La salvezza in tempo
di pandemìa, senza poter confessare l’
ultimo peccato, con il solo Atto di Dolore Perfetto – La dottrina della Chiesa
(breve esposizione, a cura di Paolo
Pasqualucci)
Sommario : Assediati e isolati dalla pandemìa, la
Chiesa ci esorta all’ Atto di Dolore Perfetto, che ci salva – Concetto di
contrizione – Il profilo dogmatico – Contrizione e attrizione – La “tristezza
che viene da Dio” ci porta al pentimento per Amor di Dio – La “contrizione perfetta”
secondo San Francesco di Sales.
* *
Assediati e isolati dalla pandemìa,
la Chiesa ci esorta all’Atto di Dolore Perfetto, che ci salva.
Nella presente universale, terribile
pandemía, che sta mettendo in ginocchio tutto il mondo, a causa delle
restrizioni severissime imposte alla libertà di riunione e di movimento
dall’autorità civile, ci troviamo privati della S. Messa e nella condizione di non poterci piú confessare, anche se
aggrediti dal morbo e in pericolo di vita.
Come è già successo a tanti poveretti, rischiamo pertanto tutti oggi di
morire in solitudine e privi del conforto religioso, completamente abbandonati. Dio però non ci abbandona. Mai. Egli
è il Padre Nostro Misericordioso.
È stato giustamente ricordato da
alcuni sacerdoti che con la recita individuale dell’atto di contrizione
perfetto (“quando proviene dall’ amor di Dio, amato sopra ogni cosa”, unito
al fermo proposito di confessarsi non appena possibile) già otteniamo il
perdono per i nostri peccati, anche mortali (vedi: Maike Hickson, Clergymen
recommend perfect contrition and spiritual communion in times of coronavirus,
blog LifeSite News, 19 marzo 2020). Pertanto, non bisogna lasciarsi
prendere dallo smarrimento o addirittura dalla disperazione. Penso di far cosa
utile, non solo a me stesso, nel cercare di riassumere la dottrina della Chiesa
su questo vitale argomento – dottrina che forse molti non conoscono.
Non si constata da anni che il
Sacramento della Riconciliazione ossia la Confessione Sacramentale è caduta
ampiamente in desuetudine, mentre si è diffusa la falsa credenza secondo la
quale la salvezza sarebbe stata comunque garantita a tutti e subito, perché,
come si sente assurdamente ripetere contro la lettera e lo spirito delle
Scritture e l’ insegnamento tradizionale della Chiesa, “un Dio buono e
misericordioso non può condannare nessuno all’eterna dannazione”? E quando uno muore, non si sente quasi sempre
dire che “è andato alla Casa del Padre”, cioè in Paradiso? E come lo sappiamo che è andato alla Casa del
Padre, ci siamo forse avocati il giudizio cui l’anima di ciascuno è sottoposta
dal Signore, subito dopo la morte del corpo?
Ma del Giudizio finale, sia individuale che universale, non è rimasta in
realtà praticamente traccia nell’ insegnamento della Gerarchia cattolica
attuale.
Papa Francesco, in un’omelia a Santa
Marta, il 20 marzo scorso ha esortato i fedeli a recitare l’ Atto di Dolore,
che li salva, quando non possono accedere ad un sacerdote, come oggi purtroppo
sta avvenendo:
“Se non trovi un sacerdote, parla con
Dio direttamente, è tuo Padre, digli la verità, chiedigli perdono con l’atto di
dolore, promettigli che poi ti confesserai con un sacerdote e questo ti darà la
grazia di Dio. Si può avere il perdono
di Dio senza la presenza di un sacerdote in determinate circostanze. Fatelo, questo è il momento giusto e
opportuno. Con un atto di dolore ben
fatto l’ anima diventerà bianca come la neve” (Il Mattino.it/primo piano/vaticano/coronavirus-italia_papa_francesco
etc., 20 marzo 2020).
Il Papa parlava a braccio, si è
limitato a ricordare che l’atto di dolore deve essere ovviamente “ben fatto”
per esser gradito a Dio. Che, nella
situazione specifica, debba esprimere una contrizione perfetta, l’ ha
comunque ribadito una Nota della Penitenzieria Apostolica circa il
Sacramento della Riconciliazione nell’attuale situazione di pandemia, pure
del 20 marzo scorso, in un paragrafo applicante l’art. 1452 del Catechismo
della Chiesa Cattolica: “Laddove i
singoli fedeli si trovassero nella dolorosa impossibilità di ricevere
l’assoluzione sacramentale, si ricorda che la contrizione perfetta, proveniente
dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, espressa da una sincera richiesta di
perdono (quella che al momento il penitente è in grado di esprimere) e
accompagnata dal votum confessionis vale a dire dalla ferma risoluzione
di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale, ottiene il perdono
dei peccati, anche mortali (cf. CCC, n. 1452).” (http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/03/20/01/00379.html).
Ora, nella formula dell’ atto di dolore comunemente in uso, la
contrizione per l’ offesa da noi recata a Dio Padre con il nostro peccato, è
chiaramente espressa e in posizione concettualmente dominante. “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il
cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i vostri castighi e molto più perché ho offeso Voi, infinitamente
buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo col vostro santo aiuto di non
offendervi mai più e di fuggire le occasioni prossime del peccato. Signore, misericordia, perdonatemi.”
* *
Ho consultato tre classici manuali
del passato, di autori tedeschi degli anni Venti e Cinquanta del Secolo scorso,
da me reperiti a suo tempo in traduzione francese sul mercato antiquario, in
passato tutti debitamente tradotti in italiano:
1. Précis de théologie morale catholique
del P. Héribert JONE, tr. fr. dell’ Abbé Marcel Gautier, Éd. Salvator,
Mulhouse, 1941;
2.
Précis de théologie dogmatique di mons. Bernard BARTMANN, 2 voll., tr. fr.
ugualmente dell’ Abbé Marcel Gautier, Éd. Salvator, Mulhouse, 1951.
3.
Précis de théologie
dogmatique del P. Louis OTT, tr.
fr. dell’ Abbé Marcel Grandclaudon, Éd.
Salvator, Mulhouse, 1954.
Le traduzioni in italiano dei passi
tratti da questi testi sono mie. Tutti
questi autori illustrano la dottrina sul Sacramento della Penitenza insegnata
dal dogmatico Concilio di Trento nel Decreto sulla Penitenza e l’Estrema
Unzione, Sess. XIV, 25 nov 1551; DS 893a-929/1667-1719. Essa viene spiegata ampiamente nel Catechismo
Tridentino, fatto pubblicare da S. Pio V nel 1566 ad uso dei parroci per
decreto del Concilio di Trento, il cui nome ufficiale è Catechismo Romano ad
uso dei parroci (vedi: Catechismo Tridentino, tr. it. del P. Tito S.
Centi, O.P., ediz. Cantagalli, Siena, 1981, §§ 248-251).
Per l’ attuale, nuovo Catechismo
della Chiesa cattolica, vedi CCC, artt. 1451-1454, riproponenti in modo
sintetico la dottrina del Concilio di Trento sulla contrizione: art. 1451 “Tra gli atti del penitente,
la contrizione occupa il primo posto.
Essa è ‘il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso,
accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire’”; art. 1452 “Quando proviene dall’ amore di Dio amato
sopra ogni cosa, la contrizione è detta “perfetta” (contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali;
ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma
risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione
sacramentale”. Art. 1453 “La contrizione detta “imperfetta” (o
“attrizione”) è, anch’ essa, un dono di Dio, un impulso dello Spirito Santo.
Nasce dalla considerazione dalla bruttura del peccato o dal timore della
dannazione eterna e delle altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore (contrizione
da timore). Quando la coscienza
viene così scossa, può aver inizio un’evoluzione interiore che sarà portata a
compimento, sotto l’azione della grazia, dall’assoluzione sacramentale. Da sola, tuttavia, la contrizione imperfetta
non ottiene il perdono dei peccati gravi, ma dispone a riceverlo nel sacramento
della Penitenza.” L’ art. 1451
riprone la definizione tridentina (Sess. XIV, cap. 4); l’ art. 1454
indica i testi più adatti a prepararsi degnamente alla contrizione: la catechesi morale dei Vangeli e delle
Lettere degli Apostoli, il Discorso della Montagna, gli insegnamenti
apostolici. Ad essi possiamo aggiungere, senza pretesa di
completezza: L’ imitazione di Cristo; L’ introduzione alla vita
devota di S. Francesco di Sales, il Trattato sull’amore di Dio dello
stesso autore; L’ apparecchio alla morte, meditazioni sulle massime eterne
di S. Alfonso M. de Liguori.
