Paolo Pasqualucci : A 150 anni da Porta Pia, non è stato ancora risolto in Italia il nodo
Chiesa-Stato e lo Stato italiano deve ritenersi ancora “illegittimo”? Una tesi che non convince.
Sommario : 1. Una tesi che non convince: lo Stato
italiano tuttora “scomunicato” dai Papi e quindi “illegittimo”. 2. Gli Stati vengono riconosciuti soprattutto
in base al principio di effettività. 3.
Le scomuniche di Pio IX colpirono anche chi aveva votato per l’annessione dei
suoi Stati alla Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II: circa 800.000 persone. 4. La legittimità di uno Stato, in quanto
tale, non dipende da un riconoscimento pontificio. 5. Con il Trattato Lateranense del 1929 il
Papa ha riconosciuto la legittimità dello Stato italiano, implicitamente rimettendo
le scomuniche di Pio IX, ma ogni Stato si rende in sé illegittimo quando le sue
leggi violano la legge naturale e divina.
1.Una tesi che non convince: lo Stato italiano tuttora “scomunicato” dai
Papi e quindi “illegittimo”.
È
la tesi sostenuta di recente su La nuova bussola quotidiana, del 20
settembre 2020, dal prof. Stefano Fontana, autore di tanti interventi
coraggiosi e puntuali in difesa della nostra fede, così maltrattata oggi da tutte le parti. Questo suo intervento, tuttavia, lascia
perplessi. Giustamente, egli pone il
problema della legittimità dello Stato “liberale” e “laico”
contemporaneo, con tutte le sue leggi non solo liberticide ma anche e
soprattutto contrarie alla morale naturale e cristiana. Ma lasciano perplessi i suoi argomenti volti a dimostrare che lo
Stato italiano, nato dal Risorgimento e dall’unificazione, sarebbe, se ho ben afferrato il concetto, ancora
“illegittimo” a causa delle scomuniche comminate a suo tempo da Pio IX. Dopo le scomuniche, osservo, non c’è stata nel 1929 la famosa Conciliazione tra
Stato e Chiesa, con la quale la S. Sede, in cambio del ristabilimento di un
potere temporale e del riconoscimento ad essa di rappresentare, dal punto di
vista terreno, un soggetto libero, sovrano e indipendente secondo il diritto
internazionale, ha riconosciuto il Regno
d’Italia con Roma capitale, ponendo in tal modo fine alla situazione di illegittimità
nella quale il Regno si trovava ai suoi occhi, dopo i misfatti del periodo
1859-1870? Con la Conciliazione non
sono state implicitamente rimesse le scomuniche di Pio IX? Ma della Conciliazione il prof. Fontana
non fa affatto menzione, l’ignora completamente. E lascia perplessi la tesi secondo la quale
la vera legittimazione agli Stati può conferirla s o l o il Romano Pontefice.
Ma
procediamo con ordine.
La
questione della presa di Roma del 20 settembre 1870 “non va archiviata”, scrive
il prof. Fontana --- al contrario, “va esaminata in tutti i suoi aspetti che,
tuttavia, non sono solo storici, ma anche di principio, diremmo
teoretici”. Il problema “teoretico” che
emerge da quel fatto storico è addirittura quello della legittimità dello
Stato italiano. Infatti, la presa di
Roma, “poneva e pone anche oggi il problema della legittimità dello Stato. Pio IX scomunicò allora lo Stato italiano e
re Vittorio Emanuele II e con ciò ribadì i corretti criteri per considerare uno
Stato come legittimo, a cominciare dal criterio più combattuto e tenacemente
negato allora e ora, ossia che a dare questa ultima legittimazione (o toglierla
come nel caso di Porta Pia) spetti alla Chiesa. La posizione assunta da Pio IX
presenta anche altri aspetti, ma questo mi sembra quello fondamentale e di
grande attualità, perché scorrendo il tempo non sembra che esso sia stato risolto,
anzi la questione della legittimità dello Stato è stata abbandonata e quasi non
ce la si pone più: gli Stati ci sono e
il solo fatto che ci sono anche li legittima.”
2.
Gli Stati vengono riconosciuti soprattutto in base al principio di
effettività, criterio realistico.
In
chiusura del paragrafo, l’Autore richiama succintamente, criticandolo pur senza
nominarlo, il principio di effettività, affermatosi nel diritto
internazionale come pricipio valido per il riconoscimento di uno Stato. Questo principio non concorda ed anzi può
entrare in conflitto con il principio di legittimità, il base al quale
Pio IX scomunicò latae sententiae, con “la scomunica maggiore e le altre
censure ecclesiastiche”, tutti coloro che avevano in qualche modo compiuto atti
concorrenti all’occupazione ed estinzione dei suoi Stati, con la Lettera
Apostolica del 26 marzo 1860, reiterata dall’Enciclica Respicientes dell’ 1 novembre 1870.
Nel
diritto internazionale moderno “non si distingue più, in conseguenza della loro
origine, fra Stati legittimi e non legittimi, negando a quest’ultimi la
personalità. Nei trattati del 1815 e nei
principii che ispirarono la Santa Alleanza, si faceva dipendere la legittimità
e quindi la personalità internazionale degli Stati soprattutto da titoli dinastici. Adesso può essere soggetto di diritto
internazionale anche uno Stato, di cui una rivoluzione o altro avvenimento
abbia spodestato il sovrano.”[1] In effetti, con i trattati nati dal Congresso
di Vienna, del 1815, quando le Potenze europee restaurarono l’ancien Régime
travolto dal turbine napoleonico, il principio di legittimità dinastica fu alla
base di questa restaurazione. Ciò,
tuttavia, non impedì l’affermarsi della consueta politica di rapina da parte
delle Potenze, grandi o piccole che fossero, naturalmente all’ombra del
principio di legittimità o semplicemente ignorandolo. La Casa d’Austria si prese
l’ex Repubblica di Venezia e i suoi possedimenti, la cui indipendenza era stata
abbattuta inizialmente da Napoleone, nel 1797, che ne aveva fatto poi merce di
scambio nei suoi complessi giochi imperiali --- preda ambíta, l’ex regina
dell’Adriatico, covata per ben tre secoli dagli Asburgo, i quali, del resto,
avevano in un primo tempo acquisito anche la Lombardia per diritto di conquista
o meglio grazie agli scambi di territori provocati dalle ripetute guerre
europee di “successione dinastica”, dalla fine del Seicento alla prima metà del
Settecento, che ad intervalli avevano afflitto anche la disarmata e imbelle
Italia, campo di battaglia di francesi, spagnoli, austriaci, e, in misura
minore, piemontesi. La Repubblica di
Genova non si vide restituita l’indipendenza soffocata dal Bonaparte, che
l’aveva inclusa nel suo impero, ma data in premio ai Savoia, ossia al Regno di
Sardegna, per la sua partecipazione alle guerre di coalizione contro il despota
transalpino.
È
vero che le due antiche repubbliche erano decrepite e imbelli, nemmeno l’ombra
della grandezza di un tempo, e, a ben vedere, si erano meritate la loro
ingloriosa sorte. Ma resta il fatto della rapina, dell’ipocrisia delle
grandi Potenze, che spesso hanno invocato il principio di legittimità (di per
sé ottimo istituto, garanzia di ordine e stabilità nel governo dei popoli) per
coprire la loro pura e semplice sete di dominio.
Invocava
pretesi diritti di successione al trono di Napoli, risalenti agli Angioini,
Carlo VIII di Valois Re di Francia quando nel settembre del 1494, dopo essersi
dichiarato Re di Napoli il 13 marzo precedente, iniziò l’invasione dell’Italia,
collegatosi temporaneamente alle provinciali ambizioni italiane dello stolto
Ludovico il Moro, Duca di Milano, che l’aveva chiamato. Vaghi diritti di
successione e quindi il principio di legittimità invocava Guglielmo Duca di
Normandia, quando nel 1066 invase l’Inghilterra e la conquistò con una sola,
vittoriosa battaglia, al ponte di Hastings.
