Paolo Pasqualucci : Rispettosa replica a S. Em. Walter Cardinal
Brandmüller
sull’interpretazione del Concilio Vaticano II
Sommario
: 1. L’accusa di “relativismo” ai critici
del Concilio appare del tutto fuori luogo.
2. Il paragrafo 2.5 della Dichiarazione ‘Nostra Aetate’ incita effettivamente
i cristiani a far progredire i non-cristiani in tutti i loro valori, invece che
a convertirli. 3.Gli incisi di NAet 2.5
non sanano la proposizione principale.
4. NAet 2.5 inquadrato nel contesto dell’intero art. 2 .
Abbiamo
tutti la massima stima e deferenza per il cardinale Brandmüller, esemplare
figura di pastore e autorevole storico della Chiesa. In questi ultimi tempi, nell’accentuarsi
della crisi della nostra religione, ha coraggiosamente difeso pubblicamente il
matrimonio cattolico, sottoscritto i famosi Dubia a Papa Francesco a
proposito di certe sue scandalose affermazioni nella Amoris Laetitia,
condannato senza mezzi termini l’eretico e apostatico Sinodo per l’Amazzonia. Tuttavia, credo che molti siano rimasti
profondamente delusi dalla sua difesa dell’intoccabilità del pastorale e
innovativo Vaticano II, in una recente conferenza il cui testo è stato
riproposto dal sito Stilum Curiae e ripreso da Chiesa e Postconcilio,
il 24 giugno 2020. Mi sia pertanto
consentita una rispettosa replica alle sue affermazioni, su un punto specifico,
concernente la Dichiarazione ‘Nostra Aetate’ sulle religioni non cristiane.
1. L’accusa
di “relativismo” ai critici del Concilio appare del tutto fuori luogo.
Sua
Eminenza accusa “i cosiddetti ambienti tradizionalisti” di critiche preconcette
al Concilio, che cadrebbero addirittura nel “relativismo” quando negano al
Concilio la continuità con la tradizione della Chiesa. Relativismo, perché tale
negazione implicherebbe di per sé il concetto che la verità sarebbe sempre
“essenzialmente soggetta alla mutevolezza storica”. Interpreto: se si afferma che la Chiesa
insegna oggi cose in contraddizione con quanto insegnato ieri, allora si
sostiene di fatto che la verità insegnata dalla Chiesa muta col mutare delle
circostanze storiche: e questo sarebbe per l’appunto relativismo.
Mi
sembra che qui il relativismo c’entri assai poco. Se affermo che, su un punto preciso
di dottrina, un determinato testo conciliare contraddice la dottrina sempre
insegnata dalla Chiesa, mi limito a far rilevare un errore di dottrina. E l’ errore come lo si estrarrebbe? Comparando il testo incriminato con quanto
sempre insegnato sul punto specifico dalla Chiesa e mantenuto da essa nel
Deposito della Fede; ossia, riferendo tale testo ad una norma contenuta nella
Rivelazione, norma eterna ed immutabile. Dove sarebbe qui il “relativismo” da
parte del critico del Concilio?
Francamente, non riesco a scorgerlo. Il testo conciliare viene messo in
rapporto con la verità di fede mantenuta nei secoli dal Magistero perenne per
vedere se si accorda o meno con esso. La
verità di fede è norma fissa e immutabile, rigida; equivale ad un principio
generale con il quale devono mostrarsi compatibili tutti i casi particolari ad
esso riconducibili. Siamo all’opposto di ogni possibile impostazione relativistica.
Il relativismo,
in campo filosofico ed etico, sostiene l’inesistenza di una verità oggettiva,
che costituisca l’ineludibile punto di riferimento e criterio di giudizio
per determinare altre verità e per la nostra praxis quotidiana (costituisca,
quindi, norma di giudizio e norma di comportamento). Per il relativista, la verità sarebbe
sempre storicamente condizionata dalle circostanze sociali e del tutto soggettiva
(relativa, per l’ appunto, a colui che la professa) perché sempre
espressione delle mutevoli esperienze di vita dell’individuo e, al
limite, delle società, dei popoli. Il
parametro cui il relativista fa riferimento è il sentire della sua propria coscienza
non il Deposito della Fede. I critici del Concilio in nome della Tradizione
della Chiesa, all’opposto, mettono a confronto le novità introdotte dal
Concilio non con le loro opinioni personali ma con le verità contenute nel
Deposito; verità assolute, bimillenarie, e in base a queste emettono il loro
giudizio sul Concilio. Relativisti erano i teologi modernisti e neo-modernisti,
i vari de Lubac, Rahner etc, così influenti al Concilio, seguaci della
“filosofia dell’azione” di Blondel, dell’esistenzialismo di Heidegger, visioni
del mondo professanti un soggettivismo radicale, per ciò che concerne il
concetto del vero, incompatibili con la nozione stessa di verità rivelata da
Dio, di per sè necessariamente assoluta (ad esempio: che il matrimonio
sia tra l’uomo e la donna, indissolubile e monogamico, fu stabilito da Nostro
Signore come verità che doveva valere per sempre, senza sfumature di sorta, al
suo tempo come al nostro).
