sabato 27 febbraio 2021

Liturgia : Presentazione della S. Messa Vetus Ordo della II Domenica di Quaresima, 28.2.2021

 

 

Presentazione della S. Messa di rito romano antico (Ordo Vetus) di domani, Seconda Domenica di Quaresima, 28 febbraio 2021, nel tempo della pandemía  --  a cura di Paolo  Pasqualucci.

 

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Testi dal “Messale Romano quotidiano” (= MR), testo latino e traduzione italiana di S. Bertola e G. Destefani, commento di D.C. Lefebvre OSB, disegni di R. De Cramer – Edizione aggiornata al 1962,  Edizioni S. Francesco di Sales, Priorato S. Carlo, Via Mazzini 19, Montalenghe (TO).  Le frasi tra parentesi quadre sono del curatore della Presentazione.  La S. Bibbia in italiano viene citata secondo le Edizioni Paoline del 1963 (imprimatur del 1958), confrontata con le edizioni in greco e latino di Agostino Merk SI e Nestle-Aland; per il solo greco, con The Greek New Testament a cura di Aland, Black, Martini, Metger, Wikgren, con il relativo Textual Commentary.  

 

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II  Domenica di Quaresima.  Stazione a S. Maria in Domnica – Semidoppio – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.  MR, pp. 362-367. Epistola: 1 Tess  4, 1-7 ---  Seguito del S. Vangelo:  Matt 17, 1-9.  

 

“La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica [al Celio], chiamata così perchè i cristiani [lì] si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum).  Si dice che S. Lorenzo distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri.  Era una delle parrocchie romane del V secolo.” (MR, p. 362).

Apro subito una parentesi:  perché si usa il termine “stazione”, qual’è la sua origine?  Andiamo al Commento liturgico generale del Tempo di Quaresima, sempre nel medesimo Messale. 

“Ogni Messa di Quaresima ha una sua Stazione”.  Questa parola, spiega il testo in nota, “è stata presa dalla milizia romana perchè i cristiani arruolati nella milizia di Cristo si riunivano nelle ore in cui i soldati cambiavano la guardia; donde i nomi di Terza, Sesta, Nona che si danno alla parte dell’Ufficio che si dice alla 3a, 6a e 9a.  Dopo l’ora Nona, che recitavasi verso le 15, si celebrava in Quaresima la Messa.  Poi cantavansi i Vespri, dopo di che si rompeva il digiuno.  Da ciò deriva l’uso attuale, nelle chiese ove si canta l’Ufficio, di recitare durante la Quaresima i Vespri prima del pranzo.” (MR, p. 300).   Sul Georges-Calonghi, trovo, tra le varie voci di statio, stationis, da sto, l’indicazione del significato militare del termine:  posto di guardia, sentinella, picchetto, e anche quartiere di soldati.  Come “riunione o luogo di raduno di cristiani”, il termine risale a Tertulliano (sempre il dizionario).  Credo che il significato prevalente, nel gergo militare, fosse quello di:  posto di guardia.  Comunque sia, Tertulliano ci attesta che il termine era d’uso tra i cristiani per indicare il loro luogo di riunione.  Giustamente, un termine di origine militare, come si confaceva ad una religione che si poneva esistenzialmente quale perpetua milizia, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

Ma torniamo al Commento liturgico.  “Il papa celebrava nel corso dell’anno successivamente nelle grandi basiliche e nelle 25 chiese parrocchiali di Roma e in qualche altro santuario la Messa solenne, circondato da tutto il clero e dal popolo e questo si chiama fare la “Stazione”.  Il nome che è rimasto nel Messale, ricorda che Roma è il centro del culto cristiano ed indica una liturgia più di dodici volte secolare e anticamente solennissima.” (MR, p. 300).  Circa le 25 parrocchie di Roma, il Commento precisa in nota quanto segue:  “Queste parrocchie esistevano già al V secolo ed erano chiamate “titoli” (tituli) ed i parroci di Roma che vi erano preposti portavano il nome di Cardinali (incardinati), cioè addetti a queste chiese.  Per questo motivo ancora ai nostri giorni ogni Cardinale è titolare di uno di questi santuari.” (MR, ivi).

Chiarito il significato liturgico del termine stazione, riprendiamo il Commento alla II Domenica di Quaresima  del Padre Lefebvre OSB. 

“Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina [del Breviario] formano la trama delle Messe della seconda, terza e quarta Domenica di Quaresima.