Grazie all’eredità normanna, il Re d’Inghilterra possedeva pertanto ampi
territori in Francia. Avendo avuto come nonno Filippo il Bello, Re di Francia
morto senza eredi, quel Re aspirava al trono di Francia. Avendo i nobili francesi posto invece sul
trono un francese, nipote del defunto re, egli dichiarò guerra. Si iniziò così una serie di guerre, lunga e
crudele, intervallate da tregue e labili trattati di pace, che durò più di
cento anni (1336-1453). La Guerra dei
Cent’anni vide gli inglesi padroni ad un certo momento di quasi tre quarti
di una Francia in preda alla guerra civile, per esser poi alla fine cacciati da
tutto il territorio, con l’eccezione del porto di Calais, dopo che Santa
Giovanna d’Arco, giovinetta divinamente ispirata, aveva dato inizio alla
riscossa nazionale.
La
lista delle guerre di conquista coperte dall’invocazione del principio di
legittimità sarebbe lunga. Nel diritto
internazionale si è dunque affermato, ad un certo momento, il principio di effettività
per il riconoscimento della personalità di diritto internazionale di uno
Stato. Un criterio realistico. Esso richiede che l’entità da riconoscersi
debba essere “un ente il quale possegga i caratteri propri dello Stato (popolo,
territorio, potestà d’impero) e si sia costituito effettivamente ed in maniera
stabile”, dimostrando di essere effettivamente uno Stato, con
un’organizzazione permanente e cittadini o sudditi che gli obbediscano. Il “processo formativo dello Stato è
irrilevante: formazione originaria su un
territorio nullius; costituzione in Stato autonomo di una provincia
staccatasi da uno Stato (es.: Belgio staccatosi nel 1830 dall’Olanda; Stato della Città del Vaticano formatosi nel
1929 su una porzione di territorio già appartenente all’Italia); fusione di due
o più Stati in uno Stato nuovo.
Irrilevante del pari è il carattere pacifico o violento del processo
formativo come pure la circostanza che alla formazione dello Stato abbiano
concorso attività internazionalmente illecite di altri soggetti. Quello che occorre, perché si abbia il
sorgere di un nuovo soggetto di diritto internazionale, è che lo Stato si sia
effettivamente formato.”[2]
Insomma,
bisogna dire che qui : ex facto ius oritur. Così si evitavano le ipocrisie di coloro che
si appoggiavano al principio di legittimità per nascondere i loro piani
di conquista. Realismo, dal
momento che gli Stati nuovi, spesso mal nati, anche se inizialmente non riconosciuti, lo
erano poi in séguito, sotto la spinta della necessità, per la forza stessa delle cose. Il principio di effettività è a
tutt’oggi applicato nel diritto internazionale anche se tende a mescolarsi con
quello di legittimità, inteso però quest’ultimo non in senso dinastico o
etico ma ideologico, per esempio come principio che implica il
riconoscimento della laica “dignità della persona” e dei “diritti umani”,
inclusi i c.d. “nuovi diritti”, considerati sulla carta oggi requisito
essenziale per la legittimità internazionale di uno Stato da parte
dell’ideologia democratica dominante.
3. Le scomuniche di Pio IX colpirono anche chi
aveva votato per l’annessione dei suoi Stati alla Monarchia costituzionale di
Vittorio Emanuele II: circa
ottocentomila cattolici.
La legittimità cui faceva riferimento Pio IX,
di che tipo era? Nel caso particolare
del papato, non poteva certo assimilarsi alla legittimità dinastica, concetto
inapplicabile ad un’istituzione come il papato, non essendo ovviamente il
potere temporale del Romano Pontefice trasmissibile ereditariamente. Ma una monarchia elettiva di diritto
divino, come è tuttora quella del Papa, partecipa ugualmente del principio
di legittimità, quanto alla giustificazione morale oltreché politica e
giuridica del suo potere temporale, costruito ed esercitato gradualmente a
partire dalla fine della crudelissima Guerra Gotica (nel VI secolo, AD 554),
nell’Italia devastata e spopolata, divisa tra Bizantini e Longobardi. Il Papa,
diventato formalmente suddito bizantino, giustamente si sottrasse per gradi e
anche con la forza alla scomoda, inefficiente e troppo incline alle eresie
tutela del Cesare di Costantinopoli, che lo governava nel Ducato Romano retto
da un suo funzionario. Potere di governo
esercitato nella e dalla città di Roma su un territorio ordinato a Stato, pazientemente
incrementato nei secoli, con le donazioni dei Re e le campagne militari,
stabilizzatosi alla fine nei ben noti confini, da Terracina a Faenza, come si
soleva dire, in diagonale a tagliare in due l’Italia. E obbedito per più di
mille anni (nonostante periodi di grave anarchia anche lunghi) dalle
popolazioni dell’Italia centrale, esclusa la Toscana, sino all’Emilia e Romagna,
acquisti questi ultimi assai più recenti
rispetto al Patrimonio di S. Pietro originario.
Giuste,
dunque, le scomuniche di Pio IX contro tutti coloro che, in un modo o
nell’altro, lo avevano privato del suo Regno temporale, sempre considerato
dalla Santa Sede supporto e garanzia indispensabile per la libertà d’azione
richiesta dalla sua alta missione spirituale. Nell’infliggerle, il Pontefice si
rifaceva ad una secolare tradizione, avendo i suoi predecessori, spesso deboli
negli eserciti, impiegato ripetutamente le armi spirituali (quali le scomuniche
e gli interdetti) per colpire le autorità civili che attentassero all’integrità
del loro Stato o si opponessero alla loro politica. L’uso e anche la ripetuta minaccia dell’uso
delle sanzioni religiose per risolvere lotte di potere non è stato tuttavia
sempre benefico per la Chiesa, nel senso che in lungo periodo ha inciso sul
prestigio delle sacre sanzioni, indebolendone il significato religioso presso i
fedeli. Ma indubbiamente esse erano inevitabili,
nei confronti di una Potenza, la Monarchia sabauda, e di uomini che, nel giro
di undici anni, avevano tolto al Papa tutto il suo Stato, capitale compresa,
rinchiudendolo nei Palazzi Apostolici, e non semplicemente questa o quella
provincia o città come nelle lotte del lontano passato.
