Paolo Pasqualucci
La
falsa dignità.
Riflessioni
su un volume che demolisce
l’equivoca ideologia della “dignità dell’uomo”.
S o m m a r i o : 1. Introduzione: i cinque temi oggetto del
presente saggio. 2. La dignità della persona: qualità da intendersi sempre in rapporto alla nostra
natura razionale. 2.1 La dignità
dell’uomo fondata sulla libera scelta razionale per “aspirare alle cose
celesti”: Pico della Mirandola e
Giannozzo Manetti. 3. La dignità umana
secondo la teologia cattolica ortodossa. 4. La “mutazione” della nozione
cattolica di “dignità dell’uomo” provocata dal cattolicesimo liberale e
dall’americanismo --- Maritain e Murray SI:
4.1 La percezione della decadenza
della Nazione, nella Francia del Primo Dopoguerra. 4.2 La sagra degli umanesimi
fabbricati a tavolino, da quello “integrale” di Maritain a quello “marxista”,
costruito sui manoscritti giovanili di Marx, scoperti negli anni Trenta. 4.3
L’indebita esaltazione della “antropologia” marxiana. 4.4 Il
mito dell’ideologia marxista capace di costituire il rimedio per “l’alienazione” dello homo oeconomicus della società
capitalista. 5. John C. Murray SI
innesta sull’ errore “americanista” l’umanesimo integrale ovvero la democrazia “personalista”
di tipo americano. 6. Il “clericalismo” emerso dal Concilio
Vaticano II ha propugnato l’idea non cattolica di uno Stato neutrale rispetto
ai valori fondamentali, in nome della “dignità dell’uomo”: 6.1 Lo
Stato fascista più cattolico della laica Repubblica democratica, largamente
condivisa dalle forze cattoliche: l’educazione di massa della gioventù dal
“culto della Patria” al “culto della Persona” al tracollo del Sessantotto; 6.2
L’ambiguo compromesso del Concilio con il principio laico della coscienza
unica fonte della moralità: 6.2.1 La contraddizione dell’art. 16 di ‘Gaudium et
spes’, che fa affiorare un concetto evolutivo della verità, la cui ricerca è
condizionata dal rispetto della “dignità umana” intesa come valore assoluto. 6.2.2
Applicazioni nei testi stessi del Concilio del concetto della verità
come ricerca della verità. 7. Come
l’idea della “dignità dell’uomo”, diventata il valore supremo nei sistemi
giuridici occidentale, sia stata applicata in modo anomalo e si sia rivelata
inane nella difesa dei princìpi etici fondamentali, venendo anzi usata per
distruggerli. 8. Conclusione: la dignità non appartiene all’essenza,
all’essere dell’uomo ma al suo m o d
o di essere --- è una qualità del nostro
comportamento, che ci merita rispetto quando è
d e g n o della nostra natura
razionale, rimproveri e disprezzo
quando i n d e g n o .
1. Introduzione:
i cinque temi oggetto del presente saggio.
Che la “dignità dell’uomo” sia ridotta oggi ad
uno pseudo-concetto buono a tutti gli usi, si ricava senza ombra di
dubbio dalle precise e sottili analisi contenute in questo recentissimo, denso
volume collettaneo apparso recentemente in francese:
La dignità dell’ uomo. Fatti e
misfatti di un concetto bistrattato. Il volume contiene sette saggi, preceduti da
una Presentazione e seguiti da una Conclusione generale, entrambe
ad opera dei tre curatori.
Nella Presentazione, dopo aver
ricordato che “la dignità dell’ uomo o della persona umana” è diventata
concetto che gode, dalla fine della II g.m., di un consenso addirittura “debordante”,
essi rilevano in primo luogo che tale concetto si è originato sia “dalla
filosofia d’ ispirazione greco-latina che dalla teologia cristiana”. Tuttavia,
nel senso nel quale è laicamente inteso oggi “non designa la medesima realtà
del suo antesignano”. Si deve anzi dire
che il rapporto tra “dignità in senso moderno” e “dignità in senso cristiano” è
diventato “equivoco” perché inteso come se esprimesse per entrambi un identico
giudizio di valore. Infatti, dopo il
Concilio Vaticano II è sembrato che la Chiesa e il mondo laico parlassero lo
stesso linguaggio, proprio a causa dell’ uso in comune di termini quali “dignità
dell’ uomo”. Ciò ha realizzato gli
auspici e gli sforzi di intellettuali cattolici dal taglio fortemente liberale
come Jacques Maritain e il gesuita americano John Courtney Murray, per citare i
più rappresentativi. Ci troviamo in
realtà di fronte ad un equivoco che occorre dissipare, anche perché
l’evoluzione stessa della modernità (in realtà – postillo – la sua discesa nel nichilismo
radicale) è stata tale da “render caduchi i tentativi di conciliazione” tra
il Sacro e il Profano. Per “uscire dalla confusione” occorre quindi per prima
cosa “tornare alle fonti originarie”.
Ciò
permetterà di ristabilire la differenza tra il concetto classico e cristiano
della dignità umana e quello moderno, primo indispensabile passo per poter
ricostruire il concetto stesso su fondamenti sicuri e veritieri. Il volume è diviso in tre parti. Nella prima,
intitolata Stato della questione, si espone la nozione classica della
dignità, “anteriore alla ‘rivoluzione copernicana’ attuata dalla filosofia
moderna, in particolare nella sua formulazione kantiana, tuttora prevalente,
anche se la maggioranza non se ne serve per accettare la rivoluzione stessa”
(cap. 1, prof. Sylvain Luquet). Si
completa poi il quadro ponendosi dal punto di vista della teologia cattolica,
“vera chiave di lettura della nozione, sia nella sua accezione classica che in
quella moderna” (cap. 2, prof. R.P. Serafino Lanzetta). Un terzo capitolo riflette sinteticamente
sulla storia moderna della nozione (cap. 3, prof. Guilhem Golfin).
La
seconda parte si intitola Il moltiplicatore cattolico ed è dedicata alla
“mutazione” fatta fare alla nozione cattolica di dignità della persona dalle correnti
di pensiero personaliste e “americaniste”, rappresentate in
particolare da Maritain e J. C. Murray SI:
Mutazione della nozione di dignità nel cattolicesimo del XX secolo:
il ruolo particolare di Jacques Maritain (cap. 4, prof. Jon Kirwan); Mutazione nella nozione di dignità nel
cattolicesimo del XX secolo: l’influenza di John Courtney Murray (cap. 5,
prof. Julio Alvear Télles).
La
terza parte infine si intitola Aporie di un concetto incerto. Consta anch’ essa di due saggi che mettono
efficacemente in rilievo le “contraddizioni e le variazioni” nelle quali si è
impantanata oggi l’ invocazione della dignità umana, sia nel discorso
ecclesiale che nella normativa giuridica statuale: Modernità e ‘ clericalismo’ : metodologia
di una disfatta (cap. 6, prof. Danilo Castellano); La dignità nel diritto positivo: una nozione strumentalizzata (cap. 7,
prof. Nicolas Huten). Segue la “conclusione generale”, nella quale
si tirano le somme, proponendo i criteri per una “giusta comprensione
della dignità umana”, nozione che deve essere ricostruita, non gettata alle
ortiche, come pretenderebbe qualcuno, o perché stanco della confusione che
attualmente la circonda o perché, all’opposto, insofferente della pur minima
tutela dei più deboli che a volte tale principio riesce ad esercitare (vedi infra,
§ 8). La “giusta comprensione”, concludono gli
autori, è comunque quella che sia capace di ricondurre il principio della
“dignità dell’uomo” nell’alveo della autentica nozione cristiana dello stesso.
Approfondirò tre aspetti del tema principale,
seguiti da due excursus sul contributo del Concilio alla deriva personalista e
sul rapporto tra fascismo e cattolicesimo:
1. la differenza, al momento smarrita, tra la concezione autenticamente
cattolica della “dignità dell’uomo” e quella laico-democratica attualmente
dominante; 2. La “mutazione” della
nozione cattolica di “dignità dell’uomo” causata dal cattolicesimo liberale e
dall’americanismo, ovvero il ruolo negativo svolto da Maritain e P. Murray
SI. Si tratta di prospettive che credo
poco note al pubblico più vasto, particolarmente in Italia. 3. La “strumentalizzazione” del concetto nel
diritto positivo ovvero il suo mancato o improprio uso, in ossequio al
“politicamente corretto” dominante, in relazione appunto al principio della
“dignità dell’uomo”. 4. Il compromesso
della dottrina della Chiesa con il mondo, la sua secolarizzazione all’insegna
di un concetto evolutivo della verità, funzionale alla “dignità dell’uomo”
laico-democratica e tipico del pensiero moderno, penetrato nei testi del
Vaticano II (§ 6). 5. Il fatto singolare che lo Stato fascista
sia stato formalmente più cattolico della laica Repubblica italiana e abbia
tentato di integrare il cattolicesimo nel suo bellicoso culto della Nazione, in
particolare mediante l’educazione “totalitaria” della gioventù, alla quale è
seguita, dopo la II g.m., l’educazione di massa nell’Azione cattolica, ma
all’insegna di un universalismo inquinato dal personalismo di Maritain, con il
suo visionario e astratto culto della dignità della persona, naufragata
infine l’educazione cattolica (al pari di quella laica) nella rivoluzione
studentesca del Sessantotto, data di inizio del tracollo della scuola in
Occidente e della stessa gioventù (§ 6.1).
* *
La concezione
kantiana della dignità dell’uomo, risultato di una visione etica costruita
sul razionalistico imperativo categorico, viene giustamente anche se
sinteticamente criticata più volte nel volume.
La libertà, per Kant, si realizza soprattuto quando si obbedisce
alla legge che ci si è prescritta, quale è appunto la legge della ragione che
ci impone di obbedire all’imperativo categorico, il cui comando ci ordina di
compiere una determinata azione unicamente perché buona in sé. L’idea che l’uomo, in quanto essere
razionale, debba obbedire solamente alla legge che si è prescritta lui stesso,
viene tuttavia a Kant da Jean-Jacques Rousseau, che la applica nella sfera politica, nel costruire il
modello di uno Stato fondato sul Patto di tutti con tutti, in posizione di
assoluta uguaglianza (il Contratto Sociale), e in quella etica,
grazie alla coscienza che saprebbe individualmente tradurre nell’osservanza del
dovere e della legge morale naturale i sentimenti buoni che l’Essere Supremo
avrebbe allocato in ciascuno di noi, immune (si ritiene) dal peccato originale.
Non viene dato particolare rilievo in
questo volume al ruolo svolto da Rousseau
nell’edificazione di un’idea di dignità dell’uomo fondata sulla libera e razionale
volontà del soggetto, ragion per cui la vera sua dignità risulterebbe dall’obbedire
liberamente alla legge che egli stesso si è prescritta.
Sia
Rousseau che Kant esaltarono l’uomo come libera volontà e cercarono di fondare
l’etica in modo da poter prescindere dalla Rivelazione, ossia dal Cristianesimo
e, in verità, da ogni prospettiva trascendente, autenticamente religiosa. Ma entrambi, uno di formazione calvinista
l’altro luterana, finirono per far dipendere la legge morale dall’intuizione
della coscienza individuale, eletta a
“giudice infallibile” del vero e del giusto emananti dall’ineffabile Essere
Supremo (Rousseau) o dal comando di una ragione, la cui imperatività in campo
etico presuppone l’esistenza di Dio quale garante o fondamento di validità di
quest’etica: un Dio-idea della ragione, sulla cui effettiva esistenza la
ragione però nulla è in grado di dire (agnosticismo kantiano, che
inficia la sua costruzione etica).
In un
testo dell’ultimo e incompiuto lavoro di Kant il suo agnosticismo emerge con estrema
chiarezza. “Un essere che ha potere
illimitato su natura e libertà sotto leggi razionali è Dio. Dio, dunque, per il suo concetto è un essere
non semplicemente naturale, ma anche morale.
Considerato soltanto sotto la prima delle due qualità è creatore del
mondo (demiurgus), e onnipotente; sotto la seconda, santo (adorabilis);
e tutti i doveri umani sono, al tempo stesso, suoi comandi. Egli è ens summum, summa intelligentia,
summum bonum.
Frattanto
se quest’idea, prodotto della nostra propria ragione, abbia realtà o sia semplicemente
un ente di ragione (ens rationis), par essere ancora un problema; e a
noi non rimane che il rapporto morale con codesto soggetto, che è semplicemente
problematico, e che lascia sussistere soltanto la formula della conoscenza di
tutti i doveri umani come (tanquam) comandi divini, quando l’imperativo
categorico del dovere fa risuonare la sua ferrea voce tra tutti gli
allettamenti di sirena degli stimoli sensibili, o anche tra i timori che ci
minacciano.”
La
ragione deve dunque ammettere la legittimità dell’idea di Dio come “ente di
ragione”. Non potendo secondo Kant
dimostrarne l’esistenza, deve ammettere tuttavia che il “rapporto morale”,
l’obbedienza ai comandi dell’imperativo categorico, che ci ordina un’azione
perché buona in sé, si giustifica in ultima analisi solo sulla base dell’idea
di Dio come garante e in sostanza come se fosse l’ autore di questo rapporto.
Ma, osservo, l’idea di questo Dio come garante della morale deve ammettere l’esistenza
di Dio e non limitarsi alla pensabilità della sua legittimità in quanto idea,
dato che non si comprende come possa essere il fondamento dell’imperativo
categorico un Dio che esiste solo come idea della nostra mente ossia unicamente
nella nostra mente e quindi come realtà spirituale che è solo umana, allo stesso modo di
una qualsiasi rappresentazione della nostra mente. Se siamo costretti ad ammettere che l’idea di
Dio come garante della morale implica l’esistenza effettiva di questo
Dio, altrimenti non si avrebbe nessuna garanzia concreta in atto, non si
vede allora perché questo Dio che esiste effettivamente per garantire la nostra
dimensione morale non possa esistere anche come Dio creatore, di noi stessi,
del mondo, dell’universo. Se siamo
costretti ad ammettere che Dio esiste come autore della nostra dimensione etica,
del tutto spirituale, non possiamo separare questo suo predicato da quello
dell’onnipotenza, qualità che implica l’ammissione dell’esistenza di un
Dio creatore del mondo e dell’uomo, in tutte le sue caratteristiche. La garanzia divina del nostro comportamento
morale, esercitandosi in un’azione ineffabile e invisibile, può esser
solo il risultato di un operare sovrannaturale di Dio, rinviabile quindi alla
sua onnipotenza, caratteristica della sola natura divina e non della
natura in senso stretto, tantomeno umana.
Ma l’onnipotenza che agisca effettivamente nella nostra mente può
esser solo quella di un ente che ha effettiva realtà (sovrannaturale) fuori
di noi.
Né
Rousseau né Kant individuano la dignità dell’uomo nell’ uomo in quanto tale,
alla maniera della Dichiarazione universale dei diritti umani, avutasi
nell’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948, a San Francisco --- “art. 1 tutti gli esseri umani sono nati
liberi e uguali in dignità e diritti” ---, cioè a prescindere dalla qualità
della sua humanitas, come se si potesse togliere al concetto della
nostra dignità la caratteristica di essere un valore confermato o negato
dalle nostre azioni; come se si potesse ridurla a una nozione solo descrittiva,
da attribuirsi a ciascuno di noi per il solo fatto di essere uomini, a
prescindere da come ci comportiamo. Anch’essi, come i loro predecessori
umanisti, vedono nella libera volontà razionale del soggetto, nella quale si
riflette il divino, il modo di essere nel quale si manifesta autenticamente l’ umano
: tuttavia, il deismo
dell’uno e l’agnosticismo dell’altro
fanno naufragare la dignità dell’uomo nel sentimentalismo della
coscienza narcisisticamente ripiegata su se stessa o nel volontarismo di una
ragion pratica priva di un vero ubi consistam trascendente.
Ma
l’approfondimento che questo tema, a mio avviso, meriterebbe, proprio come
esempio emblematico sia del fascino che del fallimento del tentativo, tra i più
rigorosi, di fondare la morale unicamente sulla presa di coscienza e sulla
autocoscienza razionale dell’ individuo scioltosi dal trascendente rappresentato dalla
Rivelazione, ci porterebbe troppo lontano. Mi dedicherò, quindi, soprattutto all’analisi
dei temi sopra indicati, di per se stessi già piuttosto corposi, come si suol
dire.
In
relazione alla presente, infinita e sempre grave crisi della Chiesa cattolica, mi sembra
necessario e doveroso cercare di render in primo luogo coscienti i fedeli,
ignari e frastornati, della differenza tra il concetto classico-cristiano
della dignità e quello contemporaneo, antropocentrico,
sostanzialmente contraddittorio nelle sue applicazioni, che sfortunatamente
sembra di frequente (anche se non sempre) condiviso dalla Gerarchia cattolica
attuale, a partire dal Vaticano II. Infatti, vediamo la Gerarchia propugnare in
nome della dignità dell’uomo una “libertà religiosa” del tutto simile a quella
adottata dal Secolo, fondata sull’indifferenza quanto al contenuto di verità
delle singole religioni perché ostile per principio al concetto stesso di
Verità Rivelata, di origine divina, e organica ad una concezione sincretistica
delle religioni, intese come strumenti per realizzare l’utopia insensata
dell’unità del genere umano. Inoltre, ci
accorgiamo che in nome della “ dignità della persona” si invocano oggi cose tra
loro radicalmente opposte come la luce alle tenebre, quali la tutela della vita
dell’ embrione (nel quale è già contenuto tutto l’essere umano come realtà
vivente dotata di una sua forma specifica), da parte della Chiesa, di contro al
preteso “diritto” della madre di abortire liberamente ossia di agire in totale
spregio di quella tutela, sostenuto a spada tratta dal fronte femminista,
omosessualista, laicista in generale e avallato, in Occidente, dal diritto
positivo delle torbide democrazie di massa attuali. La “libertà” della madre invocata, in nome
della sua “dignità” di essere umano contro quella del nascituro, per
autorizzarla a farlo abortire, cioè a sopprimerlo! Di fronte a queste allucinanti
antitesi, cosa dobbiamo pensare? Che
abbiamo a che fare con un concetto valido di “dignità dell’ uomo” in quanto
persona o non piuttosto con uno pseudo-concetto perché nozione incapace
di ridurre ad unità gli elementi contrapposti ed inconciliabili che vuol
ricomprendere? I modi contraddittori,
incoerenti, parziali e persino aberranti nei quali è utilizzato oggi il
principio della “dignità dell’ uomo” nei vari ordinamenti giuridici
occidentali, sono messi analiticamente in luce in particolare nel saggio
costituente il cap. 7 dell’ opera, del prof. Nicolas Huter (vedi infra).
Ma
vediamo come gli Autori ci rispiegano il vero concetto della “dignità dell’
uomo”, muovendo innanzitutto dalla sua origine nel pensiero classico.
2. La dignità della
persona: qualità da intendersi sempre in rapporto alla nostra natura razionale.
Nell’ illustrare la nozione classica e
cristiana della “dignità”, il prof. Luquet muove da una critica radicale della
nozione di dignità ricompresa nella già citata Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo del 1948 : “tous
les hommes naissent égaux en dignité et en droits”. Questa frase mi ricorda, per l’ atmosfera che
sembra ispirarla, l’ incipit del Contrat
Social: “L’homme est né libre, et
partout il est dans les fers”, anche se il dictum rousseauiano non tira in
ballo la nostra “dignità” di uomini. Ma, più ancora che la libertà, implicita del
resto nel concetto, colpisce qui il forte accento posto sull’ idea di uguaglianza,
ci spiega il prof. Luquet. Il concetto
che emerge dalla definizione è infatti il seguente: “ciascuno possiede una dignità uguale a
quella di ogni altro”. Non si dice che
gli uomini “possiedono una natura comune la cui dignità è la medesima in
ciascuno”. Ciò che si afferma non è l’ uguaglianza della
natura umana, che ha la stessa dignità in ciascuno di noi, bensì che “ognuno ha
una dignità uguale a quella di un altro”.
La dignità in questione non è pertanto quella della natura umana
(creata da Dio) in sè e per sé considerata, da attribuirsi ad ogni essere umano
--- al contrario, è quella dell’ individuo “così com’è nella sua
condizione naturale [native], cioè uguale ad ogni altro per natura”. È la “dignità personale e singolare di
ciascun uomo”, intesa, sottolineo, soprattutto come dignità dell’ uguaglianza,
dell’esser uguale di ciascuno a ciascun altro. In tal modo, prosegue l’ Autore, si ha uno
spostamento di significato rispetto alle nozioni tramandate, venendo la dignità
“ancorata all’ individualità più che alla comune natura degli uomini”.
Queste interpretazioni non sono da liquidare
come semplici sottigliezze ermeneutiche. Infatti, ponendo l’accento
sull’uguaglianza dei singoli quale fonte della dignità che deve esser
riconosciuta a ciascuno, si apre la via all’ idea che esista il dovere di
“attribuire a ciascuno, indifferentemente, la libertà che la sua dignità di
individuo gli merita”; dignità, per
logica conseguenza, successivamente concepita come “inalienabile” ossia come
valore assoluto. Come porre, allora, dei limiti alle richieste
sempre più ampie di una libertà semplice corollario di una dignità elevata al
valore assoluto che caratterizzerebbe l’ individuo in quanto tale, senza
ulteriori determinazioni?
Le conseguenze negative di una tale nozione di
“dignità” sono evidenti. Ma anche sul
piano del concetto, si pongono diversi problemi. La nozione non appare solida. Essa non riesce
a sussistere da sola, deve rinviare ad altri valori. In quanto valore assoluto fondato su se
stesso, sembra ridursi a una scatola vuota. “Di cosa l’uomo singolo è così assolutamente
degno? Come l’ indegnità, la dignità di
per sè è relativa. E come rispondono? Che si è degni del nome d’ uomo poiché
sembra che uomo nient’altro designi se non l’ individuo stesso? Esser degni di se stessi non significa molto.
Bisogna allora ammettere che l’ inalienabile dignità dell’individuo si
definisce mediante i diritti corrispondenti, ossia che si costituisce nel
riconoscere ciò cui aspira”. E difatti, nelle definizioni che ne vengono
date, la dignità è sempre collegata ad altri valori. Ad esempio al merito. L’ Autore
riporta la definizione del famoso dizionario francese Robert: “La dignité est le respect que mérite quelqu’un”.
La dignità è allora il rispetto che uno merita.
