sabato 13 novembre 2021

Crisi della Chiesa - Perché continua il silenzio su 7Q5, il frammento papiraceo di Qumran databile al 50 dC circa, contenente Marco 6, 52-53?

 

 

Crisi della Chiesa  -  Perché continua il silenzio su 7Q5,  il frammento papiraceo di Qumran databile al 50 d.C. circa, contenente Marco 6, 52-53 ?

di  Paolo   Pasqualucci

 

Con la montiniana riforma liturgica  è invalsa  la cattiva abitudine di recitare nella Nuova Messa testi evangelici mutilati delle parti sgradite alla laica e miscredente mentalità moderna.  Ben 22 tagli sono stati identificati da un eminente studioso tedesco.  Inoltre, le traduzioni in volgare dei testi delle Orationes  da recitarsi durante la suddetta Messa,  hanno maltradotto od omesso ad abundantiam, sempre al fine di introdurre una visione edulcorata e quindi falsa del cattolicesimo, in teoria più gradita all’uomo contemporaneo.[1]  La cattiva abitudine del far passar sotto silenzio parti della Rivelazione e dell’Adorazione  essenziali alle verità di fede si è applicata, possiamo dire, anche al campo esegetico. Infatti, si è sepolta  nell’oblío una scoperta, scientificamente ineccepibile, che conferma quanto sempre sostenuto dagli studiosi cattolici, già sulla base della stessa analisi interna dei testi:  esser cioè i Sacri Testi che riferiscono i detti e i fatti del Signore di poco posteriori alla conclusione della sua vicenda terrena e comunque sicuramente anteriori alla distruzione del Tempio e di  Gerusalemme, iniziatasi il 29 agosto del 70 d.C. da parte dell’esercito romano assediante la città.

La scoperta di cui stiamo parlando è avvenuta all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Divenne nota al grande pubblico all’inizio degli  anni Novanta per poi sfilacciarsi nell’oblío di fronte all’opposizione tetragona  dell’esegesi accademica. Si tratta dei famosi Rotoli di Qumran, località sul Mar Morto non lontana da Gerusalemme, trovati casualmente nel 1947 in alcune grotte presso questa località, dove anticamente esisteva una Comunità di Esseni.  Le grotte, hanno stabilito gli archeologi, furono chiuse nel 68 d.C.  Due anni dopo che era iniziata la ribellione giudaica contro l’occupante romano, conclusasi con l’Apocalisse del 70.  L’insediamento degli Esseni, in zona desertica presso il Mar Morto, abbastanza vicina a Gerusalemme, constava di un complesso di edifici circondati da mura, una vera e propria cittadella quadrata, simile a un articolato complesso conventuale o ad un accampamento militare.  All’indagine archeologica il complesso appare esser stato distrutto,  quasi sicuramente dai romani.[2]

I  diciotto testi della settima grotta, tutti frammenti di papiri in greco, sottoposti ad accuratissime analisi, con i più perfezionati sistemi moderni, hanno rivelato un frammento essere con certezza praticamente assoluta Vangelo di Marco  6, 52-53.  Inoltre, secondo lo studioso scopritore, Padre José O’ Callaghan SI, 1922-2001, uno dei frammenti (7Q4) contiene un passo di una Lettera di san Paolo: 1 Tim 3, 16 – 4, 3.  Il papirologo gesuita propose anche la natura neotestamentaria di altri otto frammenti: tre di Marco, uno degli Atti, quattro di Epistole degli Apostoli (Thiede, pp. 49-53, vedi infra).

    La scoperta del frammento di Marco, come si è detto, è di enorme importanza:  essa inficia praticamente l’esegesi predominante ormai da quasi cinquant’anni, fondata sull’ipotesi non dimostrata che i Vangeli siano tutti posteriori al 70 d.C.  Tale ipotesi, come si sa, è presente nell’ambito del razionalismo protestante sin dal XIX secolo,  e si è affermata anche in campo cattolico, dagli anni Sessanta del secolo scorso.  Inevitabile che su una scoperta che di per sé everte la metodologia dominante, il mondo accademico ecclesiastico e non abbia opposto la strategia del dileggio e del silenzio. 

Il passo di Marco riportato dal frammento è il seguente :

“Ed erano tutti stupiti dentro di sè perché non avevano capito circa i pani, ché il loro cuore era insensibile.  E  compiuta la traversata , giunsero nella contrada di Gennesaret e presero terra. Sbarcati che furono…” (Mc 6, 52-53)

La versione italiana utilizzata è quella della Sacra Bibbia delle Edizioni Paoline, anteriore al Concilio Vaticano II, leggermente modificata da me.  Il testo in corsivo è quello ricostruibile in base al frammento,  il cui effettivo contenuto ho cercato di rendere (per dare l’idea) nelle parti di parole in grassetto e sottolineate. La parola-chiave, che ha permesso l’identificazione è stata :  Gennesaret.

Per rinfrescare la memoria su questo importante evento, pubblico qui di seguito   tre   documenti:  1. una breve intervista al gesuita autore della scoperta, effettuata nel 1996;  2. un articolo di mons. Francesco Spadafora, 1913-1997, ordinario di esegesi alla Lateranense,  apparso su un numero di sì sì no no del 1995;  3.  Estratti dal breve saggio del prof. Carsten Peter Thiede, 1952-2004, linguista e filologo, studioso del Nuovo Testamento, archeologo, papirologo di fama internazionale, luterano convertitosi all’anglicanesimo, pubblicato nei Subsidia biblica nel 1987, n.10, nel quale egli confermava autorevolmente la scoperta di Padre José O’ Callaghan, grazie anche alla sua eccezionale capacità di usare tecniche paleografiche ultramoderne, che permettevano di intendere correttamente caratteri altrimenti poco leggibili.  

 

1.  Intervista a P. José O’ Callaghan,  gesuita spagnolo, papirologo dell’Istituto Biblico, apparsa sulla rivista ‘Teologica’, n. 2 (I), Marzo-Aprile 1996.

“Il frammento di Marco tra i manoscritti del Mar Morto” è stato il tema di una conferenza organizzata dall’istituto italiano “Jacques Maritain” presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma.  Sull’argomento il Sir ha intervistato P.  José O’ Callaghan, papirologo del Biblico e autore dell’identificazione di alcune parole del Vangelo di Marco su un piccolo frammento di papiro del 50 d.C. proveniente dalle grotte di Qumran, l’ormai celebre località sulle rive del Mar Morto dove furono ritrovati nel 1947, nascosti in alcune giare, numerosi rotoli con testi religiosi risalenti all’epoca di Cristo.

D.  Qual’è l’importanza di questa scoperta?

R.  Il potere avere qualche papiro dell’anno 50 che corrisponde al capitolo 6 di Marco è molto importante perché rende minimo il distacco tra i primi documenti del cristianesimo e la vita del Signore sulla terra.  Praticamente “tocchiamo” il Signore, perché ci troviamo a pochi anni dalla sua morte come uomo.

La datazione al 50 d.C. al massimo e l’identificazione delle venti lettere contenute nel frammento con una sequenza del Vangelo di Marco è confermata da molti studi, in particolare, la possibilità che non si tratti del Vangelo di Marco, secondo un’analisi di tipo matematico effettuata dallo studioso catalano Dou, è di 1 contro 36 milioni di miliardi.

D.  Questo può servire a controbattere le tesi secondo le quali Gesù sarebbe stato mitizzato nel tempo trascorso tra la sua morte e le prime stesure scritte dei Vangeli?

R.  Arrivando a pochi anni dalla morte di Gesù dobbiamo accettare sempre una tradizione orale, ma non così lunga da far pensare  che, a causa delle esagerazioni nel tramandare i racconti della sua vita, essi siano stati amplificati fino a trasformarlo da uomo molto grande in Dio.  In altre parole, viene consolidata la storicità dei racconti evangelici.

D.  Il frammento potrebbe confermare l’esistenza della “fonte Q”, un protovangelo utilizzato nella stesura dei sinottici?

R.  Non lo so!  Molti me lo hanno domandato.  Alcuni pensano che il Vangelo di Marco sia stato scritto nel 40 o nel 42.  Io dico soltanto che questo papiro, questo brano, è dell’anno 50 e potrebbe essere anche una fonte primitiva o la fonte Q, ma siamo nel terreno delle ipotesi.

D.  Qual è il senso scientifico e religioso di queste ricerche?

R.  Anche se la nostra fede non è modificata da queste scoperte, è importante vedere che il cristianesimo non è soltanto una fede fideista.”

Osservazione del relatore, Paolo Pasqualucci :  con l’espressione “fede fideista”, che potrebbe sembrare ripetitiva, lo studioso spagnolo voleva sicuramente dire che il cristianesimo, oltre a basarsi sulla fede nell’autenticità della Rivelazione, si fonda su fatti sicuri, storicamente accertabili ed accertati, con metodo scientifico.