Concetto della contrizione
Nel § 559 del suo manuale, Jone, dopo
aver ripetuto la nozione tridentina della contrizione (vedi supra , art.
1451 CCC), così spiega la differenza tra contrizione perfetta e imperfetta
a)
La contrizione
è perfetta (contrizione propriamente detta) quando il motivo del pentimento
è costituito dall’ amore di Dio, con il quale amiamo Dio in quanto di per se
stesso Sommo Bene. In questo caso,
rimpiangiamo il peccato mortale commesso poiché ha offeso il Sommo Bene, di per
sé sommamente amabile. Questa
contrizione giustifica il peccatore anche al di fuori del Sacramento [della
Confessione] purché essa ne contenga almeno implicitamente il desiderio (votum
sacramenti).
b) La
contrizione è imperfetta (detta anche attrizione)
quando consta del rimorso [per il peccato] non prodotto dal nostro amor di Dio
ma da un altro motivo sovrannaturale non in relazione con Dio (p. es.: l’
orrore del peccato, le pene eterne e temporali con le quali Dio lo punisce). Questa contrizione è sufficiente a
giustificare il peccatore [ma solo] in unione con la confessione.” (op. cit.,
p. 288).
La migliore esposizione della nozione
teologica della contrizione mi sembra quella fornita dall’illustre Bartmann.
“Il Concilio di Trento descrive la
contrizione come “animi dolor ac detestatio de peccato comisso, cum
proposito non peccandi de cetero” (D 897).
Da questa definizione risulta il fine della contrizione: lo sradicamento del peccato dal cuore e dalla
volontà. Risulta anche la sua necessità: in sua mancanza, è impossibile che Dio
perdoni il peccato.
Il termine contrizione (da contèrere,
tritare, sminuzzare, distruggere a poco a poco) comporta l’ idea del rompere
sino a ridurre in frammenti, in polvere.
Si trova anche compunzione (da compungere), che indica il
trafiggimento dell’uomo interiore. Il
termine si trova già presso Tertulliano.
Il Catechismo romano [più noto come Tridentino] spiega
il significato di contrizione a simiglianza dell’azione di frantumazione di
oggetti duri: il pentimento frantuma [conteret]
i cuori induriti [nel peccato]. Esso spiega anche l’ immagine del
trafiggimento: il cuore deve, per così
dire, esser trapassato dal pentimento affinché il veleno del peccato possa esserne
espulso [vedi Catechismo romano, § 248].
Il Concilio di Trento ha fissato i
tre elementi della nozione di contrizione: il dolore, la riprovazione, il proponimento
[di non più peccare]. Il dolore è un
dolore spirituale. Nasce e cresce non
nell’àmbito fisico ma in quello morale.
La sua fonte è nell’intelligenza e nella volontà. Nell’ intelligenza, che conosce e individua
il peccato come opposizione all’ ordinamento morale stabilito da Dio; nella
volontà, che riprova e respinge il peccato riconosciuto e in tal modo lo
rigetta. La funzione dell’ intelligenza
si sviluppa nel rimorso, nel senso di orrore, nella condanna del peccato, causa della dannazione eterna. La funzione della volontà è quella di
provocare un sentimento di ripulsa e fuga dal peccato, sentito come cosa
mostruosa e sventurata. Queste due
funzioni sono strettamente connesse e non devono esser separate. Il dolore della contrizione ha la sua causa
soprattutto nell’impressione penosa prodotta dal male che si è causato.
L’ avversione e la riprovazione
costituiscono la natura propria della contrizione. Ne consegue logicamente il dolore spirituale
volontario (dolor in voluntate).
Avversione, riprovazione, dolore riguardano il passato. Per ciò
che riguarda il futuro, la contrizione si trasforma essa stessa in buon
proponimento. In effetti, il
medesimo giudizio e la medesima decisione sul peccato passato, si applicano
anche al peccato che ci minaccia in futuro.
Da quanto si è visto, la contrizione occupa
tutto l’ uomo interiore; essa lo vuole trasformare fin nell’intimo del suo spirito. Si inizia dall’ intelligenza, ma non svolge
il suo corso nella sola intelligenza, quale atto di pura riflessione
personale (resipiscentia), come quando si nota un errore o lo si
corregge – questa era la concezione degli Stoici, la cui metánoia voleva
letteralmente dire mutamento d’opinione; nel senso cristiano, quest’ atto contiene il
riconoscimento di un errore morale che la volontà deve correggere sopprimendone
la causa. Pertanto, perno ed esito della contrizione si trovano
nella volontà. Per questo, S. Tommaso
definisce il dolore della contrizione un dolore volontario (dolor in
voluntate : Suppl. 1, q. 2 ad 1).
Il “dolore” dell’ anima è
necessariamente legato, nel peccatore, alla “riprovazione” poiché, nel peccato,
egli vede la sua stessa opera. Tuttavia
la riprovazione e il dolore non sono sempre uniti. Dio e i santi detestano il peccato ma non ne
provano dolore e quindi non conoscono la contrizione. Il buon proponimento è sempre incluso
nella vera contrizione. Perché la
contrizione sia salvifica occorre che sia unita alla speranza di perdono. Infine, come risulta dal Nuovo Testamento,
occorre che la contrizione contenga la volontà di confessarsi e di dare
soddisfazione [con le opere di penitenza] dal momento che Dio vuole accordare
il suo perdono con questi mezzi sacramentali.
La concezione posttridentina della
contrizione è identica, oggettivamente se non formalmente, alla concezione
della contrizione e della confessione così come sono esistite nella Chiesa sin
dai primi tempi.” (Bartmann, op. cit., II, pp. 415-416, § 194).
La contrizione deve avere determinate
caratteristiche o qualità. Deve essere:
“1. Interiore, in quanto atto
della volontà e dell’ intelligenza. Gioele, 2, 13 : “Stracciate i vostri cuori,
non le vostre vesti!”. In quanto
elemento del segno sacramentale, deve anche manifestarsi all’esterno,
nell’accusare se stessi in confessione.
2. Sovrannaturale , se si
produce sotto l’ influenza della grazia attuale e nasce da un motivo moralmente
buono mirante alla riconciliazione con Dio.
Una contrizione puramente naturale non ha alcun valore per la
salvezza (D 813, 1207). [Una contrizione solo naturale sarebbe quella di
pentirsi pensando alla perdita di reputazione o di guadagno o di affetti
provocata dal nostro peccato].
3. Universale quando si
estende a tutti i peccati gravi commessi.
È impossibile che un peccato grave sia perdonato e gli altri no [perché
non sono stati accusati – bisogna accusare tutti i peccati dei quali ci
ricordiamo, dopo un onesto esame di coscienza].
4. Sovrana (appretiative summa),
quando il peccatore detesta il peccato come il male più grande ed è pronto a
sopportare un male anche grande piuttosto che offendere nuovamente Dio con un
peccato grave. Tuttavia, non occorre che
la contrizione sia sovrana anche nel dolore (intensive summa)”(Ott,
op. cit., p. 587). Non occorre, cioè,
che la contrizione, per esser valida, debba raggiungere necessariamente il più
alto grado di dolore, impossibile a determinarsi a priori, e che in definitiva
“non è in nostro potere realizzare” (Jone, cit., p. 289).
Il profilo dogmatico
Si può dunque esser giustificati e
morire in grazia di Dio anche se non ci si è alla fine potuti confessare con il
sacerdote; ciò è particolarmente
importante nella situazione attuale, a causa di questa pandemìa inaudita che ha
messo “in quarantena” intere nazioni ed anzi tutto il mondo, portando ad
abolire la libertà di riunione e movimento delle persone, ecclesiastici inclusi,
e di fatto ad ostacolare fortemente se non ad impedire del tutto il culto pubblico.
