popolo liberato dalla servitù dell’Egitto, la figura del popolo cristiano”[Oraz. Dopo la 2a Profezia nella Vigilia di Pentecoste].  Ci prepareremo così, come abbiamo già detto altrove, “a celebrare con la Chiesa il mistero pasquale nelle pagine dei due Testamenti che ci danno la piena intelligenza della grande misericordia di Dio.”[7a Oraz. del Sabato Santo].  

Il Tempo di Quaresima è una specie di grande ritiro fatto dai cristiani di tutto il mondo che si preparano alla Pasqua, e chiuso con la Confessione e la Comunione pasquale.  Come Gesù, ritiratosi dal mondo, ha pregato e digiunato durante quaranta giorni, e ci ha insegnato, con la sua vita di apostolato, come morire a noi stessi, così la Chiesa, durante questa santa Quarantena, ci predica la morte in noi dell’uomo peccatore.  Questa morte si manifesterà nell’ anima nostra per mezzo della lotta contro l’orgoglio e l’amor proprio, con uno spirito di preghiera e una assidua meditazione della parola di Dio:  nei nostri corpi col digiuno, l’astinenza e la mortificazione dei sensi.  E finalmente si manifesterà in tutta la nostra vita con un maggior distacco dai piaceri e dai beni del secolo, che ci farà esser più larghi nell’elemosina [“Chi non può digiunare deve supplirvi con più abbondanti elemosine, in modo da riscattare con queste i peccati che non può guarire col digiuno”, Serm. quaresimale di S. Cesario di Arles, AD 542 – citazione in nota nel testo] – e ci farà astenere dalle feste mondane.  Il digiuno quaresimale, infatti, altro non deve essere che l’ espressione dei sentimenti di penitenza di cui è penetrata l’anima nostra, tanto più occupata delle cose di Dio, quanto più rinunzia ai piaceri dei sensi.  Così per i cuori generosi, questo “tempo favorevole” [Epistola della 1a Dom. di Quaresima] è una sorgente di santa gioia come dimostra ovunque la liturgia di Quaresima.

ELEEMOSYNA – IEIUNIUM – ORATIO – ABSTINENTIA

Questo lavoro di purificazione vien fatto sotto la direzione della Chiesa che unice i nostri patimenti a quelli di Cristo:  i pusillanimi entrano coraggiosamente in lizza appoggiandosi alla grazia di Gesù che non fa loro difetto [Orazione del Mercoledì delle Ceneri, Concedi, p. 307 del MR];  i forti non si inorgogliscono della loro osservanza, perchè sanno che solo la Passione di Gesù li fa salvi e che soltanto “partecipandovi con la loro pazienza se ne applicano i frutti”[ Prologo della Regola di S. Benedetto e Postocom. Della 1a Dom. di Quaresima].

“L’osservanza della Quaresima, dice Papa Benedetto XIV, è il vincolo della nostra Milizia:  per mezzo di questa distinguiamo i nemici della Croce di Gesù Cristo; per mezzo suo allontaniamo dal nostro capo i castighi della collera di Dio;  con essa, protetti dal celeste soccorso durante il giorno, ci fortifichiamo contro i principi delle tenebre.  Se questa osservanza viene a rilassarsi è a tutto detrimento della gloria di Dio, a disdoro della religione cattolica, a pericolo delle anime cristiane; e senza alcun dubbio, questa negligenza diviene fonte di disgrazie per i popoli, di disastri nei pubblici affari e di infortuni in quelli privati.”[Enciclica del 29 maggio 1741].