Gli
usurpatori, con la Legge delle Guarentigie, avevano riconosciuto alla
persona del Pontefice pieni diritti sovrani, i nunzi apostolici operavano come
prima e le Potenze tenevano come prima i loro ambasciatori presso il Papa. I
neo-legittimisti odierni vogliono far credere che la Chiesa fosse perseguitata
come ai tempi di Nerone o che l’Italia, dal 1870 in poi, avesse addirittura
cessato di esser cristiana. Si tratta di
iperboliche esagerazioni, per quanto sia stato aggressivo ed eversivo il
giurisdizionalismo messo in opera dai liberali a partire dalle Leggi Siccardi,
rafforzatosi all’epoca della Sinistra al governo, non alieno da punte anticristiane,
come quando si introdusse il matrimonio civile quale unico riconosciuto dallo
Stato, fallendo tuttavia il triplice tentativo di introdurre il divorzio (anche
a causa dell’opposizione del Re, oltre che della Chiesa, mobilitatasi con tutte
le sue organizzazioni). In quegli anni,
massoni e anticlericali di ogni risma crearono un clima odioso, di
becera ostilità contro la Chiesa e la religione, tant’è vero che, verso la fine
del secolo, la stessa cultura laica cominciò a reagire: basti ricordare le
prolungate polemiche di un Ruggero Bonghi e di un Benedetto Croce contro la
“mentalità massonica”, la “setta procacciatrice”. Ma va pur detto che la vita religiosa a Roma,
capitale del nuovo Regno, “fu assai poco modificata dalle abitudini e dai
costumi della ‘gente nuova’, che, d’altronde, era una realtà ben diversa da
quella ‘folla di scristianizzati’ che la propaganda clericale voleva far
credere e che Carducci si era invece augurato che fosse in alcune delle sue più
note volgari chitarronate. Le
stesse iniziative anticlericali messe in opera dalla massoneria, che pure aveva
notevolmente accresciuto il proprio potere all’epoca del primo governo Crispi
[agosto 1887], o quelle della Società del Libero Pensiero e della Lega della
Democrazia, ebbero quasi sempre effetti e significati politici [e quindi
limitati] piuttosto che una reale incidenza sulla cultura, le credenze e le
usanze della popolazione: ce lo
confermano, tra gli altri, i dati della partecipazione dei fedeli alle
cerimonie religiose, nel corso di alcune delle quali si arrivò anche a contare
50.000 presenze.”[3]
E
non fu proprio Francesco Crispi, ministro dell’interno e massone dal 1861, a
provvedere (come suo dovere, del resto) affinché il Conclave per l’elezione del
successore di Pio IX si svolgesse nella più completa libertà? Si trattava in ogni caso di applicare il
principio liberale e cavourriano adottato ufficialmente dal nuovo Regno, quello
del “libera Chiesa in libero Stato”. Errato, dal punto di vista cattolico, ma
che tuttavia obbligava lo Stato a riconoscere alla Chiesa la propria autonomia
ed indipendenza, anche se sempre nell’àmbito dell’ordinamento dello Stato. “Noi
abbiamo proclamato la separazione dello Stato dalla Chiesa, e, riconoscendo la
piena indipendenza dell’autorità spirituale, dobbiamo aver fede che Roma
capitale d’Italia possa continuare ad essere la sede pacifica e rispettata del
pontificato.”[4]
Ma
la libertà di cui continuò a godere il
Romano Pontefice nello spirituale non poteva ovviamente bastare a sanare la
ferita profonda che si era aperta nei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica,
creando, tra l’altro, anche una situazione di incertezza per il futuro della
Chiesa-istituzione. Al Papa doveva esser
riconosciuta la qualità di vero sovrano secondo il diritto positivo, una “vera
sovranità”, come aveva detto e ribadito Leone XIII. Ma non ci poteva essere
vera sovranità senza territorio e senza la forma istituzionale tipica dello
Stato, senza la personalità giuridica riconosciuta dal diritto internazionale
ai soggetti sovrani, senza – infine –
una forma di compensazione per i torti e i danni subiti dalla Santa Sede con l’
Unificazione. Il Papa doveva esser
restituito alla sua posizione di Capo di Stato, a tutti gli effetti, con tutti
i requisiti necessari. Inoltre, la Chiesa cattolica, per quello che era e
rappresentava, non poteva esser considerata una semplice organizzazione privata,
libera di darsi la sua struttura, ma sempre nell’àmbito delle leggi dello
Stato, come pretendeva per l’appunto la formula del “libera Chiesa i n libero
Stato”. È vero che la missione propria
della Chiesa è soprattutto spirituale, consistendo essa nella salvezza delle
anime dall’eterna dannazione mentre il potere temporale non è per essa un fine
in sé ma solo uno strumento per poter realizzare nel modo migliore
questo fine soprannaturale. Tuttavia, la Chiesa visibile, operando come
istituzione profondamente radicata in
società civili ed evolute, nel cui àmbito costituisce una società perfetta
il cui fondamento è trascendente, non può fare a meno di un’organizzazione
statale sua propria, riconosciuta come tale.
E questo, non solo per godere della necessaria libertà d’azione, ma anche
a causa della sua struttura rigidamente gerarchica. Infatti, questa struttura si estende in tutto il mondo,
non solo come realtà eminentemente religiosa ma anche come istituzione di
diritto positivo, manifestazione della particolare forma-Stato intrinseca alla
Chiesa. Ciò che può variare, nel rapporto tra la Chiesa e l’Italia, è solo l’estensione
materiale del principato civile del Papa, l’ampiezza del suo territorio,
disuguale nei secoli, perché dipendente dalle mutevoli vicende della storia, e
al presente ridotto a termini minimi, il cui nucleo si trova necessariamente a
Roma, sufficienti tuttavia a garantire finora alla Chiesa, nella società
contemporanea, la necessaria indipendenza e libertà d’azione.
Inevitabili
e giuste, dunque, le scomuniche di Pio IX, come quelle inflitte secoli prima da
Gregorio VII all’imperatore Enrico IV il Salico al tempo della lotta
per le investiture, poiché a quel tempo in gioco era la libertà stessa della
Chiesa, che doveva riappropriarsi della scelta del pontefice (spesso imposta
dall’imperatore) e dell’investitura dei vescovi, sottraendola all’imperatore o
ai re o all’influenza dell’aristocrazia; e doveva imporre di nuovo la condotta
di vita esemplare che Cristo esige dai suoi sacerdoti, visto che, con le nomine
imperiali o regie, o l’appannaggio delle rendite ecclesiastiche più ricche
riservato ai cadetti della nobiltà, venivano introdotte nel clero troppo spesso
persone senza vocazione e comunque inadatte ad una missione sì alta e difficile
quale è il sacerdozio di Cristo, avide invece di godere dei benefici
ecclesiastici concessi dal potere civile, che se li era arrogati.
La scomunica latae sententiae di Pio
IX, ossia semplicemente per aver commesso il fatto, si applicava pertanto sia a
tutti coloro che avevano compiuto atti di forza contro il suo Regno temporale
che a tutti quelli che avevano votato sì
ai plebisciti per l’annessione dei suoi Stati alla monarchia costituzionale dei
Savoia. Questi ultimi assommavano a
circa 800.000 cattolici, contando tutti i “sì” di Emilia e Romagna, Marche, Umbria,
Lazio con Roma. Rispettivamente : 426.000+133.765+97.040+133.681.
Così
tante persone incorsero nella scomunica?
Così tanti furono i voti a favore dell’annessione alla “monarchia
costituzionale di Vittorio Emnuele II”?
Per i plebisciti l’elettorato attivo non era attribuito su ristretta
base censitaria, come per le prime elezioni politiche del Regno d’Italia (il 2%
della popolazione adulta), nel 1861, comunque in modo simile a quanto avveniva
nel resto d’Europa, ove non regnavano né il suffragio universale né la
segretezza del voto né si concedeva alle donne di votare mentre il controllo
del voto da parte dei “notabili” locali era la regola. Per i famosi nostri plebisciti di annessione
alla Monachia sabauda, per far nascere il Regno d’Italia o aderirvi,
l’elettorato attivo era attribuito all’intera popolazione maschile, dai 21 anni in su. Nei quattro citati, votarono rispettivamente,
l’81% degli aventi diritto, il 63,7%, il 79,4%, l’80% circa – l’astensionismo
(questa era la logica dei plebisciti per un “sì” o un “no” con voto pubblico)
era interpretato come manifestazione di voto contrario. I nemici dell’annessione,
tranne poche migliaia di audaci, se ne stettero a casa, e non furono
pochissimi, come si vede dalle percentuali, pur assai favorevoli alla causa
dell’annessione. Questo fatto spiega, ad avviso di osservatori neutrali, perché
i voti contrari siano stati minimi. La
pubblicità del voto può inoltre render ragione del numero molto basso di schede nulle, assai più delle pressioni e dei
brogli, che pur ci saranno stati ma difficilmente nella misura favoleggiata
dalla violenta saggistica antiunitaria e antiitaliana, tipica degli attuali
polemisti neo-legittimisti.