Dal punto di vista dogmatico la
dottrina della capacità salvifica della contrizione perfetta, viene spiegata
nel seguente modo:
“La contrizione perfetta, unita al
desiderio del Sacramento, giustifica il peccatore reo di un peccato mortale,
anteriormente alla recezione stessa del Sacramento” ossia ancor prima di
confessarsi. Questa tesi non è di fede
ma fidei proxima, prossima alla fede. (Bartmann, cit., p. 421).
Questa dottrina è “prossima alla
fede” perché “non è definita formalmente
ma è espressa incidentalmente dal Concilio di Trento, insegnata universalmente
dai teologi e attestata con certezza dalla Scrittura.” (op. cit., ivi). Il desiderio del Sacramento, ossia di
confessarsi, è indispensabile dal punto di vista salvifico. Lo ribadisce a ragione il Concilio di
Trento. Altrimenti, non rischieremmo di
diventare giudici di noi stessi, di cadere nel soggettivismo? “Insegna, inoltre, il Concilio che, se anche
avviene che questa contrizione talvolta possa esser perfetta nell’amore, e
riconcilia l’ uomo con Dio, già prima che questo sacramento realmente sia
ricevuto, tuttavia questa riconciliazione non è da attribuirsi alla contrizione
in sé senza il proposito di ricevere il sacramento incluso in essa” (D 898; Concilio
Tridentino, sess. XIV, cap. 4, in Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni
dei Concili Ecumenici, tr. it. di Rodomonte Galligani, UTET, Torino, 1978,
p. 597).
Questa pronuncia così netta del
dogmatico Tridentino ha il significato di una vera e propria verità di fede,
come rileva Ott : “La
giustificazione extra-sacramentale risulta dalla contrizione perfetta solo se
quest’ultima si accoppia al desiderio del sacramento (votum sacramenti). De fide. Mediante il votum sacramenti il
fattore soggettivo e il fattore oggettivo della remissione dei peccati, l’ atto
di contrizione del penitente e il potere delle sante chiavi della Chiesa
entrano in vicendevole relazione. Il
desiderio del sacramento è virtualmente contenuto nella contrizione perfetta” (Ott,
op. cit., p. 589).
Nell’ Antico Testamento la
contrizione perfetta era per gli adulti l’unico modo di remissione dei peccati,
dal momento che non esisteva confessione sacramentale, istituita dal Verbo
Incarnato. Si citano sempre due famosi
passi dal libro di Ezechiele: “l’ empio
non perirà per la sua iniquità, qualora se ne ritragga” (Ez 33, 12); “tuttavia,
se l’ iniquo si ritrae dai peccati che ha commesso, osserva tutti i miei
precetti, e fa ciò che è giusto e retto, egli avrà la vita [eterna], non
perirà”. E in aggiunta, il Salmo 32
(31), 5: “Dolente io m’ avvolgea tra acute spine/ ma or
confesso e non nego il mio peccato./ A te dissi: mi confesso in colpa./ E tu
gl’empi miei falli perdonasti”. (La Sacra Bibbia, ed. Paoline, 1963)
La legge del timore consentiva questa
grande possibilità di perdono, tanto più la consente il Nuovo Testamento,
“legge di misericordia e di grazia”. (Bartmann, op. cit., p. 422). L’ episodio neotestamentario classico della
contrizione perfetta è quello della remissione dei peccati della peccatrice
notoria, identificata dalla
tradizione cristiana con Maria Maddalena:
“I suoi numerosi peccati sono
stati perdonati perché essa ha molto amato” (Lc 7, 47). Si intende: ha molto amato Me e per amor mio
si è umiliata in questo pubblico pentimento, risultante dall’ omaggio a Me,
fatto versando amare lacrime prostrata ai miei piedi, che ha cosparso di un
prezioso unguento. Vi sono poi i noti
testi di S. Giovanni e della Prima Lettera di S. Pietro. Ricordo solo: “Chi ama Dio è nato da Dio” (1
Gv 4, 7); “L’amore [verso Dio] copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4, 8).
Non bisogna però credere che la
nostra contrizione, per ottenerci il perdono, debba sempre esser perfetta. Per una “ricezione degna” del Sacramento
della Penitenza la contrizione perfetta non è obbligatoria; basta la
contrizione imperfetta, purché contenga “un inizio di amore per Dio.” Questa è almeno l’opinione teologica piú ampiamente
diffusa (Bartmann, cit., pp. 422-424).
Anch’ essa si fonda sul dettato del Tridentino.
“Il Concilio dichiara anche che
quella contrizione imperfetta, che vien detta ‘attrizione’ perché prodotta
comunemente o dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore
dell’ inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare con la speranza
del perdono, non solo non rende l’ uomo ipocrita e maggiormente peccatore [come
riteneva erroneamene Lutero, seguíto poi dai Giansenisti – Bartmann], ma
è addirittura un dono di Dio ed un impulso dello Spirito Santo – che non abita
ancora nell’anima ma soltanto la sprona – da cui il penitente viene stimolato e
con cui si prepara la via alla giustizia.
E quantunque per sé, senza il sacramento della penitenza, sia impotente
a condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone ad impetrare
la grazia di Dio nel sacramento della penitenza. Scossi, infatti, salutarmente da questo
timore, gli abitanti di Ninive fecero penitenza alla predicazione di Giona,
piena di minacce. Ed ottennero
misericordia da Dio [Gn 3, 5]”. (Decisioni
dei Concili Ecumenici, cit., ivi).
Contrizione e attrizione
Perché la contrizione imperfetta si
chiama tecnicamente attrizione, attritio? Ai nostri giorni il termine può apparire
astruso, se non incomprensibile. Ma è
facilmente spiegabile.
La parola “attritio”, sottolinea Ott, “è in uso dalla seconda metà del
XII secolo (presso Simon de Tournai prima del 1175). Il suo significato è variato nella teologia
scolastica. Molti teologi vi hanno visto
una contrizione che non racchiude la volontà di confessarsi e di dare
soddisfazione o il fermo proposito di correggersi. Pertanto è spesso considerata come insufficiente
per la remissione dei peccati” (Ott, cit., ivi).
Il termine deriva dal latino, ovviamente: è un
composto del verbo tero (trivi, tritum, tèrere) : sfrego, liscio; batto,
calco; rendo trito, logoro; trituro, calpesto; consumo.
La “attritio” dei teologi è in sostanza la stessa parola di “attrito”,
in italiano. Contrizione e attrizione
sono dunque due composti di tero : con-tero; ad-tero. Nel latino classico, la “con-tritio” era, ci informa sempre il Georges-Calonghi,
lo schiacciamento, il tritare, il pestare – nei testi religiosi cristiani, e
quindi nel tardo latino, in senso traslato: rovina, miseria, abbattimento dell’
animo, pentimento, contrizione – l’ animo, o meglio il nostro orgoglio, che
viene come ad esser schiacciato, tritato dal senso di colpa per il peccato. La
“ad-tritio”, invece, uno sfregamento, sminuzzamento, con l’ idea di
scorticature, escoriazioni, cose risultanti appunto da un contatto per attrito
che non frantumi; in senso traslato: esposizione debole, fiacca, p.e. di un
oratore (sempre Georges-Calonghi). Si
capisce, allora, che i teologi medievali abbiano voluto usare il termine
“attritio” per indicare la contrizione meno perfetta in quanto scortichi
per così dire il peccatore ma senza arrivare a quella “demissio animi”, a
quell’abbattimento, a quel pentimento che è proprio della contrizione perfetta. Senza cioè arrivare ancora a quel dolore per
aver offeso Dio con il nostro peccato, quel dolore che è espressione dell’amor
di Dio che noi dobbiamo pur giungere a provare verso Dio nostro Padre .