 

2.  Articolo di mons. Francesco Spadafora apparso il 30 settembre 1995 su ‘sì sì no no’, con il titolo :  “7Q5 s’impone”e la firma ‘Paulus’, poi ristampato nel volume :  Mons. Francesco Spadafora, La ‘Nuova Esegesi’, Les Amis de saint François de Sales, Sion, CH – diffusione in Italia: Fraternità San Pio X, V. Trilussa 45, 00041 Albano Laziale (Roma), pp. 327-335.  Questo volume raccoglie 27 articoli di Mons. Spadafora apparsi su ‘sì sì no no’, dedicati alle deviazioni dottrinali e metodologiche inquinanti l’esegesi cattolica, diventata succube dei metodi del razionalismo protestante a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.

 

“Avvenire venerdì 31 maggio 1995, p. 21:  “Al convegno di Venezia sui manoscritti di Qumran, padre O’ Callaghan spiega ai biblisti la ‘prova matematica’.  Il frammento papiraceo 7Q5 sigillo dell’infinito.”   Finalmente!  Nel resoconto utilissimo che del suddetto convegno ha offerto ai lettori in sintetica esposizione, il quotidiano raccomandato dalla CEI dà il risultato definitivo degli studi sulla identificazione  7Q5 = Mc  6, 52-53  ovvero sulla identificazione del quinto frammento papiraceo scoperto nella settima grotta di Qumran sul Mar Morto con i versetti 52-53 del sesto capitolo del Vangelo di San Marco.

L’importanza della scoperta è così illustrata:  “Se 7Q5 è davvero Mc 6, 52-53, verrebbe confutata la tradizionale ipotesi [del… Bultmann, 1920 appena, di moda ad opera dei neo-modernisti cattolici solo dal 1960!] della datazione “tardiva” del Vangelo, che sarebbe non più il frutto di una elaborazione della comunità dei credenti…Già, perché quando ancora il nostro frammento [indecifrato] era uno dei ventuno trovati nella settima grotta, era stato dissipato il dubbio sulla loro data di nascita:  50 d.C.”.

In altri termini:  viene (non “verrebbe”) distrutta scientificamente la base sulla quale poggia l’intero castello fantastico dei due ultimi sistemi razionalistici Formengeschichte e Redaktionsgeschichte [storia delle forme letterarie e storia della redazione del testo - ndr], che ritardano, contro la tradizione (essa, sì, tale) della Chiesa cattolica, la data di composizione degli Evangeli al 70-100 dopo Cristo.

A Venezia, il padre O’ Callaghan a conferma della sua scoperta, “abbandona le deduzioni della sua amata papirologia, per rimettersi alla esattezza delle cifre:  ‘Ora posso dire con assoluta certezza che quel frammento di papiro del 50 d.C. riporta un brano dell’Evangelo di Marco’.  La possibilità infatti, che un qualsiasi altro brano letterario registri la stessa sequenza di lettere è di una su 900 miliardi e, nell’ipotesi più realistica, una su 36 milioni di miliardi.

Lo studio del padre O’ Callaghan apparirà tra due mesi in Spagna e in Germania col titolo:  Le testimonianze più antiche del Nuovo Testamento. In Italia già circola un volume (Vangelo e storicità, ed. Rizzoli), nel quale sono raccolti articoli decisamente favorevoli alla scoperta del padre O’ Callaghan S.J.

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La relazione del gesuita ha avvinto l’attenzione e i cuori del folto e qualificato pubblico veneziano, in particolare quando ha narrato il suo stato d’animo allorché giunse alla decifrazione del quinto frammento:  “Personalmente cercai di dimenticarmi di questa identificazione:  la consideravo inaccettabile; ‘questo non può essere’, dicevo.  E dopo aver lavorato nella biblioteca del Biblico, tornai nella mia stanza, nella quale poco dopo entrò un mio collega…uno scienziato molto bravo in glottologia, al quale timidamente proposi la possibilità di aver rintracciato un papiro di Marco, databile all’anno 50…Immediatamente mi interruppe, dicendomi:  ‘ È impossibile’.  Mi mancava soltanto questo per perdere ogni coraggio.  Non volevo più pensarci, ma di fatto non riuscivo ad evitare quel pensiero; e se per un caso fortuito tutto quello era vero?  Io proseguivo nei miei lavori accademici, le mie lezioni, i miei seminari, all’Istituto Biblico;  ma quasi con ossessione s’impadroniva di me quel pensiero al quale cercavo di resistere.  Infine, dopo una settimana, tornai con maggior calma a verificare l’identificazione con il frammento di Marco.”

È stato il Signore che ha voluto venire  incontro alla sua Chiesa, a conferma dell’autenticità e storicità dei quattro santi Evangeli, contro lo smarrimento che dal 1960 ha indotto alcuni ad accettare i due ultimi sistemi razionalistici tedeschi:  Formengeschichte e  Redaktionsgeschichte.

Il padre O’ Callaghan ha rievocato nei dettagli il lungo iter che lo portò finalmente alla pubblicazione della soprendente identificazione 7Q5 = Mc 6, 52-53 (v. Biblica 1972) dando risposta esauriente alle tre difficoltà che sembravano opporsi e delle quali parleremo.

Solo nel 1986 l’intervento del papirologo Carsten Peter Thiede ruppe la greve coltre di silenzio, calata sulla sensazionale scoperta per suggerimento di Carlo Maria Martini S.J.   Dal 1990 in poi si sono moltiplicati i consensi dei competenti.  La pubblicazione della relazione del padre O’ Callaghan al convegno di studio di Venezia del 30-31 maggio 1995, a compimento delle celebrazioni per il nono centenario della traslazione del corpo di San Marco (1090-1094), toglierà ogni residuo dubbio sulla provvidenziale scoperta 7Q5 = Mc 6, 52-53.   

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Nello stesso numero di Avvenire, G. Ravasi in “Marco il giornalista” si dilunga sulle caratteristiche del vivido stile di Marco.  Questa volta concede che “è giusto discutere sul celebre frammento 5 della grotta 7 di Qumran per decidere se esso contenga o no Mc 6, 52-53”, ma con distacco parla del dibattito già tenutosi a Eichstätt nell’ottobre 1991 sulla questione e le cui relazioni sono state pubblicate a Regensburg, ed. Pustet 1992.  È comunque già un progresso per il Ravasi, se si considera la sua opposizione aprioristica e …”viscerale”  all’identificazione del padre O’ Callaghan ancora pochi giorni prima sul quotidiano Il Sole – Ventiquattro ore, di domenica 14 maggio 1995, p. 38:  “Ci sono alcuni opliti che conducono personali battaglie.  Uno lo vogliamo citare per nome e cognome:  è il tedesco Carsten Peter Thiede che, impugnando come clava l’esilissimo papiro 7Q5 di Qumran con quelle poche lettere greche [in un primo momento il Ravasi parlò di lettere ebraiche!] ritenute dal gesuita O’ Callaghan appartenenti al testo di Marco (6, 52-53), volle colpire il tradizionale [solo dal 1960…!]  pattuglione degli esegeti storico-critici” (e cioè neo-modernisti ex alunni del Biblico nuovo-corso, dal 1950 in poi).  Con in testa i 20 “esperti” che usurpano attualmente il nome della già gloriosa Pontificia Commissione Biblica, ufficialmente sepolta nel 1971 dall’amletico papa Montini.  Gianfranco Ravasi ne fa parte, con l’amico Segalla, per il quale San Giovanni non ha scritto nessun Evangelo (v. sì sì no no, 15 giugno  1992, pp. 1 ss.), con l’amico Byrne, per il quale Lazzaro non è risorto (v. sì sì no no, 28 febbrario 1995), e l’ex rettore del Biblico, Albert Vanhoje S.J., per il quale Gesù è un semplice laico! (v. sì sì no no, 15 marzo 1987).  Ecco perché il Ravasi si è dato da tempo a propagandare e a difendere quel misero libretto L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (novembre 1993), parto infelicissimo della “nuova” Commissione Biblica (v. sì sì no no, 31 dicembre 1994).