“Le leggi elettorali austriache erano tali che
i grandi proprietari terrieri, direttamente o attraverso la loro influenza
sugli elettori nei villaggi avevano la possibilità di dominare le transazioni
parlamentari senza considerazione della proporzione dei votanti” (Arthur J.
May, La monarchia asburgica. 1867-1914, tr. it. dall’inglese di Maria
Lidia Bonaguidi Paradisi, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 223. L’originale è del 1951). Nell’Inghilterra,
modello di tutto il liberalismo europeo, la situazione non era molto diversa.
Il sistema elettorale, estremamente censitario, abbisognava di grandi
riforme. Occorreva introdurre nuovi
distretti elettorali, soprattutto urbani, che esprimessero i voti dei borghesi
e un domani dei proletari, sottraendo alla nobiltà il controllo dei distretti
rurali, numericamente prevalenti. Ciò si
cominciò a fare con una legge del 1832, il Parliamentary Reform Act.
“Nel 1830 i Comuni britannici rappresentavano un elettorato di circa 220.000
persone in una popolazione totale che si approssimava ai 14 milioni, ossia
circa il 3% della popolazione adulta. I
membri [del Parlamento] rappresentavano in media 330 elettori ciascuno; ora
[1961] la media è di 56.000, sulla base del suffragio universale di circa 35
milioni di persone.” (Bruno Leoni, La libertà e la legge, con Introduzione
di Raimondo Cubeddu, liberlibri, 1994, p. 129. L’originale apparve in
inglese nel 1961). La riforma del 1832
quadruplicò l’elettorato. Tuttavia il
diritto di voto era esercitato solo da un suddito di S. M. B. su quaranta. Le elezioni duravano due giorni e non c’era
voto segreto. Solo nel 1867 il numero
degli elettori
attivi fu raddoppiato e la gran parte dei salariati poté votare per la
prima volta (J.A. Rickard, History of England. Survey of Events from 55 B.C.
to Recent Times with Tables, Maps and Examination Questions, Barnes &
Nobles, New York, 196511, p. 175; p. 188). La pubblicistica antiunitaria e neoborbonica
si scandalizza per gli episodi di votanti che si recavano inquadrati per
villaggio o categoria professionale a votare “sì” durante i plebisciti. Ma una prassi del genere doveva esser diffusa
anche nelle elezioni politiche normali.
Ne troviamo una traccia, a mio avviso, presso il grande Alexis conte di
Tocqueville, quando, nell’agosto del 1846, fu rieletto alla Camera francese,
con 410 voti contro 70, dagli uomini maggiorenni (vent’anni compiuti) della sua
circoscrizione. Nel suo feudo normanno,
arrivò con i 170 votanti in fila per due e in ordine alfabetico alla periferia
del villaggio dove si doveva votare. A
loro richiesta, li arringò brevemente, raccomandando “di non lasciarsi
avvicinare né sviare da coloro, che al nostro arrivo al villaggio avrebbero
potuto cercare di ingannarli; ma di procedere raggruppati e di restare insieme,
ognuno al suo posto [mantenendo l’ordine alfabetico], fino a che non avessero
votato […] Gridarono che così avrebbero fatto e così fecero. Tutti i voti furono dati nello stesso tempo,
ed ho motivo di credere che furono dati quasi tutti allo stesso
candidato.”(Alexis de Tocqueville, Ricordi, in ID., Scritti politici,
a cura di Nicola Matteucci, vol. I: La rivoluzione democratica in Francia,
U.T.E.T., 1969, pp. 298-584; pp. 383-384).
Giudicare i primitivi e approssimativi sistemi elettorali di allora, che
comunque non impedivano la formazione di un libero consenso, alla luce degli
odierni, che tutelano pienamente la segretezza e individualità del voto, ciò
non significa forse falsare la prospettiva storica?
Le
scomuniche furono perpetuate dal non expedit di Pio IX, che vietò ai
cattolici di partecipare alla vita politica del Paese. Per quanto giustificato dalle scomuniche, il non
expedit (“non conviene, non si addice”), prolungandosi nel tempo, creò un
vuoto politico e culturale assai dannoso al Paese, riempito, come fu, da
liberali, socialisti, massoni, nazionalisti, insomma da tutte le componenti più o meno apertamente anticristiane
della società contemporanea. Fu san Pio X ad iniziare una indispensabile
inversione di rotta, autorizzando, con il Patto Gentiloni, una prima forma di
partecipazione dei cattolici alla vita politica della nazione, pur nell’ovvio
mantenimento delle condanne e delle proteste della Santa Sede per la situazione
ingiusta nella quale era stata messa dall’Unificazione dell’Italia. Fu con Papa Sarto che si iniziò cautamente
quel cammino che si sarebbe concluso con la Conciliazione del ’29, con
le opportune e doverose concessioni fatte dallo Stato italiano ossia (in
pratica) da Mussolini e approvate dal Re, oltre che da Camera e Senato. La
monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele III era, infatti, all’epoca
incorporata, se così possiamo dire, nell’esperimento fascista, nello Stato
fascista, e il fascismo, totalitarismo imperfetto ed anzi atipico (come hanno
notato diversi storici), si distinse dagli altri due già per le concessioni
alla religione e alla Chiesa e il rispetto con il quale trattò entrambe. E non si trattò solo di riconoscere
nuovamente un potere temporale al Papa.
Come annotò l’illustre giurista Arturo Carlo Jemolo, cattolico liberale
e antifascista, paragonando con onestà di storico la dittatura italiana e quella tedesca, “nessuna speranza per la
Chiesa, in regime nazista, di vedersi consegnare dallo Stato [con la Conciliazione]
la legislazione matrimoniale, di avere illimitata libertà scolastica, di
ottenere libertà completa per la predicazione del clero, di mantenere un clero
che dipendesse effettivamente da Roma e che non fosse piú fortemente legato al
potere politico.”[5]
3.
La legittimità di uno Stato non
dipende, come tale, da una consacrazione pontificia
Secondo
il prof. Fontana, le scomuniche di Pio IX rendono ancora attuale il problema
del vero riconoscimento della legittimità di uno Stato: si badi bene, non solo dello Stato italiano
al tempo usurpatore delle terre della Chiesa ma anche dello Stato in generale, di
ogni Stato, se ho ben afferrato il concetto. Che sarebbe il seguente: spetta alla Chiesa dare la legittimazione,
“l’ultima”, quella definitiva, allo Stato o togliergliela.
Alla Chiesa cattolica e solo alla Chiesa.
Si deve ritenere che uno Stato, quale che sia
il suo tipo di governo, per esser considerato legittimo debba esser approvato
dal Papa e fors’anche con cerimonie pubbliche sul tipo delle incoronazioni a
sfondo sacrale del tempo che fu?
Prescindendo dalla forma, nel merito si dovrà ritenere che un Romano
Pontefice potrà approvare come legittimo solo uno Stato cattolico: non si vede, infatti, come possa legittimare
in modo solenne uno Stato che si ispiri a princìpi religiosi e morali non solo
diversi da quelli cattolici ma anche opposti ed ostili ad essi. Ne risulterebbe che unici Stati legittimi, in
quanto Stati, dovrebbero considerarsi quelli cattolici. Naturalmente, tutti noi cattolici aspiriamo,
credo, alla conversione dei popoli e degli Stati ovvero a che gli Stati si
uniformino spontaneamente ai principi del cristianesimo. Ma fintantoché questo non accade, dobbiamo
considerarli a priori come Stati illegittimi?