E se non lo merita? Perde forse
la dignità d’uomo? E perché, si chiede polemicamente l’ Autore, visto che il
concetto odierno rifugge dal discorso sull’ essenza delle cose, “l’ uomo merita
più rispetto di un cavallo?”. In realtà “più che definire la dignità, il
rispetto ne dipende”.
Pur connessi, bisogna ammettere che “merito” e
“dignità” esprimono due concetti diversi.
L’ idea della dignità contiene due elementi essenziali: da un lato,
“grandezza e nobiltà”; dall’ altro, “proporzione”.
Questi elementi si notano soprattutto in Cicerone, discepolo
dello stoicismo, nel primo libro del De Officiis, il famoso suo trattato
sui doveri. Egli collega il concetto di
ciò che è “degno”, dignum, in quanto esprimente “ciò che conviene” (decet),
con l’ idea del decoro, decor, termine che esprime sia il bello e l’
onorevole, il conveniente (non utilitaristico), nonché la bellezza e l’ornamento.
Per i romani la dignitas rappresentava
un grande valore, una qualità sostanziale dell’individuo, applicabile anche a
soggetti collettivi. Solo in epoca
tardo-imperiale prevalse una nozione formalistica, che la identificava con la
“carica”, “l’ufficio”, il “rango” occupato dalla persona. Ci è rimasto un “Elenco delle cariche”,
civili e militari del tardo impero, per l’appunto: Notitia Dignitatum. Ma anteriormente non era così. Nei tempi più antichi la dignitas incorporava
l’idea della bellezza: “formae dignitas” ovvero “bellezza del corpo”,
riferita all’uomo, mentre con venustas si indicava la bellezza della
donna. Successivamente il termine
assunse un significato prevalentemente etico, assimilandosi alla honestas: dignitas et honestas. Questa diade esprimeva il “bello” in senso
morale di contro alla mera utilitas.
In Cicerone, troviamo la dignitas riferita anche al popolo
romano, come termine usuale del lessico politico: la dignitas della res
publica Populi Romani equivale alla sua maiestas. Cicerone accosta
la dignitas anche alla auctoritas. La dignitas e la maiestas erano invocate come motivi
determinanti della politica estera e delle guerre dei romani. La dignitas,
pertanto, imponeva un certo comportamento, dei doveri. Non si trattava di una qualità solo
esteriore. Per i romani, “essa contiene una pretesa morale – un noblesse
oblige – la cui forza vincolante lega strettamente l’individuo alla comunità,
facendo valere il principio di responsabilità. Allo stesso modo dell’onore, essa è la garante
dei valori umani più personali”. (Tutto ciò ho riassunto da: Hans Drexler, Dignitas, Discorso per
l’accessione al Rettorato nell’Università di Gottinga, nel 1944, ora in: Richard Klein (a cura di), Das Staatsdenken
der Römer, WB,
Darmstadt, 1980, pp. 231-254; citazione a p. 245.) È evidente che per I romani la dignità era
una qualità che si doveva dimostrare di possedere.
La convergenza della dimensione estetica e
morale appare nel fatto che Cicerone usa il termine dignum con una sfumatura
ontologica: “come il personaggio
teatrale, l’ uomo è degno del suo ruolo quando il suo comportamento è
proporzionato a ciò che egli è. Nella sua natura, superiore a quella di ogni
vivente, risiede il principio della sua dignità, è questa natura che lo deve
guidare in ogni suo atto. Nella dignità della buona condotta (honestas)
risplende la natura dell’ uomo, poiché la bellezza maestosa della virtù morale
non può essere altro che sua. L’uomo degno è l’uomo degno di ciò che egli [per
natura] è, degno della sua dignità d’uomo”.
C’è, in questa concezione, un’ idea di proporzione,
anche estetica, il cui fondamento è però morale poiché deve esprimere “ciò che
è proprio dell’ essere in quanto tale”.
E ciò che è proprio dell’ essere è qui la natura stessa dell’
esser-uomo, la sua humanitas, che lo distingue dagli animali e da tutto
il resto. Compare quindi, in Cicerone,
una sfumatura ontologica, concernente cioè l’ essere stesso della cosa
in quanto tale, grazie alla quale la dignità dell’ uomo è nozione di valore e
non semplicemente descrittiva, come se si potesse conferirla all’ uomo per il
solo fatto di esistere come individuo, alla maniera della citata Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo o Carta di S. Francisco. Degno è
quell’uomo che si comporta da uomo ossia realizzando uno stile di vita secondo
i dettàmi del decorum e della honestas. Ciò vale evidentemente sia per gli uomini che
per le donne. In quanto nozione che
rinvia al valore rappresentato dall’ esser uomo, la dignità cieroniana
riflette la visione greca della virtù e tende comunque a porsi come un
valore assoluto. Quest’aspetto sarà
approfondito dal pensiero cristiano. Per S. Tommaso d’ Aquino, come ci ricorda
l’Autore, “Dignitas absolutum est et ad essentiam pertinet”. Anche se, ovviamente, non coincide con l’essentia
e non l’esaurisce.
Del resto, intendere la “dignità dell’uomo”
come “dignità della persona” – i due termini sono spesso usati come sinonimi –
non significa forse doversi mantenere fedeli al concetto della persona splendidamente
definito nel VI secolo da Boezio sulla scia del concetto aristotelico dell’
uomo come “animale razionale”? A ben vedere,
“la persona in senso proprio non ha altra dignità che quella della sua natura
razionale, della quale essa è semplice modo di essere, in applicazione dei
termini stessi della definizione di Boezio: naturae rationabilis individua
substantia”. Ciò significa che la dignità dell’ uomo, inteso
come persona, è autentica quando corrisponde alla sua vera natura, che è
quella di essere “una sostanza
individuale dotata di natura razionale”.
Boezio si basa sulla nozione aristotelica della sostanza, la ousia,
nella sua polemica contro l’eretico Eutiche, il monofisita, nell’ambito della
quale scaturisce la corretta definizione della persona. La sostanza o essenza di una cosa è ciò per
cui quella determinata cosa o ente, è ciò che è e non è altro da sé. La sostanza individua la natura
intrinseca della cosa o, se si preferisce, dell’ ente. Nel caso dell’ente che è l’ uomo, la sua
natura intrinseca, la sua ousia sarà quella di essere appunto razionale,
secondo il concetto fissato, in modo magistralmente articolato, dallo stesso
Aristotele. Non è forse la ragione che
ci distingue dagli animali mentre l’ istinto ci accomuna ad essi? E non è mediante
l’uso della ragione che appare nell’ uomo l’ elemento divino?
Nella prospettiva classica, sempre tenuta
presente o rielaborata da tutti i pensatori cristiani che hanno riflettuto
sulla dignità dell’uomo, la “libertà di scelta”, che sembra costituire la
dignità dell’uomo a partire dal Rinascimento cioè dal celebre testo De
hominis dignitate di Pico della Mirandola, questa libertà così cara
all’uomo d’ oggi, che ne ha fatto addirittura un idolo --- tale libertà non costituisce affatto l’
essenza della dignità dell’uomo ma unicamente una sua manifestazione, quando
dipenda dall’uso corretto della ragione.
E difatti il pensiero cristiano ortodosso ha sempre concepito il “libero
arbitrio” nei termini della ragione, costruendo su questa base la sua visione teologica
della dignità dell’uomo.
2.1 La
dignità dell’uomo fondata sulla libera scelta razionale per “aspirare alle cose
celesti”: Pico della Mirandola e
Giannozzo Manetti.
Mi sembra tuttavia eccessivo affermare che, nella
nozione della dignità dell’uomo in Pico della Mirandola, “la libera
scelta sostituisce la ragione e l’uomo mantiene la sua dignità pur conservando
il potere di degenerare in forme animali”. Presentata in tal modo, la “libertà di
scelta” esaltata da Pico ci porterebbe ad ammirare l’uomo anche quando fa
qualcosa di indegno, come se anche i comportamenti indegni confermassero la
dignità dell’uomo, cosa evidentemente assurda e non deducibile dal ragionamento
pichiano. Più articolato mi sembra il giudizio del prof.
Golfin. Egli afferma che Pico “si
situa ancora nettamente nella prospettiva teologica della imago Dei. Ciò gli permette di affermare che la natura
dell’uomo consiste nel non averne una, non nel senso che essa sia priva di
essenza, bensì nel senso che quest’ultima resta indeterminata, contenendo tutte
le forme. E ciò dipende proprio dal
fatto che, essendo immagine di Dio, cosa
che non sono le altre creature, mere partecipazioni particolari e limitate del
Creatore, l’uomo ha ricevuto il sigillo dell’infinito, risultando aperto a
tutte le possibilità”. L’ idea che la nostra essenza sia “indeterminata”
può ingenerare una certa perplessità.
Ciò che conta è che, secondo Pico, proprio in quanto creato da Dio,
l’uomo possiede un libero arbitrio che gli consente di essere sia angelo che
bestia, di salvarsi o dannarsi, con il libero uso o abuso delle sue forze.
C’è quindi un uso buono ed uno cattivo della libertà che abbiamo
ricevuto da Dio. “Pico mette l’accento
sulla libertà, che non è tuttavia ancora la libertà indifferenziata dei
moderni, poiché [per Pico] si tratta di metterla a profitto per rendersi
eccellenti”, nel senso, ovviamente, di realizzare valori che si fondano sempre
sul Cristianesimo. L’uomo, pertanto, è
degno d’ammirazione per Pico, “a causa della sua natura proteiforme e della sua
capacità di elevarsi sino al divino.” La
rottura con la concezione cristiana comincia tuttavia a delinearsi, conclude il
prof. Golfin: “È evidente che Pico
sposta l’accento [del concetto della dignità] con il suo insistere sulla
libertà. Ora, la dignità non è più
l’opposto di una condizione miserabile quanto, immediatamente, ciò che fa sì
che si possa essere o felici o miserabili; una libertà pertanto in se stessa
indeterminata [quanto al suo contenuto].
Da questo punto di vista, la dignità concerne ciò che ci situa al di là
dell’ordine della natura, per quanto sia possibile opporre la libertà alla
natura – e questo è un tratto distintivo essenziale del pensiero moderno”.
Pico preparerebbe, dunque, la “libertà
indifferente ai contenuti” (la liberté d’indifférence) tipica dei moderni. Si intende: quel concetto di libertà fondato
sulla autodeterminazione assoluta del soggetto, indifferente ai contenuti, che oggi, vissuto in chiave
apertamente nichilistica, rappresenta la degenerazione ultima del concetto
stesso della libertà.
Va
comunque ricordato che la sua celebre Oratio de dignitate hominis , del
1486, non fu scritta con quel titolo, anche se il concetto vi alitava dentro. Il tema di quel breve discorso non era quello
della dignità dell’uomo. L’opuscolo fu presto diffuso in tutta Europa, il
titolo attuale gli venne affibbiato a Strasburgo, forse perché il tema della
“dignità dell’uomo” era oggetto di periodici esercizi letterari sin dal tardo
Medioevo: tra gli umanisti vi si erano cimentati Bartolomeo Fazio, nel 1447-8, cultore
dell’impostazione cattolica tradizionale sul significato della nostra “dignità”,
e Giannozzo Manetti nel 1452 (Gerd von
der Gönna –vedi infra). L’espressione dignità dell’uomo nell’Oratio
non c’è mai. Il lavoro fu trovato senza titolo dal nipote Pierfrancesco,
manoscritto tra le carte dello zio, morto prematuramente a soli 32 anni. Forse
un titolo postumo più adatto sarebbe stato Oratio de libertate hominis.
Si trattava di un testo tormentato
ed esaltato buttato giù come Discorso senza titolo, un’ introduzione, da
tenersi ad una immaginata assemblea di
illustri teologi e dotti di fronte alla quale egli avrebbe voluto discutere
addirittura 900 tesi di filosofia, teologia e altri argomenti! Pico aveva solo 24 anni, mostrava un talento
e una cultura davvero straordinari e sbalordiva per l’audacia intellettuale,
spinta tuttavia sino a forme di megalomania.
Discepolo del Ficino nel fiorentino circolo platonico, andava oltre
l’orizzonte di quest’ultimo, che mirava ad interpretare il platonismo quale
preparazione al cristianesimo, finendo però per interpretare quest’ultimo alla
luce del platonismo. Studiando le varie
religioni e le dottrine dei grandi iniziati nonché la Cabala, Pico si era convinto
che v’era un significato riposto comune a tutte, che egli avrebbe svelato a
vantaggio del cristianesimo. La stessa
Cabala, o “tradizione” ebraica imbevuta di esoterismo, veniva da lui intesa
come se già possedesse oggettivamente il vero cristianesimo, cosa della quale i
suoi adepti non si rendevano conto (e lui li avrebbe edotti in proposito!). Ma in tal modo Pico finiva per interpretare il
cristianesimo in maniera sincretistica e la filosofia diventava, del
tutto impropriamente, lo strumento principe della fede.
Pico stampò a sue spese le sue 900 tesi o Conclusiones,
riguardanti la teologia, la filosofia, la magia, l’astrologia, e le divulgò tra
i dotti. Furono accolte con
comprensibile diffidenza dai circoli ufficiali della Chiesa, ritenendole gran parte
dei teologi frutto acerbo di un ingegno precoce ma ancora immaturo e
dottrinalmente sospetto. Il Papa regnante, Innocenzo VIII, saggiamente vietò la
disputa pubblica, che mai ebbe luogo, incaricando invece una commissione di
sedici autorevoli teologi di vagliare le tesi.
La Commissione tenne sei sedute, alle quali partecipò a volte anche il
Papa e sempre Pico, di persona o per iscritto.
Essa stabilì che 13 tesi dovessero ritenersi eretiche, cosa ribadita da
un Breve del 5 agosto 1487, dopo
che Pico, pur essendosi piegato alla decisione della Commissione, aveva
pubblicato una Apologia, che gli era stato vietato diffondere. Pico fuggì verso la Francia ma fu arrestato
dal governatore del Delfinato e gettato in prigione in quanto eretico, ma per
un solo mese poiché lo salvò Lorenzo il
Magnifico, che lo fece venire a Firenze
(1488) dove ritrovò gli amici dell’Accademia platonica. In fama di eretico, Pico, immalinconitosi e
costretto a ripensar se stesso, fu attratto dalla potente personalità di Savonarola.
Si mise a studiare la teologia ortodossa, cambiò vita, cominciò a distinguersi
nelle opere di carità. La sua metodologia,
dal taglio sincretistico, anche se di alto livello, restò per il momento
invariata, anche se egli si sentiva sempre più cristiano e si impegnava a combattere
i nemici della fede sul piano culturale, a cominciare dai polemisti ebrei. Dopo la morte del Magnifico e di altri eletti
amici e protettori, Pico si appoggiò
sempre più al Savonarola: emergeva la
componente mistica del suo temperamento, quella che inizialmente era stata
sedotta dall’ atmosfera platonica e neoplatonica della Firenze colta del suo
tempo, con la sua commistione di esoterismo e razionalismo, la sua aspirazione
quasi “mistica” ad un universalismo che
inevitabilmente veniva a confliggere con verità sempre insegnate dalla Chiesa.
“Il Pico passava le giornate intere nella
Biblioteca di S. Marco, conversando col frate dei nemici da combattere o
compulsando quei libri, che il Savonarola stesso voleva gli servissero come
strumenti dei suoi nuovi studi. Il frate
di S. Marco voleva poi che il Mirandolano entrasse nell’ordine dei Predicatori
e al fine di renderlo degno, lo indirizzava, con l’autorità, che esercitava con
la sua parola profetica, con l’esempio di una vita austera, a opere di pietà e
di ritiro. E il Pico, docile e mansueto,
si assoggettò alle istruzioni del frate, con la stessa dedizione con cui, non
molti anni prima, si era abbandonato all’errabonda vita di un Gorgia da Lentini.” È assai probabile che, continuando
l’influenza di Savonarola, Pico sarebbe approdato ad una piena ortodossia
cattolica. Tra le opere più importanti
di questo suo ultimo periodo vanno annoverate le Disputationes in astrologia,
in dodici libri. L’Autore distingue l’astrologia buona (l’antenata
dell’astronomia, che studiava matematicamente i moti dei corpi celesti) da
quella cattiva, dedita ad influenzare le vicende umane con gli oroscopi,
legata alla magia e prodiga di ogni superstizione, all’epoca piuttosto diffusa. Forte della sua
grande cultura, demoliva quest’ultima, difendendo sempre il libero arbitrio
dell’uomo, che non è governato dalle stelle. L’opera provocò accese polemiche e
il Savonarola ne fece un riassunto “per gli huomini volgari” cioè per il grosso
pubblico, al fine di metterlo in guardia contro questa pessima superstizione.
Un Breve di Alessandro VI (Papa Borgia)
del 18 giugno 1493 cancellò le precedenti censure papali, eliminando l’ostacolo
che impediva a Pico di diventare
Domenicano, ma l’anno successivo Pico, ritiratosi nel frattempo dal mondo e
distribuita gran parte dei suoi beni ai poveri e bisognosi, venne
inopinatamente a morire. Negli ultimi anni scrisse anche “un libretto
contro le calunnie degli Ebrei, che vituperavano la traduzione di S. Girolamo. Scrisse pure una difesa dei Settanta contro
gli stessi Ebrei, circa la loro versione dei Salmi.” Morì, dopo breve ma dolorosa malattia il 18
novembre 1494, “il giorno stesso in cui re Carlo [di Francia] entrava in Firenze”,
come scrisse il Ficino. Dies nigro
notanda lapillo: stavano cominciando le tragiche Guerre d’Italia, che
per circa cinquant’anni avrebbero visto francesi, spagnoli, tedeschi, svizzeri
mettere a sacco il Bel Paese in aggiunta
ai tradizionali latrocini e devastazioni dei Barbareschi; avrebbero visto
distrutta la precaria indipendenza dei suoi deboli Stati, finiti alla fine in
modo diretto o indiretto sotto il tallone spagnolo, tranne La Repubblica di
Venezia, che riuscì a difendersi con le unghie e con i denti; posto fine
brutalmente agli ideali umanistici delle sue minoranze intellettuali: alle loro
“culte” utopie, troppo inclini alla ricerca del Bello e dell’Armonia universale
in nome della filosofia e dell’arte, aspiranti alla resurrezione di un passato
tramontato per sempre.
Della celebre Orazione vale soprattutto
la parte iniziale, che elogia l’uomo, il resto appartiene allo spirito del
tempo. Vengono sempre ripetute ancor oggi
le parole che Pico mette in bocca a Dio in persona, per giustificare l’ ammirazione della quale
l’uomo sarebbe degno.
“--Adamo, non ti diedi una stabile dimora, né
un’immagine propria, né alcuna peculiare prerogativa, perché tu devi avere e
possedere secondo il tuo voto e la tua volontà, quella dimora, quell’immagine,
quella prerogativa che avrai scelto sicuramente. Una volta definita la natura delle restanti
cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz’essere costretto da nessuna
limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell’arbitrio che ho
posto nelle tue mani. Ti ho collocato
nel centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto
quanto è nel mondo. Non ti ho fatto
tutto né celeste né terreno, né mortale, né immortale, perché tu possa
plasmarti, libero artefice di te stesso, conforme a quel modello che ti sembrerà
migliore. Potrai degenerare sino alle
cose inferiori, i bruti, e potrai rigenerarti, se vuoi, sino alle creature
superne, alle divine. O somma liberalità
di Dio Padre, somma e ammirabile felicità dell’uomo! Al quale è dato di poter avere ciò che
desidera, ed essere ciò che vuole.”
Che questa aulica rappresentazione, che a noi
oggi sembra anche a tratti retorica nello stile, ci renda l’uomo come risulta
creato da Dio nella Bibbia, non si può certamente dire. Qui l’uomo appare dotato di una libertà illimitata
di essere o non essere, di fare o non fare, mentre la Genesi ci fa vedere che
Adamo ed Eva godevano si della libertà della perfetta innocenza nella quale Dio
li aveva creati (a sua immagine e somiglianza) ma limitata dal divieto
divino di mangiare del frutto dell’albero del bene e del male. Tuttavia l’assenza di ogni limite non è in
Pico assoluta, dovendo anche per lui questa grande libertà manifestarsi sempre
in modo razionale e quindi conforme alla volontà di Dio.
“L’uomo è creatura di natura varia, multiforme
e inconstante. Ma a che proposito queste
cose? Per comprendere che siamo nati a
questa condizione, che noi saremo ciò che vogliamo essere [ut intelligamus,
postquam hac nati sumus condicione, ut id simus, quod esse volumus]. Noi
dobbiamo soprattutto fare in modo che non si dica di noi che, essendo stati
posti in alto, non ci siamo accorti di essere divenuti simili ai bruti e agli
animali, ma piuttosto, si dica col profeta Asaf: ‘Siete Dei e tutti figli
dell’Altissimo’, se pure non abusando dell’infinita liberalità del Padre,
non convertiamo così in nostra perdizione il dono salutare del libero volere. Una sacra ambizione ci riempie l’ animo,
perché, insoddisfatti delle mediocri,
aneliamo alle cose superne e ci sforziamo di conseguirle – lo potremo se lo
vorremo – con tutte le nostre forze.
Sdegnamo le cose terrene, aspiriamo alle celesti e, volgendo le spalle a
tutto ciò che è di questo mondo, innalziamoci al vestibolo della celeste
dimora, ove abita l’ eccelsa divinità.
Quivi i primi posti sono occupati dai Serafini, dai Cherubini e dai
Troni e noi, già impazienti dei secondi e non sapendo cedere a costoro, ne
emuleremo la dignità e la gloria. E a
costoro non saremo in nulla inferiori, se lo vorremo”.