Il Breviario parla in questo giorno del Patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità.  Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, “il Dio di Giacobbe e d’Israele” per mostrarlo come protettore.  “Dio d’Israele – dice l’Introito [tratto dal Salmo 24] -  liberaci da ogni male [libera nos, Deus Israël, ex omnibus angustiis nostris].”  La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono.  Il versetto dell’ Introito dice che “colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene [Deus meus, in te confido, non erubescam]”.  L’Orazione  ci fa domandare a Dio “di guardarci interiormente ed esteriormente per esser preservati da ogni avversità”.  Il Graduale [dal Salmo 24] e il Tratto [dal Salmo 105] supplicano il Signore “di liberarci dalle nostre angoscie e tribolazioni” e “che ci visiti per salvarci.”  Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, “noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà.”(4a Lez. della 3a Domenica di Quaresima)”(MR, p. 362)

     Annoto, incidentalmente:  la “trama” di queste Messe è costituita dall’Antico Testamento, dai detti e fatti dei Patriarchi di Israele, come scolpiti nel Breviario.  Chi ha ritenuto che l’Ordo Vetus fosse staccato dall’Antico Testamento anche per questo motivo e ha pensato di abolirlo introducendo nelle letture del Novus Ordo , come “Prima lettura”, una pleonastica, spesso difficile sezione dedicata all’Antico Testamento?  Sono stati i Novatori, affermatisi nella Chiesa a partire dal Vaticano II (cfr. la Costituzione Dei Verbum 14-16), che hanno voluto ricondurre la nostra liturgia alla sua “radice ebraica” e non hanno esitato a cercare di dimostrare che la “missione” di Israele, dell’Israele giudaica, quella della carne, l’Antica Alleanza è ancora perfettamente in piedi e valida accanto alla Nuova Alleanza:  un errore tanto esiziale quanto grossolano.  Nella mente ereticale dei Novatori la “Prima lettura” dedicata all’Antico Testamento proprio questo voleva evidentemente significare:  la riaffermazione implicita della validità dell’Antica Alleanza!

“Giacobbe – riprendo il Commento – fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè.  Giacobbe, significa infatti soppiantatore:  egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne a sorpresa la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù.  Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse:  “Le nazioni si prosternino davanti a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli.” (MR, pp. 362-363)

Il testo prosegue ricordando in breve sintesi la fuga di Giacobbe, la sua visione in sogno della scala che saliva al cielo con gli Angeli che scendevano e salivano su di essa mentre Dio dalla sommità della scala gli prometteva una grande discendenza, dalla quale sarebbe nato il Messia (Scala di Giacobbe, Gen 28, 10 ss.); la sua lotta notturna con l’Angelo in incognito, che non riuscì a vincerlo, onde gli disse al mattino successivo:  “Tu non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele (il che significa forte con Dio)  perchè Dio è con te e nessuno ti vincerà” [Gen 32]; la riconciliazione con il fratello [Gen 33].” (MR, p. 363)  In nota, il testo ricorda che: “Il Sacramentario gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe maestro di potenza suprema”.

Ed ecco il nesso teologico e liturgico fra i due Testamenti.

“Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. “La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe – scrive S. Agostino – ha un significato simbolico perchè le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri” (Mattutino).  Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che “Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato”.  “Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli “non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perchè, sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità”(Terzo Notturno).” (MR, p. 363).

Muovendo dall’Antico Testamento, ove in figura è già annunziato Cristo, intrecciando sapientemente interpretazione letterale, simbolica e allegorica del Testo Sacro, il Commento liturgico giunge ora al testo del Vangelo del giorno, riguardante la Trasfigurazione del Signore.  

“Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse:  “Questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo.”  Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe rivestito delle pelli di capretto.  E questa benedizione data a Gesù è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito.  Così il vescovo, mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera:  “Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, così, anch’io, nell’offrirgli con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore.”

 Importanza, sottolineo, della benedizione del figlio primogenito da parte del padre, santità che questa benedizione esprime ed apporta; significato simbolico della benedizione di Giacobbe che “usurpa” il posto del primogenito secondo la carne, dimostratosi non all’altezza: i Gentili sarebbero stati benedetti al posto dei primogeniti nella carne, così come lo fu Giacobbe al posto di Esaù – ma non direttamente bensì attraverso i meriti di Cristo, estendendosi a noi, se siamo a Lui fedeli, la benedizione che Egli ricevette per la sua fedeltà assoluta alla volontà del Padre.

“Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo - riprendo il Commento -  Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo.  “Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più.  Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perchè Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro” (Epistola di questa Messa: 1 Tess 4, 1-7 :  Non enim vocavit nos Deus in immunditiam sed in sanctificationem:  in Christo Iesu Domino nostro.)” (MR, p. 364).

Dunque, osservo, questa la teologia della sostituzione della Chiesa alla Sinagoga, già presente in figura nell’Antico Testamento:  come Giacobbe si è sostituito ad Esaù rivelatosi non degno della primogenitura, così Gesù Cristo Nostro Signore, consustanziale al Padre, da Lui benedetto, fa dei suoi discepoli, della Chiesa da Lui fondata, l’erede delle Promesse e dei suoi fedeli i figli di Dio per adozione, al posto degli eletti da Dio nella carne, negatori del Messia – la Chiesa, Israele dello spirito, si sostituisce all’Israele della carne, alla Sinagoga, muratasi nell’errore con il rifiuto del Salvatore.  E questo, secondo il disegno di Dio, l’economia della salvezza, la divina predestinazione, come spiega san Paolo, nella Lettera ai Romani, quando menziona il caso di Rebecca:  “Non erano ancor nati i figli e non avevano ancor fatto né bene né male, tuttavia affinché rimanesse fermo il disegno di Dio, scelto con libera elezione, senza riguardo alle opere, ma per volere di colui che chiama, le fu detto:  ‘Il maggiore sarà soggetto al minore’, come sta scritto: ‘ Ho prediletto Giacobbe e amato meno Esaù.’ (Rom 9, 11-13)