Ciò
premesso, passo all’esempio di contestazione puntuale di quanto
affermato in via generale da Sua Eminenza: puntuale perché concernente
un punto preciso, scelto tra le critiche da lui avanzate ai c.d.
“tradizionalisti”.
2. Il
paragrafo 2.5 di Nostra Aetate incita effettivamente i cristiani a far
progredire i non-cristiani in tutti i loro valori, invece che a convertirli.
Secondo
il cardinale Brandmüller la famosa Dichiarazione Nostra Aetate sulle
religioni non cristiane, sarebbe stata accusata a torto di diffondere “il
sincretismo, il relativismo, l’indifferentismo”. Scrive: “Dopo il Concilio, fu il britannico John Hick
a diffondere, più o meno a partire dal 1980, [l’idea che] l’annuncio della
Chiesa dovesse esser volto a far sì che un musulmano diventasse un musulmano
migliore e così via”; e così via: allo stesso modo per i seguaci di tutte
le altre religioni. Questo maniera di
concepire l’annuncio rappresenterebbe pertanto un’errata interpretazione
di quanto scritto in NAet 2.5, secondo il pensiero del cardinale.
Confrontiamoci con il testo.
“Essa
[la Chiesa] perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità,
per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre
religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano,
conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali
che si ritrovano in essi [nei seguaci delle altre religioni].”
Ho
messo in grassetto la proposizione principale per impedire che la sua struttura,
semplice e lineare, venisse a scomparire dietro le tre subordinate che la
precedono, articolate come tre incisi affermanti valori in apparenza tutti
conformi all’idea tradizionale della “missione” cattolica. Per la necessaria completezza, cito anche
l’originale in latino:
“Filios
suos igitur hortatur, ut cum prudentia et caritate per colloquia et
collaborationem cum asseclis aliarum religionum, fidem et vitam christianam
testantes, illa bona spiritualia et moralia necnon illos valores
socio-culturales, quae apud eos inveniuntur, agnoscant, servent et
promoveant.”[1]
Cosa
dice, dunque, la proposizione principale?
“La
Chiesa esorta i suoi figli affinché riconoscano, conservino e facciano
progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano nei
seguaci delle altre religioni”.
Liberato
della zavorra degli incisi che lo precedono, questo è l’incredibile contenuto
di quest’ultimo capoverso dell’art. 2 della NAet, messo in pratica zelantemente
da sacerdoti e fedeli dal Concilio in poi, con i risultati devastanti che ben
conosciamo. Incredibile questa
frase, sicuramente mai detta prima da alcun vero Sacerdote di Cristo. Perché incredibile? Perché essa afferma esattamente il
contrario di quanto ordinato da Nostro Signore Risorto ai suoi Apostoli:
“Rendete miei discepoli tutti i popoli”.
Per l’esattezza:
“Ma
gli undici discepoli andarono in Galilea [obbedendo all’ordine di Gesù risorto,
impartito mediante le pie donne cui era apparso], sul monte che Gesù aveva loro
indicato. Quando lo videro, si
prostrarono davanti a lui, essi, che pure avevano dubitato. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in
terra. Andate dunque e fate miei
discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figliuolo
e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutte le cose che io ho
comandate a voi. Ed ecco, io sono
con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo.“(Mat 28, 16-20. Corsivi miei).