Dio ci
ha “posto in alto”, dotandoci del libero arbitrio e della possibilità di
scegliere, negata agli animali. Dobbiamo
mostrarci degni di cotanta responsabilità, indirizzandoci costantemente alle
“cose celesti” (questo è certamente conforme alla nostra vera dignità),
al punto di poter “emulare” gli Angeli “in dignità e gloria”! La vera “dignità” dell’uomo è pertanto angelica,
non perché l’uomo sia uguale all’Angelo ma perché egli deve avere le “cose
celesti” a suo modello, convinto di potervisi innalzare bene usando della sua
ragione ! Sono le affermazioni di uno
spirito entusiasta, ebbro di giovanile fervore, che ancora riecheggiano certa
spiritualità medievale? In realtà esse riflettono la concezione dell’anima e
del posto dell’uomo nell’universo elaborata dal platonismo del Ficino, come
notava Giovanni Gentile. In ogni caso, l’ arcano è presto svelato dallo stesso
Pico. Dobbiamo emulare “il Cherubino”
perché, nelle Gerarchie angeliche, scrive, egli è “il protettore della filosofia
contemplativa”, quella che ci eleva ad una dimensione anche eticamente
superiore, in modo da poter poi noi affrontare degnamente la vita attiva. Questa filosofia “contemplativa” consta di due parti essenziali: morale
e naturale. La prima, soprattutto, si fonda sulla scienza degli
angeli. “Anche noi, dunque, emulando in
terra la vita cherubica, contenendo per opera della scienza morale l’impeto
delle passioni, dissipando con la dialettica la caligine che ottenebrava la
nostra ragione, quasi lavandoci dalle impurità dell’ignoranza e dei vizi,
purificheremo l’anima acciocché né le passioni infurino all’impazzata, né la
ragione abbia talvolta a deviare con imprudenza. Inondiamo poi col lume della filosofia
naturale l’anima ben ordinata e purificata, acciocché possiamo, da ultimo,
perfezionarla con la congnizione delle cose divine e, se i nostri interpreti
non ci bastano, interroghiamo il patriarca Giacobbe, la cui immagine corrusca è
scolpita nella sede della gloria…”.
Libertà
di scelta e ragione non vengono ancora scisse nel pensiero di Pico. La vera scelta deve esser sempre verso Dio:
il suo modello ideale è la sapienza dei Cherubini ossia quella scienza
“angelica” che stabilisce il giusto equilibrio tra le passioni e la ragione, da
perseguirsi nella autentica vita contemplativa. La dignità dell’uomo risplenderà pertanto
nella giusta scelta, nella libertà bene usata perché guidata dalla filosofia,
che si sovrappone alla teologia. La
filosofia, come intesa dal Pico della Orazione, sembra diventare una
sorta di scienza sacra, officiante tuttavia il Dio dei filosofi, alla
cui elaborazione presiede la ragione, più che il Dio rivelatosi nella
Bibbia.
Bisogna tuttavia tener bene a mente che l’uomo
per l’Umanesimo italiano del Quattrocento (che non è ancora l’uomo del naturalismo
rinascimentale) non è concepito con una autonomia e una dignità tali da
porlo in superba antitesi a Dio, al Dio della Bibbia. Ciò che spingeva autori come il dotto uomo di
Stato fiorentino Giannozzo Manetti a scrivere nel 1452 il suo De
dignitate et excellentia hominis in quattro libri per invito di Alfonso
d’Aragona Re di Napoli, opera pubblicata solo nel 1532, era soprattutto il
desiderio di reagire alla cupa immagine dell’uomo risultante dalle correnti più
rigidamente ascetiche del pensiero medievale. Il testo di Manetti è
letto oggi solo dagli specialisti. Tuttavia,
come rilevava Giovanni Gentile, è “una delle espressioni caratteristiche
dell’umanesimo”. L’autore fa precedere il suo elogio delle
qualità positive dell’uomo a una rispettosa quanto decisa critica del
pessimismo medievale, quale risulta ad esempio da un famoso libretto, il De
contemptu mundi o Sul diprezzo del mondo, di Lotario di Segni, di
poi Papa Innocenzo III. Manetti si
ingegna a ribattere punto per punto gli argomenti di “Lotario diacono”, affermando
addirittura che “se non fosse per il rispetto che si deve al Pontefice” egli sarebbe
costretto a spingersi sino a confutare “argomenti superficiali, puerili, ben
lontani dalla gravità che si addice ad un Papa”.
All’immagine dell’uomo in tutta la sua indegnità
tracciata da Lotario, si vuol contrapporre un’immagine che si concentra sugli
aspetti positivi dell’essere umano, cominciando ad idealizzarlo in un modo i
cui pericoli si sarebbero rivelati appieno in un secondo tempo. L’uomo di Lotario appare del tutto immerso nella
natura ferina e malvagia e quindi nel peccato, originale e quotidiano; vittima
delle illusioni create dai suoi desideri e dalle sue passioni e apparentemente
senza speranza di redenzione, destinato alla putredine finale della carne e a
quella ancor peggiore della dannazione.
Lo spirito altamente ascetico del
futuro Papa trafiggeva spietatamente la carne nostra mortale, caduca e
peccaminosa. Riporto solo l’incipit
del trattatello, da una traduzione trecentesca:
“ Chi adunque dará agli occhi mia una fontana
di lacrime, acciò ch’io pianghi el miserabil introito della umana condizione,
el colpabile viaggio dell’umana conversazione, el dannabile esito e fine
dell’umana dissoluzione? Considererò io, adunque, con lagrime di che è fatto
l’uomo, che faccia l’uomo, che ha a far l’uomo.
Certamente, formato di terra, conceputo in colpa, nato a pena, fa le
cose prave che non sono lecite, le cose brutte, che non si convengono, le cose
vane che non sono di bisogno; diventerà cibo di fuoco, esca di vermini, massa
di bruttura. Dirollo io apertamente,
dichiarerollo io apertamente: ‘ l’uomo è formato di polvere, di loto, di
cenere, e d’una cosa ancor piú vile: di spurcissimo seme umano; è stato
concetto in pizzicore di carne, in calore di libidine, in puzzo di lussuria e
in macchia di peccato, che è il peggio; nato alla fatica, al dolore, e alla
paura, e, quello che è più misero, alla morte.”
Questo testo fu scritto un centotrent’anni dopo il Liber
Gomorrhianus di San Pier Damiani. I
Papi erano da tempo impegnati in lotte terribili contro l’imperatore, le fazioni
romane, l’eresia. I costumi del clero
andavano ad alti e bassi, ma nell’insieme non erano soddisfacenti e nel suo
libretto Lotario è costretto a fustigarli: il fatto che il potere civile (specialmente
imperiale e monarchico) influisse potentemente sulla nomina dei vescovi e sull’attribuzione
dei benefici ecclesiastici comportava l’entrata nel clero di persone non adatte
o indegne. Continuando l’opera di
Gregorio VII, Innocenzo III procedette
con inflessibile energia nella necessaria missione di risanamento e accentramento;
nella rivendicazione dell’indipendenza della Chiesa nei confronti dei poteri locali,
dello stesso imperatore, dei re, ribadendo la superiorità dello spirituale sul
temporale, anche se con accenti che avrebbero poi portato al prevalere di
tendenze teocratiche, sentite come prevaricatrici da parte dei poteri civili,
in particolare da re e imperatori. In
ogni caso, il materiale umano era come sempre sordo alle esigenze dello
spirito, a piegarsi alle direttive della Chiesa, alla Parola di Cristo
insegnata dalla Chiesa, e lo sarebbe stato all’azione di un Papa pur esemplare
per comprensione dei problemi, austerità e probità di vita, larghezza di visione,
energia come Innocenzo III. Possiamo capire
la ripulsa degli Umanisti di fronte ad un testo come il De comptentu mundi
che sembra esprimere addirittura un disprezzo radicale per l’uomo, alla
cui fragilità nulla sembra concedere, alla cui natura decaduta e caduca sembra
negare ogni speranza di salvezza.
Quando pensiamo allo spirito del Medio Evo nel
suo aspetto più profondo e più alto, pensiamo alla Summa Theologiae dell’Aquinate
e alla Divina Commedia, costruzioni grandiose, vere cattedrali dello spirito,
nelle quali il senso dell’umanità non va tuttavia perduto. L’ascetismo di Innocenzo III appare
senz’altro estremo, al punto da provocare nel lettore il dubbio (poco cristiano)
sulla bontà della Creazione - giustificabile di fronte a certe affermazioni,
dominate dal disgusto per la natura umana in senso persino fisico-fisiologico,
per così dire. E tuttavia sarebbe un
errore considerare quest’operetta un puro portato dei tempi drammatici nei
quali fu scritta. In un’epoca come la
nostra, dove la corruzione dei costumi ha raggiunto livelli inimmaginabili
nell’Euro-America, la sua lettura, sempre
valida per l’analisi spietata e senza ipocrisie delle nostre passioni, potrebbe
rappresentare un utile antidoto, un contravveleno amarissimo ma salutare
per le malattie spirituali che ci affliggono, di una portata in passato
sconosciuta. In primo luogo, col
richiamarci alla necessaria umiltà, noi che viviamo stoltamente convinti di
essere al centro dell’Universo e di poter (addirittura) modificare la natura a piacimento
senza arretrare di fronte alle manipolazioni più aberranti, nel ricordarci
innanzitutto che il nostro corpo, cui la nostra società dedica tante, maniacali
e persino perverse cure, è solo carne destinata a ritornare alla polvere con la
quale Dio l’ha creata dal nulla e a risorgere dalla corruzione della morte solo
per andarsene all’eterna dannazione, se l’anima che ha vissuto in quella carne
avrà persistito nel peccato grave sino alla fine della sua giornata terrena.
Tornando a Manetti, la pars construens
dell’opera si preoccupa di sottolineare la superiorità dell’uomo sulla natura,
grazie alla sua natura spirituale, di origine divina, e alle sue capacità di costruire
in ambito culturale, artistico, politico; all’uso della sua libertà in modo
razionale; al fatto di essere in definitiva pur sempre immagine di Dio,
immagine “nella quale si compendiano e si riassumono tutte le bellezze sparse
ne’ vari ordini dell’universo”.
Nell’uomo vi è l’armonia, la bellezza dell’Universo: l’Umanesimo in
senso proprio, quello italiano del Quattrocento, vuol recuperare attraverso la
riscoperta degli ideali platonici e neoplatonici l’idea della bellezza in senso
ampio quale idea centrale della vita, una bellezza che rifletterebbe l’opera
meravigliosa ed armoniosa del Creatore. E
l’armonia dovrebbe esser quella delle forze naturali e sovrannaturali usate
dall’uomo. Si comincia allora a
intravvedere l’iniziativa creatrice e autonoma dell’uomo, chiosa Gentile, “ma
orientata sempre verso la realtà trascendente, a cui l’uomo con la sua virtù e
colla conoscenza deve tornare”. Il fine
dell’uomo viene proclamato nell’uomo stesso, nella costruzione di un mondo umano,
impiegandovi la volontà, l’intelligenza, le capacità artistiche, non
nell’annientarsi in Dio, come per il trascendente spirito medievale : tuttavia,
questa costruzione deve sempre “riconoscere e coltivare” con la sua
intelligenza, la sua conoscenza, le “ammirevoli opere del divino artefice”.
3. La
dignità umana secondo la teologia cattolica ortodossa.
Tralasciamo ora l’elogio umanistico della
libertà dell’uomo e della sua dignità con la sua sottesa “teologia platonica”,
per vedere come la teologia cattolica ortodossa concepisca la nostra “dignità”.
La vera “teologia” della dignità dell’uomo è
ricostruita e spiegata con mano maestra dal prof. RP Serafino Lanzetta. Il concetto da cui muove è il seguente: la dignità è una “perfezione morale
della persona e non una proprietà essenziale.
Ciò risulta anche dal fatto che la parola latina sinonimo di dignitas
è honestas, termine che [come si è visto] significa condizione
onorevole e infine merito”. Pertanto, la dignità dell’uomo non è affatto
un’esigenza naturale originaria dell’uomo “animale sociale” bensì un fine da
raggiungere, una perfezione morale: non dunque l’ essenza dell’uomo ma il
suo perfezionamento morale, fondato sull’idea della giustizia. Il nesso tra dignità dell’uomo e giustizia
appare con chiarezza in Cicerone, nella sua riflessione sulla giustizia
come virtù. “La giustizia è una
disposizione dell’anima che conferisce a ciascuno la sua dignità, conservata
per l’utilità comune”. Ciò di cui ciascuno “è degno” dipende da ciò
che ciascuno si merita, secondo giustizia.
Se ne può concludere che per il pensiero classico, segnato dallo stoicismo,
“la dignità dell’uomo debba esser in proporzione ai suoi meriti”. Siamo ben lontani dall’attribuire all’uomo la
sua dignità per il solo fatto di esistere in quanto uomo e di esser uguale a
tutti gli altri, sempre in quanto uomo, come si vuol credere oggi.
Ma come si inserice qui il discorso
teologico? Sviluppando il tema della giustizia. “Questa riflessione iniziale ci permette
d’entrare nel campo strettamente teologico, e pertanto di vedere più da vicino
che la dignità umana deve esser rinvenuta nel momento iniziale della creazione,
quando Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza, elevandolo in tal modo
alla condizione della giustizia originaria.
Con il peccato, l’uomo ha perduto la giustizia e ha perduto la sua
dignità, che gli sarà restituita da Cristo con la grazia santificante. Così l’uomo viene giustificato e ricreato
grazie a Dio nella giustizia e nella verità, costituendo esse la radice della
sua dignità”.
Questo, così impostato, è il corretto discorso
cattolico sul concetto della dignità umana. Come fa vedere il P. Lanzetta, esso corrisponde
alla dottrina tradizionale della Chiesa. La nozione di una “giustizia
originaria” di origine divina, quale stato virtuoso dei nostri Progenitori, credo
risulti piuttosto oscura alla nostra scettica mentalità di moderni, per di più
“politicamente corretti”, per i quali l’unico significato della giustizia
sembra essere di tipo politico e come inteso dalle mitologie ugualitarie predominanti.
Ma vediamo più da vicino questo concetto dello
status di “giustizia originaria” nella quale si trovavano Adamo ed Eva.
La “giustizia originaria” risulta dalla
Rivelazione. L’uomo fu creato da Dio
perfettamente integro: immortale,
pieno di saggezza e intelligenza, immune dalla concupiscenza; appunto in uno stato di “giustizia e santità”, come
insegnò il Concilio di Trento nel suo Decreto sul peccato originale,
del 17 giugno 1546. Si trattava,
comunque, di riproporre l’insegnamento di san Paolo. La redenzione, scrisse agli Efesini
(4, 22-24), sarebbe stata “un rivestirsi dell’uomo nuovo, creato da Dio secondo
vera giustizia e santità”; sarebbe quindi stata una “restaurazione di ciò che
era stato perduto”. Non, ovviamente, del
Paradiso in terra (errore millenarista) ma della “giustizia e santità” nella
vita di ciascuno di noi, per quanto possibile, nell’opera individuale della
nostra santificazione quotidiana, lucrante i meriti della Santa Croce.
Lo stato originario dell’uomo, di Adamo da
solo poi con Eva sua moglie, era quello di una natura creata da Dio, che Dio
stesso tuttavia aveva voluto innalzare con doni preternaturali. Sulla
scia di san Tommaso, accolto nell’insegnamento della Chiesa, bisogna
distinguere, pertanto, la “natura pura” – costituita “dal corpo con le sue
capacità e dall’anima con le sue facoltà ossia intelletto, volontà e memoria,
che non vengono né elevate né abbassate dal peccato” – dai doni attribuiti da Dio a siffatta
natura, chiamati “preternaturali”. Alla natura p u r a appartiene anche “l’inclinazione alla virtù”
mentre preternaturale deve considerarsi “la perfezione della giustizia originaria”. Tale “perfezione” implicava l’assoluta
innocenza, mancando la cognizione del bene e del male, e l’impossibilità di
vergognarsi della propria nudità. Pur
essendo fatti di carne, era come se Adamo ed Eva fossero semplici e trasparenti,
come gli angeli.
Come ha inciso il
peccato originale su tutto ciò? Ha
corrotto esso in modo definitivo la natura umana, ossia la “pura natura”, come
ritenevano erroneamente Lutero e Calvino?
Se i due eresiarchi fossero nel vero, nessuno avrebbe mai fatto una
buona azione, in questo basso mondo! Al
contrario, “la natura pura non viene toccata dal peccato
originale, che incide invece negativamente sulla nostra inclinazione alla virtù
e ha cancellato del tutto il dono preternaturale della giustizia originaria”. Quest’insegnamento costante della Chiesa,
sulla scia di san Tommaso, nitido sino al Vaticano II, non risulta, a ben
vedere, confermato dall’esperienza? C’è pur sempre qualcosa di incorruttibile
nell’animo umano, che tende a riportarlo sulla via del bene, nonostante le
cadute e deviazioni provocate dall’eredità del peccato originale: lo dimostra
il fatto che possiamo sempre rinascere anche dalla peggiore decadenza morale e
spirituale; che possiamo convertirci, cambiando radicalmente vita. La “natura pura” può sempre risorgere, come
fenice, dalle ceneri del peccato. Ma
questa sua possibilità non può realizzarsi con la sola forza della nostra
volontà, abbisogna dell’intervento della Grazia per tradursi in atto interamente
e con successo.
L’autentica concezione cristiana dell’uomo, in
quanto natura creata, sulla quale fondare in modo corretto il concetto
della dignità, è dunque così articolata:
una natura pura, creata da Dio, cui si aggiunge la “natura creata ed elevata
da Dio, capace del bene come del male a causa della libertà di cui gode ma già
orientata verso il fine sovrannaturale”, costituito dalla vita eterna nella
Visione Beatifica. Questa concezione è unitaria nonostante debba
distinguere tra natura, preternaturale, sovrannaturale. La presenza del preternaturale è dovuta a
un d o n o alla natura pura da parte di Dio, atto gratuito
mediante il quale si innesca il meccanismo della grazia in ciascun uomo. Grazie a questo dono, Adamo “fu costituito”
nello stato di giustizia originaria, come insegna il Tridentino (“…transgressus,
statim sanctitatem et iustitiam, in qua constitutus fuerat, amisisse…”).
La natura pura e la natura innalzata
dai doni preternaturali non si possono evidentemente separare,
nonostante i guasti provocati nel loro rapporto dal peccato originale, con le
sue molteplici conseguenze negative. Ma
in che senso questo nesso deve esser mantenuto?
Il preternaturale nell’uomo (straordinaria conoscenza, assenza della concupiscenza,
assenza della malattia e della morte) non è andato perduto, in séguito alla
Caduta? È andato perduto ma bisogna
restaurarlo mediante l’ opera della Grazia, alla quale del resto si doveva la
sua presenza in Adamo ed Eva. I doni
preternaturali alla nostra natura sono di origine sovrannaturale, venendo
liberamente da Dio; ma, nello stesso tempo, “sono perfezioni delle facoltà
naturali dell’uomo, proporzionate alle possibilità di quest’ultime ma messe in
opera dalla grazia. Pertanto l’integrità
della natura umana va oltre la natura: non dipende dalla natura non essendo
dovuta alla natura dal momento che Dio avrebbe potuto creare l’uomo anche senza
questi doni originari, senza ovviamente commettere ingiustizia alcuna. Ciò significa, pertanto, che queste
perfezioni della natura hanno bisogno del dono della grazia santificante per produrre
i loro effetti”.
Tra questi doni, dobbiamo approfondire quello
della “giustizia originaria”, lo stato di natura-preternatura nel quale Dio
volle porre l’ uomo e la donna da Lui creati, in successione, come ci rivela la
Genesi. Il concetto va spiegato
bene per evitare gli errori di Pelagio, “che negava l’innalzamento della natura
umana ad opera della Grazia”, e, in senso opposto, di Lutero, che in qualche
modo riassorbiva la natura nella grazia, sino al punto di contraffare il
concetto di “natura innalzata” (dalla Grazia) per sostituirlo con quello di
“natura corrotta”, inesorabilmente corrotta, ma coperta dalla grazia.
Essenziale è il modo di intendere il rapporto tra
la giustizia e la grazia santificante. Per evitare di identificare natura e grazia,
facendo di quest’ultima una necessità della natura, non più dono gratuito di
Dio, il che sarebbe inconcepibile, bisogna concentrarsi, più che sulla
questione “se la natura sia stata creata immediatamente nella grazia”, su
quella della “costituzione” dello stato adamitico di giustizia. È in siffatta “costituzione” che si ha
l’elevazione della natura umana mediante i doni preternaturali. Tale elevazione “non può avvenire senza il
dono di Dio che supera la natura e la fissa in uno stato trascendente: questo è il dono della grazia
santificante. Questo dono, ossia la
capacità acquisita abitualmente dall’anima e dalle sue facoltà di esser guidata
verso il loro fine sovrannaturale, costituisce l’ essenza della giustizia
originaria e quindi radice e causa di ogni altro dono. È causa delle perfezioni preternaturali e
della sottomissione della volontà al Creatore, sottomissione nella quale consiste
la vera libertà”. In conclusione: “la giustizia originaria, resa formalmente
tale dalla grazia santificante, è il dono mediante il quale Dio arricchisce
l’uomo e costituisce la sua vera dignità”.
Ecco dunque l’emergere della vera dignità
dell’uomo. Era quella dell’uomo eletto ad essere “immagine e somiglianza di
Dio” grazie ai doni preternaturali. Dopo
il peccato di disobbedienza, l’immagine , significante la condizione
della semplice natura creata, corpo e anima, è rimasta, sia pure con le limitazioni
imposte dalle conseguenze della Caduta, mentre la somiglianza, nella
quale si attuava lo stato di giustizia e santità originarie, è andata
perduta. E con ciò la vera dignità dell’uomo è stata ferita. L’equilibrio tra uomo e Dio, quale si aveva
nell’Eden, è scomparso.
“L’uomo – conclude P. Lanzetta – passeggiava
nel giardino di Dio e non si nascondeva al passaggio di Dio: era nudo dinanzi
a Lui, davanti a quel Dio che scruta ‘lo spirito e i cuori’ (Sal 7, 10) e del
pari non si vergognava di apparire nudo di fronte alla sua sposa. Il peccato originale ruppe quest’equilibrio e
ha macchiato la dignità originaria dell’uomo.
Affermare che il peccato originale ha offeso la dignità
dell’uomo, ciò è un modo di esprimersi certamente poco usato ai nostri giorni.”
Questa è dunque (osservo) la prima verità da
ristabilire a proposito del concetto cattolico della dignità dell’uomo: non esiste una dignità dell’uomo in sé, in
quanto uomo. Non può esistere, poiché l’uomo in quanto uomo è quello creato
da Dio nel modo rivelato dalla Bibbia, è l’uomo caduto nel peccato originale,
ulcerato dalla disubbidienza, dallo spirito di ribellione a Dio, tutte cose che
ne azzerano la dignità. E difatti la
nozione laica della dignità dell’uomo in quanto uomo, non riconosce l’esistenza
del peccato originale: concepisce un uomo buono per natura, buono non
perché originariamente creato così da Dio ma per il semplice fatto di esser
uomo. La cattolica e quella laica, di
elaborazione soprattutto illuministica, esprimono due concezioni nettamente contrapposte
dell’uomo.