Ma il nesso di Cristo con il Patriarca Giacobbe permane.  Continua il Commento:  “In S. Giovanni (1, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi.  “Come Esaù, dice S.Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa.  Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa.”  Alla fine dei tempi, questi due popoli [il cristiano e l’ebraico] si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe [Gen 33].”  Quest’evento, sottolineo, la conversione finale di tutti gli Ebrei a Cristo, è un mistero che è stato annunziato in profezia dallo stesso san Paolo, sempre nella Lettera ai Romani:  “Non voglio, o fratelli, che voi ignoriate questo mistero, affinchè non sembriate a voi stessi sapienti: l’indurimento è caduto sopra una parte di Israele, fino a che sarà entrata la totalità delle Nazioni, e allora tutto Israele si salverà, secondo quello che è scritto…” (Rom 11, 25-26 – vedi anche Lc 21, 24). 

Pertanto, conclude il Commento, “La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare.  Giacobbe vide il Dio della gloria; gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.” (MR, p. 364).

Il significato profondo di questa Messa appare se lo si integra con il Breviario, che ci illustra la figura del Patriarca Giacobbe, ed è come nascosto a noi semplici fedeli, a meno che non venga appunto spiegato.  E dalla spiegazione si percepisce il nesso profondo tra i due Testamenti e il retto modo nel quale si debba intendere la preminenza del Nuovo, che ci rivela la Nuova Alleanza, ora l’unica salvifica, nei confronti dell’Antico che lo ha preparato.

 Veniamo ora alla Trasfigurazione, sicuramente uno dei fatti più emozionanti e straordinari tra quelli testimoniati nel Nuovo Testamento, avvenuto secondo la tradizione sul Monte Tabor.

“In quel tempo, Gesù prese con sè Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello, e li condusse sopra un alto monte, in disparte.  E fu trasfigurato in loro presenza [et transfiguratus est  -- metemorphose]:  il suo volto brillò come il sole, e le sue vesti divennero candide come la neve.  Ed ecco apparir loro Mosè ed Elia, i quali conversavano con lui.  Pietro prese a dire a Gesù: Signore, è bene che noi stiamo qui; se vuoi, farò qui tre tende: una per te, una per Mosè e una per Elia.  Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li circondò, ed una voce dalla nuvola disse:  Questo è il mio Figlio diletto; ascoltatelo.  E i discepoli, udito ciò, caddero col viso a terra e furon presi da gran timore.  Ma Gesù, accostatosi, li toccò e disse:  Levatevi e non temete.  Ed essi, alzati gli occhi, non videro se non Gesù tutto solo.  Poi, mentre scendevano dal monte, Gesù diede loro quest’ordine:  Non parlate di questa visione ad alcuno, finchè il Figliuol dell’uomo sia risuscitato dai morti.” (Mat 17, 1-9).

Mi sembra opportuno, a questo punto, riportare il passo della Seconda Lettera di San Pietro, nella quale il Principe degli Apostoli ribadisce la sua esperienza reale della Trasfigurazione del Signore. È questa la lettera nella quale egli annunzia l’avvicinarsi della sua fine (stava imperversando Nerone), mette in guardia contro gli eresiarchi, parla della seconda venuta di Cristo e incita ad interpretare rettamente le Lettere di san Paolo, contenendo esse “dei punti difficili a comprendersi, il significato dei quali, come di altri passi della Scrittura, viene dagli ignoranti e dai deboli sconvolto, per loro perdizione.” (2 Pt 3, 16).   Nel replicare alle calunnie dei nemici della fede e degli eretici, scrive:

“Non fu certo per aver seguito delle favole abilmente concepite, che noi vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta di nostro Signor Gesù Cristo, ma perchè siamo stati invece testimoni oculari [speculatores – epóptai] della sua maestà.  Là egli ha ricevuto da Dio Padre onore e gloria, quando dal glorioso splendore gli fece udire una voce che disse:  “Questo è il mio Figlio diletto, in cui ho posto tutta la mia compiacenza.”  E noi l’abbiamo udita, questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sulla montagna santa, sicché acquista per noi una forza ancor maggiore la parola dei profeti.” (2 Pt 1, 16-19)

I tre Apostoli scelti dal Signore furono testimoni oculari” della sua Trasfigurazione ed “udirono” con i loro orecchi la voce di Dio che, dalla nuvola, lodava il Signore. Questi fatti di origine sovrannaturale, resi da testimoni degni di fede, oggi non solo fanno sorridere i più, anche tra mezzo il clero, ma persino muovono all’avversione e all’odio nei confronti dei veri cattolici, quali sono ancora coloro che, forti della Grazia del Signore, continuano a credere alla lettera a questi eventi miracolosi e, grazie anche a questa fede, si impegnano al massimo per vivere secondo gli insegnamenti del Signore.  Se sono veri i fatti miracolosi e i detti sublimi di Cristo, allora noi abbiamo torto e siamo dannati, con la vita del tutto profana che facciamo, pensano i Figli del Secolo.  Da qui l’odio sempre più forte contro di noi, cattolici fedeli alla Tradizione della Chiesa e il digrignar di denti di una persecuzione su vasta scala sempre più vicina, condotta in nome dei peggiori vizi (che si vogliono imporre per legge come virtù) e della peggior empietà.