Ci si potrebbe chiedere, a questo
punto: la contrizione, per esser gradita
a Dio, e in sostanza valida, dovrebbe esser sempre perfetta? Questa sembra esser stata l’opinione di molti
scolastici, ci spiega Bartmann, tra i quali anche S. Bonaventura, detti
appunto contrizionisti. Ma dopo
il Concilio di Trento tale opinione non è più sostenibile, avendo il Concilio
definito l’ assoluzione del penitente un atto consacratorio oltre che una vera
e propria sentenza di assoluzione, grazie alla quale l’ assoluzione “è
effettivamente operata dal sacerdote”, anche in presenza di una contrizione
imperfetta; la quale, come si è visto, non giustifica ancora il peccatore ma lo
dispone ad impetrare la grazia di Dio nel sacramento della
Penitenza. I teologi posttridentini sono
praticamente tutti attrizionisti.
Essi, tuttavia, discutono sull’essenza dell’attrizione, basandosi
sempre sul dettato conciliare. Si è
visto, prosegue Bartmann, che il Concilio fa scaturire l’ attrizione
dalla percezione della “bruttezza del peccato” e/o dal timore dell’ inferno e
delle pene. “La prima forma d’
attrizione si fonda su un motivo più nobile, dal momento che il giudizio su
questa bruttezza risulta dall’ opposizione tra il peccato e Dio o persino fra
il peccato e la virtù. A questa
considerazione è sempre connesso un tratto d’amore [per Dio], anche solo come
amore-speranza [vedi infra]. Ma
la questione nasce dal motivo del timore […] Il Tridentino insegna che il
timore è un dono di Dio (e quindi una grazia) ed un impulso dello Spirito Santo,
per quanto lo Spirito non dimori ancora nell’ anima ma si limiti ad
agitarla: con l’aiuto dello Spirito
Santo il peccatore prepara la via che lo conduce alla giustificazione. Insegna, difatti, il Concilio che
l’attrizione in sé e per sé, senza il Sacramento della Penitenza non può
condurre il peccatore alla giustificazione e tuttavia lo dispone ad
ottenere la grazia del Sacramento della Penitenza (disponit, recita, in
sostituzione di un iniziale sufficit, Sess. 14, cap. 4, D 898, can. 5)”
(Bartmann, p. 423).
Possiamo dunque esser certi, noi
fedeli, che la contrizione dovuta al timore non risulta esser da sola
“disposizione sufficiente” alla giustificazione ma ne costituisce un valido presupposto,
per la maggior parte di noi probabilmente indispensabile. Il timor di Dio (che non vuol esser un
terrore di Dio) deve dunque esser un timor servilis che non si
esaurisce nella paura del castigo ma teme sinceramente anche di perdere Dio, di
trovarsi per sempre separato da Lui, avendolo offeso con il proprio
peccato. Il timore servile limitato alla
paura o al terrore del castigo, anzi, “è immorale” perché non si accompagna ad
una nitida ripulsa del peccato e non esclude affatto la volontà di (tornare a)
peccare, dal momento che “fa astrazione da Dio”.
Deve trattarsi, spiegano i teologi,
nel loro linguaggio, di un timor
simpliciter servilis: votato per sua
natura al dolore provocato dalla perdita di Dio. Quest’ultimo timore “è un atto moralmente
valido ed è raccomandato nei due Testamenti (Prov 1, 7; 9. 10 – Is 11, 3 -
Mt 10, 28 – Luc 12, 5 - Phil 2, 12).”
In questo “timore” appare un
inizio di amor di Dio e ciò è sufficiente per la “contrizione sacramentale”. (Bartmann,
op.cit., ivi).
Ma è bene tener presente che il
Tridentino non si limita a pretendere che “l’attrizione escluda la volontà di
peccare”. Vuole anche, come si è visto,
“che essa sia unita alla speranza del perdono e pertanto del conseguimento del bene
dell’ eterna beatitudine. Una
speranza di vita eterna, che per la nostra fede è per definizione possesso di
Dio, è impossibile senza l’amore per questa vita: senza quest’amore, non sarebbe una speranza
cristiana” (op. cit., p. 424). Ciò
risulta esplicitamente dalla dottrina tridentina sulla giustificazione (Sess.
VI, cap. 6, D 798 e c. 14).
Il fatto è, conclude Bartmann,
che l’autentico timor simpliciter servilis è in realtà espressione del
vero timor filialis con il quale amiamo Dio nostro Padre che è nei
Cieli. Questo lo si vede chiaramente
nella Parabola del Figliuol Prodigo. Qui
il Signore ci ha voluto dare l’ esempio “tipico” del penitente.
“Senza dubbio, la fame è il castigo
che lo fa di colpo rinsavire. Ma,
sia da solo (Lc 15, 19) che in presenza
del padre (Lc 15, 21) non si duole per la punizione – accetta volentieri di esser
retrocesso a salariato di suo padre – ma del fatto di aver peccato contro il
Cielo (Dio) e contro suo padre e di essersi pertanto reso indegno di esser
chiamato figlio. Lamenta il suo errore
perché l’ha separato dal padre” (Bartmann, p. 424).
Possiamo dire che la figura del
penitente esemplare sia testimoniata piú volte nei Vangeli. Nel caso della Peccatrice notoria abbiamo
una contrizione giunta alla perfezione:
il dolore per i propri gravi peccati (maturato, possiamo immaginare,
quale disperata risposta interiore a molteplici situazioni umilianti e
vergognose, imputabili soprattutto a lei stessa), si manifesta apertamente alla
fine come dolore non solo per aver vissuto una vita immorale, in violazione dei
comandamenti divini, ma anche come sofferenza acuta per esser venuta meno
nell’amor di Dio, la caritas unica fonte della nostra salvezza, cui la
sventurata donna rende omaggio di fronte a tutti, umiliandosi di fronte alla
divinità di Gesù.
Nella figura del Figliuol Prodigo,
creata come tipo dal Signore stesso nella celebre parabola, abbiamo
una contrizione imperfetta, in quanto causata da motivi contingenti quali la
miseria, le umiliazioni e il conseguente abbattimento morale, nella quale
comincia ad apparire tuttavia la
contrizione perfetta, nel rendersi conto di aver peccato, per ingratitudine e
superbia, contro il proprio padre e contro Dio nostro Sommo Bene. In questa presa di coscienza del peccatore
emerge la connessione fra il giusto timor di Dio e l’amor di
Dio: timore per i suoi giusti castighi,
che vengono accettati; amore per la bontà che manifesta nei nostri confronti,
amandoci in quanto sue creature e concedendoci il perdono quando ci pentiamo
dei nostri peccati.
Nell’ episodio della conversione di Zaccheo,
si vede come questo pubblicano, disprezzato da tutti come peccatore perché col
suo mestiere si “contaminava” con i Romani pagani, di fronte alla bontà con la
quale Gesù inaspettatamente lo tratta, si penta immediatamente della sua vita
di arcigno esattore di balzelli, impegnandosi a dare ai poveri la metà dei suoi
beni e a restituire il quadruplo di ciò che avesse eventualmente maltolto (Lc
19, 1-10). Ciò che lo spinge al
pentimento e a cambiar vita non è la paura del castigo ma la bontà del Signore,
l’ amor di Dio che improvvisamente si manifesta verso la creatura, la quale,
illuminata dalla grazia, risponde slanciandosi a sua volta con generosità in
questo Amore di origine sovrannaturale, rispondendo con la carità alla carità
che in modo sovrannaturale l’ha investita e come travolta, ampliando a
dismisura l’ impulso che l’aveva spinta a salire su un albero per riuscire a
veder passare Gesù tra la folla.
L’ Adultera colta sul fatto
(Gv 8, 1-11), che Gesù sottrae all’esecuzione con lo smascherare l’ipocrisia di
chi vi si apprestava (“Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”),
manifesta il suo pentimento con il suo stesso atteggiamento di umile
gratitudine al Signore che l’aveva salvata da una morte crudele ed
ignominiosa. Ma il significato profondo
dell’episodio sembra essere quello di voler rivelare, ancora una volta, la
grande misericordia di Dio nei confronti dei peccatori, che possono essere
assolti dai peccati piú gravi, a patto che il loro pentimento (ancora
imperfetto o in nuce) si traduca in un radicale mutamento di vita, nel modo
desiderato da Dio (“Va’, e non piú peccare!”).