Ma perché bisogna dire che il peccato ha
privato l’uomo della sua dignità? Perché
questa è la conseguenza inevitabile del peccato: se la dignità è la qualità o le qualità che
ci meritano il rispetto altrui, il peccare deliberatamente, in generale, mostra
l’ assenza o lo svilimento di quelle qualità o ne rappresenta comunque una
grave lesione. Avendo in tal modo perso
o leso la nostra dignità, viene meno il rispetto nei nostri confronti, sì da
apparire agli occhi altrui privi di dignità e quindi indegni. La
dignità in tutto o in parte perduta può allora esser restaurata solo
nell’ambito del processo di redenzione apportato da Cristo Nostro Signore. La redenzione è infatti “una restaurazione
di tutte le cose in Cristo” e sappiamo di poter partecipare ad essa se ci
lasciamo condurre “dall’azione della grazia, vivendo nella grazia”, in modo
cioè che le nostre azioni meritino agli occhi di Dio. Ora, nell’àmbito di questa “restaurazione”
anche la nostra dignità viene ad esser “restituita”. Possiamo pertanto riappropriarci della nostra
dignità, offesa e perduta col peccato, solo partecipando alla Redenzione vale a
dire se riusciamo nell’opera della nostra santificazione quotidiana, sempre con
l’aiuto imprescindibile di Cristo Nostro Signore. Riuscendo in quest’opera, riacquistiamo, tra
le nostre “qualità morali”, anche la dignità, che si conferma esser
“merito derivante dall’esser giusti”, secondo l’antica nozione ciceroniana.
Tuttavia la giustizia inerente al valore
rappresentato dalla dignità è originariamente nell’uomo come parte del dono
preternaturale iniziale, che ci poneva nella condizione di “giustizia e
santità” sopra richiamata. Era proprio
questa condizione a porre la nostra dignità così in alto rispetto agli animali,
notava Sant’Agostino, dal momento che solo noi “siamo stati formati secondo
l’immagine e la somiglianza di Dio, non tanto nel nostro corpo mortale quanto
nella nostra anima razionale”. La dignità dell’uomo è pertanto
“gerarchica” essendo l’essere umano il
mediatore tra due ordini, “le specie inferiori e gli angeli”. Costante nel pensiero cristiano, ricordato in
S. Leone Magno e nell’Aquinate, il concetto che la dignità dell’essere umano
creato da Dio è non solo “stato di eccellenza sociale” ma anche “stato di
eccellenza spirituale”, nell’àmbito dell’ordine creato da Dio secondo
ragione: motivo per cui, con il peccato,
“l’uomo si separa dall’ordine razionale e si assimila alla bestia”.
Ciò significa che “l’uomo possiede dignità non
semplicemente in quanto uomo ma nella misura in cui è posto al di sopra degli
altri esseri ed arricchito dalla grazia, avvicinandosi in tal modo sempre più a
Dio”. Pertanto, “l’uomo diventa
veramente ‘degno’ in quanto conservi la grazia della sua restaurazione in
Cristo, quella grazia che lo santifica e ne fa un figlio di Dio. La dignità più alta è in effetti quella
d’esser figli, e figli di Dio”.
Un abisso separa dunque la concezione
cristiana della dignità dell’uomo da quella laica, oggi dominante. Questo è un punto fondamentale da tener presente
e costituisce, forse, il merito principale di questo importante volume
collettaneo. Il contributo del P.
Lanzetta mi sembra particolarmente significativo, proprio perché esso
ricostruisce con precisione il fondamento teologico del concetto della nostra dignità,
inseparabile dall’illustrata dialettica di peccato e redenzione.
4. La
“mutazione” della nozione cattolica di “dignità dell’uomo” provocata dal
cattolicesimo liberale e dall’americanismo: Maritain e Murray SI.
Questa “mutazione”, viene giustamente
ricondotta all’attività di Maritain e del gesuita americano John Courtney
Murray, a lui di poco successivo. Felice
scelta, questa di illustrare la figura di questo gesuita, meno nota al pubblico,
soprattutto italiano. In primo piano, ovviamente,
l’apporto decisivo del famoso filosofo cattolico Jacques Maritain, l’ ex
discepolo di Maurras trasformatosi nel profeta del cattolicesimo liberale dopo l’improvvisa
damnatio dell’Action Française voluta attuare nel 1926 da Pio XI,
senza un documento di esplicita condanna dottrinale e prevaricatrice nella
forma.
Quest’intervento ha anche il merito di
riproporre le componenti francesi (al pubblico italiano meno note)
dell’atmosfera di palingenesi rivoluzionaria nuovamente diffusasi in Europa, dall’inizio
degli anni Trenta del secolo scorso dopo i sommovimenti del primissimo Dopoguerra. Dominava nella cultura il senso della crisi
totale di un mondo, e ciò nutriva un’esigenza di rinnovamento pure totale.
La Grande
Guerra si era conclusa con la vittoria delle democrazie contro le c.d. “autocrazie”,
anche se l’unica vera autocrazia europea, quella zarista – il cui collasso
portò al potere il bolscevismo nuova
“autocrazia”, ma di rivoluzionari settari e sanguinari – aveva combattuto dalla
parte delle democrazie: una delle tante ironie della storia. Le democrazie avevano vinto soprattutto
perché materialmente più forti, grazie all’intervento economico e militare
americano, e una guerra così lunga e terribile, seguíta da una vittoria così
faticosa e sanguinosa, aveva
corroso i loro ideali e messo a nudo tutto il loro egoismo. L’ingordigia e la megalomania dello Stato
Maggiore tedesco impedirono a loro volta una pace di compromesso dopo il crollo
della Russia ossia dopo la vittoria degli Imperi Centrali ad Est, non saputa da
loro sfruttare per chiudere l’immane conflitto da una posizione di vantaggio, pur
dovendo fare le opportune concessioni a Ovest. Lo Stato Maggiore tedesco, oltre
all’Alsazia e alla Lorena voleva mantenere anche il possesso del Belgio, quasi
tutto occupato. Gli Imperi Centrali cercarono di vincere anche a Ovest
esaurendosi, nella primavera ed estate del 1918, in poderose quanto sterili
offensive sul fronte francese e italiano, cosa che li portò progressivamente al
collasso, verificatosi nell’autunno dello stesso anno. Il risultato veramente grave della I g.m. fu
la vittoria del comunismo, al potere in un grande e potente Stato come la
Russia: vittoria di quelle minoranze
estremiste e visionarie che, cogliendo tuttavia nel segno, avevano visto nella
Grande Guerra l’evento capace di far crollare un mondo e di rilanciare le
smisurate utopie dei rivoluzionari. La guerra continuava sotto forma di rivoluzione
mondiale comunista, per la “liberazione” delle classi “ oppresse” e di
tutti i popoli dal giogo del capitalismo, la creazione di un uomo nuovo,
senza famiglia, senza patria, senza Dio, immerso nel Collettivo il cui tessuto
connettivo sarebbe stato il proletariato mondiale; avente solo il Partito
Comunista come padre e madre, fratello e sorella; portatore del mito di una
fratellanza ed uguaglianza universali, da realizzarsi però con la lotta di
classe, i disordini sociali, le rivoluzioni, le guerre, insomma con la violenza
più spregiudicata e spietata,
“levatrice della storia”.
4.1 La
percezione della decadenza della Nazione, nella Francia del Primo Dopoguerra.
La crisi dei cattolici francesi era seria. Messo al bando Maurras, dove sarebbero andati
quegli intellettuali che non volevano lasciarsi sedurre dalla sinistra
rivoluzionaria e marxista? Occorreva
trovare una “terza via” e questo còmpito assolse in particolare Maritain. “Fu in questo periodo di agitazione religiosa
e politica che gli intellettuali degli anni Trenta lanciarono il loro appello
per un ordine nuovo, una rivoluzione. La
loro identità si era formata sotto lo choc della Prima Guerra mondiale e della
Grande Depressione: li accomunava un’improvvisa presa di coscienza rivoluzionaria
circa la necessità di salvare la civiltà”. Li
accomunava anche una polemica violenta contro i loro predecessori, una diffusa
sfiducia nei miti del progresso, messi in crisi per l’ appunto dalle ecatombi
di una guerra di quella portata, un disprezzo profondo per la decadenza delle
élites borghesi e capitaliste. Nel 1934,
un autore scriveva: “questa generazione
si è eretta contro l’egoismo ottuso del mondo borghese liberale, contro il
materialismo economico e spirituale, contro l’impotenza di una politica senza
spirito e senz’anima”.
L’avversione alla decadenza borghese e
parlamentare accomunava destra e sinistra, anche se la prima voleva
rifondare la nazione, la seconda annientarla mediante la rivoluzione. Questo
senso di sconcerto, ripulsa e rivolta contro la società borghese decadente, mi
sembra giusto ricordarlo, risultava nettamente in eccellenti scrittori degli
opposti schieramenti, quali il comunista militante Paul Nizan (Aden
Arabie, La conspiration), caduto in combattimento nel 1940 durante la disperata
battaglia per la difesa della sacca di Dunkerque e Pierre Drieu La Rochelle,
valoroso combattente nella Grande Guerra. Di temperamento un esteta,
personalità contraddittoria, quest’ultimo viveva nella decadenza del raffinato milieu
borghese di appartenenza e nello stesso tempo la detestava. Fu attratto
dall’ideologia fascista dopo la crisi del febbraio del 1934. Dopo il crollo del 1940, accettò per un triennio
un’importante carica culturale nella Repubblica di Vichy - morì suicida (peraltro
deluso da tutto) a casa sua, a Parigi, nel 1945, per sottrarsi all’arresto già
decretato dai vincitori, che molto probabilmente l’avrebbero fucilato, anche se
durante il suo periodo di “collaborazionismo”
aveva aiutato a salvarsi diversi intellettuali della Resistenza, tra i quali
Sartre e Malraux. È anche vero che
rifiutò di nascondersi con l’aiuto di Malraux e che il suicidio era stato per
lui un tema non solo letterario.
Il suo lungo romanzo Gilles, del 1939,
è la storia di un intellettuale irrequieto e libertino (in sostanza lui stesso)
disgustato dall’atmosfera superficiale e decadente dell’ambiente politico e
letterario della Parigi del tempo, del
quale fa un ritratto impietoso ma abbastanza vicino al vero. Recatosi alla fine come corrispondente di
guerra in Ispagna dal lato nazionalista, Gilles si trova ad impugnare
all’improvviso anche lui il fucile per difendersi da un attacco in piena regola
dei Repubblicani: circondato in una Plaza de Toros, si accosta come gli altri
ad una feritoia e si mette a sparare, mirando… Questo il finale, che all’epoca fece notevole
impressione su noi giovani, di varie tendenze politiche: su quest’esistenza
problematica, senza veri affetti, sgradevolmente cinica anche se cosciente
delle proprie viltà e cattiverie, irrompe
alla fine liberatrice la morte in battaglia, per una nobile causa, apparsa
all’improvviso: la difesa della religione e della patria -- vera, autentica,
virile palingenesi. Colpiva nel libro,
nonostante il fastidio delle ripetute
storie d’amore fatalmente destinate al fallimento, l’impietosa e lucida analisi
della propria, interiore “decadenza”; l’assenza di ipocrisia nei confronti di
se stesso, l’aspirazione al riscatto nell’azione eroica, il disprezzo della
morte. Da antologia le pagine sul
Congresso del Partito Radicale francese allora al potere, a uno dei quali Drieu
aveva effettivamente presenziato nel 1925:
l’atmosfera mefitica della democrazia parlamentare caduta in mano ai notabili
di partito, con i suoi stanchi riti e l’insopportabile retorica, vi è descritta
alla perfezione.
L’avversione
comune per l’ordine costituito “parlamentare”, “borghese”, “capitalista” e
“massonico”, non era solo letteraria.
Nella terribile giornata del 6 febbraio del 1934, sovraeccitate
dal suicidio ritenuto sospetto di un noto affarista ebreo russo, Alexandre
Stavisky, protagonista di uno scandalo finanziario nel quale erano coinvolti
esponenti dell’establishment radical-socialista al governo (ultimo di
una serie, questo scandalo), nutrite formazioni di destra ed estrema destra, con molti ex-combattenti,
più una meno numerosa di estrema sinistra, al grido di “Abbasso i ladri!”,
tentarono addirittura l’assalto al Palais Bourbon dove stava insediandosi
l’ennesimo nuovo governo della sventurata III Repubblica. Fu una battaglia
violentissima: la polizia dovette sparare, uccidendo quindici dimostranti
mentre un poliziotto veniva a sua volta ucciso; ma i feriti, anche gravi,
furono parecchie centinaia, molti dei quali poliziotti, ridotti alcuni di loro
all’infermità permanente. Quest’evento,
dal taglio insurrezionale, fu poi sfruttato dalle sinistre per portare due anni
dopo il Fronte Popolare al governo.
4.2 La
sagra degli umanesimi fabbricati a tavolino, da quello “integrale” di Maritain
a quello “marxista”, costruito sugli scritti di Marx giovane, scoperti negli
anni Trenta del secolo scorso.
In questo clima, gli intellettuali cattolici
si impegnavano nella ricerca della loro terza via, raggruppandosi attorno a
riviste importanti, come sottolinea il prof. Kirwan, la più influente delle
quali sarebbe poi stata Esprit, fondata da Emmanuel Mounier. Dalla precisa ricostruzione del prof. Kirwan una
cosa emerge nettamente: questi
intellettuali, incapaci di riproporre i valori cattolici tradizionali, non
diedero in realtà vita a nessuna autentica, autonoma terza via; il loro “nuovo umanesimo” si risolse in una
pasticciata soluzione di compromesso col marxismo e l’ideologia democratica americana. Nella coppia Maritain-Mounier già si vede
albeggiare quel “catto-comunismo” apportatore di tanti disastri, così bene e
impietosamente anatomizzato da Augusto Del Noce per ciò che riguarda l’ Italia.
“Esprit diffuse la filosofia del
personalismo e un marcato indirizzo cattolico-marxista. La critica della
società fatta da questi intellettuali cattolici era imbevuta di un senso
esagerato della loro missione storica, innestato su di una visione religiosa,
politica e culturale quasi utopistica. Si proponevano addirittura una rinascita
integrale della Francia, in opposizione a secoli di decadenza ed illusioni,
cercando di dar vita ad una visione sociopolitica e antropologica che avrebbe
inaugurato una nuova era.” Gli studiosi contemporanei hanno sottolineato
l’intensità eccezionale del loro pessimismo e la loro immensa autostima, che li
induceva a proclamarsi l’avanguardia di un movimento di “rigenerazione nazionale
e di civiltà”.
Tutto ciò veniva condensato nella formula del Nuovo
Umanesimo. Formula, annoto,
ricorrente a partire dalla Rivoluzione Russa e da quella fascista, propugnanti
entrambe la creazione di un “uomo nuovo” secondo le rispettive ideologie. Recentemente, se non erro, anche Papa
Francesco ha menzionato, in termini vaghi, la necessità di “un nuovo umanesimo”,
certamene nello spirito delle proposizioni dal sapore neo-illuminista presenti
nell’art. 55 della Costituzione conciliare Gaudium et spes sulla Chiesa
e il mondo contemporaneo, affermanti addirittura l’emergere di un grande
progresso morale in tutto il mondo, come se stesse appunto spuntando un nuovo
umanesimo, per la verità non riscontrabile sul piano dei fatti storici
concreti, i quali mostravano all’opposto l’inizio di una involuzione in senso
edonistico, crassamente materialista delle società occidentali.
L’umanesimo “fu l’ossessione
dell’epoca”. In effetti, “ tutte le
ideologie importanti di questo periodo cercavano di rifondarsi in termini
umanistici: il marxismo, il fascismo e il repubblicanesimo [l’ideologia –
antimonarchica - degli Immortali
Principi dell’89], nonché le diverse componenti del pensiero cattolico, quali
il tomismo e il personalismo. Si tentò persino un approccio umanistico alla
colonizzazione francese. L’umanesimo marxista nacque negli anni Trenta, quando
furono scoperti gli scritti giovanili di Marx”.
Val la pena di ricordare che, nella profonda
crisi morale seguíta anche alla II g.m., l’esigenza di un nuovo umanesimo fu
ancora una volta riproposta, questa volta in chiave esistenzialista, a
partire da una famosa gremitissima conferenza parigina di Jean-Paul Sartre,
del 28 ottobre 1945, intitolata: L’existentialisme est un humanisme. Dopo la barbarie nazista e “la morte di Dio”,
i “valori dell’umanesimo” potevano esser salvati solo se rivissuti in chiave
pervicacemente terrena, “nell’azione e nella decisione”, rinnegando radici e
tradizioni, galleggiando sul nulla, “progettandosi” nella più assoluta libertà
e “possibilità di essere”. L’umanesimo di Sartre aveva come insegna un
dictum della sua opera filosofica maggiore, del 1943, L’être et le néant: “l’esistenza precede l’essenza” (ossia,
l’essenza dell’uomo non esiste, si forma esistendo, nella situazione
di fatto, empiricamente ed erraticamente).
Una simile impostazione, logicamente insostenibile, distruggeva comunque alla radice ogni
possibile “umanesimo”, dissolvendolo in un nichilismo radicale, perché affidato
inesorabilmente alla c.d. “etica della situazione” – una visione del mondo senza
princìpi, incentrata sull’autodeterminazione assoluta del soggetto in relazione
alle esigenze della “situazione” esistenziale data, creata dallo stesso
soggetto nella sua multiforme, narcisistica prassi quotidiana. Tali esigenze erano poi fatalmente in primo
luogo quelle della libertà sessuale più completa e sfrenata, messa notoriamente
in pratica per decenni dallo stesso Sartre e dalla sua non meno famosa compagna
bisessuale, la scrittrice Simone de Beauvoir, esempio rimasto classico di
“coppia aperta” e simbolo della Rivoluzione Sessuale che ha fatto scuola, per
la corruzione di molti, maschi e soprattutto femmine.
Seguì nel 1949, su suggerimento di ambienti
filosofici francesi, la celebre Lettera sull’”umanismo” di Martin
Heidegger, dalla quale, tuttavia, invano si sarebbero attesi chiarimenti
sulla natura dei valori “umanistici” da restaurare dopo la catastrofe, restaurazione
nella quale alitava sia pur confusamente l’esigenza di una riappropriazione
dell’etica tradizionale. Anzi,
Heidegger, alla sua maniera criptica e tortuosa, sembrava mettere in
discussione il concetto stesso tradizionale di “umanesimo” per risolverlo nelle
modalità “del pensiero della storia dell’essere: il rigore della meditazione,
la cura del dire, la parsimonia delle parole”.
Pur ammettendo la necessità di una rifondazione dell’etica, in nome
appunto dell’umanesimo, non dava tuttavia autentici lumi in questa direzione. Né si vede come avrebbe potuto, essendo
l’immanentismo esistenzialistico heideggeriano del tutto chiuso alla dimensione
etica in senso proprio.
Ma torniamo alla Francia. Nell’ articolo programmatico di Esprit,
intitolato Refaire la Renaissance, Mounier esponeva il “progetto
personalista” nell’àmbito di una visione mirante nientemeno che a “rebâtir
la civilisation de fond en comble”.
Si doveva “riabilitare la comunità; il nuovo umanesimo avrebbe corretto
‘quattro secoli di errori’ verificatisi a causa degli eccessi individualistici
del Rinascimento e di quelli collettivistici del XIX secolo. Questa riabilitazione altro non sarebbe stata
che la costruzione di una nuova società, nella quale i valori cristiani
avrebbero regnato su un mondo laico pluralistico”.
Non sembra di sentire già qui risuonare la
chiacchera velleitaria e presuntuosa di tante esternazioni del
Postconcilio? Ma poi questo “nuovo umanesimo”,
al quale Esprit dedicava il numero dell’ottobre del 1935, a cosa si
riduceva concretamente, secondo l’articolo Notre humanisme. Déclaration collective? A fomentare la “guerra contro il
capitalismo, lo spirito borghese, la proletarizzazione, l’ imperialismo e la
divinizzazione delle forze di produzione […] in nome della dignità e delle
aspirazioni fondamentali della persona umana”. Questo personalismo umanista voleva
costituire “l’identità umana fondamentale sul desiderio spirituale di
trascendenza”, opponendosi apertamente ai conclamati umanesimi comunisti e
fascisti, “che si fondavano o sul lavoro e la produzione o su esaltate
mitologie nazionalistiche”.
In verità, osservo, nel movimento fascista,
accanto all’ eccessiva esaltazione nazionalista e al culto spropositato del
Capo, c’era anche “l’umanesimo del lavoro”, teorizzato da Giovanni Gentile, Ugo
Spirito e altri, nobile ideologia che il regime nella fase iniziale aveva cercato
di mettere in pratica, con le grandi opere di assistenza sociale e di lavori
pubblici basati su un’ampia e spontanea mobilitazione proletaria (Mussolini
artefice carismatico della grandiosa bonifica delle Paludi Pontine a sud di
Roma; fondatore di città, nelle zone bonificate e in Sardegna, per esempio) ---
salvo poi contraddirlo, quest’umanesimo, con la mancata realizzazione dello
Stato Corporativo cioè di una vera
rappresentanza popolare basata sulle categorie professionali e operaie; con le megalomanie imperiali apportatrici di
una infausta politica di potenza e le assurde leggi razziali del novembre del
1938, che crearono una sorta di apartheid nell’Impero (Africa Orientale Italiana)
e discriminarono di colpo e senza giustificazione alcuna gli ebrei,
rinchiudendoli in un umiliante ghetto giuridico, economico, spirituale;
soperchieria particolarmente sleale nei confronti dei tanti ebrei fascisti attivi
e convinti, e persino nazionalisti accesi.
Il duo Maritain-Mounier non era certo disposto
a fare sconti ad un’ideologia come quella fascista. Diverso il suo atteggiamento verso il comunismo. L’equilibrio tra i due estremismi era più
apparente che reale: si tendeva a sinistra, a legittimare non la prassi ma l’istanza comunista, almeno in certi
suoi fondamentali aspetti.