Ma lo stesso san Pietro, nella medesima sua lettera, ci istruisce su come resistere, su come prepararsi alla prova:

“Se Dio condannò alla distruzione e ridusse in cenere le città di Sodoma e Gomorra, perchè fossero di esempio a tutti gli empi futuri;  e se liberò il giusto Lot, rattristato dalla condotta di quegli uomini senza freno nella loro dissolutezza – poichè quest’uomo, pur abitando in mezzo a loro, si manteneva giusto di fronte a tutto quello che vedeva e ascoltava, nonostante che tormentassero ogni giorno la sua anima retta con opere nefande [qui de die in diem animam iustam iniquis operibus cruciabant] – il Signore sa liberare dalla prova gli uomini pii e riserbare gli empi per esser puniti nel giorno del giudizio, specialmente quelli che seguono la carne nei suoi desideri immondi e disprezzano l’autorità [novit Dominus pios de tentatione eripere, iniquos vero in diem iudicii reservare cruciandos; magis autem eos, qui post carnem in concupiscentia immunditiae ambulant dominationemque contemnunt].” (2 Pt 1, 6-10).    

L’Epistola di san Paolo letta in questa Messa (1 Tess 4, 1-7 cit.) ci esorta per l’appunto a camminare sulla retta via, secondo gli insegnamenti da lui impartitici “da parte del Signore Gesù” e quindi ad “astenersi dalla fornicazione”, a procurarsi una moglie onesta e fedele, ad essere pacifici e onesti nei rapporti col prossimo (ivi).  Dobbiamo aspirare alla santità “in Gesù Cristo Signor nostro”.  E come riuscire nell’intento, possiamo allora chiederci, quando ci troviamo a vivere in questo scorcio del Secolo,  dentro una società che ci affligge e tormenta ogni giorno con le sue opere sempre più nefande, in modo sempre più simile a come accadde al “giusto Lot”, costretto a vivere tra Sodoma e Gomorra?   Il Signore, ci assicura san Pietro, sa “liberarci dalla prova”; alla lettera, “strapparci dalla tentazione” (oiden Kyrios eusebeis peirasmou rhuesthai).  Egli può “indurci in tentazione”, per metterci alla prova, ma nello stesso tempo sa difenderci da essa, strapparci da essa, mediante l’aiuto della sua Grazia, se noi restiamo fedeli e perseveriamo nel voler fare la sua volontà, non la nostra. 

San Pietro scrive queste cose alla vigilia della sua morte nei supplizi.  La “prova” e quindi la “tentazione” alla quale veniamo strappati non è pertanto quella della nostra morte per mano dei nemici di Cristo e della sua Chiesa.  È invece la “prova” che risulta dalla tentazione di peccare, di cadere in peccato mortale, nelle sue varie e tenebrose forme, ivi incluse l’eresia e l’apostasia, il tradimento della fede.  In questa “prova” ci difendiamo dalle tentazioni impegnandoci in modo inflessibile (contro noi stessi) nella nostra santificazione quotidiana, secondo gli insegnamenti di san Paolo (vedi 1 Tess, cit.), ribaditi dallo stesso san Pietro nelle sue due Epistole (1 e 2 Pt, passim) ovvero secondo gli insegnamenti di Cristo, trasmessici fedelmente dai due santi Apostoli.    

Dobbiamo dunque prender esempio dal Patriarca Giacobbe, figura del Signore, che mai perse la fede in Dio nelle numerose prove che dovette affrontare.  La Trasfigurazione del Signore, ripropostaci dal Vangelo della II Domenica di Quaresima, deve infonderci una grande forza spirituale, rafforzarci nella nostra speranza di salvezza.  Infatti, essa ci fa vedere che un trionfo di luce soprannaturale, simile a quella apparsa sul Monte Tabor, ci attende nella vita eterna, se saremo stati fedeli a Cristo sino alla fine dei nostri giorni, quali che siano state le prove e le tentazioni che ci abbiano tormentato in questa vita mortale:  lo attesta anche san Paolo, quando ci rivela che gli Eletti, alla fine dei tempi, saranno rivestiti di un corpo glorioso (immutabimur – allaghesometha), “allo squillo dell’ultima tromba”, quella della resurrezione dei morti (1 Cor  15, 50 ss.).  

      

mercoledì 10 febbraio 2021

Anniversari : l'11 febbraio 1929 la Conciliazione tra Stato e Chiesa in Italia.

    L’ 11 febbraio 1929 i Patti Lateranensi, che realizzarono la “Conciliazione” tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano unitario, nato dal Risorgimento.