Nostro
Signore ha ordinato ai suoi Apostoli e quindi a tutti i suoi sacerdoti di
predicare i suoi insegnamenti (con la parola e con l’esempio di una santa vita)
ai popoli e agli individui al fine di convertirli, il che significa
evidentemente: di farli diventare cristiani, per la salvezza delle loro
anime. Ciò voleva dire che popoli e
individui dovevano ripudiare le loro false religioni (false, perché non rivelate
da Dio e comunque spesso immorali), battezzarsi, vivere secondo ciò che il
Cristo aveva insegnato ai suoi Discepoli e pertanto praticare l’etica
cristiana, fondata sull’osservanza dei Dieci Comandamenti, sull’amor del
prossimo per amor di Dio (non per la supposta dignità dell’uomo, in quanto
tale), sulla pratica costante dei Sacramenti.
Della
necessità della conversione di individui e popoli a Cristo, mediante
l’insegnamento della dottrina rivelata dal Signore, nessuna traccia nel dettato
di NAet 2.5. Al contrario, si incitano i
fedeli a rafforzare e far progredire i popoli nelle loro originarie e
particolari credenze: nei loro valori, spesso pervasi di pratiche
immorali, come nel caso dell’Islam e di tutti i paganesimi, antichi e
moderni. Abbiamo qui l’incitamento ad
una missione rivolta ad un obiettivo antitetico alla vera missione
della Chiesa: non a convertire a Cristo ma a mantenere e rafforzare i
popoli in credenze e comportamenti che, oltretutto, sono spesso e volentieri
contrari a ciò che Cristo ha insegnato! E siffatto eterodosso incitamento viene
proposto con impressionante meticolosità: i fedeli ora devono “riconoscere,
conservare, far progredire” i v a l o r
i di tutti i non-cristiani ed anche, per
ovvia elementare estensione, dei non-cattolici fra i cristiani. Indicati con minuzia, questi valori:
“spirituali, morali, socio-culturali”.
La
traduzione in italiano dice “i valori spirituali, morali e socio-culturali che
si trovano in essi”. Il testo latino,
alla lettera: “ q u e i valori spirituali,
morali etc. che si trovano in essi”. Si
tratterebbe allora di “valori” indipendenti dai valori professati dalle loro
religioni, q u e i valori puramente
umani che, su base esclusivamente individuale, ci potrebbero essere in
loro? In questo caso, il testo latino
non avrebbe dovuto usare il congiuntivo e dire:
“…valores… quae apud eos inveniantur” – “quei valori che si trovino
presso di essi”, dal momento che si tratterebbe di valori non connessi al loro
patrimonio religioso, sul quale pubblicamente si fondano quei valori (pensiamo
all’Islam, per esempio)? A parte
l’impossibilità di fare concretamente una simile distinzione, essendo i valori
in questione sempre fondati sulla religione e non separabili da essa, la
lettera del testo non autorizza, mi sembra evidente, una simile distinzione
---- che sarebbe comunque irrilevante dal punto di vista concreto, pratico.
Il
carattere intrinsecamente contraddittorio, assurdo sul piano logico ancor prima
che teologico, di questo stupefacente testo, risulta già dalle riflessioni più
semplici. Consideriamo l’Islam, il “dialogo”
con il quale è da tanto tempo al centro del dibattito e della politica della S.
Sede. Tra i valori “morali e socio-culturali” dell’Islam c’è ovviamente il modo
di considerare il matrimonio, che contempla, come sappiamo: divorzio, ripudio,
concubinato, poligamia, spose-bambine (dato che la favorita tra le mogli di
Maometto fu da lui scelta quando aveva nove anni). Deve il cattolico adesso impegnarsi affinché
i maomettani “conservino e facciano progredire” quel valore “socio-culturale”
che per essi è il loro matrimonio, con le sue varie forme, istituto che per noi
cattolici contempla una serie di situazioni una più abominevole
dell’altra? E nell’ambito cristiano,
deve ora il fedele cattolico adoperarsi affinché protestanti ed ortodossi
“conservino e facciano progredire” la loro concezione del matrimonio, che
contempla sempre il divorzio? E che dire
dei temi strettamente connessi agli articoli di fede? Deve ora il fedele cattolico “conservare e
far progredire” gli Ebrei nella loro fede rigidamente monoteistica, in base
alla quale, avendo rifiutato e rifiutando il vero Messia, Gesù di Nazareth,
essi considerano il medesimo Gesù un mago, un impostore, un falso profeta,
coprendo a tutt’oggi Lui e sua Madre di insulti irripetibili nel Talmud? E “conservare e far progredire” i maomettani
nella loro, rafforzandoli nel concetto aberrante secondo il quale la S.ma
Trinità sarebbe composta per i cristiani da “Dio, Gesù e Maria [sorella di
Aronne]”, come insegna falsamente il Corano?