Una conclusione del genere sarebbe palesemente
assurda. La storia ci offre esempi di
Stati che, ben prima della nascita di Cristo, erano Stati a tutti gli effetti e
degni di questo nome, capaci di attuare valori positivi, a cominciare da quello
della famiglia. La Repubblica Romana era
certo uno Stato e l’austerità dei costumi della sua società era ben nota. Il
matrimonio e la famiglia vi erano tenuti in grande onore. La decadenza è cominciata solo con l’inizio
delle grandi conquiste e il contatto ravvicinato delle classi dirigenti con il
mondo greco-ellenistico. La legittimità
che un Papa può conferire ad uno Stato si baserà soprattutto su valori religiosi
e morali. Per Stati anteriori a Cristo,
valeva soprattutto il criterio della loro capacità di far osservare la morale
naturale, privata e pubblica, e di organizzare la difesa e il perseguimento del
bene comune, innanzitutto con l’amministrazione della giustizia. Questa capacità è considerata da san Paolo
il requisito fondamentale, quello che giustifica l’obbedienza all’autorità
pagana degli Stati del suo tempo - che non capiva il cristianesimo e lo
perseguitava come setta eversiva - nel famoso capitolo 13 della Lettera ai
Romani. Ne discende, pertanto, che,
affinché uno Stato possa considerarsi legittimo, anche dal punto di vista
cristiano, basta che esso rispetti la morale naturale e si dimostri capace di
proteggere i buoni e punire i malvagi ossia di amministrare la giustizia. L’autorità dello Stato, nei suoi fini
legittimi, è infatti voluta da Dio:
l’autorità di uno Stato bene ordinato, che faccia il suo dovere, non
solo quella di uno Stato cristiano ed anzi cattolico.
“Vuoi
tu non aver paura dell’autorità?
Diportati bene e riceverai la sua approvazione. Essa è infatti ministra di Dio per il tuo
bene. Se invece agisci male, temi; non
per nulla porta la spada, ma, essendo ministra di Dio, deve punire chi opera il
male. È necessario quindi che siate
soggetti, non solo per paura della punizione, ma anche per motivo di
coscienza. Per lo stesso motivo ancora,
voi dovete pagare anche le imposte: perché sono pubblici funzionari di Dio,
quelli addetti interamente a tale ufficio.
Rendete a tutti quanto è dovuto…” (Rom 13, 3-7).
Lo
Stato imperiale romano del tempo di san Paolo, nella misura in cui agiva come
autorità preposta da Dio all’attuazione del bene comune, secondo le leggi e le
consuetudini, doveva considerarsi ex sese legittimo, pur presentando
aspetti (quali ad esempio i sanguinari spettacoli circensi) moralmente
riprovevoli anche per la stessa sensibilità pagana, quella più colta, educata
ai princìpi dello stoicismo. Quando,
all’opposto, usurpava i diritti del vero Dio, pretendendo che si sacrificasse
un grano di incenso all’imperatore come se fosse una divinità, questo suo
comportamento rendeva illegittima la sua autorità e legittimo il rifiuto di disobbedire
a questa imposizione da parte del cristiano. San Paolo non si occupa espressamente di
quest’aspetto ma noi lo deduciamo dai suoi princípi, che poggiano del resto su
una norma fondamentale, insegnata nell’intero Nuovo Testamento: in tutto
bisogna obbedire sempre “a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti degli
Apostoli 4, 19-20).
La
natura legittima dell’autorità civile e quindi di uno Stato, per la dottrina
della Chiesa, riposa sempre sull’insegnamento di san Paolo, che non mostra, tra
l’altro, sempre in Rm 13, di privilegiare una forma di governo rispetto
ad un’altra. Se poi uno Stato diventa
cristiano perché la sua classe dirigente si converte al cristianesimo e ne
difende ed impone i valori nella società, tanto meglio: diremo allora che
quello Stato ha perfezionato la sua natura di Stato già legittimo, così
come la Grazia perfeziona l’umana natura, soffocandone gli impulsi al male,
elevandola ad una dimensione morale ad essa altrimenti preclusa. Ma non diremo che quello Stato era illegittimo
perché non cristiano o perché non ancora riconosciuto (consacrato) come Stato cristiano
da un Romano Pontefice. La necessità di
una espressa consacrazione religiosa o comunque di un espresso riconoscimento
pontificio per imperatori, re, reggitori in generale si impose solo a partire
dall’anno 800, con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno in Roma ad opera
del Papa al tempo regnante --- si
affermò come fatto prodotto da determinate circostanze storiche legate alle
lotte e concezioni politiche del tempo, non può evidentemente considerarsi un
portato necessario ed inevitabile del cristianesimo, in quanto religione che si
applichi (necessariamente) anche alla concezione dello Stato. L’importante è
che la società e lo Stato siano cristiani in senso sostanziale, che si
informino effettivamente e apertamente ai valori del cristianesimo nella vita
di tutti i giorni, come tramandati nei secoli dall’insegnamento della Chiesa.
Affermare
che la legittimità dello Stato dipende esclusivamente da un espresso
riconoscimento pontificio, sembra un voler ritornare alle tesi di un Egidio
Romano, al “curialismo” più radicale, con tutti i problemi che quella
teoria comporta. In primo luogo, quello
della supposta indegnità a priori degli Stati non cristiani, che invece
sarebbero perfettamente degni, in quanto agenti in conformità al loro
fine naturale, secondo l’insegnamento di Rom 13. E difatti, Egidio Romano costruisce la sua
teoria come eccezione al dettato paolino
“Quod licet non sit potestas nisi a Deo, nullus tamen est dignus aliqua
potestate, nisi sub ecclesia et per ecclesiam fiat dignus”.[6] In secondo luogo, il sovrapporsi di una
visione sostanzialmente teocratica della Chiesa nel suo rapporto con lo
Stato e la società, visione che alla fine ha portato troppo spesso a confondere
il sacro con il profano, specialmente in politica, come è stato dimostrato da una
tormentata esperienza storica, rivelatasi in ultima analisi negativa anche per
la Chiesa.
4. Con il Trattato Lateranense dell’ 11 febbraio
1929 il Papa ha riconosciuto la legittimità dello Stato italiano,
implicitamente rimettendo le scomuniche di un tempo, ma ogni Stato si rende in
sé illegittimo quando le sue leggi violano la legge naturale e divina.
Persino
l’avvocato Carlo Francesco D’Agostino, teorico della politica cattolico
che si riallaccia alla tradizione dei grandi pensatori reazionari come
De Maistre o Donoso Cortez, mostrando una spiccata quanto (a mio avviso)
utopistica tendenza a sottoporre integralmente la politica all’etica; il cui
pensiero viene oggi rivalutato dagli intellettuali cattolici (antiunitari) che
vogliono riaffermare in modo rigoroso una concezione tradizionale dello
Stato, sostiene che, con la Conciliazione del ’29, lo Stato italiano,
nato dalla Rivoluzione che fu il Risorgimento, era diventato legittimo.
“I
Savoia da usurpatori erano diventati legittimi con la firma dei Patti
Lateranensi. Per due ragioni
fondamentalmente: 1) perché con la firma
di quei Patti la Chiesa li ‘riconosceva’ come re legittimi sui popoli e sui
territori che le erano stati sottratti con la violenza e sui popoli e sui
territori italiani retti dalle altre Case regnanti sottoposte alla Chiesa; 2) perché con quei Patti veniva abbandonato
il rivoluzionario principio della sovranità popolare, invocato dal primo e
(poi, anche) dal secondo Risorgimento:
avendo ridato (almeno formalmente) pieno vigore all’art. 1 dello Statuto
albertino, quello italiano era ridivenuto uno Stato cattolico. Il Re, nel 1929, con la firma del Concordato
aveva dato avvio, infatti, a un nuovo indirizzo, al vero e definitivo indirizzo
di rinascita, che era anche l’unica via per legittimamente governare un
popolo.”[7]
Dal
tenore di questo passo non si comprende appieno, a mio avviso, se i Savoia
fossero diventati legittimi solamente agli occhi della Chiesa o in assoluto. In ogni caso, per la Chiesa il Regno d’Italia
con Roma capitale doveva considerarsi dal febbraio del 1929 in poi legittimo e
chiusa definitivamente la “questione romana”.