 

Fino agli anni Sessanta del XX secolo l’11 febbraio era festa nazionale.  Poi la festività scomparve.  Oggi il fatto storico stesso sembra esser caduto in oblío, anche (e forse soprattutto) da parte dei cattolici “fedeli alla Tradizione della Chiesa”, che sembrano ritenerlo come mai avvenuto, quasi fossimo rimasti ancora e sempre alle scomuniche di Pio IX, come se quelle scomuniche non fossero state “archiviate” dai Patti e la “Questione romana” non fosse stata risolta.[1]  Eppure, il rapporto tra Stato e Chiesa, da sempre complesso e difficile in Italia, si regge ancora su quei dimenticati Patti, il cui impianto è sempre quello del 1929 nonostante la sopravvenuta, liberale e latitudinaria Costituzione repubblicana (che li ha incorporati nell’art. 7.2) e le modifiche consensuali del solo Concordato intervenute nel 1984, ai tempi del Centro-sinistra guidato dall’on. Bettino Craxi, rispondenti al laicismo sempre più radicale affermantesi nella nostra democratica Repubblica  e allo spirito di c.d. “apertura” ai valori profani inopinatamente diffuso nella Chiesa dal Concilio Vaticano II.

Trattandosi di un evento di importanza capitale per la nostra storia recente e presente ma oggi in sostanza ignorato dai più, credo che il miglior modo di celebrarne la ricorrenza sia quello di presentarne sinteticamente le circostanze e il significato complessivo, come a suo tempo delineati nel testo di un Maestro del diritto ecclesiastico italiano, da tempo scomparso:  Pietro Agostino d’Avack.

“Come abbiamo detto, sotto il nome di Patti Lateranensi si comprendono due atti diversi, seppure tra loro collegati e interdipendenti, contemporaneamente stipulati tra la S. Sede e lo Stato italiano:  il Trattato e il Concordato.

Col primo si è determinata e stabilita di comune accordo la posizione e il regime giuridico speciale della S. Sede stessa quale ente sovrano della Chiesa cattolica in Italia e nei confronti dell’ordinamento statale e si è composta la cosiddetta cruciale Questione romana vertente fra le due autorità.

Col secondo si è fissata e disciplinata la posizione e il regime giuridico della religione e della Chiesa cattolica in Italia.

I due protocolli, firmati dai rispettivi plenipotenziari (il card. Pietro Gasparri e l’on. Benito Mussolini) l’11 febbraio 1929 nel palazzo pontificio di S. Giovanni in Laterano in Roma e ratificati il successivo 7 giugno in Vaticano, furono lo stesso giorno pubblicati dalla S. Sede negli Acta Apostolicae Sedis e resi esecutivi in Italia con la legge 27 maggio 1929 n. 810, entrata in vigore con lo scambio stesso delle ratifiche (legge cit. art. 4), e sono oggi solennemente riconosciuti in vigore nella nostra stessa Carta costituzionale repubblicana all’art. 7.[2]

Per comprendere la ragione di essere di questi due protocolli distinti, occorre richiamarsi a quella che era la situazione anteriore esistente in Italia nei confronti della Chiesa cattolica e alle peculiarità che la caratterizzavano rispetto a quella degli altri Stati.

Come ho accennato, il problema, che si presentava per la soluzione dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, era duplice:  l’uno rifletteva la situazione giuridica della Chiesa cattolica italiana, che il nostro Stato aveva preteso regolare sovranamente con norme proprie, quale istituzione ad esso soggetta, ed era un problema comune, dal più al meno, a tutti gli Stati moderni come conseguenza della loro pretesa di disciplinare a proprio arbitrio la materia ecclesiastica e della pretesa opposta dalla Chiesa a escludere viceversa ogni ingerenza e competenza dell’autorità laica al riguardo.

L’altro invece rifletteva la posizione giuridica dell’ente centrale della Chiesa, cioè della S. Sede, che il nostro Stato, dopo averla spodestata del potere temporale, aveva regolato unilateralmente con la famosa legge delle guarentigie [o garanzie, per il Sommo Pontefice e il clero, del 13 maggio 1871 n. 214, abrogata dall’art. 26 e penultimo del Trattato Lateranense], ed era un problema esclusivamente proprio e specifico dell’Italia, privo di ogni riscontro per gli Stati esteri, in quanto esso non era che una conseguenza del fatto della residenza della S. Sede stessa sul territorio italiano.

Di per sè i due problemi erano indipendenti l’uno dall’altro e potevano essere risolti separatamente […]  Di fatto però i due problemi finivano per essere strettamente connessi e interdipendenti fra loro e non risolubili quindi che contemporaneamente, in quanto la S. Sede si rifiutava di discutere il problema religioso finchè non fosse stata sistemata la sua stessa posizione personale in modo soddisfacente, affermando di mancare altrimenti della necessaria libertà e indipendenza di fronte allo Stato italiano per poter trattare un qualunque accordo con lui.  E si rifiutava insieme di sistemare la propria posizione indipendentemente dalla soluzione del problema religioso, sostenendo di non poter entrare in rapporti con uno Stato che informava il suo comportamento e la sua legislazione religiosa a presupposti e indirizzi condannati dalla Chiesa e contrari ai suoi dogmi.”[3]