E infine, nella conversione del Buon
Ladrone sulla croce, accanto a Cristo (Lc 23, 39-43), non c’è da restar
ancora una volta stupiti dalla generosità senza fine della divina misericordia?
Uno dei due criminali messigli accanto
forse per sfregio, lo insulta; l’ altro invece, riesce a dire, rimproverando il
primo: “Non temi Iddio, tu che soffri la
stessa condanna? Per noi, è giustizia,
perché riceviamo degna pena dei nostri delitti, ma lui non ha fatto niente di
male”. Poi soggiunse: “Gesù, ricordati di me, quando ritornerai nel
tuo regno!”. E Gesù gli rispose: “In
verità ti dico: oggi sarai in Paradiso con me”.
Nel cuore di quell’uomo non si
era evidentemente spento il senso della giustizia, risvegliato dalle offese
profferte dal suo ex-compare. Di fronte
all’ evidente innocenza di Gesù, riconosce la propria colpa e la giustizia
della condanna inflittagli. Che Gesù
fosse esposto alla folla come Re illegittimo, risultava dal cartiglio trilingue
infisso in alto sulla sua croce, ma risultava anche dai dileggi che egli aveva
subìto durante l’ ascesa al Calvario: i due criminali dovevano averli sentiti,
visto che erano stati condotti al supplizio assieme a lui (Lc 23, 32: “Ducebantur
enim et alii duo nequam cum eo, ut interficerentur”- Conducevano infatti
con lui due altri criminali, per giustiziarli).
E subito dopo, riconoscendo in tal modo la natura divina di Cristo, gli
chiese umilmente di “ricordarsi di lui” una volta “tornato nel suo Regno”, che
non era evidentemente di questo mondo.
Abbiamo qui: la confessione delle
proprie colpe, implicita ma evidente nel riconoscimento della giustizia della
condanna ricevuta. E subito dopo, la
richiesta di esser perdonato dal Figlio di Dio, che appena morto sulla croce sarebbe tornato
nel suo Regno celeste: “ricordati di me”, vile uomo peccatore, che sconta
giustamente ora le sue gravi colpe, morendo nell’ infamia. L’ assoluzione immediata con addirittura il
premio del Paradiso, può forse sembrare eccessiva? Sicuramente no. Non sta certamente a noi sindacare la
vastità e la profondità della divina Misericordia, in quale misura essa voglia
assolvere un peccatore sinceramente pentito delle sue gravi colpe, che in punto
di morte si rimetta all’Amor di Dio per esser da Lui “ricordato” nella vita
eterna. Nell’assolvere dalla Croce il Buon
Ladrone, il Signore si comportò esattamente come il “il Padrone della
Vigna” della sua parabola sugli “operai della Vigna”, il quale per bontà volle
dare agli operai dell’ undicesima ora la stessa ricompensa di quelli che
avevano lavorato tutto il giorno (Mt 20, 1-16; spec.: 15-16).
La “tristezza che viene da Dio” ci
porta al pentimento per Amor di Dio
La recita dell’Atto di Dolore perfetto
è un grande strumento di salvezza messo a nostra disposizione dalla divina
Misericordia. Strumento ordinario,
dal momento che possiamo ed anzi dovremmo utilizzarlo ogni giorno, nella
recita delle nostre devozioni private, al mattino e alla sera, se lo recitiamo con
il giusto spirito. Per la mentalità
del nostro tempo, tuttavia, non potrebbe esso sembrare qualcosa di astratto
o addirittura di mistico, poco alla portata del comune fedele? Viviamo immersi in un mondo completamente
secolarizzato, sempre piú ostile alla vera religione, votato ad un carpe
diem vorticoso, al quale idee che sono nello stesso tempo ideali, come quello
della perfezione, poco o nulla dicono.
Il nostro è anzi il mondo dell’ imperfezione sistematica, perché
in balía del movimento continuo e disordinatissimo delle passioni, degli
istinti, dei desideri - un formicolio febbrile, chiuso in un universo senza
luce. Sappiamo bene che questa mentalità
ha infestato anche la Chiesa visibile e molti cattolici hanno perso memoria
delle devozioni quotidiane, a cominciare dall’Atto di Dolore. Come potranno, ora, atterriti dalla paura
della morte che dilaga nelle nostre città e lasciati soli, senza poter
ricorrere alla confessione sacramentale, elevarsi di colpo, senza preparazione,
alla dimensione spirituale richiesta da un Atto di Dolore che si definisce perfetto?
L’ attuale Gerarchia cattolica ci ha
abituato a tanti compromessi con la mentalità, gli pseudo-valori, i costumi
profani, anche i peggiori, ed ora ci viene a dire che per salvarsi in tempo di
pestilenza, rimasti s o l i , dobbiamo
saper recitar bene l’ Atto di Dolore perfetto? Ma non si è sempre detto
che “la perfezione non è di questo mondo”?
Perché allora all’improvviso i preti ci caricano di questo peso, dopo
averci lasciato credere che alla morte andremo in pratica tutti “alla Casa del
Padre”, buttandoci tra i piedi quest’idea del pentimento per Amor di Dio indispensabile alla nostra
salvezza, come se fosse un’idea semplice da capire e mettere in pratica per
noi: per NOI, generazione allevata
(complici gli stessi preti) nel culto della Dignità dell’ Uomo e dei diritti
umani, su di essa costruiti?
Ma non dobbiamo scoraggiarci. Considerando attentamente l’ insegnamento tradizionale
della Chiesa vi troveremo la guida sicura per utilizzare gli strumenti
della salvezza offerti dalla Chiesa stessa, e proprio muovendo dall’ esperienza
nostra quotidiana di uomini peccatori.
Ovviamente, purché da parte nostra ci sia il desiderio sincero di andare
incontro al Signore che ci parla, di non chiudersi alla sua Grazia, di
pentirsi, di ottenere l’assoluzione per i nostri peccati, di non piú peccare,
di voler entrare nella vita eterna.
* *
Come ridorda Ott, “la paura
del castigo è senza dubbio il motivo più frequente della contrizione
imperfetta, anche se non l’unico” (Ott, p. 590). E che tale contrizione imperfetta sia
anch’essa raccomandata da Nostro Signore risulta dalla sua severa esortazione
alla penitenza in generale, ossia a pentirsi e a cambiar vita, anche
solo per paura della morte, se non si vuole appunto subire il castigo della
dannazione, perire cioè di fronte a Dio così come perirono certi Galilei
(ribelli) sterminati all’ improvviso da Pilato o i diciotto poveretti
schiacciati all’ improvviso da una torre che era rovinata loro addosso (Lc 13,
1-5). Bisogna dunque esser preparati
alla morte improvvisa, anche crudele; e si può esserlo solo
preparandosi p r i m a , appunto con gli strumenti della preghiera, della
contrizione, del mutamento di vita, sorretti dalla ragione e dalla volontà; in
una parola, dal nostro libero arbitrio.
Con il nostro libero arbitrio facciamo l’ esame di coscienza, che
dovrebbe essere giornaliero, poiché non sappiamo “né il giorno né l’ ora della
nostra morte” e ogni giorno potrebbe essere l’ ultimo della nostra vita.
Ora, accanto alla p a u r a della morte (e quindi del giudizio e del
castigo eterno), tra i motivi autentici della nostra contrizione, quelli sui
quali ci possiamo esercitare con il nostro libero arbitrio, un posto di rilievo
occupa certamente la percezione della “bruttezza del peccato”. Questo è un passaggio essenziale. Ci rendiamo conto, ad un certo punto, dapprima
oscuramente poi in modo sempre piú nitido, di quanto fosse orribile ciò che
sventatamente ci ha attratto al punto da farci cadere in tentazione. E non mi riferiscro solo alle tentazioni
carnali bensí a tutti quegli impulsi che ci hanno consegnato all’ira, all’odio,
alla menzogna, all’avidità, all’ egoismo, sia nell’azione che nei desideri…La
percezione della vera natura del peccato da noi commesso ci provoca un salutare
senso di umiliazione interiore (“come ho potuto far questo, o solo pensarlo?”),
abbassando il nostro orgoglio, nutrendo il nostro giusto rimorso. Ci sentiamo in colpa verso coloro che abbiamo
offeso o desiderato di offendere ma ci sentiamo anche pieni di disprezzo per
noi stessi, per la nostra debolezza, la mancanza di forza di volontà, il
cedimento completo agli istinti. E ci
rendiamo conto che anche i peccati di desiderio (IX e X Comandamento), spesso
mortali (pensiamo solo all’ orrida concupiscentia oculorum suscitata da
erotismo e pornografia dilaganti su internet), pur non offendendo nessuno al di
fuori di noi stessi, offendono grandemente Iddio, che non può accogliere nel
suo Regno un cuore impuro, perché sempre dominato dai desideri piú torbidi.