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Altre due “novità” del Ravasi.  La prima:  “Vorremmo ora parlare dell’”anima” dei Vangeli, anzi del primo dei Vangeli, Marco (65-70 o 50 d.C., secondo le differenti su accennate ipotesi cronologiche)”.  La priorità di  Marco su Matteo è creazione del secolo scorso, contro l’antichissima tradizione (già Papia, 125 d.C.), che attesta al prmo posto l’Evangelo di S. Matteo, scritto in ebraico (o aramaico) per i fedeli di Palestina, prima di partire per l’evangelizzazione delle genti (a. 40 circa).  Come per tutte queste novità, ci si è serviti della critica interna, fondata sull’esame del testo, con esclusione arbitraria delle testimonianze storiche.  Si veda Höpfl-Gut-Metzinger, la più classica introduzione speciale per il Nuovo Testamento (Introductio specialis in N.T. , ed. V.  Napoli, Roma, 1949, pp. 166 ss. § 202), dove  questi pretesi “argomenti” sono esposti, vagliati e respinti.   Si veda anche la ricca introduzione al Vangelo secondo S. Marco, dei padri conventuali Uricchio e Stano, ne La Sacra Bibbia:  Nuovo Testamento, Marietti, Torino-Roma, 1966, pp. 1-161, che così conclude:  “L’ingenua convinzione dell’assoluta, totale priorità di Marco rispetto agli altri due sinottici – nel complesso e nei particolari – è risultata inesatta, giacché in divesi casi la narrazione di Matteo-Luca risulta più vicina alle origini di  quella di Marco” (p. 42).  Inoltre l’esegesi di pericopi strettamente sinottiche, condotta sui testi originali, conferma l’esattezza della tradizione unanime sulla priorità di Matteo (F. Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme, II edizione, IPAG, Rovigo, 1971, pp. 1-160; Mt 24; Mc 13; Lc 21, dalla domanda v. 3, v. 4, v. 7, alla conclusione vvv. 32-35; vv. 28-31; vv. 29-33).

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L’altra novità del Ravasi è il suo scetticismo, espresso in modo sibillino, sulla nota testimonianza di Papia:  “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente tutte quante le cose che ricordava, non però con ordine, sia le cose dette sia le cose fatte dal Signore…”.  Il Ravasi aggiunge: “…il nesso di Marco con Pietro a Roma è dedotto dalla prima lettera di Pietro dove si legge: ‘Vi abbraccia la comunità radunata in Babilonia (Roma?) e Marco figlio mio” (5, 13).

Veramente “il nesso di Marco con Pietro” è evidente dalle testimonianze storiche dallo stesso testo evangelico, che conferma la verità della testimonianza di Papia, come rileva il padre Andrés Fernandez S.J.  nella introduzione alla Vita di Gesù, (Roma 1954), illustrando le caratteristiche dell’Evangelo di San Marco (v. anche l’introduzione già citata dei padri Uricchio-Stano).

Il 18-19 aprile 1994 si sono celebrate aa Torino le Giornate patristiche sul tema Cristianesimo antico e istituzioni politiche.  La relazione di Maria Sordi, professore ordinario di storia greca e romana all’Università Cattolica di Milano, ha suscitato il maggiore interesse ed ha monopolizzato il dibattito nella tavola rotonda che ha chiuso il convegno.  La relazione è stata pubblicata in 30 Giorni, maggio 1994.  La dottoressa Maria Sordi presenta i risultati delle sue accurate ricerche sugli inizi del cristianesimo nella capitale dell’impero.  Mi limito a qualche passo essenziale:

“L’allontanamento di Pietro da Gerusalemme è registrato dagli ‘Atti degli Apostoli’ (12-17) dopo la miracolosa liberazione dalla prigionia di Erode Agrippa I, con un laconico “uscito, se ne andò in un altro luogo”.  Agrippa I morì nel 44 e questo è il “terminus ante quem” per la partenza di Pietro: la data del 42 per l’arrivo a Roma si trova nella traduzione latina di Gerolamo, al Chronicon di Eusebio (pag. 179, ed. Helm).  Ma le testimonianze più importanti, riferite dallo stesso Eusebio nella sua ‘Storia ecclesiastica’ sono quelle di Papia di Gerapoli (vissuto nell’ultimo quarto del I secolo e la prima metà del II), di Clemente di Alessandria e di Ireneo, ambedue della seconda metà del II secolo.  La testimonianza di Papia è conservata da Eusebio in due citazioni distinte.  Nella prima (“Storia ecclesiastica” II, 15), dopo aver detto che Pietro predicò a Roma all’inizio del regno di Claudio [41-54 AD - ndr], e che i suoi ascoltatori chesero a Marco di mettere per iscritto l’insegnamento che avevano ascoltato a voce e che essi furono così responsabili della stesura del Vangelo detto di Marco, osserva:  dicono che Pietro avendo conosciuto il fatto per rivelazione dello Spirito, godette dell’entusiasmo di quegli uomini e confermò lo scritto facendolo leggere nelle chiese. Ed Eusebio aggiunge che la vicenda è raccontata da Clemente nel VI libro delle “Hypotyposeis” e da Papia vescovo di Gerapoli.  La seconda citazione di Papia è invece testuale (III, 39, 15):  ‘ Marco interprete di Pietro scrisse con esattezza ma non in ordine le cose che ricordava, ciò che il Signore aveva detto e fatto.  Egli infatti non aveva udito il Signore né lo aveva seguito ma più tardi, come ho detto , aveva accompagnato Pietro.  Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore.  Cosicchè Marco non sbagliò, avendo scritto alcune cose così come le ricordava”. 

Qui Papia sembra voler rispondere alle critiche fatte da Luca ai suoi predecessori nel prologo del suo Vangelo:  lo rivela la ripresa quasi testuale di alcune parole (Lc 1,3:  akribas kathekses = con esattezza e in ordine ), con cui Papia vuole giustificare il “disordine” di Marco, che, diversamente da Luca, consapevole del metodo storiografico greco e delle sue esigenze, non aveva la pretesa di esporre in ordine la narrazione degli avvenimenti (anataksasthai diéghesin perì tou….pragmátou) ma solo di dare gli insegnamenti (tàs didaskalias) secondo i bisogni e come ricordava, preoccupandosi solo di non tralasciare nulla di ciò che aveva udito e di non falsificare nulla. [3]

Oltre a Papia e a Clemente anche Ireneo, Adversus Haereses (III, 1, 1,; cfr. Eusebio, Storia eccl., V, 8, 3 ) ricorda che Matteo aveva scritto il suo Vangelo mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e osserva che, dopo la loro partenza (metà…tèn tutou éksodon), Marco, discepolo e interprete (ermeneutés) di Pietro, trasmise anche lui per iscritto il Vangelo da lui (Pietro) annunciato (tó yp’ ekeinou kerussomenon euanghélion).   Ireneo, associando la predicazione di Pietro e di Paolo, si rivela sui fatti più generico e meno preciso di Papia e di Clemente;  il termine éksodos, inoltre, aveva fatto pensare che egli collocasse il Vangelo di Marco dopo la morte di Pietro e di Paolo.  Ma éksodos, come è stato dimostrato di recente, non significa in Ireneo morte ma partenza:  secondo Ireneo, dunque, Marco e Luca, di cui parla subito dopo, scrissero i loro Vangeli seguendo rispettivamente la predicazione di Pietro e di Paolo e dopo la partenza dell’uno e dell’altro da Roma.

Così intesa la notizia di Ireneo, per quel che riguarda Marco, conferma pienamente la notizia che Eusebio ricavava da Papia e da Clemente, secondo cui il Vangelo di Marco fu scritto a Roma, mentre Pietro era vivo, ma dopo la sua partenza.

L’arrivo a Qumran da Roma di un testo di Marco scritto prima del 50, non solo non contraddice la tradizione della Chiesa primitiva, ma la conferma  con l’autorità di un documento contemporaneo.  Dal punto di vista storico non esistono obiezioni valide ad accogliere l’identificazione di 7Q5 con un frammento di Marco e a riportare a prima del 50 la composizione di questo Vangelo”.

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I neo-modernisti, però, non demordono.  Sullo stesso mensile 30 Giorni luglio-agosto 1994, si ritornava sulla identificazione del papiro n. 5 della settima grotta di Qumran (7Q5) coi vv. 52-53 del cap. 6 dell’Evangelo di San Marco, assegnato con assoluta certezza al 50 d.C., neppure 20 anni dopo la morte di Gesù.  L. Brunelli illustrava la moda invalsa “nel mondo dei biblisti di datare gli evangeli ad un periodo oscillante tra gli anni 70 e 100 dopo Cristo”, mentre 7Q5 “non può essere posteriore al 50 d.C.”.  

La sorprendente identificazione (1972) con Marco 6, 52-53, fu un vero colpo di fulmine contro la moda (spacciata dal Ravasi per “tradizione”):  “Fredda fino al sarcasmo, è stata la reazione dei più in voga tra i biblisti cattolici [nuovo corso…dal 1960 in poi]”.  “Congettura assurda e ridicola di un povero gesuita”, la liquidò Pierre Grelot (giù membro della nuova e fasulla Commissione Biblica) dell’Institut Catholique di Parigi.  Scettica e infastidita la reazione di Gianfranco Ravasi, che ridicolizzò l’ipotesi di O’Callaghan e…se stesso parlando di lettere “in ebraico” mentre i papiri della settima grotta sono scritti in greco!  Caso limite: don Vittorio Fusco, che, “docente di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, dedica alla scoperta 7Q5 soltanto una nota, un po’ sprezzante, nella lunga introduzione (pp. 100) al recentissimo volume sui Vangeli sinottici del ‘Corso di studi biblici’, pubblicato da poche settimane dall’ed. LDC”.   Sulle riviste Il Regno (aprile 1993) e Jesus (luglio 1993) egli contesta la datazione del frammento, rimandandolo alla fine del I secolo e attribuendo allo stesso padre O’ Callaghan una tale stupidaggine storica.  La grotta di Qumran, infatti, fu chiusa dagli Esseni prima che arrivassero le legioni di Roma a cingere d’assedio Gerusalemme  e cioè prima del 68 [del 70 – ndr]!  Deus quos vult perdere, dementat.