La
casistica sarebbe molto ampia, questi pochi esempi credo possano bastare.
3. Gli
incisi di NAet 2.5 non sanano la proposizione principale.
Ma i
difensori del Concilio, su questo come su altri suoi preoccupanti testi, replicano in genere in questo modo: le novità introdotte sono temperate,
equilibrate da opportuni richiami alla tradizione della Chiesa. Ciò si sarebbe verificato anche nel caso di
NAet 2.5. L’equilibrio sarebbe mantenuto
dai tre incisi preliminari alla proposizione principale del testo, da me
isolata, i quali, come si è visto, incitano i cattolici a procedere nelle
aperture sempre con: 1. prudenza e
carità; 2. per mezzo del dialogo e della
collaborazione con i seguaci delle altre religioni; 3. sempre rendendo testimonianza alla fede e
alla vita cristiana. Ma una
considerazione attenta di questi tre punti non può che dimostrare la loro vacuità,
quanto al mantenimento dell’equilibrio tra tradizione della Chiesa e
innovazione “ecumenica” – vacuità derivante dalla loro intrinseca insufficienza
e dalla loro evidente contraddittorietà con la proposizione principale.
Prudenza e carità
sono due virtù che il cattolico dovrebbe mettere in pratica in ogni suo
comportamento: il richiamo appare generico.
In ogni caso, nell’opera di vera conversione, accanto all’accenno
alla prudenza è forse mai mancato l’incitamento ad essere audaci,
mettendo da parte la prudenza, che non deve essere una pietra d’inciampo nell’
apostolato? Nelle famose istruzioni a
Timoteo, san Paolo non scrive forse:
“predica il Vangelo, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi,
minaccia, esorta, sempre con pazienza e con piena dottrina” (2 Tim 4, 2). A tempo, ossia secondo prudenza; fuor
di tempo, ovvero audacemente, forzando la situazione. L’esortazione all’audacia nella missione non
contraddice affatto la carità, sempre raccomandata dall’ Apostolo delle Genti :
“non riprendere con asprezza chi è vecchio, ma esortalo come un padre, i
giovani come fratelli, le donne anziane come madri, le giovani come sorelle, in
tutta purezza” (1 Tim 5, 1-2). Il fervore, l’audacia con la quale san Paolo
cercava in ogni occasione di aprire le anime a Cristo, ben risultano dalla sua
“difesa” di fronte al Procuratore romano Festo e al re locale Agrippa,
riportata negli Atti degli
Apostoli: “-- Credi tu ai Profeti, o Re Agrippa?...Io
so che ci credi. Agrippa rispose a
Paolo: --Manca poco che tu mi persuada a farmi cristiano. – Che manchi poco o molto, soggiunse Paolo,
piaccia a Dio che non soltanto tu, ma anche tutti quelli che oggi mi ascoltano,
diventino tali [cristiani], quale sono io, ad eccezione di queste catene!”
(Atti, 26, 27-29. Paolo era tenuto in custodia, in attesa di giudizio).
Ma come potrebbe NAet 2.5 incitare all’audacia
nella predicazione del Verbo quando essa incita esattamente al contrario di ciò
che ci ha insegnato il Verbo Incarnato, vale a dire a fortificare nei loro
erronei convincimenti e falsi valori coloro che dovrebbero esser invece
convertiti e salvati? Ecco allora questo
invito alla prudenza e alla carità col sorriso sulle labbra, per un fine che
sembrerebbe così umano e ragionevole, il “dialogo e la collaborazione” con i
seguaci delle altre religioni, eretici e scismatici compresi, ovviamente. Ma la
“carità” è qui invocata mal a proposito perché rivolta a fortificare gli
erranti nei loro errori, cioè contro se stessa, la sua autentica virtù essendo
quella della compassione per le anime, incitate pertanto a convertirsi a
Cristo, unica salvezza. Il “dialogo” con
l’ errante e il ribelle la Chiesa lo ha sempre fatto, per convincerlo della
bontà dell’insegnamento di Cristo, pensiamo solo alle lunghe discussioni
teologiche con Lutero prima di condannarlo.