L’interiore pentimento, che ci
devasta l’anima, si rivolge inizialmente a fatti e significati solo umani e
tuttavia non può avere un’origine solamente umana: in esso è già all’opera lo Spirito Santo,
come giustamente ci insegna il Tridentino.
Il rimorso e la riprovazione per il male compiuto, il disprezzo di se
stessi, ci provocano una tristezza profonda, un dolore che non ha
come tale a che vedere con la paura della dannazione. È quella “tristezza salutare” della quale
parla San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinti: “salutare” perché induce al pentimento, primo
passo verso la salvezza, e induce al pentimento perché viene da Dio.
“Pur avendovi rattristati con la mia
Lettera, non me ne pento: e anche se già
me ne doleva, poiché vedo che quella vi ha rattristati per breve tempo, ora ne
godo, non per il fatto che siete stati rattristati, ma perché quella vostra
tristezza vi ha condotto al pentimento.
Vi siete infatti rattristati secondo Dio, sì da non ricevere alcun danno
da parte nostra. Or, la tristezza che è
secondo Dio [secundum Deum tristitia], produce un pentimento salutare,
che non si rimpiange, perché conduce a salvezza; mentre la tristezza del mondo
procura la morte”(2 Cr 7, 8-10).
Saeculi autem tristitia mortem
operatur : parola di
San Paolo cioè del Signore, che lo ispirava. Ma perché la precedente Lettera dell’
Apostolo aveva contristato i fedeli di Corinto? Gravi erano stati i loro scandali: avevano tollerato tra loro la presenza di un
uomo che conviveva con la propria matrigna, cosa illecita anche per i pagani;
tolleravano i cattivi cristiani senza riprenderli; erano solcati da liti
reciproche, anche con risvolti giudiziari; si lasciavano andare alla
fornicazione (1 Cr 5-6). Oltre ai severi rimproveri, S. Paolo comminava
sanzioni, ordinando di cacciare l’ incestuoso, con l’obiettivo di farlo
ravvedere, e i falsi fratelli. Ma il
dolore e la tristezza causati dalle rampogne e dalle censure di San Paolo
avevano prodotto buoni frutti di pentimento in convertiti abitanti in un città
all’epoca famosa per i suoi costumi lascivi: essi erano ora afflitti dal dolore per aver
offeso Dio con i loro peccati, stato d’animo che veniva stimolato di nascosto
da Dio stesso per ricondurli a Lui. La
“tristezza del mondo” è invece quella
che “procura la morte” ossia la dannazione dell’anima, essendo quella torva dei
nostri desideri che mai ci soddisfano e ci rendono sempre piú infelici,
spingendoci sulle vie dell’avidità, della lussuria, della superbia, insomma nel
mare magnum delle passioni di questo mondo, regno del “Principe di questo
mondo”.
La “contrizione perfetta” secondo San
Francesco di Sales
La tristezza, il dolore “secondo Dio”
segna dunque quel faticoso cammino interiore che, dalla percezione degli
elementi intrinseci al peccato in tutta la sua bruttezza, ci conduce
progressivamente a coglierne il significato sovrannaturale, costituito
dall’ offesa a Dio, che noi sentiamo ora amaramente, avendo compreso, con l’
aiuto della Grazia ossia dello Spirito Santo, che è l’ amor di Dio per noi
quell’unico e vero bene, il Bene Sommo, che abbiamo rifiutato e calpestato. È questa “tristezza che vien da Dio” a
condurci al pentimento per amor di Dio. Questo itinerario spirituale muove da ciò che
è inizialmente oscuro a ciò che ci appare via via piú chiaro. Egregiamente lo descrive, con sottili e
profonde analisi, San Francesco di Sales, vescovo e dottore della
Chiesa, nel suo famoso Traité de l’Amour de Dieu, del 1616, nei cap.
XIV-XX del Libro II (Saint François de Sales, Oeuvres, a cura
di André Ravier e Roger Devos, gallimard, nfr, 1969, 1992, pp. 319-972 –
Pubblicato in italiano il Trattato dalle Ediz. Paoline, 1983 e 2001 –
Traduzioni mie dal testo francese).
Dio entra gradualmente nella nostra
anima, “non point par manière de discours, mais par manière d’inspiration” (op.
cit., p. 450). Le verità della fede sono
inizialmente ascose in “oscurità e tenebre”, sí che noi le “intravediamo”
solamente, in un certo senso “le vediamo senza vederle”; tuttavia, con la sola
“soavità della loro presenza, si fanno credere ed obbedire dal nostro
intelletto”. Questo ispirato
“intravedere” è il primo germoglio della nostra fede e del nostro “amore per le
cose divine” (op. cit., p. 453). Esso
nasce dalla nostra “inclinazione naturale al sommo bene, a causa della quale il
nostro cuore si sente come interamente gravato e continuamente inquieto, senza
potersi mai appagare”(pp. 453-454).
L’amore per le cose divine,
oscuramente agitantesi in noi, prende ad un certo punto la forma della speranza
(amour-espérance). Ciò accade
quando la nostra volontà all’improvviso “prova un estremo compiacimento nel
sovrano bene divino suo oggetto, il quale, a causa della sua assenza, fa
nascere un desiderio ardente della sua presenza” (p. 456). Qui è la radice della virtú della s p e r a n z a. La volontà, “grazie alla fede certa di poter
godere del sovrano bene servendosi dei mezzi a ciò destinati, compie due grandi
atti virtuosi: da un lato, si aspetta da
Dio di beneficiare della sua sovrana bontà; dall’altro, aspira essa stessa a questo
santo beneficio” (p. 457). L’
aspirazione ad ottenere ciò in cui speriamo, la vita eterna, caratterizza il
nostro amore per Dio come “amour d’espérance”.
Quest’amore “est fort bon quoique imperfect” perché non ama Dio per se stesso ma in quanto
“Egli è supremamente buono nei nostri confronti”. È quindi un amore interessato anche se
vero e sincero, “amour d’ une sainte et
bien ordonnée convoitise” poiché con esso miriamo pur sempre ad “unirci a Lui
come alla nostra ultima felicità” (p. 460).
Perché ancora imperfetto? Riflettiamo.
Dio vuole da noi la perfezione morale (Gen 17, 1; Mt 5, 48; Rm 12, 1-2;
1 Cr 6, 15-20). Ciò significa che la
nostra vita deve essere una battaglia continua contro noi stessi per vincere le
forze del male con il suo imprescindibile aiuto: ma i frutti della vittoria (per
chi li coglierà) si godranno nell’altra vita, non in questa. Che noi si debba lottare per il nostro
perfezionamento spirituale e morale non risulta proprio dall’inquietudine che
sempre ci assale, come se ci mancasse sempre qualcosa per esser spiritualmente
appagati? E questo non dimostra che il
vero bene cui aspiriamo non può essere di questo mondo? Il nostro desiderio di felicità si indirizza
verso il suo fine sovrannaturale non tanto ad opera della nostra ragione o
della nostra volontà, che pur cooperano al processo, quanto ad opera dell’ Amor
di Dio per la creatura che noi siamo; è quest’amore che “converte il desiderio
in speranza”, speranza di un bene trascendente, imperituro, al di là della
caducità di questo mondo, suscitando in noi stessi l’Amor di Dio, il cui fine
ultimo è l’unione con Dio in eterno, nella Visione Beatifica della Santissima
Monotriade.