La posizione della Chiesa era ineccepibile.  Nel “problema religioso”, ricordo, rientrava anche l’istituto matrimoniale.  Il codice civile del 1865 aveva istituito il matrimonio civile quale unico riconosciuto dallo Stato, pur se senza divorzio, che si tentò invano di introdurre per tre volte (oltre alla Chiesa, mobilitatasi con tutte le sue forze contro l’iniquo progetto, anche la monarchia era contraria).  E difatti lo Stato italiano, come sappiamo, pur mantenendo il matrimonio civile, “consegnò” (o riconsegnò) praticamente alla Chiesa l’istituto matrimoniale, con il riconoscere piena validità nel suo ordinamento al matrimonio celebrato in chiesa, la cui registrazione civile poteva esser fatta dallo stesso parroco celebrante.  L’art. 34 del Concordato così esordiva:  “Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili.”[4]

Le trattative che portarono agli Accordi furono condotte con il massimo riserbo e la loro improvvisa, pubblica conclusione colse un po’ tutti di sorpresa: amara sorpresa per praticamente tutto l’antifascismo militante e per la componente anticlericale dello stesso movimento fascista.  Le trattative, iniziate per volontà di Mussolini e successivamente autorizzate dal Re, Vittorio Emanuele III, anticlericale notorio e inizialmente assai diffidente, non furono semplici, come si può immaginare.  Il più serio ostacolo, osserva giustamente d’Avack, era rappresentato proprio dalla “ connessione ed interdipendenza attribuita dalla Chiesa ai due problemi”.

Infatti, gli Accordi lateranensi non scaturirono dal nulla.  C’erano stati in passato ripetuti tentativi per giungere ad una “conciliazione” tra Chiesa e Stato in Italia, già con lo stesso Cavour.  Ma tutti fallirono, in primo luogo perché non si voleva attribuire al Pontefice una sovranità temporale piena e completa, quella di un vero e proprio Capo di Stato.  Tale sovranità, nota d’Avack, era riconosciuta solo nel progetto elaborato da Erzberger, capo del Centro Cattolico tedesco, durante la Grande Guerra, nel caso di vittoria degli Imperi  Centrali; i quali, unitamente ad altri Stati, l’avrebbero imposto ad un’Italia vinta.  Esso prevedeva la sovranità temporale del Papa “su un territorio comprensivo del colle Vaticano e di una striscia di terreno che lo congiungeva con il Tevere e con la ferrovia di Viterbo (art. 1)”. Inoltre,  “la perpetua indipendenza e neutralità di tale sovranità sarebbe stata garantita da parte di tutti gli Stati firmatari (art. 3)”.  Sembra che tale progetto “avesse carattere ufficiale in quanto approvato sia dal governo tedesco che dall’imperatore d’Austria e visto di buon occhio dalle stesse sfere vaticane.”   Naturalmente, si trattava di un semplice progetto, la cui proposta appare comunque simile a quanto poi stabilito nel Trattato Lateranense.[5]

Fu comunque solo con il fascismo al potere che le cose cambiarono in meglio per la Chiesa.  Nell’ambito di tutta una serie di iniziative a favore della Chiesa e della religione (tra le quali: restituzione al culto di luoghi ed edifici sacri; accoglimento di festività religiose in quelle civili; ricollocazione del Crocifisso negli edifici pubblici; imposizione dell’insegnamento della religione alle elementari; riconoscimento dell’Università Cattolica e dell’Istituto Superiore di Magistero ‘Maria Immacolata’ di Milano), si stabilì nel 1925 una Commissione ministeriale italiana, cui parteciparono tre ecclesiastici espressamente autorizzati dalla Santa Sede, per elaborare un disegno di legge  sulla riforma della legislazione ecclesiastica.  Ma quanto i lavori erano al loro termine, ricorda d’Avack, la Santa Sede disapprovò il metodo seguito, affermando pubblicamente che nessuna trattativa si poteva fare e nessun accordo si poteva raggiungere finché durava l’iniqua condizione fatta al Pontefice dallo Stato italiano.  L’ Osservatore Romano dell’ 11 gennaio 1926 pubblicò un duro articolo, nel quale si affermava che l’unico modo giusto per provvedere alla pace religiosa era “provvedere alla S. Sede quella situazione di piena libertà e indipendenza, sia reale che apparente agli occhi di tutto il mondo, alla quale ha imprescindibilmente diritto, e poi procedere alla riforma di tutte le leggi ingiuste d’accordo tra le due Autorità.”[6]     

La legittimità della pretesa della Santa Sede fu riconosciuta da Mussolini, Capo del Governo, in una famosa lettera al Guardasigilli Alfredo Rocco, del 4 maggio 1926:  “[…] Il regime fascista, superando in questo, come in ogni altro campo, le pregiudiziali del liberalismo, ha ripudiato cosí il principio dell’agnosticismo religioso dello Stato, come quello di una separazione tra Chiesa e Stato, altrettanto assurda quanto la separazione tra spirito e materia… È logico pertanto che il Governo Fascista giudichi con piena serenità le attuali manifestazioni della Santa Sede, e le reputi degne della più attenta considerazione…”.[7]

 Pertanto – riprendo d’Avack – “ i due problemi dovevano essere di necessità insieme affrontati e risolti e il mutamento di politica ecclesiastica adottato dal fascismo dopo l’avvento al potere con l’abbandono dei principi laici e separatisti fino a quel momento imperanti e con la graduale cosiddetta riconfessionalizzazione dello Stato italiano, accentuano le condizioni fin da allora favorevoli all’accordo, creando i veri presupposti politici e giuridici per la loro soluzione; soluzione, che fu infatti raggiunta l’11 febbraio 1929 con i Patti lateranensi per ambedue questi problemi contemporaneamente.