Ma per l’appunto dialogo con l’ errante non
con l’ errore, come invece propone
di fatto il Vaticano II, dal momento che il “dialogo” non è concepito qui per
convertire ma per attuare una “collaborazione” con tutti gli esponenti delle
altre religioni per realizzare fini comuni, di portata generale, quali
l’universale fratellanza e uguaglianza, la pace mondiale, l’unità del genere
umano: insomma, i cascami della settecentesca e liberomuratoria ideologia del
progresso, rivenduti a prezzo d’accatto dalla Nouvelle
théologie.
Questa “collaborazione”, del tutto impropria, dal
momento che vuole coniugare “Cristo e Beliar”, presuppone evidentemente un
nuovo modo di intendere la verità, oggettivamente incompatibile con il concetto
della verità rivelata, sulla quale il cristiano dovrebbe sempre basare i
valori rispecchiantisi nella sua coscienza di essere razionale. Tale nuovo concetto
del vero risulta ad esempio dalla costituzione Gaudium
et spes, art. 16.2, ove si fa l’elogio
della coscienza dell’uomo, in quanto stato interiore nel quale l’uomo sente risuonare la voce di Dio. Tuttavia, ci spiega il testo,
“Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si
uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità
numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella
sociale.”
La verità, della quale necessitiamo ovviamente
anche in campo etico e sociale, per risolvere i tanti problemi di vita che
sorgono a livello privato e comunitario, risulterebbe ora per i cristiani
soprattutto dal dialogo
in comune con gli altri uomini ossia con i seguaci delle altre religioni e
tutti gli uomini di buona volontà anche atei: non più dall’insegnamento
della Chiesa, dalla dottrina e dalla tradizione cattolica, “segni di
contraddizione” nei confronti del mondo.
Si tratta come ognun può vedere di uno pseudo-concetto della verità, dal
momento che vuole ricavarla per via sincretistica, mettendo insieme punti di
vista intrinsecamente inconciliabili, come appunto sono le concezioni della
morale, della politica, della vita professate dalle varie religioni, sette,
filosofie con le quali ora il cattolico dovrebbe “collaborare” nella “ricerca
della verità”, funzionale al raggiungimento degli obiettivi sopra elencati. Davvero il Concilio pensa che ci possiamo
unire nella ricerca del vero e della soluzione dei problemi riguardanti la
morale, con coloro che, tanto per fare un esempio, professano le errate ed
aberranti nozioni del matrimonio sopra appena ricordate? Ma i Padri Conciliari si sono resi conto di
cosa hanno fatto loro sottoscrivere?
Ma non afferma NAet 2.5 che, in quest’opera di
“dialogo”, “collaborazione”, ovviamente con la dovuta “prudenza e carità”, noi
dobbiamo pur sempre “render testimonianza alla fede e alla vita
cristiana”? Non basta quest’ultima
precisazione a rimettere le cose a posto?
Ma che si vuol dire qui: che dobbiamo sempre vivere da buoni cristiani
in modo da rappresentare la testimonianza vivente della nostra fede nei
confronti di tutti i seguaci delle altre religioni? Credo si voglia riaffermare
proprio questo tradizonalissimo concetto.
Ma è sufficiente? NON È SUFFICIENTE a salvare l’ortodossia del capoverso
2.5, anzi peggiora la situazione.
Infatti, “render testimonianza
alla fede e alla vita cristiana” è cosa che impedisce di per sè ciò che
NAet 2.5 propone, ossia “riconoscere, conservare, far progredire” i valori
“spirituali, morali, socio-culturali” di tutte le altre religioni. La “testimonianza alla fede e alla vita
cristiana”, se è autentica, non mira a rafforzare i non-cristiani nei loro
errori, mira invece a convertirli a Cristo, essendo questo il suo unico, vero
obiettivo, stabilito da Nostro Signore: la salvezza del maggior numero
possibile di anime (oltre la propria) e giammai la chimerica, millenaristica, irrealizzabile
unità del genere umano grazie ad una inaudita “collaborazione” di tutte le
religioni con la nostra, unica vera perchè unica rivelata da Dio.