A Venezia il padre O’ Callaghan ha ricordato l’autorevole risposta della papirologa Orsolina Montevecchi, docente emerita  di papirologia all’Università Cattolica di Milano, alle tre difficoltà che sembravano opporsi all’identificazione di 7Q5 con Mc 6, 52-53: 

“Si tratta di “varianti normali” nella trascrizione dei papiri.  Sarei tentata di dire che sarebbe sospetto se non ci fossero”.  Nel papiro mancano tre parole (epì ten ghen = verso terra) rispetto al brano di Marco:  “Avendo attraversato il lago verso terra”.  Ma questo “verso terra” è superfluo.  Dopo lo stesso verbo, l’omissione è frequente…Altri casi ne sono stati citati dal padre O’ Callaghan a Venezia.  Altra fonte di opposizione:  una tau (t) al posto di un delta (d).  “Ma anche questo è un errore frequente.  I testi venivano dettati e frequenti erano gli errori di pronuncia” è la risposta della papirologa, che conclude:  “Ci sono state molte conferme date da papirologi ed altri esperti, come quelle ascoltate durante il primo simposio scientifico sul frammento 7Q5 svoltosi a Eichstätt, in Baviera, nell’ottobre 1991…L’identificazione fa progressi, anzi la scoperta era stata così combattuta all’inizio, che anche molti esperti non ne erano a conoscenza [la concertata e vile congiura del silenzio!].  Adesso più se ne discute, più se ne trovano prove interdisciplinari a conferma” (30 Giorni cit.).

 

3.  Estratti da: Carsten Peter Thiede, Il più antico manoscritto dei Vangeli?  Il frammento di Marco di Qumran e gli inizi della tradizione scritta del Nuovo Testamento, tr. it. dall’inglese di Suor Cecilia Carniti, Rome, Biblical Institute Press, 1987, pp. 63.

“La settima grotta, scoperta e aperta nei mesi di febbraio e marzo del 1955, non offriva a prima vista nulla di così sensazionale come i rotoli della prima grotta [contenenti ampie parti dell’Antico Testamento in ebraico - ndr], scoperti nel 1945 e divenuti famosi nel 1947, con cui era iniziata la scoperta e valorizzazione di Qumran.  Ci vollero addirittura sette anni prima che i frammenti della settima grotta venissero pubblicati nel 1962.  Tuttavia già il resoconto della scoperta, del 1962, sottolineava un fatto che se fosse stato subito osservato, avrebbe dovuto suscitare la massima attenzione:  tutte le grotte di Qumran, con pochissime eccezioni, contenevano esclusivamente testi ebraici (e aramaici) – sia di libri veterotestamentari, sia di scritti della comunità di Qumran – e quasi mai si trovava papiro come materiale usato.   Invece la grotta 7 aveva solo  testi greci, ed esclusivamente papiri (ed inoltre, il frammento 19:  l’impronta a rovescio di un frammento di papiro, indurita nel terreno).

Questa scoperta, in sé e per sé già sensazionale, rimase tuttavia senza conseguenze.  C’era il compito urgente di decifrare i frammenti, diciannove complessivamente.  Per la verità, i papirologi incaricati di questo, M.E. Boismard e P. Benoit, non andarono molto lontano.  Per la maggior parte i frammenti erano troppo piccoli, contenevano troppo poche parole o combinazioni di lettere per potere – semmai – venir ordinati abbastanza rapidamente. Così Benoit e Boismard si limitarono alla decifrazione di due dei cinque maggiori frammenti: 7Q1, Esodo 28, 4-7 e 7Q2, Baruc (Lettera di Geremia) 6, 43-44; per i frammenti 3-5 avanzarono solamente l’ipotesi che si potesse ancora trattare di testi biblici.  Per il frammento 5 si accennava al fatto che la singolare combinazione – nnēs – nella quarta riga poteva forse far parte della parola eggenēsen [generò - ndr] e dunque provenire da una sezione genealogica.

Gli inutili tentativi di localizzare anche questi frammenti nell’Antico Testamento greco, compresi gli  “Apocrifi” dei Settanta, portarono ad un’interruzione del lavoro.  All’idea che tra i “testi biblici” ci potessero essere frammenti neotestamentari naturalmente non si arrivò: il Nuovo Testamento, l’annuncio di Gesù Cristo, non aveva niente a che fare con gli Esseni di Qumran, e il fatto storicamente ed archeologicamente attestato che le grotte di Qumran con i loro manoscritti fossero state sigillate nell’anno 68, quando gli abitanti dell’insediamento fuggirono di fronte alle truppe romane guidate da Vespasiano contro Gerusalemme (cfr. nota 35), consolidò questa opinione:  tutto quello che si sarebbe trovato in queste grotte doveva essere stato scritto prima dell’anno 68.  Secondo la convinzione comune [tale solo a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, vedi sopra – ndr] questo poteva riguardare solo le “lettere autentiche di Paolo” (Thiede, op. cit., pp. 12-13).

La data di chiusura della grotta rappresenta ovviamente il punto essenziale.  Nella nota n. 35 del suo saggio, il prof. Thiede cita il resoconto ufficiale del direttore degli scavi della settima grotta, il domenicano Padre  R. De Vaux, il quale, nel 1962,  senza sapere ancora nulla di (futuri) ritrovamenti di frammenti  dei Vangeli, aveva concluso con assoluta certezza che “il termine ultimo per l’utilizzazione della grotta è da porre nell’anno 68; la grotta in seguito non fu dunque più aperta neppure una volta” (op. cit., p. 27).   Dopo le vittorie iniziali dei rivoltosi ebrei, nel 66-67, proprio nel 68 – ricordo - era iniziata la controffensiva romana, che cominciò col soggiogare le province per poi “ripulire” metodicamente  tutte le zone che gravitavano verso Gerusalemme, in previsione del suo assedio, iniziatosi nella primavera del 70 e drammaticamente conclusosi tra fine agosto e l’inizio di settembre.[4]  L’anno 68 doveva dunque ritenersi una data certa e immodificabile.   

Ma dov’era il problema?  Nessun problema, dal punto di vista archeologico: tutto quello che si trovava di scritto nella grotta doveva esser anteriore al 68.  Il problema nasceva per gli esegeti del Nuovo Testamento, una volta accertato che nella grotta c’era un frammento di un Vangelo: un problema terrificante.  Infatti, come si è visto, la teoria dominante originatasi in ambito razionalista protestante era quella che poneva l’origine dei Vangeli  in epoca molto tarda,  comunque  d o p o  la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, avvenuta nel 70.  Una teoria che rifiutava a priori le testimonianze della Tradizione dei Padri (vedi articolo di mons. Spadafora).  Tale teoria, non credendo in realtà al soprannaturale doveva negare validità alle profezie di Nostro Signore sulla distruzione del Tempio e di Gerusalemme, che dovevano pertanto ritenersi fabbricate a posteriori, ben dopo i fatti,  dalla c.d. “comunità  primitiva” dei fedeli nel suo tentativo di divinizzare Gesù di Nazareth.   Così ragionavano eruditi di origine luterana come Bultmann, il quale voleva “demitizzare”, come diceva, i Vangeli per farne un documento adatto alla mentalità dell’uomo moderno, per natura scettico di fronte ad ogni forma di profezia o miracolo ed anzi intrinsecamente ostile alla religione in quanto tale.  Ora, nel Vangelo di Marco, che raccoglie i ricordi del Beato Pietro, la profezia sulla distruzione del Tempio e della Giudea (e, implicitamente, di Gerusalemme)  era chiaramente documentata (Mc cap. 13).  Scoprire un frammento di Marco in un papiro scritto con certezza prima del 68 d. C., costringeva ad ammettere che quella profezia era testimoniata in uno scritto ben anteriore al 70 d.C.!  Un colpo mortale per l’impalcatura lambiccata ed artefatta dell’esegesi dominante.  Se gli Esseni ne avevano una copia, di quel Vangelo, ciò significava che esso doveva esser stato scritto diversi anni prima, che doveva esser in circolazione da anni!  Altro che profezie inventate dalla c.d. “comunità primitiva” dei fedeli!