Al primo di essi, infatti, e cioè alla posizione d’indipendenza e libertà della S. Sede, si provvide con il Trattato; al secondo, cioè alla situazione della religione e della Chiesa cattolica in Italia, col Concordato.

Le trattative, iniziate prima officiosamente e poi ufficialmente nel 1926 tra il Cons. Di Stato Domenico Barone per il Governo italiano e l’Avv. Francesco Pacelli per la S. Sede [fratello del futuro Pio XII] e temporaneamente interrotte nel 1927 in seguito al dissidio  sorto riguardo all’educazione della gioventù [il Regime voleva che le organizzazioni della gioventù cattolica si occupassero soprattutto dell’aspetto religioso, senza immischiarsi con la politica e l’attività sindacale], furono riprese negli anni successivi e continuate da ultimo personalmente dall’On. Mussolini, concludendosi infine l’11 febbraio 1929 con la conclusione di tali Patti, i quali, come già abbiamo accennato, mentre valsero a risolvere la famosa Questione romana [quella del potere temporale da riconoscere nuovamente alla Chiesa], segnarono insieme un completo mutamento nell’indirizzo della politica ecclesiastica dello Stato italiano e della sua stessa legislazione positiva, restando la base e il nucleo centrale del diritto ecclesiastico italiano oggi vigente.”[8]

 

* *

Il Trattato è di 27 articoli, ai quali sono annessi  Quattro Allegati concernenti :  1. Il territorio dello Stato della Città del Vaticano (SCV), soggetto di diritto internazionale, Stato sovrano a tutti gli effetti;  2. Gli immobili con privilegio di extraterritorialità e con esenzione da espropriazioni e da tributi;  3.  Gli immobili con esenzione da espropriazioni e da tributi;  4. La Convenzione finanziaria, costituita da 750 milioni di lire in contanti e un miliardo in titoli al portatore, versati al Vaticano.

Il Trattato stabilisce l’esistenza della Città del Vaticano come vero e proprio Stato sovrano, soggetto indipendente dotato di giurisdizione esclusiva, illustrandone le caratteristiche territoriali, patrimoniali, amministrative, organizzative in generale, con i relativi obblighi dello Stato italiano nei suoi confronti e tutte le garanzie di carattere nazionale e internazionale che devono riconoscersi allo Stato del Papa, ai suoi collaboratori (cardinali, nunzi apostolici), ai suoi cittadini e residenti. 

Voglio ricordare, in particolare:

 l’art. 1, che ribadiva la piena adesione del Regno d’Italia (dell’Italia fascista) all’art. 1 dello Statuto Albertino, mai abrogato ma contraddetto dalla politica anticlericale dei governi liberali:  “L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, nel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato.”  Le altre religioni si consideravano “culti ammessi”, purché non contrari alla morale e all’ordine pubblico.  Quest’impostazione, che conservò  il matrimonio concordatario, fu mantenuta anche dal Fascismo Repubblicano, durante il periodo sanguinoso e tragico della Repubblica Sociale Italiana, nel biennio apocalittico 1943-1945;[9]

l’art. 2, che stabiliva la natura sovrana della Santa Sede dal punto di vista giuridico:  “L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo.”  Non quindi, come attributo creato dal riconoscimento statale bensì come “attributo inerente alla natura stessa della  Santa Sede”, del quale lo Stato si limita a prendere atto, riconoscendolo nel Trattato.  Dal punto di vista del diritto, bisogna dire che la Santa Sede e quindi la Chiesa, in quanto istituzione visibile, è ex sese sovrana ed indipendente;

l’art. 8 che considera “sovrana ed inviolabile la persona del Sommo Pontefice”  dichiarando punibile l’attentato contro di essa, anche se solo progettato, nonché “le offese e le ingiurie pubbliche commesse sul territorio italiano” nei suoi confronti, con le stesse pene stabilite per analoghi reati commessi contro la persona del Re – oggi sostituita da quella del Presidente della Repubblica – Vedi artt. 276-278 cod. pen;

l’art. 26, con il quale si archivia finalmente la “Questione Romana”, liberandosi definitivamente delle scorie velenose del Risorgimento:

  “La Santa Sede ritiene che con gli accordi, i quali sono oggi sottoscritti, Le viene assicurato adeguatamente quanto Le occorre per provvedere con la dovuta libertà ed indipendenza al governo pastorale della Diocesi di Roma e della Chiesa Cattolica in Italia e nel mondo;  dichiara definitivamente ed irrevocabilmente cmposta e quindi eliminata la “questione romana” e riconosce il Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano.” 