Lo si deduce dall’art. 26, penultimo del Trattato del Laterano,
che recita:
“La
Santa Sede ritiene che con gli accordi, i quali sono oggi sottoscritti, Le
viene assicurato adeguatamente quanto Le occorre per provvedere con la dovuta
libertà ed indipendenza al governo pastorale della Diocesi di Roma e della
Chiesa cattolica in Italia e nel mondo; dichiara definitivamente ed
irrevocabilmente composta e quindi eliminata la “questione romana” e riconosce
il Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello
Stato italiano.
Alla
sua volta l’Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano sotto la
sovranità del Sommo Pontefice.
È
abrogata la legge 13 maggio 187, n. 214, [detta delle Guarentigie], e
qualunque altra disposizione contraria al presente Trattato.”[8]
Gli
avverbi “definitivamente” ed “irrevocabilmente” mostrano l’inconfondibile
marchio di fabbrica dell’allora Capo del Governo, il Cavalier Benito Mussolini,
che fu, come ho già ricordato, il vero ispiratore ed artefice degli Accordi.[9] Ma per i trattati internazionali vale sempre
la massima “rebus sic stantibus”, invocata secondo necessità dai
contraenti anche se parte della dottrina giuridica non la considera valida: se
la situazione regolata dagli accordi fra Stati si modifica in modo sensibile o
grave a sfavore di una delle parti contraenti, e “le cose non stanno più come
prima” cioè com’erano al momento della stipula degli accordi stessi, gli
accordi possono legittimamente saltare.
Così, se lo Stato italiano in futuro prevaricasse sulla sovranità dello
SCV o comunque violasse in modo grave gli accordi, il Papa potrebbe sempre
riprendere la sua libertà d’azione e denunciare legittimamente gli accordi
stessi. E viceversa. Ma in genere le “mutate circostanze”
provocano revisioni bilaterali degli accordi, come è appunto avvenuto per i
Patti Lateranensi, modificati consensualmente dalla Santa Sede e dallo Stato
italiano con l’Accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18
febbrario 1984, quando al governo c’era il centrosinistra guidato dall’on.
Bettino Craxi: una revisione
sciaguratamente condotta nello spirito del Concilio Vaticano II, che difatti ha
cancellato, con l’adesione convinta della Chiesa, la religione cattolica quale
sola religione dello Stato italiano, come stabiliva lo Statuto Albertino,
riaffermato dal Trattato del Laterano (vedi l’art. 1 del Protocollo
addizionale dell’Accordo del 1984:
“Si considera non più in vigore il principio, originalmente richiamato
dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello
Stato italiano.”)[10]
Le
osservazioni di D’Agostino, che hanno sempre un taglio personale, meriterebbero
ampi approfondimenti, che tuttavia ci porterebbero troppo lontano, in questa
sede. Mi limito ad osservare quanto
segue:
1) I Savoia diventarono legittimi perché la
Chiesa li riconosceva ora come sovrani legittimi anche “sui popoli e sui
territori italiani retti dalle altre Case regnanti sottoposte alla Chiesa”. Ma quali erano queste altre case regnanti
“sottoposte alla Chiesa”? E a quale
titolo? Si riferisce forse l’Autore al
vincolo di vassallaggio che sottoponeva diverse case regnanti italiane (e non)
alla Santa Sede sin dal Medio Evo? Per esempio il Regno delle Due Sicilie, sin
dal tempo dei Normanni? Nel 1929 il Romano Pontefice ne rappresentava forse
l’istanza legittimistica? Agiva anche (implicitamente) a nome di queste case
regnanti? Il punto può sembrare di interesse più che altro antiquario e
tuttavia non sarebbe privo di importanza, a mio avviso, per chiarire in che
modo il pensiero legato alla tradizione (e antiunitario) concepiva (e tuttora
sembra concepire) la sovranità temporale del Papa.
2) Che i Savoia siano diventati “legittimi” agli
occhi del Papa perché avevano “abbandonato il rivoluzionario principio della
sovranità popolare” proprio con la ratifica dei Patti firmati, per l’Italia, da
Mussolini Capo del Governo di allora, è affermazione che non mi convince. Da
cosa risulterebbe quest’abbandono? Dal
fatto che con i Patti si dava “almeno formalmente pieno vigore all’art. 1 dello
Statuto Albertino”, ragion per cui lo Stato italiano “era ridivenuto uno Stato cattolico”. La rinuncia alla teoria della sovranità popolare
risultava, dunque, per D’Agostino, dall’aver ridato pieno vigore all’art.
1 dello Statuto Albertino.
Vediamo
di capire. Così ricostruisco, per il
lettore, che non ha l’obbligo di conoscere i trascorsi delle nostre costituzioni.
Lo
Statuto Albertino o Statuto del Regno fu la costituzione di 84 articoli
concessa da Carlo Alberto di Savoia-Carignano il 4 marzo 1848 nel pieno dei
moti popolari che avrebbero portato alla I Guerra d’Indipendenza. Il documento
concedeva una serie di diritti individuali tipici delle carte liberali ma
sempre sotto il controllo delle leggi (artt. 24-32). Il re lo concedeva come
“Carlo Alberto per la grazia di Dio Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme
etc.” ossia sempre come monarca di diritto divino. Nessuna traccia di sovranità popolare.
All’art. 1 lo Statuto recitava: “La
religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati
conformemente alle leggi.”[11] Lo Statuto era rimasto sempre pienamente in
vigore durante il Regno d’Italia, nato ufficialmente il 17 marzo del 1861. Perché D’Agostino affermava che sono stati i
Patti Lateranensi a “dare formalmente pieno vigore allo Statuto”? Perché – interpreto – lo Stato italiano
liberale era entrato in aperto conflitto con la Chiesa, aveva inaugurato una
legislazione giurisdizionalista eccessivamente aggressiva, riducendo gli
antichi privilegi del clero, abolendo certi tipi di ordini religiosi,
sequestrando conventi, arrivando addirittura a riconoscere come valido solo il
matrimonio civile, contratto cioè di fronte ad un funzionario dello Stato: tutto ciò era evidentemente in contraddizione
con l’art. 1 dello Statuto che faceva implicitamente obbligo allo Stato di
proteggere e difendere la religione e quindi la Chiesa cattolica. E la legislazione inauguratasi in Italia,
ancor più con la Sinistra al potere, andava nella direzione opposta. Insomma, il principio del “libera Chiesa in
libero Stato” contraddiceva il tenore dell’art. 1 dello Statuto, portando ad
una separazione e contrapposizione del tutto aliena al giusto rapporto
tra Stati cattolici e Chiesa cattolica, nonostante tale principio riconoscesse
alla Chiesa un’ampia anche se non totale autonomia ma come semplice organizzazione
di diritto privato.
Con
la Conciliazione, in effetti, il principio del “libera Chiesa in libero
Stato” venne meno. Mussolini lo criticò apertamente nella sua lunga replica
alla Camera, durante la discussione per l’approvazione degli Accordi. Stato e Chiesa vennero riconosciuti come
liberi e sovrani nella loro rispettiva sfera ma non separati alla maniera del
principio liberale, il quale, come si è visto, riconosceva una sovranità
personale senza territorio al Papa uti singulus – costruzione alquanto
singolare. Alla Chiesa veniva
addirittura riconosciuto di nuovo un potere temporale, un’autentica bestemmia
per liberali, massoni, socialisti, comunisti e anche per una parte del partito
fascista. E con questo potere lo Stato fascista
collaborava, in diversi campi, dicendosi anzi Stato cattolico e ergendosi a
difensore della religione e della civiltà cristiana contro il marxismo e il
capitalismo materialista delle “demoplutocrazie”.