Ma chi erano gli Esseni?   Gli  E s s e n i ,  forse da “haššaim”, “i silenziosi”, erano una confraternita ebraica, forse già esistente al tempo dei Maccabei (attiva pertanto dal 150 a.C. al 70 d.C.).  Praticavano in modo strettissimo le regole della purità legale, come i Farisei, ma vivevano in comune, mettendo in comune anche i loro beni,  sotto dei superiori cui si obbligavano con giuramento.  Erano celibi,  tranne alcuni, e prendevano i pasti in comune.  “Lo scopo di questa vita è religioso e morale.  Il primo oggetto del loro impegno è la venerazione della divinità.  Inoltre, l’obbligo di praticare la giustizia, la verità, le regole della confraternita, che esigono continenza, lavoro, vita sobria, studio dei libri santi.”[5]  La Confraternita di Qumran deve aver avuto rapporti pacifici con gli ebrei convertitisi al cristianesimo o comunque aver avuto interesse per esso, sì da studiarne i relativi papiri, che circolavano da tempo presso i cristiani (Thiede, op. cit., pp. 53-55, per ulteriori dettagli).

L’opinione dominante sull’origine dei Vangeli era dunque quella erronea, volutamente contraria alla Tradizione dei Padri; un vero dogma, che tuttora resiste, contro l’evidenza e il buon senso.   Essendo in pratica condivisa da tutti, nessuno poteva pensare di decifrare il frammento 7Q5 andando a pescare nel Nuovo Testamento.

“Anche J. O’ Callaghan – continua il prof. Thiede – che riprese il lavoro dieci anni dopo la pubblicazione dei reperti, non mirava assolutamente a trovare un frammento di Marco o di qualunque altro testo neotestamentario.  Lavorava ad un catalogo di manoscritti dei Settanta, e cercava quindi ancora di scoprire passi nell’Antico Testamento almeno per i maggiori frammenti della settima grotta.  Solo dopo aver sperimentato l’insuccesso come i suoi predecessori, gli venne l’idea che quella singolare combinazione nella quarta riga del quinto frammento , - nnēs - , non fosse forse parte di un termine genealogico, ma della parola Gennēsaret.  Ora, il lago o territorio di Genesaret nell’Antico Testamento, compresi gli Apocrifi, ricorrono una sola volta con questa grafia:  1 Maccabei 11, 67, Gennēsar (di solito si trova Chenereth o Chenara).  Ma nessun’altra delle lettere sicure del frammento corrisponde a questo passo, per non parlare degli altri segni.  Prima di rinunciare, però, O’ Callaghan, più per curiosità scientifica che per vera convinzione, tentò quello che era da considerare impossibile a priori:  esaminò il Nuovo Testamento.

Chi ha provato, in un ambito qualunque, a seguire una traccia del tutto inverosimile, e poi ha constatato che proprio quella ha portato al risultato in cui ormai non si sperava più, potrà facilmente immaginarsi la reazione di O’ Callaghan quando constatò che nel Nuovo Testamento c’era effettivamente un passo a cui tutto corrispondeva:  il gruppo di lettere – nnēs – da “Gennesaret”, come pure le altre particolarità del frammento:  uno spazio nella riga 3, chiamato paragraphos, che negli antichi manoscritti divideva due sezioni del testo (in certo modo, quello che anche oggi chiamiamo un “paragrafo” [ossia un “capoverso”,  che in inglese si dice appunto “paragraph”- ndr],  e la frase dopo questo paragrafo, che comincia con un kai (“e”).  In Marco 6, 52-53 col versetto 52 finisce il racconto di Gesù che cammina sulle acque e al versetto 53 inizia quello delle guarigioni a Genesaret – ed inizia con kai, la forma stilistica della paratassi (“coordinazione”) caratteristica proprio di Marco.

Quando risultò che anche le altre lettere conservate concordavano con questa identificazione, O’ Callaghan pubblicò il suo risultato.  E sebbene avesse ogni fondamento per pubblicare un risultato sicuro, fu abbastanza cauto e volle prima avviare un dibattito internazionale tra esperti.  Espresse questo nel titolo del suo articolo con un punto di domanda:  “¿Papiros neotestamentarios en la cueva 7 de Qumrân?” (Thiede, op. cit., pp. 13-14).

Le reazioni, continua il prof. Thiede, furono di segno opposto tra loro.  Non lo dice, ma anche violente, in senso negativo.  Furono queste a prevalere.  Bisogna capire: tante carriere accademiche ecclesiastiche costruite sui presupposti errati del razionalismo, dalla famosa, ottocentesca Scuola di Tubinga  a Bultmann e ai suoi epigoni nel Novecento, venivano a perdere seriamente di prestigio a causa della rivoluzionaria scoperta del gesuita spagnolo.  In un altro dei suoi articoli apparsi su Sì sì no no , mons. Spadafora riportava le dichiarazioni dello stesso padre O’ Callaghan al settimanale Il Sabato, il 25 maggio 1991:  “Nel caso di 7Q5 ho avuto più attacchi personali che controversie scientifiche…Più che una controversia scientifica è stato un calvario”, soggiungendo:  “troppi dovrebbero capovolgere posizioni assunte da sempre sulla datazione dei Vangeli”.[6]   

Istruttivo sapere come il dibattito fu lasciato cadere nei paesi di lingua tedesca.  Torniamo al prof. Thiede.

“Nei paesi di lingua tedesca si lasciò cadere il dibattito sulle identificazioni dopo che Kurt Aland, il direttore dell’Istituto per la ricerca sul testo del Nuovo Testamento di Münster, coeditore dell’edizione “Nestle-Aland” del Novum Testamentum Graece  e del Greek New Testament, prima in diverse interviste e comunicazioni alla stampa e poi in due lunghi articoli, aveva preso una posizione decisamente contraria.  L’autorità di Aland, indiscussa sul piano internazionale, si impose; i neotestamentaristi non fecero molto caso al fatto che, come già M. Baillet e P. Benoit alle cui critiche sostanzialmente si appoggiava, egli non aveva lavorato da un punto di vista papirologico con tutta la precisione dovuta: come si mostrerà in seguito, erano stati trascurati criteri di O’ Callaghan essenziali e caratteristiche decisive dei papiri, soprattutto del papiro 7Q5 con il suo paragraphos.

Successivi tentativi, negli Stati Uniti, di sottolineare la correttezza della decifrazione trovarono dunque fuori dell’ambito anglofono poca considerazione.  Eppure uno storico del testo che senza preconcetti prenda in considerazione quanto di fatto un papiro presenta, soprattutto per l’unica identificazione di cui anche secondo O’ Callaghan in primo luogo si trattava, restano pochi dubbi:  7Q5 corrisponde a Marco 6, 52-53” (Thiede, op. cit., pp. 14-15).

Perché il prof. Thiede  sottolineava  il ruolo del capoverso, nel frammento?  Perché, grazie ai calcolatori elettronici, si sono potuti scannerizzare tutti i testi del Nuovo Testamento, oltre a quelli della traduzione dei Settanta dell’Antico, compresi gli Apocrifi dell’uno e dell’altro.  Pertanto, padre O’ Callaghan è stato in grado di trovare rapidamente il capoverso che calzava a pennello con il frammento, quello appunto di Mc 6, 52-53. 

Un altro elemento  è da tener presente.  Come poteva il prof. Thiede affermare che il testo del frammento risaliva molto probabilmente al 50 d.C.?  Grazie alla precisa determinazione paleografica del tipo di caratteri usato, detto “stile ornato”:  questo stile permetteva per l’appunto di risalire a quegli anni.  Si tratta di un tipo di scrittura presente anche in altri papiri.  Pertanto, per la copia di Marco in possesso degli Esseni, “paleograficamente la data più probabile è la metà del I secolo d.C.”.[7]  

Aggiungo, infine:  si noterà come il testo del frammento di Marco, pur nella sua brevità, sia in sostanza identico a quello giunto sino a noi.

Ben ha detto mons. Spadafora:  con questa formidabile scoperta,  “è stato il Signore che ha voluto venire incontro alla sua Chiesa, a conferma dell’autenticità e storicità dei quattro santi Evangeli”. 

Battiamoci, per quanto è possibile a noi fedeli, affinché questa preziosa scoperta venga di nuovo riproposta all’attenzione, come merita, per la Gloria del vero Dio, Uno e Trino, la rinascita della Chiesa,  la Salvezza delle anime, la restaurazione della vera scienza biblica.

Paolo   Pasqualucci

Sabato, 13 novembre 2021

S. Diego, Confessore



[1] Tutto ciò  è stato messo in rilievo da Rudolf Kaschewski, Tendenzen in den Orationen des Neuen Missale, II, ‘Una Voce Korrespondenz’,  12, Heft 2 und 3, Marz-Juni 1982, pp. 89-115; spec. pp. 111-115.  Quest’articolo fu citato da  Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli, 19862, § 288, intitolato : Bibbia e liturgia (si trova nel cap. XXXVIII, La riforma liturgica).  