 

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Nel 1984 c’è stato tra lo Stato italiano e la Santa Sede un “Accordo con protocollo addizionale”, per chiarire bene il significato di certi articoli, firmato a Roma il 18 febbraio e composto di 14 articoli, mentre solo 7 sono quelli del “protocollo addizionale”.  Esso ha apportato alcune modifiche al Concordato, senza toccare direttamente il Trattato, che tuttavia non ne è uscito indenne.  La Chiesa ha ottenuto alcuni miglioramenti rispetto al passato ed ugualmente lo Stato italiano, ognuno nelle rispettive materie di interesse. Questo Accordo ha come è ovvio reintrodotto nei rapporti con la Chiesa una prospettiva più “laica” rispetto a quella “confessionista” del passato regime.   Al contrario di quanto avveniva ai tempi del Duce, i vescovi non devono più giurare fedeltà al Capo dello Stato né più occorre una comunicazione preventiva al Capo del Governo per assicurarsi che non vi siano “ragioni di carattere politico da sollevare contro la nomina”, sia di vescovi  che di parroci: la nomina è ora del tutto libera da parte dell’ autorità ecclesiastica, che si limita ad informare quella civile.[10]  Ma accanto a indubbi vantaggi di questo tipo o nell’ambito patrimoniale, la Chiesa, pervasa dello spirito del Vaticano II, quello della Dignitatis humanae e della Gaudium et spes,  ha accettato di buon grado e persino con soddisfazione, a quanto pare, che venisse abrogato l’art. 1 del Trattato, ossia che il Cattolicesimo cessasse di essere l’unica religione ufficiale dello Stato italiano:  un passo indietro non da poco.

Recita, infatti, l’art. 1 del Protocollo addizionale nel suo art. 1 :  “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano.” Il principio, come si è visto, era racchiuso nell’art. 1 del Trattato.  Correlativamente, è venuto a cadere il riconoscimento del “carattere sacro” di Roma in quanto Capitale della Cattolicità, rispettato e difeso nel Concordato mussoliniano.  Infatti, l’art. 2 dell’Accordo del 1984 afferma:  “La Repubblica italiana riconosce il particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità.”  Questo “particolare significato” è termine vago e  generico, che non impegna nessuno.  Ben diverso, chiaro e assai più impegnativo il tenore dell’art. 1.2 del Concordato lateranense:  “In considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto col detto carattere.”     

 Paolo   Pasqualucci

Giovedì 11 febbraio 2021,  Nostra Signora di Lourdes,

Giorno Anniversario della Conciliazione.

 



[1][1] Vedi il mio articolo:  A 150 anni da Porta Pia, non è stato ancora risolto in Italia il nodo Chiesa-Stato e lo Stato italiano deve ritenersi ancora “illegittimo”?  Una tesi che non convince,. apparso su questo stesso blog il 31 dicembre 2020.

[2] Per comodità del  lettore, riporto l’art. 7:  “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.  I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.  Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.”

[3] Pietro Agostino D’Avack, Lezioni di diritto eccleisastico italiano.  Le fonti,  Giuffré, Milano, 1963, pp. 147-148.

[4] Citato in Giovanni Barberini (a cura di), Raccolta di fonti normative di diritto ecclesiastico, 4a  ed. riveduta ed ampliata, G. Giappichelli editore, Torino, 1997, p. 49, nota n. 19.  Tutti i riferimenti ai Testi dei Patti Lateranensi e all’Accordo di modifica del 1984 provengono da questa Raccolta, pp. 31-59.  Oltre al riconoscimento del matrimonio religioso, la Chiesa ottenne altre importanti concessioni.  Scrisse Arturo Carlo Jemolo, illustre ecclesiasticista e antifascista del Partito d’Azione, paragonando il concordato italiano con quello negoziato con Hitler nel 1934:  “Nessuna speranza per la Chiesa, in regime nazista, di vedersi consegnare dallo Stato la legislazione matrimoniale, di avere illimitata libertà scolastica, di ottenere libertà completa per la predicazione del clero, di mantenere un clero che dipendesse effettivamente da Roma e che non fosse più fortemente legato al potere politico.” (A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia.  Dall’Unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, Torino, 1965, p. 269.)   I nazisti al potere si rivelarono assai presto ostili nei confronti della Chiesa cattolica mentre i rapporti tra regime fascista e Chiesa vista nel suo complesso (Santa sede, episcopato, clero) furono  “cordiali, improntati ad uno spirito di collaborazione, di concessioni reciproche.” (Jemolo, op. cit., p. 277).     

[5] D’Avack, op. cit., pp. 148-149. 

[6] Op. cit., pp. 149-150.  

[7] Renzo De Felice, Mussolini il fascista.  II.  L’organizzazione dello Stato fascista. 1925-1929, Einaudi, Torino, p. 390.  Il passo si trova nel cap. V, La Conciliazione, op. cit., pp. 382-436.

[8] D.Avack, op. cit., pp. 150-151.

[9] Punto n. 6 del Manifesto di Verona (novembre 1943) contenente i 18 punti programmatici per la Costituente, che ovviamente mai ebbe luogo, dello Stato fascista repubblicano:  “La religione della Repubblica è la cattolica, apostolica, romana.  Ogni altro culto che non contrasti alle leggi è rispettato.”

[10] Accordo e protocollo addizionale, art. 2 dell’ Accordo, ed. cit., p. 44, con la nota n. 5.