Ora, come avviene il superamento
dell’imperfezione nella quale si trova l’inizio del nostro Amor di
Dio? Mediante la penitenza e
quindi mediante la contrizione.
Per la nostra mentalità di Moderni questa connessione dell’Amor di Dio
con la penitenza e la contrizione è forse un concetto difficile. Ma cosa ci insegna la Scrittura?
“Voi non avete ancora resistito fino
al sangue nella lotta contro il peccato e vi siete dimenticati dell’esortazione
diretta a voi, come a dei figli: Figlio
mio, non disprezzare la disciplina del Signore e non ti scoraggiare quand’Egli
ti riprende; perché il Signore corregge colui che Egli ama, percuote di verga
chiunque riceve per figlio. Sopportate di essere corretti: Dio vi tratta come
figli. Qual è mai il padre che non
corregga il figlio?” (Ebr 12, 4-7).
Con questo spirito dobbiamo dunque
rivolgerci a Dio, nel chiedere perdono per i nostri peccati: sapendo che la correzione
è frutto dell’ Amor di Dio verso di noi e non della sua ira, a meno che noi non
si perseveri nel peccato, sfidando Iddio. Ragion per cui, l’accettazione nostra
della correzione che viene da Dio deve a sua volta scaturire dal nostro Amore
per Dio che ci ama come un padre e per questo ci corregge. Il Verbo Incarnato ha ribadito il Comandamento
di Deuteronomio, 6, 5 : “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutte la tua mente
e il tuo prossimo come te stesso” (Lc 10, 27).
Noi, allora, dovremmo far tutto per amor di Dio: amare il prossimo come
noi stessi per Amor di Dio, pentirci per Amor di Dio poiché Dio è il nostro
unico vero e sommo Bene e Lui abbiamo in primo luogo offeso con i nostri
peccati.
Ma come vengono ad integrarsi, se
cosí posso dire, due realtà cosí diverse come la penitenza e l’ Amor di Dio? Riprendiamo San Francesco di Sales.
“La penitenza, in generale, è un pentimento
con il quale si rigetta e detesta il peccato commesso, con l’ intenzione di
riparare, per quanto possibile, l’ offesa e l’ ingiuria fatte a colui contro il
quale si è peccato. Includo nella
penitenza il proponimento di riparare l’ offesa poiché il pentimento non
detesta in modo sufficiente il male se ne lascia volontariamente sussistere
l’effetto principale, costituito dall’ offesa e dall’ingiuria: e lo lascia sussitere allorché, potendo porvi
riparo in qualche modo, non lo fa”. (p. 462).
Rispetto alla definizione del
Concilio di Trento, possiamo dire che il proponimento di non piú peccare sia qui
assorbito in quello di riparare l’ offesa fatta con il peccato. Questa definizione non è ancora quella
specificamente cristiana della penitenza, potendo applicarsi anche ad una sua
nozione “puramente morale ed umana”, quale ritroviamo, ad esempio, nel pensiero
classico e in particolare presso gli Stoici: riconducibile alla “raison
naturelle” e alla religiosità “naturale” o “morale” diffusa tra gli uomini (p.
464). Tra i classici richiamati sinteticamente
dal nostro Autore, spicca però Aristotele,
il quale, nel libro VII, cap. VII dell’ Etica Nicomachea, 1150 a,
scrive, a proposito dell’intemperante, cioè di colui che si dà senza
misura ai piaceri “per se stessi e non
in vista di qualcos’altro”, che “costui non è capace di pentimento, cosicché è
incorreggibile, poiché chi è incapace di pentimento è incorreggibile [aníatos]”.(Arist.,
Etica Nicomachea, testo greco a fronte, intr., traduz., note e apparati
di Claudio Mazzarelli, Rusconi Libri, Milano, 1993, p. 277).
L’ importanza del pentimento, come
fatto morale, era evidente ad alcuni grandi rappresentanti del pensiero antico,
quale momento non eliminabile dall’ideale di vita improntato all’etica della virtú. Ma la penitenza in quanto “virtú del tutto
cristiana” va ben oltre questa dimensione:
essa acquista un connotato sovrannaturale, venendo a collocarsi
in un processo spirituale che viene ispirato da Dio e il cui compimento è
costituito dal pentirsi per Amor di Dio (Traité de l’Amour de Dieu, pp. 464 e ss.).
Dopo aver ricordato che siamo tutti
sempre peccatori, tant’è vero che “l’esortazione delle esortazioni di Nostro
Signore è –Fate penitenza!,” cosí il Nostro autore descrive “il progresso
di questa virtù”. (op. cit., p. 465).
Esso si inizia con il timor
servilis (vedi supra), la paura del castigo divino. Noi abbiamo tutti una certa “comprensione”,
per quanto sta a noi e quindi anche solo intuitivamente, del fatto che i nostri
peccati offendono non solo gli uomini ma anche Dio. Essi, infatti, dimostrano
in chi li commette “disprezzo e disobbedienza” nei confronti di Dio, pur sapendo
che Egli “rifiuta e ha in abominio l’iniquità” (op. cit, ivi). Questa “comprensione” si arricchisce “a
volte” di ulteriori approndimenti, per quanto intuitivi, per ciò che riguarda
la divina Maestà.
Ci rendiamo infatti conto che
possiamo esser privati del Paradiso e mandati all’Inferno, per sempre. Ci investe pertanto un doppio, grave
timore: quello del castigo eterno e
quello della perdita del bene rappresentato dal Paradiso, sicuramente un bene
sommo, non paragonabile ad alcun bene terreno.
Questa “double crainte” ci spinge “con gran forza” al penitmento, ed è
un timore positivo, tant’è vero che “la Parola Sacra ce l’ordina cento e piú volte”
(p. 465). Ci rendiamo poi conto, usando
il nostro intelletto, della “bruttezza e malizia del peccato, come del resto ce
le insegna la fede”. Esse sono tali da
sfigurare la nostra somiglianza con Dio, da disonorare la nostra dignità
rendendoci simili “aux bêtes insensées”, da farci violare i nostri doveri verso il
Creatore e farci perdere il bene della società con gli Angeli, essendoci noi
col peccato per l’appunto associati al diavolo e sottomessi a lui. Tutte queste caratteristiche e conseguenze
del peccato ci spingono dunque a penitenza, unitamente, per contrappasso, agli
esempi di virtù provenienti dai Santi (op. cit., pp. 465-466).
I “motivi di penitenza” sono dunque
molteplici. Si fondano sulla fede già
all’ opera in noi e sono anzi apertamente “insegnati dalla fede e religione
cristiana”, nonché sull’ uso corretto del nostro libero arbitrio. Tuttavia questa penitenza, già articolata in
tanti motivi, “è ancora imperfetta”. Imperfetta,
“nella misura in cui l’ Amore divino non vi rientra affatto” (p. 466). Vi predomina ancora “l’amore per noi stessi”
anche se “legittimo, giusto, ben regolato”.
L’ amor di Dio “non è rifiutato ma non è incluso”. In questa fase, i penitenti non sono contro
l’ Amor di Dio bensì “ancora senza di esso” (op. cit., ivi). Il perfezionamento interiore apportato dalla
nostra contrizione è solo all’inizio, esso non può arrestarsi a questo stadio: Ciò costituirebbe un atteggiamento irrazionale
e potrebbe portarci anche al peccato.
“Il timore e gli altri motivi di pentimento, anteriormente ricordati,
vanno bene per l’ inizio della saggezza cristiana, che consiste nella
penitenza. Ma chi vorrebbe scientemente
non giungere mai all’ Amore, che realizza la perfezione della penitenza,
offende grandemente Iddio, il quale ha destinato tutto al suo Amore, quale fine
di tutte le cose. Conclusione: il pentimento
che esclude l’ Amor di Dio è infernale, assomiglia a quello dei dannati.” (op.
cit., p. 467).