Se
non mira a questo fine sovrannaturale, conforme a quanto sempre insegnato dalla
Chiesa in due millenni sino per l’ appunto al Vaticano II escluso, tale
“testimonianza” è una falsa testimonianza. L’invocazione alla
“testimonianza di fede e vita” cristiana appare dunque in palese contraddizione
con l’assunto principale di NAet 2.5: essa non scalfisce né attenua in alcun
modo il carattere eterodosso di tale assunto, non solo estraneo
all’insegnamento e alla Tradizione della Chiesa ma ad essi anche ostile. Anzi, tale carattere negativo essa lo fa
risaltare ancor di più.
4.NAet
2.5 inquadrato nel contesto dell’intero articolo 2 della ‘Dichiarazione’
Lo scopo
del presente intervento, limitato ad un punto specifico della Nostra Aetate,
non è quello di sottoporre ad analisi i numerosi errori contenuti in questa
incredibile Dichiarazione, uno dei testi più sconcertanti dell’intero
Concilio. Per la completezza
dell’argomentazione mi corre però l’obbligo di spiegare brevemente l’origine
del capoverso 2.5. Come ci si arriva? È presto detto. L’art. 2 della Dichiarazione si occupa
delle “diverse religioni”, a parte rispetto alla musulmana (art. 3) e
all’ebraica (art. 4). L’art. 1 è introduttivo, di taglio neo-illuministico e
umanitario, auspica l’unità del genere umano; l’art. 5 inneggia alla
“fratellanza universale”.
In
pratica, l’art. 2 fa un elogio senza riserve dell’induismo e del buddismo,
rappresentandoli in modo edulcorato ossia in quei limitati aspetti per i
quali essi sembrano accettabili alla nostra mentalità moderna: quali forme di
“meditazione profonda” che ci procurerebbero uno “stato di liberazione
interiore o illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l’aiuto
venuto dall’alto”. Che dall’Alto,
ossia dal vero Dio, possa venire un aiuto per raggiungere una “illuminazione suprema” del tipo di quella
ricercata dai buddisti, i quali mirano alla fuga dal dolore dell’esistenza,
all’estinzione del proprio io nel Nulla
dell’indifferenza totale di fronte ad ogni desiderio, passione, sentimento ed
anche pensiero pensante - che ci possa
essere tale “aiuto” è come minimo dubbio, ed è semplicemente scandaloso
che un Concilio Ecumenico della Santa Chiesa metta agli atti, con l’aria di
approvarla, un’affermazione del genere.
A
tanto si è giunti partendo da un presupposto arbitrario: che “sin dai tempi più
antichi” vi sia stata, nelle varie religioni, la percezione dell’esistenza di
una “Divinità suprema o il Padre” (NAet 2.1).
Che in tutte le varie religioni pagane, sin dai tempi arcaici, sia
rintracciabile l’intuizione di un Essere Supremo, sorta di monoteismo
originario, non è affatto dimostrato, nonostante le molteplici, erudite
ricerche degli studiosi in materia. Da questa premessa, passando per l’elogio
di induismo e buddismo, l’art. conclude che:
“La Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste
religioni. Essa considera con sincero
rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che,
quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone,
tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti
gli uomini” (NAet 2.3).
Si
vorrebbe sapere: cosa ci sarebbe di
“vero e santo” nelle altre religioni? Quali gli esempi concreti di tale,
supposta “santità”? E circa la loro
“verità”? Quale “verità”?
Sembra inoltre esserci un problema con la
logica. Se le dottrine citate “in molti punti” differiscono da quanto crede e
insegna la Chiesa, come fanno queste stesse dottrine ha “riflettere non
raramente” la verità che illumina tutti gli uomini”? Si suppone che la verità “che illumina tutti
gli uomini” sia la verità di origine divina.
Si suppone, inoltre, che la Chiesa insegni (essa sola) verità di origine
divina, a noi rivelate dal Verbo Incarnato.
Ora, religioni le cui dottrine differiscono da quelle insegnate dalla
Chiesa “in molti punti”, dovrebbero eventualmente riflettere solo in pochi
punti verità di origine divina. Se
invece si scrive che tali verità verrebbero riflesse “non raramente” ossia di
frequente, allora questo non è come dire, contraddicendosi, che verità di
origine divina sono riflesse in molti punti anche dalle altre religioni, cioè
dai paganesimi, di ieri e di oggi?