Piena
attuazione, dunque, del dettato dell’art. 1 dello Statuto, tant’è vero che
tutto l’antifascismo di stampo liberale, liberal-socialista,
repubblican-massonico, azionista inveiva contro Mussolini anche perché,
dicevano, con gli Accordi, aveva fatto di nuovo dell’Italia uno Stato
“confessionale”, come se fossimo ritornati ai tempi della Restaurazione, al
1815.[12]
Mussolini,
appunto, non il Re, anticlericale notorio e pervicace, in odor di Loggia, mai
andato ad una Messa in vita sua, tranne che non lo obbligasse l’etichetta o la
Ragion di Stato, come nel caso del suo matrimonio con Elena del Montenegro,
convertitasi al cattolicesimo (lei, “ortodossa” di nascita) per imprescindibile
necessità politica.
Ma
il “confessionalismo” che gli Accordi
avrebbero di nuovo riproposto, implicava forse una rinuncia alla teoria
della sovranità popolare? Lo Stato monarchico costituzionale, pur nello spirito
del rinnovato Statuto Albertino, era anche e forse soprattutto, in quel
frangente storico, Stato fascista, cosa che D’Agostino sembra
dimenticare. E il regime, al cui Capo si
dovevano in realtà gli Accordi, aveva forse rinunciato a legittimarsi
nel popolo, inteso come Nazione? No,
certamente. Convivevano allora due
concezioni della sovranità dello Stato?
Forse convivevano, ma dalla nascita del Regno d’Italia. Infatti, Vittorio Emanuele II assunse il
titolo di Re d’Italia il 14 marzo 1861, approvato all’unanimità dal Senato e
dalla Camera dei Deputati: “il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
successori il titolo di Re d’Italia”. Il
17 successivo, il sovrano promulgava la legge n. 47 che gli conferiva il titolo
di Re d’Italia. La legge del 21 aprile
successivo, approvata all’unanimità dal Parlamento, aveva stabilito che i
decreti regi si intitolassero con la nota formula: “Vittorio Emanuele II re d’Italia per grazia
di Dio e volontà della Nazione”. Si
voleva in tal modo “coniugare la tradizione dell’investitura sacra del sovrano
con l’innovazione del consenso della popolazione espresso dai Plebisciti.”[13]
A
questa formula Vittorio Emanuele III si mantenne sempre fedele. Nessuna ripulsa
del principio dell’investitura popolare, accettato da Vittorio Emanuele II.
Egli firmò sempre i suoi atti, per esempio la promulgazione del Codice Penale
del 1930, come “Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re d’Italia”. E nell’approvare i Patti Lateranensi, oggetto
di un ampio dibattito alla Camera e al Senato del Regno, agì forse solo come Re
“per grazia di Dio”? No, ovviamente. In
realtà, proprio in quanto monarca costituzionale, che legittimava il suo potere
anche grazie ai plebisciti di un tempo, era la “nazione”, ora rappresentata dal
movimento fascista al potere, che, nella persona del Capo del Governo da lui
stesso nominato (secondo l’art. 65 dello Statuto Albertino), gli portava in
dono la tanto attesa, dal popolo, Conciliazione con la Chiesa.
Non
sembra potersi affermare che, agli occhi della Chiesa, lo Stato italiano
diventava legittimo perché, dando piena attuazione formale allo Statuto
Albertino, rinunciava al principio (eversivo) della sovranità popolare. Lo riteneva “legittimo” soprattutto perché
riconosceva alla Chiesa tutta una serie
di diritti e prerogative, per la Chiesa irrinunciabili, che erano stati
conculcati dallo Stato “demoliberale” --- diritti che era dovere di uno Stato
che si dichiarasse cattolico pienamente riconoscere, anche se tale Stato,
monarchia costituzionale, si fondava in parte sul riconoscimento di
un’investitura popolare. Pio XI, nel famoso
elogio privato a Mussolini quale vero artefice degli Accordi disse,
suscitando vasto scalpore, che, per giungere ai Patti, “forse ci voleva un uomo
come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare.”[14] Ovvero, un politico, uno statista non legato
agli schemi del pensiero politico liberale, che anzi in gran parte apertamente
avversava, sentendosi invece legittimato dalla Nazione, come intesa
dall’ideologia fascista stessa: la Nazione, i cui sentimenti ed aspirazioni
profonde egli era convinto di interpretare innanzitutto per ciò che riguardava
il desiderio della pace religiosa. Mussolini si sentiva legittimato da una volontà
generale di cui egli era l’interprete carismatico, Duce,
appunto. Potremmo allora dire: sovranità
popolare di tipo carismatico, secondo il tipo del “potere carismatico”
messo in luce da Max Weber, proprio in quegli anni. Una dimensione fuori dagli
schemi usuali, tipica dei totalitarismi, ma impiegata da Mussolini a far la
pace con la Chiesa e la religione cattolica non a tagliar teste, non in modo giacobino
o, peggio ancora, bolscevico. Ed innestata sulla sovranità popolare
di tipo rappresentativo ancora in parte sussistente, visto che gli Accordi furono
approvati dalle due Camere, a maggioranza. Dimensione comunque fuori dagli
schemi, nelle sue varie componenti, che al Romano Pontefice andava
evidentemente bene, fintantoché era appunto rivolta al bene, della religione,
della Chiesa e del popolo.
Questi
pochi cenni sulla complessa questione, credo possano esser sufficienti per
sostenere che la legittimità riconosciuta realisticamente dalla Chiesa allo
Stato italiano, inizialmente “usurpatore”, non può comunque ricondursi sic et
simpliciter a spiegazioni che in fondo rinviano a dottrine tendenzialmente teocratiche,
come sembra fare D’Agostino. Del quale
va in ogni caso tenuto presente l’accenno al “secondo Risorgimento”, dimostratosi
fedele seguace della teoria rivoluzionaria della sovranità popolare ossia al
fatto che la Costituzione Repubblicana, basandosi sul principio della sovranità
popolare, ha sì accolto, e non poteva fare diversamente, i Patti Lateranensi
(art. 7), ma ha, nello stesso tempo, in nome dell’uguaglianza dei cittadini
(art. 3), accolto in pieno il principio liberale dell’individuale libertà di
coscienza, anche in materia di religione (artt. 8, 19, 20, 21), inaugurando un
cammino che si sarebbe appunto concluso con la citata Revisione degli Accordi
del 1984; la quale revisione, come si è ricordato, ha portato all’eliminazione
della religione cattolica unica religione ufficiale dello Stato italiano:
evento rivoluzionario, avvenuto tuttavia con la totale adesione della Gerarchia
cattolica, che citava appunto a sostegno dello stesso le costituzioni del
Concilio Vaticano II ! Lo Statuto
Albertino, con il suo fondamentale art. 1, è quindi alla fine scomparso
dall’orizzonte.
Il
problema della “legittimità” dello Stato italiano allora si ripropone,
oggi? Si ripropone certamente ma in
chiave diversa, sulla quale sarebbe certamente d’accordo il prof. Fontana e lo
sarebbe certamente anche D’Agostino: non
tanto o non più in relazione alla Chiesa ma in se stesso, in rapporto ai
fini propri dello Stato, che sono sempre quelli indicati da san Paolo in Rom
13. Lo Stato (ma in quasi tutta
l’Euro-America) viene oggi meno al suo compito istituzionale, voluto da Dio,
essere “ministro di Dio per il nostro bene”, diventando progressivamente illegittimo,
quando promuove (come fa) il male invece del bene, con leggi che violano
addirittura l’ordine naturale e divino, perché tutelano ed anzi impongono
l’abortismo, le convivenze di fatto, l’omosessualismo, la corruzione della
gioventù e puniscono i buoni che cercano di opporsi a tanto scempio.