L’opera di Maritain che esercitò una
vastissima influenza fu, come sappiamo, Humanisme intégral, lezioni del
1934 pubblicate nel 1936, l’anno nel quale andò al governo in Francia il Fronte
Popolare mentre in Ispagna scoppiava la sanguinosissima guerra civile. Questo
testo “ha aperto un varco decisivo per l’accoglimento di determinate correnti
secolaristiche da parte dei cattolici”, tanto da esser considerato un vero e
proprio “libretto rosso” di tutta una generazione cattolica. Cercando di comprendere il diverso “clima
storico” delle varie epoche, Maritain giungeva a scorgere alcuni aspetti positivi
nella modernità, tali da poter confluire, secondo lui, nello “ideale storico
concreto della nuova cristianità”. In
tal modo Maritain dava il suo contributo alla rilettura della storia, alla
“coscienza della storia” (conscience historique), sia universale che
francese, revisitation nell’ambito del più ampio dibattito sulla crisi e
“decadenza” della Nazione: la Francia aveva ricostituito l’integrità
territoriale dopo la disfatta del 1870 ed era tornata ad esser considerata una
grande potenza, riconosciuta come tale, ma solo dopo esser passata per la fornace
della Grande Guerra. L’ambiente intellettuale (notazione particolarmente
illuminante) era saturo di riflessioni sul senso della storia nazionale, reinterpretata
secondo i diversi punti di vista: nella storia passata andavano scoperte le
radici del “disordine stabilito”.
In effetti, Maritain elaborò una sua
“filosofia della storia” per costruire il modello di società da proporre ai cattolici contemporanei. Teorizzava una “società democratica
pluralista, protettrice della persona umana e delle comunità autentiche. La
base comune ai suoi membri non sarebbe stata religiosa o metafisica, perché costituita
dall’idea della dignità della persona e dei diritti promananti da siffatta
dignità – idea la cui realizzazione sembrava meglio garantita da una società pluralista
e laica”. Un modello di società del genere non sarebbe
stato acattolico o comunque acristiano, come sembrerebbe a prima vista; al contrario avrebbe potuto realizzare al
meglio l’ideale di una nuova cristianità. Questa straordinaria tesi è in pratica il
motivo di fondo di Umanesimo integrale.
“Di più, in questo capitolo [dedicato a La
città temporale
astrattamente considerata] si tratterà dell’ideale storico di una nuova cristianità. Ricordiamo che la parola cristianità (quale noi
l’intendiamo) designa un certo regime comune temporale le cui strutture
recano, su gradi e modi del resto molto variabili, l’impronta della concezione
cristiana della vita. C’è una sola verità religiosa
integrale; c’è una sola Chiesa cattolica; possono aversi alcune civiltà cristiane, alcune
cristianità diverse. Parlando di una nuova cristianità, parliamo
dunque di un regime temporale o di una età di civiltà la cui forma animatrice sarebbe
cristiana e che risponderebbe al clima storico dei tempi nei quali entriamo.”
Dobbiamo ritener sia chiaro il concetto
di una sola verità religiosa “integrale”
che tuttavia permette di esser applicata in “diverse cristianità” ovvero in
modo non integrale? Se questa
verità religiosa è integrale, come può la sua applicazione far nascere diverse
cristianità? Il significato del termine “integrale”
diventa confuso. E che vuol dire,
inoltre, “forma animatrice”? Nelle sue
definizioni e distinzioni Maritain, si sa, tende al nebuloso e a volte dà addirittura
l’impressione di improvvisare. Nell’ottica di Maritain la società non
avrebbe più dovuto conformarsi ai
valori del cristianesimo e quindi esser, per quanto possibile, cattolica. All’opposto, il cristianesimo inteso da lui
in modo “nuovo” sarebbe andato oltre questa visione tradizionale, cioè oltre il
cattolicesimo stesso, per diventare una “forma” capace di “animare” una società nella quale credenti
e non credenti avrebbero convissuto all’insegna del valore (supposto ma in
realtà da proporre come) comune, rappresentato dalla “dignità della persona”. Il cristianesimo non dovrebbe più convertire, esso
dovrebbe limitarsi ad “animare”, per quanto oscuro appaia il significato di
questo termine. Dalla conversione dei
popoli all’insegnamento di Cristo (Mt 28, 19 ss.) alla loro semplice animazione
in senso cristiano! Comunque sia, un
bel passo indietro, no? Per non voler
usare l’espressione forte, ma forse non troppo forte qui, di: “tradimento della
missione della Chiesa”…
Quest’impostazione la ritroviamo in
certi passaggi del Vaticano II, pastorale Concilio che ha recepito il tema
della instauranda società pluralistica a livello globale, pertanto non più da
“convertire a Cristo” l’umano consorzio ma più democraticamente da “animare”
(in “dialogo” con tutte le altre religioni e visioni del mondo). Vedi i riferimenti alla “animazione cristiana
delle realtà temporali” in: Gaudium et spes 43; Apostolicam Actuositatem 7; Lumen Gentium 31, 34, 35, 36; etc.
(reperibili in ogni indice analitico dei Documenti del Concilio Vaticano II).
Ma siffatta animazione posta in essere
dai cattolici, per quanto oscura nel suo concetto, non dovrà presupporre la
condivisione di alcuni valori fondamentali con i cristiani non-cattolici e gli
acattolici, al fine di dimostrarsi anche minimamente efficace? Il terreno comune agli uni e agli altri,
Maritain lo va a trovare nel concetto della “dignità della persona”, a suo dire
ben presente nei Vangeli, addirittura.
L’opera “comune” da realizzare unitamente ai non-cattolici e acattolici,
sarebbe pertanto un’opera di amicizia e fraternità universali basata
sull’amore.
“Così, ciò che dovrebbe essere per una siffatta
civiltà il principio dinamico della vita comune e dell’opera comune, non
sarebbe l’idea medievale d’un impero di Dio da edificare quaggiù, e ancor meno il mito
della Classe, della Razza, della Nazione o dello Stato. Diciamo che sarebbe l’idea – non stoica, né
kantiana, ma evangelica – della dignità della persona umana e della sua
vocazione spirituale e dell’amore fraterno che le è dovuto. L’opera della città sarebbe di realizzare
una vita comune quaggiù, un regime temporale
veramente conforme a questa dignità, a questa vocazione e a questo amore…”. Naturalmente, precisa Maritain, non potrebbe
esserci “un minimo dottrinale comune” tra cattolici, non-cattolici,
acattolici. Come fare allora? Semplice:
“Gli uni e gli altri sono chiamati non
alla ricerca d’un minimo teorico comune, bensì all’attuazione di un’opera
pratica comune. E allora la
soluzione comincia a delinearsi.
Quest’opera pratica comune, l’abbiam detto, è un’opera non sacrale
cristiana, ma profana cristiana.
Intesa nella pienezza e nella perfezione delle verità che implica,
impegna certo tutto il cristianesimo, tutta la dommatica e tutta l’etica
cristiana: solo nel mistero
dell’Incarnazione redentrice il cristiano scorge che cosa sia la dignità della
persona umana e quanto costi. L’idea che il cristiano ne ha si prolunga quasi
all’infinito e raggiunge il suo significato pieno in modo assoluto solo in
Cristo. Ma proprio perché profana e non
sacrale, quest’opera comune non esige da ciascuno, come entrata in giuoco, la
professione di tutto il cristianesimo.
Al contrario comporta nei suoi tratti caratteristici un pluralismo che
rende possibile il convivium dei
cristiani e dei non cristiani nella città temporale.”
Riflettiamo. Il “principio dinamico” della vita comune di
questa società nella quale opererebbe la “nuova cristianità”, non sarebbe
costituito da “un minimo teorico comune”, impossibile a priori, bensì dalla
condivisione solo pratica di un principio comune, quello della “dignità della
persona”, che, per i cristiani, risulterebbe, secondo Maritain, affermata dal
mistero dell’Incarnazione. Ma innanzitutto va ricordato, contro la falsa
esegesi di Maritain, che Cristo Nostro Signore si è incarnato per la nostra
redenzione dal peccato, per salvare le anime degli uomini peccatori
convertendole a Sè e non per restaurare una supposta nostra dignità primigenia,
in quanto uomini --- caso mai
per restaurarla unicamente in quanto cristiani, in quanto peccatori
convertitisi a Lui e viventi in Lui ogni giorno con l’aiuto imprescindibile della
sua Grazia, riceventi l’adozione a Figli di Dio, status da mantenersi con la
fede e le opere nella dura lotta quotidiana contro Satana (vedi supra, § 3).
In secondo luogo, il principio
“dinamico” rappresentato dalla dignità dell’uomo per noi cristiani pur risulta
da un presupposto dottrinale, costituito (secondo lo stesso Maritain)
dalla fede nell’Incarnazione come spiegata dalla relativa teologia, che si serve
anche di categorie filosofiche. Il
principio “dinamico”, che si vuole valido per la prassi pluralistica implica
perciò di per sè un sostrato teorico, anche “minimo”. Non è possibile (sottolineo) separare la
prassi dalla corrispondente teoria. La prassi non è mera proiezione occasionale
di situazioni di fatto, se non per momenti brevi ed eccezionali. Essa implica sempre una teoria, più o meno
consapevole, più o meno approfondita.
Perciò, i non-cattolici e acattolici potranno aderire ad un’azione comune
in base al principio del rispetto della dignità dell’uomo, solo se lo
troveranno conforme al loro “minimo teorico”.
Ora, è noto che né i musulmani né l’ebraismo ortodosso possiedono un concetto
della “dignità dell’uomo” come quello propugnato da Maritain, appunto perché il
loro sostrato teologico non lo consente. Ma non lo consente nemmeno
l’ortodossia cattolica, la cui visione di questa “dignità” abbiamo visto avere
un fondamento solo religioso e un significato diverso (vedi supra, § 3, cit.). In aggiunta, ulteriormente diversi sono i
presupposti teoretici a fondamento della nozione laica di “dignità dell’uomo”,
come si è detto, per di più ostili alla nozione autenticamente cristiana della
stessa, per via del rigetto radicale del dogma del peccato originale. Maritain credeva di poter far convivere il
diavolo e l’acqua santa, come si suol dire.
Visioni religiose tra loro confliggenti e divise da odi plurisecolari,
avrebbero dovuto concorrere nell’edificare una “società pluralista”, per di più
in simbiosi con il pensiero laico moderno e contemporaneo, nemico di ogni
trascendenza, per il quale la fede e la teologia sono solo frutto di un atteggiamento
primitivo e superstizioso da eliminare (esso stoltamente crede) con il
progresso nella scienza e nello studio delle leggi della società.
Conclusione:
l’attuazione di un’opera pratica comune fra visioni del mondo che non
hanno in comune i fondamenti e sono anzi tra loro ostili, possibile solo facendo finta che
si riesca a mettere da parte tali fondamenti reciprocamente diversi e ostili,
appare del tutto assurda e controproducente, contro natura. Teorizzarla come cosa non solo possibile ma
anche necessaria, è solo frutto di dilettantismo filosofico, odio per la sana
dottrina, megalomania. Il “dialogo” mediante
il quale la Gerarchia cattolica odierna fa mostra di applicare gli insegnamenti
di Maritain, in nome appunto del rispetto della “dignità dell’uomo”, della
quale si riempie continuamente la bocca, per ciò che riguarda i partners coinvolti
è solo una commedia, basata sull’inganno: i partners si adeguano
al “dialogo” per la costruzione in comune di un mondo migliore e la fratellanza
universale richiesto ossessivamente dal Vaticano unicamente per i grandi
vantaggi materiali e politici che ne ricavano (p.e., l’invasione incontrastata
dell’Europa da parte dei musulmani) ma dentro di sè certamente disprezzano tutti
questi preti cattolici senza nerbo e senza fede, proni a tutti i
compromessi. E difatti, a quali frutti
ha portato, il “maritainismo” applicato con il “dialogo”, per la Chiesa e le
nazioni cattoliche? C’è bisogno di
ripeterlo, che entrambe appaiono da tempo in via di dissoluzione?
La
società “democratica, pluralista e laica” ce l’abbiamo sulla groppa da decenni,
e la sua decadenza (iniziatasi formalmente agli inizi degli anni
Sessanta del XX secolo, con l’ arrivo della “pillola” anticoncezionale nelle
farmacie americane) ci impone ormai da troppo tempo vere e proprie aberrazioni
in campo etico, sociale e culturale. Maritain è stato buon profeta, anche se falso
profeta per quanto riguarda l’avvenire del cattolicesimo, devastato e oggi
quasi demolito proprio dal compromesso con le ideologie della “democrazia
pluralista e laica”.
*
*
Il principio portante dell’umanesimo dei
vari Maritain e Mounier è dunque costituito dai concetti della persona e
della dignità dell’uomo, valori supremi, da intendersi evidentemente
come assoluti. Pertanto, Maritain descriveva l’umanesimo da lui proposto come
“un umanesimo teocentrico radicato dove l’uomo ha le sue radici, umanesimo
integrale, umanesimo dell’Incarnazione”. Parole ad effetto che
sicuramente affascinavano i giovani cattolici in cerca di una nuova guida ma
che oggi possono sembrare abbastanza oscure.
Che vuol dire “umanesimo dell’ Incarnazione”? Il filosofo (annoto) lo spiegava ad esempio
in un saggio del 1930: si tratterebbe “di un umanesimo purificato dal sangue di
Cristo”, in sostanza della concezione cristiana della vita, contrapposta a
quella moderna e contemporanea, antropocentrica. “Un siffatto umanesimo [cristiano],
rispettando le gerarchie essenziali, mette la vita contemplativa al di sopra di
quella attiva, sa che la vita contemplativa tende più direttamente all’amore
del primo Principio, nel quale consiste la perfezione. Non è che la vita attiva venga sacrificata;
deve tuttavia tendere al tipo che ne realizzano i perfetti ovvero ad una
attività che tracimi interamente dalla sovrabbondanza della contemplazione.”
Un “umanesimo” a tendenza mistica,
allora, almeno nelle intenzioni iniziali?
Ma di “mistico” in senso proprio, in Umanesimo integrale sembra esserci
piuttosto poco. È un testo che propugna
una visione politica esaltata, di tipo millenaristico (si sragiona addirittura
dell’avvento di una nuova cristianità della quale Maritain
si era autoeletto profeta e legislatore).
Esso elabora una sorta di filosofia della prassi cristiana in
concorrenza con quella marxista e dei vari millenarismi laici al tempo
correnti.
Il prof. Kirwan fa notare che una parte
notevole di Humanisme intégral è consacrata all’analisi del marxismo e
del comunismo. Il che, osservo, non pare
in realtà scandaloso, vista
l’enorme importanza che essi avevano assunto, a livello mondiale. Quello che fa
specie è la mancanza di una vera critica ad entrambi da un punto di vista
rigorosamente cattolico. Nonostante alcuni dissensi di fondo, Maritain loda l’ “intuizione profonda e la
perspicacia antropologica di Marx”, che si sarebbero rivelate nel dimostrare
che il capitalismo e la “servitù economica” creano “eteronomia o alienazione,
disumanizzando sia il proprietario che il proletario allo stesso tempo”.
Questo è un punto che va approfondito perché
vi compare, a mio avviso, l’e r r o r e che ha caratterizzato l’approccio dei
cattolici progressisti al marxismo. Cito per esteso il testo di riferimento
nella traduzione italiana. Chiosando
sullo “immanentismo realistico” di Marx, Maritain scrive: “Da una parte, infatti, la profonda
intuizione avuta da Marx delle condizioni d’eteronomia o d’alienazione fatte
nel mondo capitalistico alla forza-lavoro, e della disumanizzazione da cui il
possidente e il proletario vi sono simultaneamente colpiti; questa intuizione
che è, crediamo, la gran luce di verità che attraversa tutta la sua opera egli
l’ha immediatamente concettualizzata in una metafisica antropocentrica, ove il
lavoro ipostatizzato diventa l’essenza stessa dell’uomo e ove, recuperando la
propria essenza mediante la trasformazione della società, l’uomo è chiamato a
rivestire gli attributi che l’“illusione” religiosa conferiva a Dio.”
Circa la “profonda intuizione marxiana”
dell’alienazione prodotta dal sistema capitalistico, Maritain aggiungeva in
nota, rifacendosi ad un pubblicista dell’epoca, Paul Vignaux: “Il compito proprio a una critica del marxismo
sarebbe quello di spogliare questa intuizione dagli errori filosofici in
funzione dei quali è stata concettualizzata da Marx. Un tale compito s’impone tanto più in quanto
in verità, e qualunque avversione Marx abbia personalmente nutrito contro il
cristianesimo, questa intuizione è essa stessa pregna di valori
giudaico-cristiani.”
L’ errore mi sembra qui duplice. Da un
lato, si attribuisce alla “profonda intuizione marxiana” del (supposto)
carattere alienante del lavoro nella società capitalistica un’ universalità che
non possiede poiché Marx vede questa “alienazione” s o l o nel lavoro dell’operaio. Dall’altro, si ritiene di poter separare
questa (supposta) “profonda intuizione” dagli “errori filosofici” dai quali è
purtuttavia originata. Ma come è
possibile, mi chiedo, separarla dal suo sostrato materialista e più ancora da
quello hegeliano, del quale peraltro Maritain non sembra aver contezza?
A sostegno di quest’auspicato recupero su
altre basi della “profonda intuizione marxiana”, Maritain ci propina quello che
è diventato un vero e proprio mito del progressismo cattolico, al fine di
giustificare le sue compromissioni con il pensiero moderno: esser cioè questo pensiero, persino quello di
Marx, “pregno dei valori giudaico-cristiani”.
Il “giudaico” per la verità appare di troppo ma ciò che conta qui è
l’elevazione di Marx a cristiano in incognito, se così possiamo
dire. Del resto, Maritain non esita ad
affermare che “l’idea di comunione”, la quale il comunismo cercherebbe notoriamente
di realizzare alla sua peculiare, spietata maniera, “è idea di origine
cristiana”. Ed anzi, “sono virtù
cristiane le virtù ‘impazzite’ delle
quali parlava Chesterton; è lo spirito
di fede e di sacrificio, sono le energie religiose dell’animo, che il comunismo
si sforza di attrarre a profitto della propria opera e delle quali ha bisogno
per continuare a vivere.”
Ma simili “virtù”, mi chiedo, non esistevano
anche nel mondo antico? Che cosa le
renderebbe specificamente “cristiane”?
In realtà, come tali, non lo sono.
Possono ritrovarsi nel cristianesimo come in altre religioni o attitudini
spirituali o del carattere. Nel mondo greco-romano il patriottismo ci offre svariati esempi di abnegazione,
dedizione, spirito di sacrificio, virtù domestiche. Le virtù tipicamente
cristiane non sono forse l’umiltà, l’obbedienza, la carità, la semplicità del
cuore, la castità del corpo e dello spirito? Che cosa poi abbia in comune con
il socialismo “scientifico” di Marx “l’idea di comunione” originatasi e
praticata in àmbito cristiano, non si saprebbe in verità dire. Non vediamo qui
appunto l’ apparire di un atteggiamento erroneo e superficiale che ritroveremo
ad esempio in certi testi del Concilio Vaticano II? Ossia l’impostazione secondo la quale i
valori della modernità atea e miscredente, votata all’immanenza, sono valori in
origine cristiani che i cattolici dovrebbero recuperare e inverare nel
cattolicesimo, in tal modo rinnovandolo.
Recuperare, si intende, dopo averli “depurati” dei loro errori
filosofici di base. Lo si dice a chiare
lettere, in Umanesimo integrale:
“Tale è dunque, secondo noi, l’ideale storico concreto che è opportuno
farsi d’una nuova cristianità [quello della società profana cristiana
pluralistica]; tale è il modo col quale il cristianesimo può – crediamo –
salvare, per trasmetterle all’avvenire purificandole dagli errori mortali in
cui erano coinvolte, le verità sulle quali l’età moderna s’è tanto impegnata
nell’ordine culturale”. Visione
ingenua e persino meschina nel disconoscimento delle ragioni filosofiche
profonde dell’ Avversario. Penetrata
nelle aperture “ecumeniche” del Vaticano II (p.e. in Gaudium et spes 37), il suo unico risultato è stato quello di
dissolvere gli autentici valori cattolici nell’abbraccio mortale con i valori
in cui crede il Secolo, tra l’altro da tempo essi stessi in piena involuzione e
decadenza.
4.3 L’indebita esaltazione della “antropologia”
marxiana.
Veniamo ora alla “intuizione profonda” e alla “perspicacia
antropologica” di Marx. In cosa
consistono esse veramente, visto che la sua antropologia cioè a dire la
sua concezione dell’uomo, appare ricalcata sul sensualismo e sul naturalismo
di Ludwig Feuerbach, il padre della “sinistra hegeliana”? L’unica sostanziale modifica apportata dal
giovane Marx a Feuerbach riguarda l’estensione della visione materialistica,
antimetafisica e antireligiosa di quest’ultimo dall’individuo al genere,
poiché per Marx l’individualità era sempre il risultato dei rapporti sociali (di
poi assorbiti nel concetto di rapporti materiali di produzione). Per lui, l’uomo aveva senso unicamente in quanto
appartenente al Gattungswesen cioè come “essere appartenente a una determinata
specie”, secondo la traduzione del termine suggerita da Norberto Bobbio, più
precisa dell’usuale “essere generico” (Gattung indica “la specie”, “il
genere”; Wesen invece “l’essenza” ma anche la natura di un ente,
un fenomeno o il suo esistere come istituzione cioè secondo il suo Wesen). Ora, per Feuerbach e Marx l’essenza o natura
dell’uomo è solo l’uomo, da individuarsi questa natura o essenza nella
specie umana che dal suo interno determinerebbe l’esserci e le caratteristiche
di ogni individuo che la costituisce, senza interventi divini di sorta.
Feuerbach, ribelle al suo maestro Hegel,
rivalutava, contro il panlogismo di quest’ultimo, il “cuore”, le “sensazioni”, “l’intuizione” quali unico e
vero modo di essere dell’uomo, ridotto però alle esigenze e ai bisogni
materialmente quantificabili dell’individuo di tutti i giorni. È stato, si potrebbe dire, l’equivalente ateo
e materialista di Kierkegaard. A suo
dire, al posto della teologia (filosofica) costruita da Hegel e comunque
al posto di ogni concezione autenticamente religiosa, considerata
sbrigativamente quale mera proiezione di desideri e fantasie umane, bisognava
costruire una antropologia ovvero una concezione dell’uomo fondata
esclusivamente sull’uomo, muovendo dalla “verità” delle sue sensazioni.
L’idea stessa della trascendenza andava espunta, sostituita dal costruendo
presente di un uomo in comunione con l’uomo, in una comunità universale basata
sul “dialogo”.