Qui
vediamo all’opera una vera e propria falsificazione – mi sembra il
termine giusto – operata dalla mens novatrice che ha elaborato i testi
finali del Concilio, dopo che, con i noti colpi di mano procedurali avallati
dal Papa regnante, erano stati fatti completamente saltare tutti gli schemi
preparati in tre anni di duro e serio lavoro dalla Curia, con l’eccezione di
quello sulla liturgia, poi ulteriormente “ammodernato”, nell’elaborazione del
quale i neo-modernisti erano già riusciti a far penetrare qualche loro idea. In cosa consiste l’inganno? Nell’aver introdotto il falso concetto che la
Chiesa, a partire dai Padri, avrebbe sempre ritenuto esserci dei semina
Verbi anche nelle altre religioni; “semi del Verbo”, “semi di luce” che si
trattava ora di rivalutare o scoprire. A
S. Giustino martire si è voluto attribuire quest’opinione ma si tratta di un
falso clamoroso perchè S. Giustino vedeva l’esistenza di tali supposti “semi”
unicamente nella filosofia greca, nei classici dei quali era imbevuto, e
giammai nella religione pagana, da lui sempre fatta oggetto dell’avversione e
del disprezzo più totali, ribaditi anche davanti ai magistrati romani che lo condannarono
a morte. Inoltre, le intuizioni del
pensiero classico nel senso della morale cristiana (vedi, esempio tra altri, la
condanna platonica dell’omosessualità maschile e femminile quale frutto
perverso di una disordinata ricerca del piacere contronatura – hedoné
katà physin -- Le Leggi, I, 636c), S. Giustino le attribuiva ad una
supposta quanto improbabile conoscenza dell’Antico Testamento da parte dei
filosofi greci.
Quanto
affermato in Aet 2.3 lo troviamo espresso in modo ancora più chiaro nel Decreto
Ad Gentes sull’ attività missionaria.
Nell’art. 11.2 si afferma che i missionari, nel prepararsi alla loro missione,
oltre alla vita culturale e sociale dei popoli presso i quali devono svolgerla,
“debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri,
lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si
trovano nascosti..” (Grassetti miei). Nell’originale latino: “..falimiares sint cum eorum traditionibus
nationalibus et religiosis; laete et reverenter detegant semina Verbi
in eis latentis..”.
Il
fedele ignaro che legga queste righe o le senta ripetere crederà che qui gli
venga riproposta la dottrina perenne della Chiesa. NON È VERO.
Gli viene inflitta surrettiziamente una dottrina nuova e del tutto
falsa: lo ripeto, mai i Padri Greci
proposero di ricercare i “semi del Verbo” nella religiosità pagana,
limitandosi, come ho ricordato, alla sola filosofia. Questa dottrina, come spiegò a suo tempo
mons. Gherardini, fu inoltre proposta solo dai Padri Greci, nella Patrologia
Latina non destò particolare interesse. Non appartiene dunque alla Chiesa
universale. La si vuole attribuire ad
essa oggi, sulla spinta del Vaticano II, ripetendola continuamente per
giustificare tutte le aperture possibili e immaginabili alle altre religioni,
con predilezione per gli antichi paganesimi amerindi, nelle esternazioni della pseudo-teologia nota
come “teologia india”: ma si tratta, per
l’appunto, di una falsa dottrina.[2]
[1]
Concilii Oecumenici Vaticani II.
Constitutiones-Decreta-Declarationes, curante Florentio Romita,
Desclée ac Socii – Romae, 1967, p. 300.
Per il testo in italiano: I
documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni-Decreti-Dicharazioni,
Edizioni Paoline, 1980. Le traduzioni
sono in genere quelle apparse su L’Osservatore Romano. Per i Testi Sacri
in italiano: La Sacra Bibbia,
Edizioni Paoline, 1963.
[2] Sul punto, vedi: Brunero
Gherardini, Quale accordo fra Cristo e Beliar? Osservazioni teologiche sui problemi, gli
equivoci ed i compromessi del dialogo interreligioso, Fede & Cultura,
Verona, 2009, pp. 48-56. Su S. Giustino
Martire, vedi: Berthold Altaner, Patrologia, tr. it. delle Benedettine
del Monastero di S. Paolo in Sorrento, riveduta dal Dr. Sac. S. Mattei,
aggiornata e riveduta dall’Autore, Marietti, Torino-Roma, 1940, pp. 69-73. S. Giustino subì il martirio verso l’ AD 165.