[2] Vedi:  Herschel Shanks, Of Caves and Scholars.  An Overview, in:  Hershel Shanks (ed.), Understanding the Dead Sea Scrolls.  A Reader from the Biblical Archaelogy Review, Random House, New York, 1992, pp. XV-XXXVIII.   Si tratta di una antologia di interventi di intellettuali e di studiosi  qualificati sui Rotoli del Mar Morto.  Le grotte erano undici.  Il totale dei testi rinvenuti supera gli ottocento, gran parte dei quali in frammenti, anche piccolissimi. 

[3] Il Chronicon è opera di Eusebio di Cesarea, morto nel 339, noto soprattutto come storico della Chiesa:  una compilazione di tabelle sincronistiche della storia dei popoli, a partire da Adamo.  Opera rimasta in forma frammentaria in greco, la seconda parte fu rielaborata in latino da san Girolamo.  Le  Hypotyposeis sono uno scritto perduto di Clemente di Alessandria, morto prima del 215, otto libri di schizzi o considerazioni a commento di passi scelti di tutta la S. Scrittura. Ci sono state tramandate solo delle citazioni e alcune parti in latino.  Papia, vescovo di Gerapoli in Asia Minore, “fu uditore dell’Apostolo Giovanni e compagno di Policarpo”.  Nel 130 scrisse cinque libri di Spiegazioni delle sentenze del Signore, tratte in maggioranza dall’insegnamento orale dei discepoli degli Apostoli . Ne restano pochi frammenti, “tra i quali uno concernente l’origine dei due primi Vangeli”.   Fonte:  Berthold Althaner, Patrologia, tr. it. delle Benedettine del Monastero di S. Paolo in Sorrento, riveduta dal dr. Sac. S. Mattei, aggiornata e corretta dall’Autore, Marietti, 1940, sotto i nomi dei Padri indicati.   Papia, cristiano della terza generazione, la fonte più antica sull’origine dei Vangeli, si abbeverava direttamente ai discepoli degli Apostoli.  Le sue informazioni erano di prima mano.   Da esse recepì, per ciò che riguarda il vangelo di Matteo, che il santo evangelista aveva “riunito in lingua ebraica i logia [I detti del Signore] e ciascuno li intese [o tradusse, hermeneuse] come era capace” (vedi:  Jean Carmignac, La nascita dei Vangeli Sinottici, tr. it. dal francese di Rosanna Brichetti, Edizioni Paoline, 1985, pp.  63-66. Il Padre Carmignac, 1914-1986, è stato uno specialista indiscusso dei manoscritti di Qumran, che ha edito e tradotto.)

 

[4] Vedi:  Giuseppe Ricciotti, Storia d’Israele. II. Dall’Esilio al 135 dopo Cristo, SEI, Torino, 19355, tutta la parte dedicata a “La guerra di Vespasiano e Tito”, pp. 471-521, ampiamente basata su La guerra giudaica di Flavio Giuseppe.  Vedi anche:  Pierre Prigent, La fine di Gerusalemme, tr. dal francese di G. Gandolfi, Edizioni Paoline, Roma 1972, spec. pp. 31-50.

[5] Vedi:  Dizionario Biblico, diretto da Francesco Spadafora, Editrice Studium, Roma, 19633, voce Esseni.

 

[6][6] Mons.  Francesco Spadafora, op. cit., p. 314, nell’articolo:  La ‘Formengeschichte’ non si tocca!  Il prof. Carsten P. Thiede e la datazione degli Evangeli, pp. 311-318.

[7] Thiede, op. cit, p. 32.  L’analisi puntuale delle caratteristiche di 7Q5, viene fatta alle pagine 27-44 del suo breve saggio.

venerdì 20 agosto 2021

Parva Philosophia 5 - Se il principio di identità e non-contraddizine comporti l'esistenza del tempo come realtà fuori di noi...

 

 

PARVA  PHILOSOPHIA  5

Se il principio di identità e non-contraddizione comporti l’esistenza del tempo come realtà fuori di noi,  nella durata dell’Essere che ci circonda da ogni lato.

 

* *

1.  Il principio di identità e non contraddizione (A = A; B = B; A non è B; A non può essere nello stesso tempo B; idem per B) comporta necessariamente l’esistenza del tempo come realtà a noi esterna, indipendente da ogni misurazione?  La domanda scaturisce dal fatto che tale principio, per esser credibile, ha bisogno di un riferimento temporale,  sempre presente nella sua formulazione.

Non posso pensare che A nello stesso tempo sia e non sia: che una determinata realtà sia nello stesso tempo il contrario di se stessa.  Questa evidente verità va verificata sul piano dell’esistenza spazio-temporale degli enti e su quello del loro significato, quale risulti dalle loro dichiarazioni ed azioni.

L’essere e il non-essere non esistono contemporaneamente, se riferiti al medesimo ente.  Quando sarò morto, il mio corpo sarà entrato nel non-essere rispetto a ciò che era, corpo di un individuo esistito in carne e ossa.  Mentre ero vivo, tuttavia, il mio corpo apparteneva esclusivamente all’essere poiché non poteva nello stesso tempo non essere.  Mentre sono vivo non posso simultaneamente esser morto.  E viceversa.

L’avverbio di tempo gioca dunque un ruolo essenziale per la comprensione del principio.

2. Perché allora K a n t , nelle Lezioni sulla metafisica, in una sezione nella quale discute del rapporto tra “possibile” e “impossibile” ha detto:

Impossibile est, simul esse ac non esse.  Simul  significa: nello stesso tempo; ma il tempo non è ancora spiegato.  Si può anche dire, piuttosto: nulli subjecto competit praedicatum ipsi oppositum.  Nihil negativum è ciò che non può in alcun modo esser pensato”[1].

Il tempo espresso dall’avverbio simul non sarebbe “ancora spiegato”. Il riferimento al tempo rimarrebbe sostanzialmente oscuro, secondo Kant.  Vediamo allora di spiegarlo.  

3.  Il principio di identità (A=A) contiene in sé, possiamo dire, il principio di non contraddizione:  A, in quanto sia se stesso, non può simultaneamente esser identico a ciò che A non è:  se A è A, non può essere simultaneamente B.  Chi è nato maschio non può esser simultaneamente femmina.  Le caratteristiche sessuali in senso biologico sono normalmente definite dalla natura in modo marcato ed immutabile nel singolo individuo, tanto da appartenere alla sua essenza, mostrando quindi un carattere ontologico, visto che non si può oggettivamente passare da un sesso ad un altro, come pur si ritiene stoltamente oggi, né con uno sforzo della volontà, che non incide affatto sul sesso naturale dell’individuo, non potendo mutarlo nel suo opposto, né con interventi chirurgici e ormonali che in realtà si limitano ad alterare e mutilare il sesso esistente, senza affatto trasmutarlo nell’altro.

 L’impossibilità di cui al principio di non-contraddizione deve dunque esser simultanea nel tempo.  Posso essere in questa stanza, dove sto scrivendo, o non esservi, ma solo in una successione temporale:  vi entro poi ne esco.  Ma non posso entrarvi ed uscirvi contemporaneamente: le due azioni devono esser scalate nel tempo, posso compierle solo in successione.  L’impossibilità dell’esistenza simultanea di due atti simili ma tra loro opposti da parte dello stesso soggetto risulta quindi dall’esperienza dei nostri sensi.  Per restare all’esempio proposto, l’entrare e l’uscire da una stanza, in quanto attuato da un medesimo soggetto, può avvenire solo in momenti successivi.  Questa constatazione è di una certezza assoluta.  

 Ora, siffatta successione di eventi non è posta dal soggetto pensante, non risulta dall’applicazione di una categoria mentale che il soggetto possieda prima di ogni esperienza, apriori, ma appartiene alla natura della cosa, alla conformazione stessa della realtà esteriore: l’osservatore si limita a registrarla.  Ciò significa che il tempo è qui un dato obbiettivo, perché  questa impossibilità dell’attuarsi di modi tra loro opposti nell’azione temporalmente determinata dello stesso individuo si configura all’esterno del soggetto che la osserva e registra, ha cioè luogo nella realtà effettiva, che è la realtà costituita dal succedersi nel tempo degli eventi appartenenti al mondo fisico; degli eventi che esistono ed accadono nello spazio a noi esterno, a seconda dei casi o contemporaneamente tra loro o appunto in successione:  il prima e il dopo, la successione nel tempo dell’agire mio o di altri, lo registro unicamente mediante l’osservazione empirica. Il verificarsi esplicito di un “prima” e un “dopo” nei movimenti nostri o di soggetti a noi esterni, in relazione per esempio ad un “dentro” e un “fuori”, dimostra la presenza del tempo come realtà in sé, obbiettiva.  L’impossibilità fisica di entrare e uscire simultaneamente in una stanza da parte di uno stesso soggetto (o entra o esce, nello stesso tempo) non deriva quindi da un’impossibilità che sia stabilita a priori, dal nostro raziocinio, che la applichi alla realtà come categoria mentale capace di sussumere ogni esperienza prima ancora di ogni esperienza.  Quest’impossibilità è innanzitutto fisica, dovuta al fatto, oggetto d’esperienza quotidiana, che queste due azioni un qualsiasi soggetto, non avendo normalmente il dono dell’ubiquità, può attuarle solamente una dopo l’altra, in successione.  Esse possono per noi susseguirsi unicamente nel tempo, oltre che nello spazio, un tempo pertanto esistente come durata al di fuori del nostro io che lo misura.  Sulla base dell’esperienza, elaboriamo qui il concetto, che poi applichiamo ad ogni simile esperienza futura, quale categoria che la ricomprenda.  