Immanentismo radicale, dunque, e della specie
più elementare, criticato da Marx solo per non esser stato abbastanza
rivoluzionario. Vale a dire: per non
aver spinto alle estreme conseguenze il concetto dell’appartenenza del singolo
alla specie, sviluppandolo coerentemente in quello dell’appartenenza totale del
singolo alla società e quindi alla storia, deterministicamente intesa secondo
il parametro dell’idea di un invincibile progresso, le cui basi sono i
rapporti materiali di produzione.
Secondo Marx, Feuerbach non aveva capito che anche ciò che nel singolo
appariva come natura (abitudini, spontaneo costume, autenticità di
sentimenti, indipendenza di giudizio, cultura personale) doveva invece
ritenersi un prodotto sociale. “Feuerbach
dissolve l’ essenza della religione nell’essenza umana. Ma l’essenza dell’uomo [das menschliche
Wesen] non è qualcosa di astratto che inerisca al singolo individuo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei
rapporti sociali.”
L’essenza,
come concetto di quella sostanza che costituisce lo intus esse di
un ente e quindi anche dell’uomo, facendolo essere ciò che è senza che possa
mai diventar altro da sé conservandosi nello stesso tempo per ciò che è;
insomma la sostanza-essenza, con la sua dialettica di sostanza e
attributi, questo concetto tradizionale della metafisica occidentale, di
origine aristotelica, non deve più aver ora diritto di cittadinanza, sostituito
completamente dai “rapporti sociali” ovvero da nessi che restano pur sempre esteriori
rispetto alla natura intrinseca degli enti, dei soggetti che li pongono in
essere e per un fine che spesso va oltre la pura sopravvivenza e sussistenza,
trascendendo quindi i suddetti “rapporti sociali”.
Nella Ideologia tedesca, del 1846, la
parte iniziale è dedicata a Feuerbach.
Egli avrebbe capito, che “non è la coscienza a determinare la vita bensì
la vita la coscienza”. Sarebbe però
rimasto sempre chiuso nell’ambito di un naturalismo il cui spirito comunitario
non superava l’impostazione individualistica di partenza. Non avrebbe capito che la critica alla
religione avrebbe dovuto farsi prassi ossia “mutare radicalmente [verändern]”,
secondo il detto della celebre undicesima Tesi su Feuerbach, i rapporti sociali
esistenti. Il suo concetto di “comunismo”
quale comunità di uomini liberatasi dalla religione, basata sul dialogo, appare
del tutto astratto. Egli avrebbe capito che la “liberazione”
dell’uomo passa attraverso la liberazione
d a l l a religione, che, per
Marx, rappresenta una forma di “autoalienazione” (Selbstentfremdung)
dell’ uomo e avrebbe dimostrato “ i fondamenti mondani” della religione. Ma, anche nella visione di Feuerbach il mondo
resta inutilmente “raddoppiato” in una dimensione religiosa e in una
mondana. Questo dualismo non si potrà
mai eliminare, finché la realtà mondana alienata a se stessa non verrà capita
nella sua natura contraddittoria, per esser rovesciata dalla prassi
rivoluzionaria. E così, ad esempio, “ora
che abbiamo scoperto esser la famiglia terrena il segreto della Sacra Famiglia,
la prima deve esser annientata [vernichtet] teoreticamente e
praticamente”. Così Marx nella quarta Tesi
su Feuerbach, una delle più impressionanti.
Bisogna dunque che la “critica” alla religione
si faccia “prassi”, ove per prassi si intende la prassi rivoluzionaria,
ossia il pensiero che si attua nella prassi in modo da rovesciare anzi
annientare i rapporti e quindi le istituzioni sociali esistenti, a
cominciare dalla famiglia. È significativo dell’atteggiamento mentale di
Marx il fatto che egli metta in rapporto la liberazione dai (supposti)
pregiudizi religiosi, da ogni religione, con “l’annientamento” della famiglia,
dal momento che la famiglia borghese ma sempre cristiana di origine si fonda
sulla Sacra Famiglia come sul suo modello terreno-ultraterreno, che si deve
cercare di imitare, per quanto possibile. Nella futura società comunista e
senza classi non ci deve esser posto per la famiglia e quindi per il matrimonio
in senso naturale ancor prima che cristiano.
L’annientamento della famiglia auspicato dalle Tesi su Feuerbach
trovò poi la sua consacrazione a dogma della rivoluzione nelle celebri quanto
allucinate pagine del Manifesto del partito comunista (1848) dedicate alla
“abolizione” della famiglia nella futura società comunista.
L’avversione dei rivoluzionari per la
famiglia, istituto non da riformare ma da abolire, la ritroviamo presso i Philosophes,
Rousseau escluso: essa è di origine illuministica. Non viene attaccata
direttamente ma in modo obliquo, con il metodo nel quale era maestro Voltaire,
per esempio quando scrive, alla fine della breve e alquanto superficiale voce Patrie
del suo celebre Dictionnaire philosophique, che augurarsi la
grandezza della patria significa augurarsi il male del vicino, pertanto il vero patriota è “il cittadino
dell’ universo”. Tradotto: l’idea di
patria va respinta poiché comporta sempre sopraffazioni e guerre, bisogna
diventare cittadini del mondo. Così
l’idea della famiglia viene intaccata alla base dalla proclamazione del dogma
dell’uguaglianza tra gli uomini e le donne, da imporre in una società costruita
secondo ragione, cioè a tavolino: “Parmi
les progrès de l’esprit humain les plus importants pour le bonheur général,
nous devons compter l’entiére destruction des préjugés, qui ont établi entre
les deux sexes une inégalité de droits funeste à celui même qu’elle favorise…”. Proprio mentre veniva pubblicato Umanesimo
integrale diventava guerra guerreggiata in Ispagna quella guerra civile in
corso dagli inizi degli anni Trenta, provocata, dietro l’alibi di pur necessarie
riforme sociali, auspicate anche dalla
Destra falangista, soprattutto dalla persecuzione sanguinaria di anarchici,
socialisti, massoni alla religione cattolica e alle istituzioni fondamentali
della stessa vita civile, quali la famiglia, sulla religione costruite. L’attacco violento era condotto alla
religione anche in quanto fondamento della morale, della quale ci si voleva
sbarazzare. Nella II Repubblica rossa
avanzavano il libero aborto, la libertà dei costumi, l’ omosessualismo, il
femminismo, insomma gli elementi caratteristici di quella che sarebbe poi stata
chiamata Rivoluzione Sessuale. L’intellettualità dava il suo contributo, ad
esempio con il movimento surrealista, ferocemente anticristiano e antiborghese. Anche in Federico Garcia Lorca,
magnifico poeta e uomo di carattere mite e sognatore, trucidato nei primi
giorni dell’insurrezione militare contro il sanguinario governo repubblicano,
troviamo tuttavia sparsi i topoi antireligiosi e omoerotici della Rivoluzione
Sessuale in gestazione, con tutta la loro intrinseca carica di blasfemia e violenza,
ad esempio nel pezzo teatrale surrealista Il Pubblico, del 1933.
Ci sono alcuni che si chiedono ancor oggi
perché i Comunisti e gli attuali Postcomunisti,
continuatori della loro politica, siano stati e siano da decenni
all’avanguardia nel promuovere il libero aborto, gli anticoncezionali, il riconoscimento
delle coppie di fatto, delle madri singole, del “matrimonio omosessuale”; nel
dare i bambini in affidamento al “collettivo” o persino a coppie omosessuali;
nell’introdurre l’aberrante “educazione gender” nelle scuole, quella che
insegna esser il sesso una scelta personale [sic], fornendo agli alunni gli
esempi atti ad effettuarla; insomma, nel promuovere una nozione di famiglia falsa
ed aberrante, distruttrice della vera famiglia, apportatrice di denatalità e di
corruzione dei costumi. La spiegazione, a mio avviso, va ricercata proprio nella
visione marxista di base; vale a
dire, nel proposito, giudicato fondamentale, di dover “annientare”, “abolire”
la famiglia naturale (già minata dall’utilitarismo e individualismo dello
spirito borghese ma ancora cristiana) in nome della “liberazione”
dell’uomo (e ovviamente della donna), da realizzarsi cominciando con l’“educazione collettiva” dei
bambini in sostituzione di quella famigliare.
Nel Manifesto, Marx e Engels si
giustificano affermando rabbiosamente che la famiglia è per il borghese
semplice uso della moglie come “strumento di produzione” per aver figli.
Abolendo il matrimonio si toglierebbe alla donna il carattere di “strumento di
produzione”, sragionano i due, e comincerebbe la sua liberazione. Il
matrimonio, come istituto, lo deformano del tutto, con l’applicarvi i concetti
del materialismo storico, in modo da ricomprendere le relazioni matrimoniali
nello schema della lotta di classe, dove le classi sono in realtà i sessi! Le loro repliche alle accuse di immoralità
mancano di spessore e si risolvono in boutades. Un esempio: è inutile,
dicono, accusare i comunisti di voler stabilire “la comunanza delle donne”
quando tale “comunanza” è quasi sempre esistita: “I nostri borghesi, non paghi di avere a loro
disposizione le mogli e le figlie dei loro proletarii, usano – per passar sopra
qui alla prostituzione ufficiale – di tenere per loro principalissimo spasso
quello della mutua seduzione delle consorti loro. Il matrimonio borghese è in realtà la comunanza
delle donne…”.
A proposito di questa “critica di costume” fatta
dai due padri del “socialismo scientifico” alla morale borghese, in quanto
fondata (secondo loro in modo falso) sul matrimonio e gli affetti e valori
della famiglia, e pertanto da loro
accusata di ipocrisia e cinismo, può esser utile ricordare qualche dettaglio
della loro vita privata, tale da non sfigurare nella balzacchiana e più che borghese
Comédie humaine. Engels era
figlio di un ricco industriale tedesco, che possedeva delle fabbriche tessili
in Inghilterra, a Manchester. Eterno
scapolo, visse da libertino e gaudente. Sceglieva le sue amanti anche tra le
operaie. Accumulò in tal modo una
conoscenza di prima mano della dura condizione operaia femminile in Inghilterra.
Marx viveva in esilio a Londra con la moglie, le due figlie e una domestica. Altri cinque figli erano morti giovanissimi o
appena nati. La moglie, nata baronessa
Jenny von Westphalen, sua fedele compagna sin da quando erano studenti universitari.
Engels contribuiva a mantenere tutta la famiglia mentre Marx studiava il capitalismo
alla Biblioteca del British Museum, per preparare la rivoluzione comunista che
avrebbe dovuto abbatterlo. Da questi
studi uscì Il Capitale, opera indubbiamente poderosa anche se
controversa e incompleta. Engels sembra
portasse Marx nei bordelli (di lusso) londinesi. Marx non era un donnaiolo però
tradì la moglie con la domestica, Helene Demuth, dalla quale ebbe un figlio,
Frederick (Freddy Demuth). La moglie non
sospettò mai nulla. Engels si assunse la paternità del figlio per coprire Marx. Marx non cercò di dare un’educazione al figlio,
che visse facendo il vetturale, mestiere infimo, da sottoproletario. La moglie di Marx morì nel 1881, stremata da
una vita difficile, dedicata al genio del marito e alla Causa. Marx morì a casa sua, a Londra, il 14 marzo
1883 di pleurite, a 65 anni: era malato da alcune settimane, con un tumore ai
polmoni. Dopo un’emorragia, morì in due minuti, addormentandosi su una
poltrona, alle 2.30 del mattino. Engels morì di tumore alla gola, a 75, il 5
agosto 1895. Ateo scannato anche lui, si fece cremare, ordinando che la sua urna fosse
sommersa in mare. La prima figlia di Marx, Jenny, morì di tubercolosi, nel
1883. La seconda, Eleanor (Tussy), fu
sconvolta quando Engels le rivelò la paternità illegittima del padre, che essa
adorava (“Tussy wants to make an idol of her father”, postillava ironicamente
Engels). La rivelazione può aver indirettamente contribuito al successivo
suicidio della povera Eleanor, causato da una grave delusione amorosa.
Tralasciando i dati biografici dei padri
fondatori, comunque rivelatori, un secolo fa forse meno noti di oggi, resta il
fatto che il marxismo contiene aspetti intrinsecamente e insuperabilmente
negativi e proprio nei confronti di valori fondamentali per la visione del
mondo cristiana. È difficile comprendere che cosa trovassero di tanto positivo
in esso due cattolici apparentemente convinti come Maritain e Mounier: non si
accorgevano di accreditare una visione del mondo atea e materialista che, per
tacere di altri gravi limiti, faceva della distruzione della famiglia un suo
pilastro e proprio come pendant alla sua lotta alla religione “oppio dei
popoli”, al Cristianesimo, alla Sacra Famiglia?
4.4. Il
mito dell’ideologia marxista capace di costituire il rimedio per
“l’alienazione” dello homo oeconomicus della società capitalista.
Ma c’è un altro equivoco o meglio un vero e
proprio mito da chiarire, diffuso da Maritain e da Esprit, tra
gli altri: l’errata idea che la visione cosiddetta “umanistica” di Marx avesse
svelato il carattere “eteronomo e alienante” dell’economia capitalistica, in
quanto “economia servile”, non solo per il lavoratore ma anche per il padrone,
ponendosi quindi il suo “umanesimo” quale modello per “l’emancipazione”
dell’intera società. In realtà, come ho
detto, il giovane Marx cerca di
elaborare il concetto, diventato poi famoso ad opera dei divulgatori
novecenteschi, del “lavoro estraneato” e quindi della alienazione o meglio
“estraneazione” che il modo di produzione capitalistico produrrebbe negli
operai, facendoli entrare in contraddizione con se stessi. Cercava poi di applicare faticosamente il
concetto derivato di “autoestraneazione” all’intera esperienza sociale e umana,
inclusiva anche della religione. Ma, nei
manoscritti rimastici, non sembrava comunque prender in considerazione una supposta
“alienazione” nei capitalisti, dei quali Marx non si curava affatto, da questo
punto di vista. Ad essi, come al resto della società, si applicherebbe caso mai
l’etichetta della “autoalienazione” dalla loro appartenenza al “genere”, alla “specie”,
perché intesa tale appartenenza in modo ancora dipendente dalla religione e
dall’ideologia borghese dominante, secondo Marx.
E in ogni caso, questo concetto tanto
analizzato e dibattuto in passato del lavoro estraneato è condotto in
implicita polemica con Hegel, con le categorie o figure della coscienza di sé , la cui
dialettica contempla anche il rapporto tra “servo e padrone” impegnati nella
“lotta per il riconoscimento” - il dominio
e la sudditanza caratterizzanti i rapporti intersoggettivi eternamente
conflittuali - ; lotta durante la quale, l’inferiore, rivelatosi indispensabile
per il dominatore, si emancipa progressivamente mediante il lavoro, che
viene a costituire una forma di cultura, fondante la presa di coscienza
del proprio valore da parte del servo:
“la coscienza che si forma nel lavoro viene dunque per ciò stesso ad
intuire l’essere indipendente [dell’oggetto del suo lavoro] come suo proprio
essere.” L’oggetto del lavoro cessa ad un certo punto di essere qualcosa di negativo mediante il quale il padrone si rafforza
nel suo dominio. Hegel attribuisce
pertanto al lavoro un significato positivo, liberatorio anche in senso
spirituale, culturale poiché il lavoro costruisce e dà la forma (Bildung)
alla natura e (soprattutto) forma la personalità di colui che lavora, innalzandolo
ad una presa di coscienza che comincia a liberarlo dal timore provocato
inizialmente dal “signore”, da intendersi sia come individuo che come corpo
sociale detentore del potere in senso politico, economico e militare. Senza la
“cultura” (das Bilden) fatta nascere col lavoro, la paura primordiale
del “servo” (degli inferiori, dei sottoposti, degli umili, degli sconfitti)
resterebbe sempre tale, “interiore e sorda”, e la coscienza di sè mai
comincerebbe a venire alla luce. Pagine famose queste della Fenomenologia dello spirito, che
è del 1807, opera che Marx conosceva bene e della quale aveva fatto estratti.
Il
tentativo del giovane Marx è quello di applicare queste categorie hegeliane al
concetto del lavoro rovesciandone però il significato, che da positivo diventa negativo. Nel lavoro, Marx non vede il momento positivo
della presa di coscienza di sé del soggetto che n e l lavoro fa suo l’oggetto, la c o s a , impadronendose come quell’oggetto
diventato indispensabile per il signore.
Tale positività non sembra poter esistere nel lavoro della classe
operaia inquadrata nei moderni rapporti di produzione. In questo tipo di lavoro, che è quello del
sistema capitalistico, domina l’aspetto negativo, alienante del lavoro stesso, estrinsecazione
ripetitiva di una prassi di vita che mantiene il proletario a livello
della pura sussistenza.
C’è tuttavia da chiedersi se l’elaborazone
marxiana non risulti alla fine intellettualistica, superimposta
all’autentico sentire di sé del lavoratore, il cui senso di “alienazione” resta
del tutto soggettivo, tendendo a manifestarsi solo quando egli si veda
mal pagato, sfruttato, miserabile, e non perché non abbia la proprietà
del suo lavoro, dell’oggetto del suo lavoro, passato nelle mani del suo padrone
in cambio di un salario, cioè per colpa della proprietà privata dei mezzi di
produzione, come sembra sostenere Marx.
Maritain riconosceva l’attrattiva ideologica
esercitata al tempo dal marxismo e ancor più Mounier. Secondo quest’ultimo, il marxismo aveva
svelato il ruolo storico del proletariato e l’ipocrisia del mondo
borghese; aveva fondato un “processo di
emancipazione” adatto ai bisogni degli oppressi e una teoria capace di
comprendere “l’alienazione di uomini e donne moderni di fronte al lavoro e alla
loro stessa vita”. La colpa della crisi,
in tutti i suoi aspetti, era dell’ideologia borghese. Maritain e Mounier si proponevano un
“anticomunismo positivo”, scevro di condanne, sdoganando tutto ciò che di
“nobile e sincero” ci fosse nel marxismo, condividendo l’obiettivo della necessità
di “liquidare il capitalismo”. L’unico risultato concreto di questo atteggiamento,
nota l’Autore, fu però quello di contribuire a creare un clima positivo nei
confronti del marxismo presso i cattolici.
Le riflessioni sul “lavoro alienato” o
“estraneato”, furono reperite negli scritti giovanili di Marx, pubblicati per
la prima volta nel 1932. Nel superamento
di questa “estraneazione” (Entfremdung) si è da allora voluto vedere il
significato più profondo dell’umanesimo marxiano e marxista (concetto,
voglio ricordarlo, che Del Noce stimava essere “tra i più ambigui”). Ma cosa scriveva il
giovane Marx, con uno stile ancora hegeliano? Nel sistema dei rapporti di produzione
capitalistici, “l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si
contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza
indipendente da colui che lo produce.
Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è
diventato una cosa, è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua
oggettivazione. Questa realizzazione del
lavoro appare nello stadio dell’economia privata come un annullamento dell’operaio,
l’oggettivazione appare come perdita e asservimento dell’oggetto,
l’appropriazione come estraneazione, come alienazione. La realizzazione del lavoro si presenta come
annullamento in tal maniera che l’ operaio viene annullato sino a morire di
fame…”.
Il risultato del lavoro dell’operaio non è
dell’operaio, ma del padrone, del capitalista, del sistema. La vita
dell’operaio (all’epoca assai dura e spesso miserabile) è “da lui riposta nell’oggetto; ma d’ora in
poi la sua vita non appartiene piú a lui ma all’oggetto. Quanto piú grande è dunque questa attività,
tanto piú l’operaio è privo di oggetto.
Quello che è il prodotto del suo lavoro, non è egli stesso”. Il sistema capitalistico, secondo Marx, mette
l’operaio (il produttore, l’artefice) in contraddizione con se stesso,
rendendolo “estraneo” al prodotto del proprio lavoro e quindi rendendo la sua
stessa vita, come classe, “estranea” a se stessa, profondamente infelice,
perchè lacerata dalla contraddizione permanente: che non è solo un fatto di
coscienza ma una “estraneazione” concreta, evidente nelle condizioni di vita
miserabili del proletariato delle fabbriche.
Il capitalista invece era visto come colui che se la godeva, altro che
“autoalienazione”. “Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un
potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che
esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio. Se la sua attività è per lui un tormento,
deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita
altrui. Non già gli dèi, non la natura,
ma soltanto l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra
dell’uomo.”
Ma, a ben vedere, questo concetto del “lavoro
estraneato”, ancor oggi esaltato, fino a che punto regge? Di quale “lavoro” sta parlando qui Marx? Del lavoro del salariato, dell’operaio. Dei
contadini non parla mai. Né del lavoro
intellettuale. Si occupa solo della
classe operaia, vista come l a classe rivoluzionaria per eccellenza. Muove da un tipo di lavoro per trarne conclusioni
di carattere generale, per tutta la società.
Ma questo è il problema. Perché
proprio il lavoro dell’operaio, lavoro manuale, dovrebbe essere rappresentativo
del lavoro di tutte le classi sociali, in modo che, secondo la nota formula, l’emancipazione
del proletariato rappresenterebbe oggettivamente l’emancipazione
dell’intera società e quindi la soppressione dell’alienazione sociale
dominante nell’intera società? Perché la
vita della società dipende ormai dalla produzione industriale? E tuttavia senza
il lavoro dei contadini nemmeno gli operai possono mangiare. E difatti, il rapporto con la classe contadina
il comunismo al potere non è riuscito mai a risolverlo, se non con l’uso della
forza più spietata, con l’imposizione
delle collettivizzazioni forzate.
Tutto
il breve manoscritto di Marx sul “lavoro estraneato” è dominato dallo sforzo di
dimostrare il carattere “generale” del lavoro operaio, al fine di poter
sostenere che l’“emancipazione” del proletariato grazie all’abolizione della
proprietà privata dei mezzi di produzione comporterebbe oggettivamente l’emancipazione
dell’intera società. Ma si tratta di
proposizioni del tutto astratte, in un palleggiarsi di significati oggettivi
che emanano l’uno dall’altro, a scatole cinesi; proposizioni smentite
proprio dalle rivoluzioni comuniste concrete, a cominciare da quella russa. L’ immediata collettivizzazione dei mezzi di
produzione effettuata dai bolscevichi al potere, nel mezzo della guerra civile
da loro stessi provocata con la violenta presa del potere contro il governo
provvisorio, collettivizzazione che avrebbe dovuto eliminare “l’alienazione”
provocata dal sistema di produzione borghese basato sulla proprietà privata e
restituire all’operaio la proprietà del prodotto del suo lavoro, fece
crollare l’ economia, tanto che Lenin, per impedirne il collasso totale,
dovette ristabilire poco dopo forme capitalistiche di produzione, autorizzando
il commercio privato p. e. e la formazione di piccole imprese. Fu la cosiddetta Nuova politica economica o NEP (Novoceskaia
Ekonomiceskaia Politika), abolita pochi anni dopo dal potere sovietico
ormai consolidatosi grazie anche agli aiuti economici ricevuti dall’estero
capitalista, pagati con l’ oro siberiano, ad alti tassi di interesse.