31
dicembre 2020
[1]
Santi Romano, Corso di diritto internazionale, a.a. 1925-1926,
C.E.D.A.M., Padova, 1926, p. 53.
[2]
Gaetano Morelli, Nozioni di diritto internazionale, 6a
edizione riveduta, CEDAM, Padova, 1963, pp. 127-128.
[3] Filippo Mazzonis, Roma
capitale o “città santa”? in: ‘Trimestre’ , 1985, nn. 3-4. Quanto ricordato qui per Roma, valeva anche
per il resto d’Italia. Con giurisdizionalismo
si intende storicamente la pretesa del potere civile di regolamentare le
istituzioni religiose e la loro forza economica con le proprie leggi, al fine
di ridurne privilegi (esenzione fiscale assoluta, diritto d’asilo, foro
ecclesiastico ossia diritto dei preti accusati di reati ad esser giudicati solo
da un tribunale ecclesiastico etc) considerati eccessivi e di ridurre
l’influenza del clero nella vita civile, considerata eccessiva. In Italia, il giurisdizionalismo
aveva una tradizione secolare.
[4] Conclusione del primo
Discorso della Corona, tenuto da Vittorio Emanuele II il 27 novembre 1871,
all’inaugurazione della sessione parlamentare, a Roma. Citato in:
Camillo Benso di Cavour, Discorsi per Roma capitale. Saggio
introduttivo di Pietro Scoppola, Donzelli Editore, Roma, 2010, p. 11. Secondo la blogosfera neolegittimista e
ultramontana, le Logge avrebbero,
all’inizio del Vaticano I, organizzato addirittura un loro “anticoncilio” con
la complicità del governo italiano. Ma
il violentemente anticlericale e tuttavia farsesco Anticoncilio
massonico tenutosi a Napoli il 9 dicembre 1869, senza il patrocinio della
Massoneria ufficiale italiana, per l’appunto in provocatoria concomitanza con
l’inizio del Concilio Ecumenico indetto da Pio IX (8 dicembre 1869), fu sciolto
d’autorità dal ministro dell’interno il primo giorno della sua convocazione,
mediante l’intervento dell’ispettore di polizia ivi presente, Lupi,
evidentemente già istruito in proposito.
Prendendo a pretesto le grida di “Viva l’Italia, viva la Francia
repubblicana!”, con le quali erano stati salutati due sparuti rappresentanti
delle Logge francesi, cinta la fascia tricolore, il funzionario aveva
sentenziato che, con quell’esaltazione della Francia repubblicana, “dal campo
filosofico” si era passati alle
“opinioni socialistiche, facendo voti per la distruzione del presente ordine di
cose” (vedi: Aldo A. Mola, Storia
della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano,
1992, Parte Prima, cap. 5. L’Anticoncilio
Napoletano I, pp. 129-145).
[5] Arturo Carlo Jemolo, Chiesa
e Stato in Italia. Dalla unificazione a
Giovanni XXIII, Einaudi, Torino, 1965, p. 269. Erano le concessioni fatte da Mussolini, cui
andavano aggiunte le compensazioni finanziarie (750 milioni di lire in contanti
più un miliardo in titoli) e altre iniziative favorevoli alla Chiesa e alla
religione cattolica. Ci furono
contrasti, persino violenti, composti anche grazie all’intervento dell’allora
cardinale Eugenio Pacelli, Segretario di Stato di Pio XI, sull’educazione della gioventù, poiché il
regime avocava a sé “l’educazione del cittadino”, che voleva pubblica, di massa
e guerriera, esigendo che l’Azione Cattolica si concentrasse sulle attività di
tipo religioso e non facesse propaganda politica.
[6] Aegidius Romanus, De
ecclesiastica potestate, hrsg. von Richard Sholz, 1929, rist. anast.
Scientia Aalen, 1961, Lib. I, cap. IX, p. 2. “Anche se non c’è potere [sovrano,
autorità] che non derivi da Dio, nessuno ne è degno se non sotto la Chiesa e
mediante la Chiesa.” Il manoscritto sembra risalire al 1302. Per il testo del citato capitolo IX, vedi:
op.cit., pp. 81-86. E in particolare, vedi
il cap. IV del Libro I : “Quod
spiritualis potestas instituere habet
terrenam potestatem, et si terrena potestas bona non fuerit, spiritualis
potestas eam poterit iudicare.” Ossia:
“Spetta al potere spirituale istituire il potere secolare e giudicarlo
quando non si sia ben comportato” (op. cit., pp. 11-13). Sul giudizio morale e religioso (e persino
politico, per certi aspetti o in certi casi) cui deve sottostare ogni potere
sovrano ad opera della Chiesa, nulla
quaestio: il problema nasce
dall’affermata necessità per il potere sovrano di essere istituito dal
Romano Pontefice al fine di esser considerato in se stesso legittimo, ossia
conforme e coerente ai propri fini naturali ---
teoria che non si può accettare,
nemmeno, credo, da un punto di vista rigorosamente tomistico.
[7] Il pensiero di D’Agostino
qui riportato è ricavato da vari suoi articoli i cui concetti sono riassunti da
Danilo Castellano, De Christiana Republica.
Carlo Francesco D’Agostino e il problema politico (italiano), con Prefazione
di Luciano Musselli, ESI, Napoli, 2004, p. 118. Sul punto, in modo assai più ampio,
vedi: Samuele Cecotti, Della
legittimità dello Stato italiano.
Risorgimento e Repubblica nell’analisi di un polemista cattolico,
con Prefazione di Giovanni Turco, ESI, Napoli, 2012, cap. II, pp.
141-153; p. 153. D’Agostino scriveva queste cose subito dopo la II g.m. All’epoca, la Resistenza veniva spesso
definita “secondo Risorgimento”, titolo onorifico piuttosto controverso
(applicato alla Resistenza) e che sembra esser poi caduto in disuso, a parte le
commemorazioni ufficiali.
[8] Testo in: Giovanni Barberini (a cura di), Raccolta
di fonti normative di diritto ecclesiastico, Quarta edizione riveduta e
ampliata, G. Giappichelli editore, Torino, 1997, p. 26.
[9] Renzo De Felice, Mussolini
il fascista. II. L’organizzazione dello Stato fascista. 1925-1929, Einausi,
Torino, 1968, Cap. Quinto, La Conciliazione, pp. 382-436. La dettagliata analisi di De Felice resta
sempre essenziale per la comprensione della Conciliazione come fatto storico di
vasta portata, al di là delle passioni di parte.
[10] Testo in Giovanni
Barberini (a cura di), op. cit., p. 55.
Le altre religioni erano riconosciute dallo Stato, purché non violassero
la morale e l’ordine pubblico, come “culti ammessi”. Ammessi, quindi, nell’àmbito delle leggi
vigenti.
[11]
Per il testo dello Statuto, vedi: Felice
Battaglia (a cura di), Le carte dei diritti (Dalla Magna Charta alla Carta del
Lavoro), Sansoni, Firenze, 1934, pp. 219-229.
[12] Vedi: Jemolo, op. cit.,
pp. 304-305, che riferisce l’intemerata
di Piero Calamandrei, illustre giurista, uno dei capi del Partito d’Azione,
contro l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, all’Assemblea
costituente, che tenne le sue sedute nel 1947.
[13] Romano Ugolini, Il
sovrano d’Italia: Vittorio Emnuele II, p. 2. Atti del Convegno bolognese del 2011
intitolato: Dialogo con le personalità del Risorgimento, relazione di 17 pagine, reperibile sul sito:
Pub3_7 Relazioni.
[14]
De Felice, op. cit., p. 427.