In effetti, i dannati si pentono
amaramente dei loro peccati, ma troppo tardi, quando sono ben dentro l’
Inferno: li maledicono così come maledicono Iddio che li ha condannati. Il loro pentimento è fondato sull’odio per
Dio e per se stessi, l’unico sentimento che possono ormai provare. Invece il pentimento che non rigetta l’Amor
di Dio pur senza ancora accoglierlo, è “buono e desiderabile”. Però ancora imperfetto: “non può condurci
alla salvezza fintantoché non abbia raggiunto l’ Amore e non si sia mescolato
ad esso”. L’ essenza di quest’Amore è
poi la c a r i t à , come risulta dalle
celebri parole di san Paolo, quando
scrisse che “se anche distribuissi tutti i miei beni ai poveri e dessi il mio
corpo ad esser bruciato, se non ho la carità, tutto questo non mi giova a
nulla” (1 Cr 13, 3). Analogicamente, potremmo dire: “se la nostra penitenza fosse cosí grande da
farci sciogliere in lacrime e spaccarci il cuore dal rimorso, se non abbiamo il
santo amore di Dio, tutto ciò non ci sarebbe di alcuna utilità per la vita
eterna.” (op. cit., pp. 467-468).
Ma come può effettivamente
realizzarsi questa “mescolanza [mélange] di amore e dolore nella
contrizione”? Dalle “tribolazioni e dai
rimorsi di un vivo pentimento”, come può scaturire l’ Amore di Dio? Può, perché
Dio “nel profondo del nostro cuore mette spesso il sacro fuoco del suo amore”
(p. 468). Convivono dunque in noi due
elementi intrinsecamente diversi e tuttavia passibili di integrazione, anche se
uno di essi è di origine sovrannaturrale.
“La penitenza altro non è che un vero dispiacersi, un dolore e un
pentimento reali; ma essa è tuttavia piena d’ardore poiché [già] contiene la
virtù e la proprietà dell’ amore, come se provenisse da un movente amoroso, e
grazie a questa proprietà essa si apre alla grazia” (p. 469).
Pertanto, la “penitenza
perfetta” provoca d u e differenti,
fondamentali effetti: “con il dolore e
la ripulsa ci separa dal peccato e dalla creatura alla quale la passione [délectation]
ci aveva avvinto; ma grazie all’impulso [motif] dell’amore, dal quale si
origina, ci riconcilia e riunisce al nostro Dio, dal quale ci eravamo separati
con il disprezzo [della sua volontà].
Per cui, quanto piú, in quanto pentimento, ci allontana dal peccato,
tanto piú, in quanto amore, ci riunisce a Dio“ (op. cit., ivi). Questo doppio e intrecciato movimento della
nostra anima appare armonioso e del tutto conforme alla nostra natura. Nella pratica, tuttavia, non si saprebbe dire
quale dei due movimenti sia effettivamente la causa prima dell’intero
processo. Dove, l’inizio? Né sembra facile distinguerli. San Francesco di Sales, dotato di
un’eccellente cultura filosofica, giuridica, teologica, non si esprimeva mai da
erudito o teologo stricto sensu ma da direttore spirituale e pastore
d’anime egregio, quale effettivamente era, istruito da una lunga esperienza
sacerdotale. Ma l’indeterminatezza (per
noi) dell’inizio del processo di
santificazione del penitente e la difficoltà di scinderne gli elementi
costitutivi, non incidono affatto sulla validità e l’efficacia del processo
stesso.
Continua infatti il Nostro: “Tuttavia non voglio dire che l’amore
perfetto di Dio, con il quale lo si ama al di sopra di ogni cosa, preceda
sempre questo nostro pentimento, né che il pentimento preceda sempre quest’amore. Per quanto questo succeda sovente, altre
volte, non appena l’amore divino nasce nei nostri cuori, la penitenza nasce
dentro l’amore stesso. Ma accade di
frequente che il sopravvenire della penitenza nel nostro animo, vi porti dentro
l’amore.” La penitenza e l’amor di Dio
ora si succedono ora sembrano nascere contemporaneamente o quasi, dentro di
noi. Per spiegarsi al meglio, l’Autore
ricorre ad una similitudine, prendendo spunto dalla nascita dei due gemelli
biblici, Esaù e Giacobbe.
“E come allorché Esaù uscì dal ventre
di sua madre Giacobbe suo gemello gli teneva il piede [Gen 25, 25-26] in modo
che le loro nascite non solo si susseguissero ma anche si intrecciassero e si
legassero strettamente l’ una all’ altra, allo stesso modo il pentimento, rude
ed aspro per il dolore che comporta, nasce per primo, al modo di Esaù, mentre
l’amore, dolce e grazioso come Giacobbe, lo tiene per il calcagno e vi si
attacca talmente che entrambi hanno un’unica nascita, risultando il termine
della nascita del pentimento nell’inizio di quella del perfetto amore. Ora, come Esaù nacque per primo così il
pentimento compare normalmente prima dell’ amor di Dio; ma l’amore, come un
altro Giacobbe, nonostante sia il minore, si assoggetta poi il pentimento,
convertendolo in consolazione” (pp. 469-470).
La commistione o mescolanza di
pentimento e amor di Dio non deve stupire, bisogna invece saperla intendere e
dirigere secondo il suo verso, quello voluto da Dio.
“Non bisogna stupirsi del fatto che
la forza dell’ amor di Dio nasca all’interno del pentimento prima che l’amore
vi si sia formato: pur vediamo che, in
séguito ai riflessi dei raggi solari concentrati sul vetro di uno specchio, il
calore, che è la virtù e qualità propria del fuoco, cresce poco a poco così fortemente
da cominciare a bruciare prima di aver effettivamente prodotto il fuoco, o, per
lo meno, prima che noi lo possiamo scorgere.”
Fuor di metafora: “lo Spirito
Santo fa irrompere nella nostra mente la considerazione dei nostri peccati come
peccati che hanno offeso una così eminente bontà; la nostra volontà riceve il
riflesso di questa conoscenza; pertanto, il pentimento cresce a poco a poco,
diventando così forte, con un sicuro ardore d’affetti e desiderio di ritornare
in grazia di Dio, che alla fine tutto questo movimento spirituale giunge al
punto di ardere e unire [spiritualmente noi a Dio], ancor prima che l’amor di
Dio sia del tutto formato [in noi]”.(p. 472)
Come Giacobbe si teneva alla nascita
attaccato al calcagno del gemello Esaù, così “l’inizio dell’ amor perfetto non
solamente consegue alla penitenza ma vi si attacca, vi si lega: in una parola, quest’inizio dell’amor di Dio
si mescola con il fine della penitenza e in questo momento della commistione [en
ce moment du mélange], la penitenza e la contrizione meritano la vita
eterna” (p. 472). Il che significa, dal
punto di vista concreto degli atti penitenziali, che “l’orazione
penitenziale o il pentimento supplichevole, elevando l’anima a Dio e riunendola
alla sua bontà, ottengono senza dubbio il perdono in virtù del santo amore ricevuto
dal movimento sacro” (op. cit., ivi).
In tutto questo processo o “movimento
sacro” il penitente è ovviamente impegnato al massimo con la sua volontà e
ragione, oltre che con il sentimento, a co-operare con l’azione divina, anche
se solo progressivamente ne prende coscienza.
Egli agisce sempre in piena libertà, come ribadisce il Tridentino (sess.
VI, can. 4) esplicitamente richiamato dal Salesio (p. 474). Tant’è vero che molti, purtroppo, anche tra i
cattolici, si rifiutano alla grazia (Filip 3, 18-19) e non ammettono di dover
confessare i propri peccati, che persino giungono a negare in quanto tali. L’ idea stessa della contrizione e della
confessione dei peccati la respingono, ritenendola un limite insopportabile
alla propria libertà e alla dignità che, in quanto uomini e donne, credono di
possedere. Ma non si rendono conto che
nessuno ci obbliga a pentirci. Restiamo
sempre liberi: si tratta solo di saper
indirizzare la nostra libertà nel modo giusto, ossia di non resistere
all’impulso della grazia che si manifesta già, per quanto nascosto, nell’
apparire della nostra contrizione. Quell’impulso
ci mette contro la parte peggiore di noi stessi e, maturando, ci fa muovere con
passo sempre piú veloce verso Dio, come appunto il Figliol Prodigo verso il padre,
il quale, vistolo da lontano, già gli correva incontro per abbracciarlo.
9 aprile 2020