5. John Courtney Murray SI innesta sull’errore
“americanista” l’umanesimo integrale ovvero la democrazia “personalista” di
tipo americano.
Quest’importante aspetto dell’uso ideologico e
quindi errato del concetto di “dignità umana” è illuminato dal prof. Julio
Alvear Télles. Egli ricorda innanzitutto
quali furono, alla fine, gli esiti dell’umanesimo integrale propugnato da Maritain,
fattosi banditore, come si è visto, di una società pluralista e democratica,
fondata solo (come valore comune) sulla coscienza della dignità dell’uomo e
della sua esigenza di libertà. Tale società avrebbe dovuto esser tenuta a
battesimo da una “nuova cristianità”, che avrebbe realizzato un “umanesimo integrale”,
su di un piano superiore a quelli “socialista” e “marxista”, vale a dire
sviluppando ciò che c’era di valido nelle loro rispettive istanze. Ma la montagna partorì il classico
topolino. Come mette efficacemente in rilievo
il prof. Télles, il risultato finale, dopo la II g.m., è stato quello di
“trasmettere in modo molto concreto e dinamico l’umanesimo integrale della
democrazia personalista in accordo con i valori comuni alla democrazia
americana, diffusa dagli Stati Uniti in tutto il mondo – e in Europa grazie
[anche] al Piano Marshall…”.
In America le tesi di Maritain trovarono
terreno fecondo nell’“antico americanismo”, la cui roccaforte era rappresentata
dalla nota rivista dei gesuiti America, oggi ai dubbi onori della
blogosfera per le sue posizioni gay-friendly. Questa rivista chiedeva alla Chiesa Nordamericana
“di rinunciare ad ogni sorta di esclusivismo”, cessando di opporre la verità
cattolica quale unica vera nei confronti della democrazia moderna intesa come
“forma politica del laicismo”, per potersi invece “associare alla cultura della
dignità della persona e alle forme politiche su di essa riposanti, la
democrazia e il pluralismo, inquadrate negli Stati Uniti dalla normativa
attuante il Primo Emendamento della Costituzione.” Questa accettazione della democrazia formato
nordamericano era uno degli assunti di base del c.d. americanismo,
corrente modernizzante sviluppatasi in Nordamerica durante l’ Ottocento. Il
compito che si era dato il P. Murray era proprio quello di conciliare
cattolicesimo e americanismo, ossia la tradizione cattolica con la “tradizione
americana”. Uno dei concetti-chiave da
sviluppare nell’àmbito di questa conciliazione era quello di libertà
religiosa, nel trattare il quale il suddetto scrisse ben oltre le righe
tanto da venire costretto al silenzio regnante Pio XII, ossia negli anni Cinquanta
del secolo scorso. Ma al Concilio,
grazie alle aperture fedifraghe volute da Giovanni XXIII, egli potè far ben
sentire la sua voce nelle commissioni che lavoravano ai testi, anche se le sue
tesi sulla libertà religiosa non furono integralmente accolte nella
Dichiarazione Dignitatis Humanae (votata in aula nel 1965, alla fine del
Concilio, dopo un tormentato iter). Ciò
comunque non impedì la diffusione del complesso dottrinale ad essa collegato:
la dignità della persona, i diritti e le libertà da essa derivati, il
conseguente riconoscimento della laicità dello Stato.
Murray, precisa il prof. De Mattei nella
sua fondamentale storia del Vaticano II, era un aperto seguace di Maritain e
dubitava del dogma “extra Ecclesiam nulla salus”, rivendicando la
“libertà religiosa” (di stile laico) quale criterio per regolare i rapporti tra
la Chiesa e lo Stato. Si legò all’allora
cardinale Montini, futuro Paolo VI, e difatti fu nominato “esperto conciliare”
nell’ aprile del 1963, contribuendo alla redazione dello schema finale della
Dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis Humanae), sempre
godendo dell’incoraggiamento di Paolo VI.
Fu uno dei padri di questa famigerata Dichiarazione, che fondava
la libertà religiosa per l’ appunto sulla “dignità della persona umana”.
L’idea e la prassi della “libertà religiosa”
sono ormai entrate nell’uso comune, fra i cattolici, e si sono dimenticate le
sue conseguenze rivoluzionarie, per la vera religione e la società, tutte
negative. “Secondo la Dignitatis Humanae,
la persona umana ha il diritto, in nome della sua dignità, a non essere impedita
di esercitare il proprio culto religioso, quale esso sia, in privato o in
pubblico, a meno che ciò non turbi la tranquillità e la moralità pubblica; il
diritto alla libertà umana si fonda sulla stessa dignità della persona umana
(n. 2). Non si tratta di un diritto “affermativo” alla libertà di coscienza, ma
di un diritto “negativo” di non essere impedito ad esercitarla: ovvero un diritto alla “immunità da ogni
coercizione in materia religiosa” nel culto pubblico e privato (n. 4). Veniva così cancellata la distinzione
fondamentale tra il “foro interno”, che riguarda la salvezza eterna dei singoli
fedeli e il loro “foro esterno” relativo al bene pubblico della comunità dei
fedeli [D. Staffa, voce Foro, in Enc. Catt., V, pp. 1531-1534].
La Chiesa ha sempre insegnato la libertà religiosa in foro interno, perché
nessun uomo può essere costretto a credere.
Ma questa libertà interiore che, in quanto tale, nessuna forza esterna
può coartare, non implica la libertà religiosa in foro esterno, vale a dire il
diritto di praticare pubblicamente qualsiasi culto e di professare qualsiasi
errore. [Invece con la Dignitatis
Humanae si riconosceva in sostanza il diritto all’errore, come hanno
sottolineato i suoi critici] La libertà religiosa fu invocata, dopo la Dignitatis
Humanae, per sopprimere ogni forma di “protezione” degli Stati alla Chiesa
cattolica, ma la rinuncia da parte dell’autorità civile a riconoscere la
missione e il ruolo della Chiesa e l’esistenza di una legge naturale, oggettiva
da tutelare, aprì la strada, contemporaneamente, alla diffusione del relativismo
e a quella di altre religioni, a cominciare dall’Islam. Il relativismo si affermò negando agli Stati
ogni forma di censura religiosa e morale nei confronti della scristianizzazione
dilagante. L’Islamismo, in nome della
stessa libertà religiosa, pretese la costruzione di moschee e minareti,
destinati a superare, per numero, la costruzione delle chiese, abbandonate o
trasformate in alberghi e supermercati [grazie all’inaridirsi della fede provocato
da un Concilio pastorale che, fra altri mali, favoriva la nascita dell’indifferentismo
religioso con una Dichiarazione come la Dignitatis Humanae].”
A questo punto apro una breve parentesi per
illustrare sinteticamente il c.d. “americanismo”, fenomeno che non credo sia particolarmente
conosciuto dal pubblico italiano. Verso la fine del XIX secolo, come sappiamo,
il modernismo, che si stava diffondendo nella Chiesa, ripropose l’errore dei
razionalisti. Ciò apparve con ogni
chiarezza nel c.d. “americanismo”, condannato da Leone XIII nell’Epistola Testem
benevolentiae indirizzata il 12 gennaio 1899 all’arcivescovo di
Baltimora. In essa si riprovava
espressamente “l’ errore di voler adattarre i dogmi alla mentalità
moderna”, per citare il titolo che il Denzinger-Schönmetzer appone alla sezione
specifica del documento papale: Error
de accomodatione dogmatum ad sensum modernum. Questo errore era stato diffuso dal P. Isacco
Tommaso Haeckler, morto nel 1888, fondatore della Congregazione dei
Paulisti. Le sue tesi erano state
riportate in un libro sulla sua vita, scritto in francese nel 1897 dal P. Walter
Elliott. Esse avevano provocato ampie
polemiche in àmbito cattolico.
Sin dall’esordio della sua Epistola il
Pontefice inquadrava con precisione l’errore:
“Questo è dunque il fondamento delle nuove opinioni delle quali vi
abbiamo fatto cenno: per ricondurre più facilmente alla dottrina cattolica
coloro che se ne sono separati, la Chiesa deve avvicinarsi alquanto all’umanità
di un’epoca [fattasi] adulta [aliquanto propius accedere ad adulti saeculi
humanitatem]), e, attenuando il suo tradizionale rigore [veteri relaxata
severitate], indulgere alle tendenze e ai princìpi affermatisi nelle
nazioni. E ciò deve intendersi, secondo
l’opinione di molti, non solo nella regola di vita [del modo di vivere, della
condotta morale] ma anche delle dottrine nelle quali viene salvaguardato il deposito
della fede”. E in che modo gli “americanisti” proponevano
di realizzare quest’ultimo obiettivo?
Semplicemente, “passando sotto silenzio alcuni elementi della dottrina,
quasi fossero di minore importanza o attenuandoli in modo tale, da far perdere
loro il senso che la Chiesa ha loro costantemente attribuito” (op. cit.,
ivi). (Osservo:
ci ricorda niente, di più recente e persino recentissimo, questo
perverso “metodo”?).
Che siffatte, aberranti opinioni dovessero
esser fermamente riprovate, Leone XIII lo dichiarava nel modo più netto,
citando quel passo del Concilio Vaticano primo nel quale si ribadiva
solennemente spettare alla sola Chiesa e non alle profane filosofie l’interpretazione
dei sacri dogmi. Inoltre, Leone XIII dimostrava quanto fosse
assurda l’idea di “far passare volutamente sotto silenzio e quasi consegnare
all’oblío” determinate parti della dottrina cattolica. Infatti, continuava, tutte le verità del
Cattolicesimo hanno un unico “Autore e Maestro”, Nostro Signore Gesù Cristo, e
sono già adatte di per se stesse “a tutte le epoche e a tutte le nazioni”, come
risulta perspicue dalle parole stesse del Salvatore Risorto, quando ha
ordinato agli Apostoli di predicarle a tutti i popoli, senza distinzioni (Mt
28, 19 ss.). Predicarle - postillo –
come Lui le aveva insegnate loro e come sarebbero state conseguentemente
confermate ed approfondite per opera dello Spirito Santo, sino alla morte
dell’ultimo Apostolo. Non si poteva, quindi, tacere su parti della
dottrina senza offendere l’autorità di Colui che ce le aveva rivelate e senza
attentare all’unità della Rivelazione, alle sue stesse verità,
derivanti in primo luogo dall’unità e dalla completezza della fonte
soprannaturale.
Che poi la dottrina cattolica si fosse di per
sé già rivelata adatta ai vari popoli, senza bisogno di adattamenti che la
snaturassero, tanto meno necessari nei tempi moderni, il Papa lo ricordava, nel
pieno rispetto della verità storica. “La Sede Apostolica […] ha in ogni tempo
regolato il modo di vivere [dei cristiani] in maniera da tener conto dei
costumi e delle esigenze delle tante diverse genti che essa ricomprende, fatto
salvo ciò che riguarda il diritto divino.
E chi potrebbe dubitare che lo farebbe di nuovo, se la salute delle
anime lo richiedesse?”. Il concetto qui manifestato non deve trarre
in inganno. Leone XIII non proponeva un
“aggiornamento” al modo di pensare del Secolo e ai suoi valori profani. Si limitava a ricordare che,
nell’applicazione della dottrina immutabile alla disciplina vivendi, la
Chiesa non è mai partita con l’idea di far tabula rasa ma ha sempre
cercato di rispettare mores et rationes dei popoli, quando non
contrastassero con “il diritto divino”, cioè con la verità rivelata. L’ aggiornamento roncalliano,
all’opposto, voleva adattare lo studio e l’esposizione della dottrina ad un
pensiero ad essa non solo estraneo ma persino ostile, come nei fatti è
il pensiero moderno, votato al principio di immanenza, chiuso alla trascendenza.
L’Epistola metteva poi in guardia coloro che
erano tentati dal grave errore di “mutilare la dottrina rivelataci da Dio o
dall’omettervi studiatamente alcunché, quale ne sia il motivo [Absit igitur
ut de tradita divinitus doctrina quidpiam quis detrahat vel consilio quovis
praetereat]. Chi osasse fare una
cosa del genere, mirerebbe piuttosto a separare i cattolici dalla Chiesa che a
farvi ritornare i dissidenti. Che ritornino, costoro, niente Ci è più gradito: che ritornino tutti coloro che errano al di
fuori dell’ovile di Cristo, ma solamente per quella via che Cristo stesso ha
mostrato [e cioè convertendosi al Cattolicesimo]”.
L’Epistola condannava poi gli altri capisaldi
dell’americanismo: che la regola
di vita (disciplina vivendi) dei cattolici si dovesse adattare alla
diversità dei tempi e dei luoghi; che i
fedeli potessero seguire, in misura più larga, “la propria ispirazione ed il
proprio slancio personale”, dal momento che
a dirigere le anime sarebbe bastato il soffio dello Spirito Santo; che
la vita contemplativa fosse il frutto di una “virtù passiva”, non più efficace
nel nostro tempo; che ad essa si dovesse opporre una “virtù attiva”,
caratterizzata soprattutto dall’impegno sociale – quest’ultimo punto
(sottolineo) tipico della mentalità dei cattolici progressisti americani.
Su
questo sfondo va inquadrata l’azione del P. Murray SI, il quale, ci spiega il
prof. Télles, mirava a realizzare una “terza via” tra l’anticattolicesimo
tradizionale della cultura nordamericana, di origine protestante, e
“l’estremismo” del cattolicesimo nordamericano tradizionale, che condannava la
democrazia americana in quanto tale e si rinchiudeva (a dire di Murray) nel
ghetto di una fede proclamantesi l’unica
via di salvezza. Da notare che i valori rivendicati dagli
anticattolici, in quanto valori prettamente americani, contemplavano una vera e
propria “mistica della libertà individuale”, coinvolgente ovviamente anche la
religione; ed inoltre, la fede indiscussa in una filosofia laica “di tipo
naturalistico” (sempre connessa – postillo – al pragmatismo di fondo del
carattere americano), quale unica filosofia (del tutto antimetafisica) adatta
alla democrazia di quel Paese. Ma la “terza
via” poteva sembrare l’unica possibile dopo che la giurisprudenza della Corte
Suprema degli Stati Uniti, a partire dalla II gm, aveva imposto “la neutralità dello Stato in tutto
ciò che concerne la definizione del bene [morale] e la religione. Provocando così la minorazione della morale
pubblica e la riduzione della religione alla sfera privata”.
Il “dialogo” con la secolarizzata democrazia
americana non poteva che articolarsi sulla “rivendicazione della dignità
dell’uomo”. Questo doveva essere il
principio (comune) sul quale “erigere l’ordine sociale nuovo”. Nel riconoscere le famose libertà
fondamentali ai suoi cittadini, la democrazia americana mostrerebbe di tutelare
la dignità dell’uomo, fondamento della sua aspirazione alla libertà personale più
completa. E la cartina di tornasole per
veder rispettata questa “dignità” era rappresentata dal riconoscimento della
“libertà religiosa”. Murray criticava pertanto il Magistero del
XIX secolo perché a suo dire eccessivamente preoccupato di condannare gli
errori e gli eccessi della libertà.
Bisognava invece cogliere “i segni dei tempi”, che si mostravano in quel
“progresso della coscienza personale e della coscienza politica dell’uomo”, sul
quale tanto aveva insistito Giovanni XXIII.
Insistito, lo ricordo, per giustificare le sue
imprudenti concessioni alla mentalità del Secolo. Nella Allocuzione di apertura del
Concilio aveva fatto capire che non ci sarebbero state condanne degli errori circolanti
– un proposito da lui più volte ripetuto sin dall’accesso al Sacro Soglio
- perché l’attuale umanità era maturata
al punto da arrivare a condannarli da sola. “Dottrine false e false opinioni”
circolavano ma, diceva il Papa, “contrastano così apertamente con i retti
principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini
sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, soprattutto quelle forme di
esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel
progresso della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della
vita. Essi sono sempre più consapevoli che la dignità della persona umana e la
sua naturale perfezione è questione di grande importanza e difficilissima da
realizzare…”.
Ma valga il vero: mai affermazioni si rivelarono più avventate.
Gli uomini avevano davvero cominciato a riprovare “quelle forme di esistenza
che ignorano Dio e le sue leggi”? L’irreligiosità e la miscredenza, grazie
all’influenza massiccia del marxismo, del darwinismo, dello scientismo, della
psicoanalisi, del femminismo e compagnia cantante, cominciavano a diffondersi
in Occidente anche tra le masse.
Dall’altra parte della barricata, l’Unione Sovietica e tutto il mondo comunista
restavano ben fermi nel loro persecutorio e crudele ateismo di Stato. Ma
proprio Papa Roncalli, pur di avere al Concilio i rappresentanti della Chiesa
moscovita infeudata al regime, aveva stretto nel 1962 quel famoso accordo
sottobanco grazie al quale il Concilio non si sarebbe occupato del marxismo, né
del marxismo-leninismo, insomma in nessun modo del comunismo, fatto
politico-culturale allora epocale e a ben vedere ancor oggi di primaria
importanza, nonostante si sia raggrinzito in Occidente nel c.d. Postcomunismo, etichetta ambigua,
che cerca di nascondere senza riuscirci la persistenza dell’ideologia marxista
(nelle sue varie forme) opportunamente aggiornata alla società c.d. postindustriale
e postmoderna. Non ci sarebbe stata per
l’appunto la condanna degli errori del comunismo ma solo per bieche ragioni di
miope politica ecclesiastica. Una lacuna
che conferma la modesta per non dir mediocre caratura intellettuale del
“pastorale” Concilio Vaticano II. E che
dire dell’altra metà del mondo, quello “libero” dalla plumbea dittatura
comunista: vi si stava forse
condannando, grazie ad una supposta scoperta dell’importanza della “dignità
dell’uomo”, il mito del progresso basato sulla tecnica, produttrice di
benessere e di uno stile di vita sempre più materialistico, improntato al principio
di piacere? Ma quando mai…Solo voci
isolate si levavano, qua e là, a
condannare l’andazzo dominante, del tutto inascoltate.
Nel giugno del 1960 la US Food and Drug
Administration aveva approvato la prima “pillola” anticoncezionale mentre
scrittrici femministe già imperversavano con una sguaiata letteratura popolare
nella quale esortavano le donne americane e in particolare le giovani a godersi
la vita senza remore, anche con uomini sposati, tanto ormai c’era la “pillola”,
era arrivato il vero strumento di “emancipazione” delle donne. Autrici di best-sellers, come Gloria Steinem
e Betty Friedan, in quegli stessi anni proclavano a gran voce che “a woman
needs a man like a fish needs a bicycle” e che la vita di moglie e madre, era
solo “a comfortable concentration camp”. Era cominciata la Rivoluzione
Sessuale, che avrebbe massacrato l’ Occidente in tutti i sensi, tuttora in
corso per nostra disgrazia con la complicità di una parte consistente del
clero, quella più ammodernante. Giovanni XXIII, degli inizi di questo
imbarbarimento non si era accorto, evidentemente, tutto preso dai problemi
della pace nel mondo, dello scontro tra i “blocchi”, dell’ecumenismo da
realizzare, della Chiesa da “riformare” da cima a fondo. Almeno così poteva sembrare. Se n’era
all’opposto accorta la Curia, ancora composta in gran parte da italiani,
governata dal cardinale Alfredo Ottaviani, tant’è vero che negli schemi di
costituzione, dogmatiche e non, elaborati nei tre anni di intensa attività
preparatoria del Concilio, fatti poi naufragare dai Novatori nella fase
iniziale delle Assise con la complicità dello stesso Giovanni XXIII (per il
quale Ottaviani e la Curia erano solo “profeti di sventura”, jettatori),
l’incipiente corruzione di massa dei costumi era stata individuata e condannata
a chiare lettere nei suoi molteplici aspetti, omosessualità compresa (per l’
esattezza negli schemi di Costituzione dogmatica De ordine morali e De
deposito fidei pure custodiendo).
Forse non se n’era accorto nemmeno il P.
Murray, il quale, con la sua nuova dottrina, introduceva nella Chiesa “l’agnosticismo
pratico” così evidente nel Primo Emendamento, come giustamente rileva il
prof. Télles. Il fatto è che l’ideale di
civiltà di questo gesuita non era rappresentato dal cristianesimo bensì da The
American Proposition, come lui stesso la chiamava, “una sorta di democrazia
pluralista moralmente neutra di fronte ai valori di tutte le correnti
spirituali (cristiani, deisti, massoni, etc.) in grado di mantenere il consenso
comune richiesto dalla Costituzione degli Stati Uniti.” Secondo il P. Murray, la pretesa di “ libertà
personale, sociale, politica” prevaleva ormai sull’esigenza della
testimonianza della verità, tipicamente cattolica. Quest’ultima veniva assorbita e risolta (ma
in realtà vi scompariva) nell’istanza della “libertà religiosa” tipo Primo
Emendamento, che la Chiesa doveva ora riconoscere. Alla lista di quelle libertà (aggiungo) mancava
la libertà sessuale più completa, la cui esigenza, come si è detto, già
si stava facendo rumorosamente strada, dopo gli ancora “bigotti anni Cinquanta”.
La dottrina del gesuita americano portava a
separare Chiesa e Stato, a ridurre lo Stato a “gestire pubblicamente l’
esercizio della libertà religiosa”, nel rispetto del quadro costituzionale,
senza poter intervenire mai nel merito ossia nella valutazione del contenuto
della religione, soprattutto in relazione alla morale di un popolo, che su quel
contenuto in genere si edifica. In conseguenza di ciò, già sul piano del
concetto, lo Stato non può più intervenire come braccio secolare a favore della
Chiesa la quale non può più “usare il potere civile per proteggere i beni
spirituali nelle società storicamente cristiane”. Ma questo significa eliminare
“la verità religiosa” dalla società, dalla sfera pubblica: di fronte ai
problemi posti da questa verità lo Stato costituzionale nel senso del P.