Il tempo è qui dunque la durata, nel cui àmbito avvengono certe azioni.  Esse durano nel tempo ossia accadono nel tempo ma non sono il tempo, la durata che esiste e si mantiene indipendentemente da queste azioni:  quando esse cessano, non per questo viene meno il tempo, la durata che ci ha permesso di misurarle in quanto eventi temporali oltre che spaziali.  Lo stesso dícasi per lo spazio.  Quando sono entrato ed uscito dalla stanza, quest’ultima non cessa di esistere in conseguenza del fatto di esser rimasta vuota:  continua ad esistere come spazio che dura nel tempo, finché dura, essendo uno luogo nello spazio ricavato dalla congiunzione fatta ad arte di materiali deperibili, per quanto solidi possano essere.  E se elimino la stanza come luogo nello spazio e poi la casa, la città, la nazione, il mondo stesso come luogo dello spazio nel quale si trova questa stanza; alla fine, dopo questa totale annihilatio mundi, mi trovo forse ad aver eliminato anche lo spazio e il tempo?  No.  Se anche eliminiamo tutto l’universo (tutto ciò che costituisce l’immenso universo, ossia milioni di galassie e tutta la materia e l’energia che costituiscono per l’appunto il cosmo o universo), resta sempre lo spazio vuoto precedentemente occupato da tutti gli enti e corpi celesti che ora sono scomparsi.  E il vuoto, lo spazio inteso come pura estensione tridimensionale vuota, è pur sempre una realtà fisica che, in quanto effettiva realtà,  dura e si mantiene nel tempo.   

Sulla base di queste considerazioni, mi sembra si possa legittimamente affermare che il principio di identità e non contraddizione implica necessariamente un concetto del tempo come  durata della realtà a noi esterna, concetto che non viene dato a priori ma dedotto dall’esperienza nostra sensibile, percepita ed acquisita nel suo accadere obbiettivo, ragion per cui  tale concetto costituisce una dimostrazione dell’esistenza del  tempo come realtà effettiva fuori di noi, quella nella quale gli enti durano (finché durano) e gli eventi si succedono.  

4.  A questo punto, chi contesta il principio in questione, potrebbe dire che esso non si può applicare ai significati e ai valori, al mondo spirituale e morale dell’uomo, visto che ogni essere umano appare esser contemporaneamente sia buono che cattivo.  Qui non abbiamo a che fare con impossibilità derivanti dalla struttura stessa fisica della realtà in cui viviamo.  Il bene e il male coesistono in ogni singolo individuo, che ora fa il bene ora il male.  E non dobbiamo dire, allora, che in lui essi coesistono simultaneamente quali opposti mai domati?  E se contemporaneamente, allora ognuno di noi non è forse buono e cattivo nello stesso tempo, di continuo agitato interiormente nella stessa unità di tempo tra l’essere e il non-essere, tra l’esser buono e il non esserlo?

Ma il principio si applica ugualmente, a mio avviso.  Il bene e il male, come tendenze, coesistono nel nostro animo, lottano in noi in quelle che si considerano le nostre passioni:  esistono quindi simultaneamente dentro di noi ma ancora solamente in potenza.  Quando si passa dalla potenza all’atto si esce dalla situazione di interiore (potenziale) contraddizione.  Ciò avviene quando  una di queste due fondamentali tendenze si quantifica in un distinto moto dell’animo, successivamente in un pensiero consapevole, poi in una volontà d’agire ed infine in una nostra determinata azione. Tutti questi nostri successivi modi di essere caratterizzanti il nostro passare dalla potenza all’atto, non possono certamente considerarsi nello stesso tempo buoni e cattivi.  Infatti, noi non possiamo pensare a due o più cose simultaneamente – il contenuto determinato dei nostri pensieri, ma anche dei nostri sentimenti, è sempre in successione nel tempo.   Provare, per credere.  Pertanto, il nostro singolo stato d’animo o pensiero potrà essere buono o cattivo ma non potrà essere contemporaneamente buono e cattivo.  Idem, per le nostre azioni.  Quando una nostra azione viene valutata in modo difforme – buona per alcuni, cattiva per altri – ciò non significa che in se stessa sia bifronte.  Il giudizio discordante su di essa proviene dall’esterno e semplicemente riflette le differenti opinioni di terzi su di essa, confliggenti (quando lo sono) per i più diversi motivi, non appartenenti all’azione stessa – opinioni che non mutano la sostanza della cosa.   La quale è ciò che è – la nostra azione – in relazione alle sue premesse e al suo fine, posti dal nostro intelletto e dalla nostra volontà, vale a dire secondo le quattro categorie della causalità così ben delineate da Aristotele (Phys., B, 3. 194b-195a). Essa si caratterizza quindi nel suo proprio esserci esistenziale (per esprimermi alla maniera del linguaggio filosofico corrente), finito e determinato nello spazio e nel tempo,  in modo tale da impedire che possa simultaneamente esser inclusa in tutto l’Altro-da-sè.

5.  Il  B u d d i s m o , che affascina a quanto sembra parte sempre più ampia delle persone sensibili in Occidente, in cerca ormai affannosa di alternative spirituali di fronte alla perdurante e spaventosa crisi e del Cristianesimo e delle filosofie profane sue nemiche, sembra escludere completamente dal suo orizzonte il principio di identità e non contraddizione.  Al posto dell’anima esso pone la mente.  Ma cosa intende  esattamente con mente?  Possiamo distinguere per i Buddisti la mente da tutto ciò che essa non è, come risulta già dalla chiara intuizione del significato del nous (mens) avuta nel V secolo a.C. da Anassagora?[2]   Vediamo l’insegnamento del Maestro tibetano Gendün R i n p o c h e  (1918-1997), del quale è stata tradotta recentemente un’importante opera in italiano.

“La mente non si lascia definire, si sottrae all’analisi e alla descrizione.  Non possiamo dire che la mente esiste, poiché lo stesso Buddha non riesce a trovarla.  Allo stesso modo non possiamo sostenere che la mente non esiste, poiché è la fonte di tutti i fenomeni, del samsāra ma anche del nirvana.  Tutt’al più si può dire che essa va oltre tutte le immaginazioni, oltre la natura di tutte le cose animate e inanimate e della stessa realtà; oltre i pensieri e le immaginazioni, è incomprensibile e indescrivibile.  Se si vede, non è vista, non ha né colore, né forma e neppure caratteristiche.  Se si riconosce, non è veramente riconosciuta perché non è paragonabile a nessun oggetto riconoscibile.  Se si realizza, diventa non realizzata, poiché non c’è niente e nessuno  che realizzerebbe qualcosa.  Non possiamo trovare nessuna definizione per designare la “mente” […]  La mente va oltre tutte le immaginazioni intellettuali, è “esistente” e anche “non esistente”, oppure esistente e non esistente allo stesso tempo, o nessuno dei due.  Essa è oltre il pensiero, dal quale non può esser catturata.  Si dice che sarebbe “il grande centro”, oltre ogni fissa estrema concezione; oltre ogni riferimento concettuale…”.[3]

L’indefinibile mente può dunque essere o non essere nello stesso tempo.  Che significato bisogna dare a simile affermazione?  E a quella secondo la quale né può essere né può non-essere (“nessuno dei due”)?  Non ci troviamo qui in una dimensione di tipo mistico assai peculiare, nient’affatto religiosa in senso proprio, che sembra situarsi completamente al di fuori delle categorie fondamentali del pensiero razionale?  Questa mente che resta indefinita, sfuggente al logos, non inquadrabile nell’autentica Rivelazione religiosa, sarebbe tuttavia l’origine di tutto ciò che appare realtà per noi (il mondo) che in effetti non sarebbe altro che illusione, un’illusione che dobbiamo riconoscere e superare nel momento della morte.  Nella morte, “non c’è una vera interruzione:  la mente continua a essere com’è per natura, percepisce con le stesse tendenze di quando il corpo era ancora in vita.  Il riferimento di base delle percezioni però cambia, anche se fondamentalmente resta lo stesso processo di prima, questo vale anche per le percezioni della mente.  In verità la morte è simile alla vita:  un’illusione; uno stato intermedio temporaneo, un bardo [“stato intermedio”], con il quale non si ferma semplicemente tutto come forse supponiamo.   La morte è il proseguimento della vita: un cambio di scena nel continuo processo del cambiamento…”.[4]

 Mi chiedo:  come può essere la mente “per natura” se, per natura, essa nello stesso tempo esiste e non esiste?  Comunque sia, che la morte prosegua nella vita, attuandosi con essa solo un “cambio di scena”, è affermazione che si spiega solo nell’ambito della fede nella reincarnazione: la nostra mente trapasserebbe, per così dire, in un altro corpo o altro essere, molte volte, fino ad ottenere, grazie alla giusta gnosi finale, la liberazione definitiva, nel nirvana; annientamento ed estinzione del proprio liberato da tutte le passioni, e quindi dal dolore di ogni esistenza, nel “corpo della Potenzialità assoluta”, corpo di luce o della “coscienza luminosa”, che si dissolve in un “Là indefinibile” subentrato al Qui immerso nel dolore.[5]  Il Buddismo non ha il concetto della creazione, vi manca anche quello di Dio, in senso proprio, né esiste un Giudizio dopo la morte.  Tutto sembra risolversi in una illusione della mente – dal punto di vista dei non iniziati esso appare una sorta di panpsichismo cosmico nel quale al posto dell’ellenica psiche bisogna invece mettere l’asiatica mente.   Le distinzioni tra la vita e la morte, tra il finito e l’infinito, l’umano e l’animale, l’umano e il divino, ed anzi la possibilità stessa di distinguere, tipica della recta ratio e dell’intelletto, qui sembrano non solo attenuarsi ma addirittura scomparire, navigando così la nostra mente in un indistinto, in una gnosi che non può evidentemente ammettere un principio razionale dal significato assoluto e fondamentale come quello di identità e non contraddizione, valido di per sè, indipendentemente dalla nostra mente, perché inerente alla natura immutabile delle cose.

6.  Torniamo per un momento a  K a n t .  

Nel testo citato egli spiega le categorie del “possibile” e dell’”impossibile”.  Pur senza negare che la coesistenza simultanea di essere e non-essere nel medesimo ente o atto sia da ritenersi del tutto impossibile perché di per sè impossibile a concepirsi, egli sembra tuttavia voler ridurre la portata del “principio di non-contraddizione” (Satz der Widerspruchs, principio di contraddizione).  Ridurla, nel senso di proporre anche un altro criterio per valutare la suddetta impossibilità, il criterio della contradddizione, figura logica indipendente dalla determinazione del tempo.  Difatti, per Kant, bisogna dire che “impossibile è ciò che si contraddice”.[6]   Scambiando definizione e definito, sottolinea, si ottiene lo stesso risultato, quindi la definizione è buona.  Pertanto: “ Ciò che si contraddice è impossibile”.  Ne consegue che “ciò che non si contraddice non è impossibile.  E ciò che non è impossibile, è possibile.”[7]  Questo è un criterio valido, secondo Kant, per stabilire la verità (in relazione alla possibilità o meno di essere in modo coerente alla natura di ciò che è).

 Ma qual’è allora la differenza con il modo tradizionale di esprimere il principio di non-contraddizione, quello che si appoggia sul simul?  Non contiene anch’esso il concetto della contraddizione quale elemento qualificante?  Lo contiene ma ha il torto, agli occhi di Kant, di far riferimento (con il simul) al tempo come realtà obiettiva, conoscibile in modo indipendente dalle categorie a priori del nostro intelletto. Kant vuole pertanto trovare un criterio che si basi sulla pura logica dell’esser in contraddizione, senza alcun riferimento alla dimensione temporale.  E difatti non fa forse capire che il principio sarebbe meglio formulato nella frase latina:  “a nessun soggetto compete [si può attribuire] un predicato ad esso opposto”, cioè che sia, con ogni evidenza, in contraddizione con la natura specifica, particolare di questo soggetto, quale essa sia?

 Il “principio di contraddizione” tradizionale non viene tuttavia escluso, non sarebbe possibile.  Viene ribadito, ma in questo modo:

“Il Principium contradictionis è un criterium della verità, che nessuna conoscenza può contraddire.    Criterium veritatis è il segno distintivo della verità.  Il Principium contradictionis è il più alto negativum criterium della verità.  È una conditio sine qua non di ogni conoscenza; ma non è il criterium sufficiente [per stabilire] ogni verità.”[8]

La “conditio sine qua non” si applica dunque al principio di identità e non-contraddizione come il massimo “criterio negativo” per determinare la verità. Il criterio negativo è quello, si è visto, denominato “nihil negativum”, cioè il criterio in base al quale nulla può esser pensato.  Questo criterio, per Kant, è una “conditio sine qua non” e tuttavia non è “sufficiente” per determinare ogni verità.  Potremmo forse dire:  condizione necessaria ma non sufficiente? E perché non sufficiente?  Perché, possiamo interpretare, si limita ad imporre l’impossibilità di pensare la cosa, giocando sull’elemento del tempo, lasciando quindi fuori altri aspetti, a cominciare dall’impossibilità di essere derivante dall’ esser in contraddizione tra soggetto e predicato, modus in quanto tale scisso da ogni determinazione temporale.

Il tema è complesso e richiede approfondimenti che ci porterebbero lontano.  Intanto mi basta aver messo in rilievo, spero in modo chiaro ed evidente, un fatto a mio avviso di fondamentale importanza ossia che il principio di identità e non-contraddizione implica l’esistenza del tempo come durata effettiva, indipendente dal soggetto pensante:  l’implica e a ben vedere  la dimostra.

Paolo  Pasqualucci 

20 agosto 2021

 



[1] I. KANT, Vorlesungen über die Metaphysik, ediz. postuma, Erfurt, 1821, rist. anast. WBG, Darmstadt, 1975, p. 21:  Impossibile est simul esse ac non esse.   Simul bedeutet zu gleicher Zeit; die Zeit ist aber noch nicht erklärt. Man kann also lieber sagen:  nulli subjecto competit praedicatum ipsi oppositum.  Nihil negativum ist das, was gar nicht gedacht werden kann.”  Le kantiane Lezioni sulla metafisica risultano dai manoscritti del filosofo.  Hanno pertanto un aspetto schematico.  Sono comunque ritenute attendibili, quale espressione del genuino pensiero kantiano.

[2] Anassagora, Testimonianze e framenti, introduz. tr. it. e commento a cura di Diego Lanza, La Nuova Italia, Firenze, 1966, con testo a fronte:  “Tutte le altre cose hanno parte di ogni cosa, ma l’intelligenza [vous] è illimitata, indipendente e non è mescolata ad alcuna cosa ma sta sola in sé.  Se, infatti, non stesse sola in sé, ma fosse mescolata a qualche cosa d’altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolata a qualcuna.  In tutto si trova infatti parte di ogni cosa, come ho detto prima, e le cose mescolate le sarebbero d’ostacolo, sí che non avrebbe potere su alcuna cosa, come lo ha stando da sola in sé.  È infatti la più sottile e la più pura di tutte le cose e possiede piena conoscenza di tutto e ha grandissima forza. E quante cose hanno vita, le maggiori e le minori, tutte domina l’intelligenza…” (op. cit., pp. 224-229).  Questo nous è stato sempre inteso dalla tradizione occidentale come primeva intuizione dell’esistenza della Mente divina, ontologicamente separata (intellectus immixtus – san Tommaso d’Aquino) da tutta la realtà visibile nel suo complesso, natura e uomini;  Mente che tutto domina e governa.  Di essa la nostra mente è solo un pallido e limitato riflesso.

[3] Gendün Rinpoche, Istruzioni spirituali. Dal cuore di un Maestro Mahāmudrā, ediz. italiana a cura di Vincenzo Noja, Le Lettere, Firenze, 2021, p. 118.  Si tratta di una traduzione dal tedesco dello stesso Noja.  L’edizione tedesca opera di un Maestro tedesco, Lama Sönam Lhündrup (Tilmann Borghart).  Corsivi miei.  Il samsāra è il divenire della nostra esistenza, di reincarnazione in reincarnazione, dominato dal dolore.  Mahāmudrā significa “grande sigillo” e designa un tipo particolarmente elevato di meditazione.

[4] Op. cit., p. 205, nella sezione intitolata “Prepararsi alla morte”, pp. 199-220. 

[5] Giuseppe Tucci, Premessa a Il libro tibetano dei morti (Bardo  Tödöl), a cura di Giuseppe Tucci, con Introduzione dello stesso, UTET, 1972, pp. 12-13.  Ma vedi, Rinpoche, cit., p. 207 ss., più in dettaglio.

[6] Kant, op. cit., p. 22:  “Unmöglich ist das, was sich widerspricht”.

[7] Kant, op. cit., ivi.

[8] Kant, op. cit., ivi.  La parte finale del periodo recita in tedesco:  “…aber nicht das hinreichende Criterium aller Wahrheit.”