Murray è del tutto incompetente. Nell’ottica del P. Murray, prosegue l’
Autore, la nuova christianitas è rappresentata dalla “democrazia pluralista”
mentre l’ imperium sarebbe costituito dallo “Stato costituzionale” di
tipo liberale, semplice guardiano dell’ordine pubblico e incaricato della pubblica
amministrazione. Stato e religione non comunicano più tra
loro, il che è palesemente assurdo. Ma
in tal modo si scinde anche il nesso tra Stato e morale, diritto positivo e
morale, come se il potere civile potesse restare indifferente ai costumi dei
suoi cittadini o sudditi.
Siamo,
osservo, alla caricatura delle antiche e gloriose categorie elaborate dal
pensiero cristiano di un tempo, caricatura diventata ai nostri giorni
addirittura oscena. Bisogna
inoltre dire che il problema della verità religiosa si ripropone nel momento in
cui lo Stato deve pur difendere la morale, sia pubblica che privata, dato che i
princìpi morali ossia i sani costumi (onestà di traffici, rapporti
famigliari corretti, rapporti sessuali leciti solo nel matrimonio, pubblica
moralità e decoro, lotta al vizio nelle sue varie forme) hanno quasi sempre un
fondamento in un credo religioso. Come
notavano i classici, la Res Publica, lo Stato non può disinteressarsi
della virtù dei cittadini, dei loro costumi, che devono essere
moralmente sani se la civitas vuole mantenersi e prosperare. E s a n
i non solo da un punto di vista
esteriore: “infatti, i legislatori
rendono buoni i cittadini abituandoli al bene; e questo è il volere di ogni legislatore
, e quelli che non lo effettuano bene mancano al loro scopo e in ciò differisce
una città ben ordinata da una mal governata.” Per riuscire nel loro intento, il buon
legislatore, ossia la classe dirigente, deve a sua volta dare l’esempio di quei
costumi che vuole siano osservati dai cittadini o sudditi, come sottolineò poi
Cicerone: “Infatti, è dato constatare,
se vuoi riandare con la memoria agli avvenimenti dei tempi, che tale fu la
cittadinanza quali furono i sommi cittadini [qualescumque summi civitatis
viri fuerint, talem civitatem fuisse], e qualunque mutamento sorto nel loro
costume indusse il medesimo mutamento nel popolo. Il che è non di poco più vero di quanto
sostiene Platone, il quale asserisce che le costituzioni delle città mutino col
mutar dei canti dei musici; io credo invece che i costumi delle città si trasformino
col mutare del tenor di vita dei nobili.
Per questo i maggiorenti corrotti [vitiosi principes] arrecano il
maggior danno allo Stato, perché non solo contraggono essi stessi i vizi, ma li
trasmettono alla cittadinanza. Né solamente
nuocciono perché si lasciano andare alla corruttela, ma perché anche
corrompono, e nuocciono più con l’esempio che con il loro traviamento [plusque
exemplo quam peccato nocent].”
La “dottrina” elaborata da Murray esclude la
possibilità stessa di uno Stato cristiano, che sia cioè
costituzionalmente improntato ai valori del cristianesimo, anzi del
cattolicesimo, che è il vero cristianesimo; i quali valori, oltre a far riconoscere
solo nella religione cattolica l’unica dello Stato (mentre le altre, purché non
contengano aspetti immorali, sono culti ammessi a certe condizioni),
impongono allo Stato la difesa e l’attuazione dell’etica predicata da
questa religione, cosa che impedisce allo Stato di considerare l’etica dei
privati come un fatto solo privato, privo cioè di effetti sulla vita di tutta
la società. Che possa poi esistere (sottolineo)
uno Stato veramente neutrale rispetto alla religione e alla morale da
essa predicata, ciò è in realtà impossibile. Lo Stato “neutrale” sulla carta, se non
difende la religione e la morale, finisce per passare dalla parte
dell’Avversario ovvero per legiferare contro la legge naturale e divina, come
sta succedendo ormai da troppi anni in un Occidente quasi completamente
secolarizzato, in preda ad un vero e proprio raptus autodistruttivo (vedi supra).
Sono degne di nota anche le notazioni finali
del prof. Télles, dedicate alle gravi conseguenze provocate dalla libertà
religiosa professata dalla Dignitatis humanae. Egli ci rammenta che la Dichiarazione
conciliare ha proclamato il principio della libertà religiosa sulla base della
dignità dell’ uomo e quindi della natura umana, non delle semplici
“disposizioni soggettive” della persona (DH 2.2), come avrebbe voluto il P.
Murray. La Dichiarazione, come si è visto, si limita
(in apparenza) a stabilire il divieto della coazione esterna nella religione (immunitate
a coercitione externa). Ma la
“chiave ermeneutica” della DH era e rimane “politica”, conformemente
all’impostazione di Murray, e questa chiave, con tutte le sue implicazioni,
finì col prevalere sul semplice divieto di costringere a credere.
“Il testo della DH lasciava in sospeso diversi
aspetti. Manovrando su di essi, si
costruì una nozione di libertà religiosa fondata su un supposto diritto
naturale (universale), il quale, successivamente, venne ad includere una serie
quasi infinita di diritti d’agire (ius agendi) riconosciuti a tutti i
movimenti religiosi. Il limite rappresentato dal divieto di costringere [a
credere] fu perciò facilmente superato, e si andò nella direzione auspicata da
Murray. Le cose non avrebbero potuto
andare in altro modo. La dottrina della libertà religiosa di Murray gettava un
ampio ponte fra la democrazia personalista americana e il cattolicesimo
rinnovato. Questo ponte sarebbe stato
utilizzato qualche decennio più tardi da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI per
giustificare la libertà religiosa in termini più generosi di quelli adoperati
dalla DH.”
Questo passaggio mi sembra del massimo
interesse, vi si coglie un aspetto sicuramente sfuggito alla gran maggioranza
dei fedeli. Questi due Papi avrebbero
dunque ampliato il concetto della libertà religiosa introdotta dal
Concilio, procurando ulteriori danni alla Chiesa. E la portata del guasto è assai più ampia di
quanto potrebbero ritenere i fedeli ignari, non abituati a cogliere certe
sfumature. Continua infatti il Nostro:
“A partire da Dignitatis humanae, la
libertà religiosa ha provocato una autentica trasformazione nei rapporti della
Chiesa con il mondo moderno, rendendo possibile la modificazione della pratica
concordataria e diplomatica del Vaticano con gli Stati contemporanei. Il mutamento non si è però limitato alla
prassi [questo è il punto] ma ha coinvolto elementi essenziali [sul piano
dottrinale] quali la messa da parte delle conseguenze sociali della Redenzione
apportata da Cristo per le nazioni storicamente cristiane e l’abbandono della
dottrina politica della Chiesa”. Conseguenze addirittura epocali, di una
gravità inaudita, come ognun può vedere. L’abbandono della dottrina politica
(tradizionale) della Chiesa ha avuto effetti particolarmente deleteri per il diritto
pubblico cristiano. Infatti, la
nuova impostazione, “ha ingenerato una situazione di compromesso tra il cattolicesimo contemporaneo e il
pluralismo laico della democrazia liberale, che ha impregnato la mentalità ecclesiastica. Pertanto, di fronte all’avanzata del laicismo
aggressivo, è diventato un luogo comune credere che la migliore soluzione
politica alternativa per i cattolici l’avrebbe rappresentata il modello della
laicità e della democrazia personalista degli Stati Uniti.”
Non c’è allora da stupirsi se, in questo
contesto, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, abbiano “giustificato
la libertà religiosa tenendo gli occhi fissi sul modello americano. Essi hanno avallato per l’ appunto l’idea di
libertà religiosa cara al P. Murray, la quale “si può condensare nello stretto
diritto, di carattere universale, a fare la propria scelta religiosa, pubblica
o privata, secondo la propria coscienza, fondata sulla dignità comune ad ogni
persona umana”. E come risolvono i due papi menzionati i
problemi di continuità con la dottrina precedente, provocati da una simile
nuova dottrina, poco o punto cattolica? Con estrema disinvoltura, secondo il prof.
Télles: Giovanni Paolo II appellandosi al concetto di “tradizione vivente”,
nella quale ogni variazione sarebbe a priori ricompresa, concetto di tradizione
condiviso anche dal suo successore; Benedetto XVI, in modo più articolato (ma,
a mio avviso, non meno sofistico), “con il riconoscere ‘differenti
livelli di discontinuità’ in ciò che è “accidentale”, al fine di mettere in
evidenza la continuità della fede in ciò che è sostanziale.” Come a dire:
la “discontinuità” rappresentata dalla nuova dottrina sarebbe solo
“accidentale”, permanendo essa sempre nella fede “sostanziale” della
Chiesa. Come questo possa accadere, non
si riesce per la verità a comprendere, di fronte ad un mutamento di paradigma
così radicale. Ma tant’è. Il concetto di
“tradizione vivente” giustificante anche le più straordinarie novità, come
l’abolizione dell’antichissima lingua liturgica della S. Messa e la
fabbricazione di una Messa in volgare interamente nuova, avulsa dalla
Tradizione (e quindi incompatibile con l’idea
della Tradizione cattolica), sembra derivare da una nozione evolutiva, storicamente condizionata e in sostanza soggettivistica
della verità, tipica del pensiero profano contemporaneo, penetrata nella cultura ecclesiastica quasi sicuramente
a partire dalla filosofia di Blondel (sul punto, vedi infra, § 6.2.1).
Sulla libertà religiosa, secondo il prof.
Télles, Giovanni Paolo II ha sviluppato almeno due tesi di vasta (ed
esiziale) portata, conducenti entrambe
alla nozione di una “sana laicità” indipendente ed autonoma rispetto
alla Chiesa (come quella, annoto, adombrata dal Concilio, all’art. 76 della Gaudium
et spes). “Secondo la prima, anche se tale libertà ha
il suo fondamento ultimo nella dignità della persona umana, essa riposa in
modo più prossimo sui valori umanitari condivisi da tutte le religioni e
tutte le culture: la fraternità, la solidarietà, la pace civile e l’unione
pan-ecumenica. Sono questi i valori che oggi, in particolare, fanno valere il
diritto alla libertà religiosa.” Naturalmente, bisogna precisare (osservo) che
tali “valori” erano condivisi da tutte le religioni non cristiane solo nella
mente di Giovanni Paolo II, risultando invece tali religioni esclusiviste
al massimo grado, ossia convinte ognuna di impersonare l’unica vera
religione, se necessario da imporre alle altre.
Ma anche in relazione al cattolicesimo, i “valori umanitari” di cui
sopra, escludendo l’ unione pan-ecumenica perché errore già condannato da Leone
XIII e Pio XI, fanno sì parte dell’etica
cristiana ma in quanto conseguenza secondaria dei suoi princìpi
fondamentali, poggianti sulla Rivelazione e sull’insegnamento ortodosso della
Chiesa, che ci chiede di amare il prossimo per amor di Dio non per la sua
(supposta) dignità. Tali “valori” si
rivelano comunque strumentali alla libertà religiosa. Infatti, seconda tesi,
“per poter realizzare tali valori, la società temporale deve ispirarsi al
principio della libertà religiosa e delle sue conseguenze politiche (laicità) e
non ai doveri della società temporale storicamente cristiana nei confronti
della fede comune e delle sue implicazioni (diritto pubblico cristiano).”
Muovendo da questi presupposti, nel 1988,
Giovanni Paolo II fece in un celebre discorso al Parlamento europeo l’elogio della laicità posta in essere
dall’Unione Europea, ossia: “la pace fondata sulla cooperazione, i meriti del
sistema dei diritti dell’uomo e della sua libertà religiosa, la democrazia pluralista,
affermando persino che la Santa Sede aveva accompagnato la costruzione unitaria
sin dal suo inizio.” In tal modo, la Chiesa cattolica diventava
solo un “fattore sociologico”, il Papa si accontentava del fatto che la
religione cattolica contribuisse assieme alle altre alla “identità culturale
comunitaria”. La Chiesa, insomma, cessa di essere magistra
e segno di contraddizione per il mondo, contribuendo nel modo indicatole
dal suo divino Fondatore alla formazione religiosa e morale dei popoli, come in
passato: cessa insomma di essere se
stessa. Essa viene ad assumere una posizione
intermedia, propria di chi, da un lato, rinfaccia alla laicità ostile alla
Chiesa di aver praticato “un malinteso” perché ora la Chiesa riconosce “la
liberazione sociale e politica” apportata dalla modernità, pur criticandone gli
eccessi e l’avversione alla trascendenza; dall’altro, rigetta “l’integrismo
religioso” di tutti i cattolici che vorrebbero ristabilire la religione e la
società di un tempo. Questa terza via
tra i due estremi (laicismo contro confessionalità) sarebbe quella di una
cosiddetta sana laicità riposante sul principio della libertà religiosa,
ovvero – Lettera dell’ 11 febbraio 2005 – sulla “giusta separazione dei
poteri” e sulla “non-confessionalità dello Stato”.
Sulla stessa linea si è mosso Benedetto
XVI. Nel suo discorso alla Casa
Bianca, il 16 aprile 2008, egli “si congratulò con la Repubblica degli Stati
uniti per aver incarnato i valori di dignità, libertà e uguaglianza in quanto
principi dell’organizzazione politica.
Secondo il Papa, il modello nord-americano sembrava associare l’ideale
moderno di libertà al rispetto della legge naturale e al riconoscimento del
Creatore. Una sorta di fruttuosa via
mediana tra l’aspirazione moderna ed illuminata a una libertà degna e l’antica
aspirazione al rispetto del principio di trascendenza.” Benedetto XVI non ha risparmiato critiche
agli aspetti oscuri del modello americano, prosegue l’Autore, ma l’elogio
rimane così come rimane la deminutio della Chiesa a petto della democrazia
americana: “il ruolo della Chiesa è ora quello di cooperare con le altre
tradizioni religiose allo sviluppo della democrazia americana, la cui missione
internazionale in favore della “solidarietà globale” è irrinunciabile, sempre
sotto l’ègida della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.
6. Il
“clericalismo” emerso dal Concilio ha proposto l’idea non cattolica di uno
Stato neutrale rispetto ai valori fondamentali, in nome della dignità dell’uomo.
Le incertezze e le contraddizioni cui dà luogo
il prevalente concetto della “dignità dell’uomo”, invocato per situazioni tra
loro contrapposte, a causa del suo fondamento spurio, visto cioè solo ed
unicamente nell’uomo in quanto tale, ritenuto buono per natura,
senza ulteriori determinazioni e senza nessun riferimento a Dio, sollecita
ulteriori, approfondite precisazioni nei due saggi che concludono il volume.
Nel primo, il prof. Castellano si concentra su
un tema più ampio: la “disfatta del clericalismo”, rivelata anche dall’adozione
di un concetto di “dignità dell’uomo” così palesemente laicizzato, da esser non
solo diverso da quello cattolico ma con esso difficilmente conciliabile. Con modernità l’Autore intende sinteticamente
il pensiero moderno e contemporaneo, le cui caratteristiche essenziali, al di
là della molteplicità di scuole e correnti, riassume in questo modo: 1.
“ritenere il pensiero costitutivo dell’essere”, con il conseguente
“primato dell’azione sull’essere; 2. sul
piano morale e giuridico, “assegnare un primato alla volontà umana e
all’attività fabbrile dell’uomo nei confronti dell’ordine naturale, in modo che
si ritenga buono e giusto ciò che l’uomo (o una comunità di uomini) ritenga
esser tale.” Con questi presupposti, la
modernità è inevitabialmente “nichilista”, quale che sia la sua concezione del
mondo. In ogni caso, e questo è
l’aspetto forse più deleterio, “la modernità pretende di modellare il mondo a
suo piacere o presume di esserci riuscita.
Questo tentativo, è reiterato, ossessivo soprattutto sul piano morale,
politico e giuridico.”
Il “clericalismo” in senso tradizionale
designa un atteggiamento opposto a quello della modernità, ma lo designa dal
punto di vista dei critici o degli avversari della Chiesa nella misura in cui
essi sono appunto “anticlericali”, avversi cioè non tanto alla religione quanto
piuttosto al papato in quanto istituzione temporale che, a loro giudizio, tende
a prevaricare nei confronti dei poteri civili.
“Clericali” sono stati sempre chiamati “tutti coloro che hanno difeso gli
interessi del clero”, ricorda il prof. Castellano. In Italia, aggiungo, “clericali” e
“anticlericali”, anche se questi termini risalgono all’Ottocento, si sono fronteggiati per
secoli, ben prima della politica anticlericale del liberale conte di Cavour:
guelfi e ghibellini, curialisti e anticurialisti. L’anticurialismo continuò nella politica
giurisdizionalista degli Stati preunitari, che non si risparmiò conflitti anche
aspri con la Chiesa. Però erano lotte
non contro la religione bensì contro quelli che, a torto o a ragione, venivano
considerati abusi di potere da parte della Gerarchia ecclesiastica, p.e.
nell’esercitare il privilegio del diritto d’asilo o del foro ecclesiastico; o eccessiva
invadenza nella dimensione civile (amministrativa, economica, politica) dei
singoli Stati. Solo con la polemica illuministica
contro il cattolicesimo, l’anticlericalismo cominciò a penetrare ampiamente
nelle classi colte, rivolgendosi contro la religione vera e propria, assumendo
sempre più connotati agnostici ed atei, diffondendosi come irreligiosità che
tendeva a diventare fatto di costume.
Ma l’accezione di “clericalismo” usata dall’Autore è del
tutto particolare e va ben spiegata, per non dar luogo ad equivoci. Egli
infatti adotta, e lo dice, una nozione di Augusto Del Noce, secondo la
quale, clericalismo indicherebbe: “un tentativo rinnovato e permanente
di andare al passo con l’ala marciante della storia. “ Questo “clericalismo” è “storicista” nel
senso che crede nella realtà di un continuo progresso dell’umanità verso il
meglio, anche per giustificare i suoi continui compromessi con “la realtà di
fatto” e quindi con la storia. La definizione delnociana viene nel testo
solo nominata. La illustro brevemente
nel suo specifico contesto.
Siamo nel pieno dell’analisi del “tramonto dei valori
tradizionali”, nel ponderoso e penetrante saggio scritto da Del Noce su questo
tema nel 1970 ma ancora perfettamente attuale.
Del Noce sta parlando “delle idee dei nuovi teologi”, i quali
condannavano il cattolicesimo tradizionale come “retrivo” perché aveva
appoggiato il fascismo, ed era, non a caso, dicevano, quello stesso
cattolicesimo che aveva condannato il modernismo. Servendosi dell’antifascismo cercavano di
delegittimare la dottrina ortodossa della Chiesa, operazione estremamente
scorretta.
“Tocchiamo qui il punto massimo della mistificazione, come
contraddizione tra la realtà effettiva e il modo ideologico di
rappresentarla. In apparenza,
rivendicata purezza del cristianesimo, liberazione da ogni sorta di temporalismo,
instaurazione di un’età postconstantiniana, ecc.; di fatto, per la prima volta,
il clericalismo è apparso allo stato puro. Senza entrare ora in distinzioni sottili
possiamo dire, senza timore di errare, che c’è un segno infallibile della distinzione
tra religione e clericalismo. La prima
contesta sempre la realtà esistente; anche quando assume atteggiamenti
conservativi, è contro le direzioni che già appaiono destinate alla vittoria e
contro quei maggiori mali che vi sono inclusi (anche se, certamente, può errare
nel giudizio storico). Il secondo cerca
invece l’accordo con l’ “ala marciante” della storia, e tenta di inserirvisi.”
In effetti, il ritorno alla Chiesa delle origini auspicato
ai tempi del Vaticano II dai c.d. nuovi teologi eredi delle istanze
moderniste non si traduceva poi nel dialogo e nell’aggiornamento al
mondo contemporaneo, che è quanto di più
lontano si possa immaginare dal cristianesimo delle origini? L’aggiornamento, quindi, come forma di
“clericalismo”, nel senso illustrato da Del Noce. In quanto deviazione dalla vera missione
della Chiesa, sottolinea l’Autore, “il clericalismo è una tentazione che si
rinnova in ogni tempo.”. Come “tentazione” in tempi più vicini a noi
egli indica, tra gli altri, il Ralliement di Leone XIII, la Ostpolitik
del cardinale Casaroli, La
distinzione delnociana rileva un’antitesi tra religione e clericalismo
ove la vera religione caratterizzerebbe quella fedeltà ai princìpi che la pone
sempre, piaccia o meno, come “segno di contraddizione” nei confronti del mondo
anche quando approva e sostiene le istituzioni vigenti, perché ispirate ai
valori del cattolicesimo, come ai tempi dell’alleanza fra il trono e l’altare,
come si diceva. Il “clericalismo” sarebbe invece
l’atteggiamento deteriore di cattolici di poca fede, pronti al compromesso con
la visione del mondo profana. Ma il Postconcilio
del Vaticano II ha rappresentato, a ben vedere, l’esplosione e il fallimento di
siffatto “clericalismo”, la cui responsabilità risale ad un Concilio che ha
voluto “parlare al mondo” con un linguaggio non “definitorio”, non dogmatico
bensì “narrativo”, motivo principale della redazione di documenti “non sempre
molto chiari” e pertanto applicati in modo tale da far sorgere l’impressione
che nella Chiesa venissero ora insegnate dottrine “poco tempo prima considerate
non conformi alla dottrina della Chiesa o addirittura inaccettabili.”
In documenti come la Dignitatis humanae sulla
libertà religiosa e in altri, si è “tentata una conciliazione col liberalismo,
grazie alla dottrina del personalismo contemporaneo”. Tale “conciliazione”, secondo il prof. Castellano,
è riuscita solo in parte. Essa ha
tuttavia portato alla conseguenza gravissima di legittimare agli occhi dei
cattolici l’idea di uno Stato “neutrale rispetto ai valori etici”. E questo anche in un Paese come l’Italia,
“che, almeno formalmente, aveva ristabilito lo Stato cattolico con gli Accordi
Lateranensi del febbraio del 1929.”
6.1 Lo Stato
fascista più cattolico della laica Repubblica democratica, largamente condivisa
dalle forze cattoliche --- L’educazione di massa della gioventù dal “culto
della Patria” al “culto della Persona” al tracollo del 1968.
Il “neo-pagano”, autoritario e persino (imperfettamente) “totalitario”
Stato fascista avrebbe dunque ristabilito “lo Stato cattolico” mentre la laica
(ma non “pagana”) Democrazia, condivisa da tutte le forze cattoliche, con la
modifica dei Patti Lateranensi del 1984 avrebbe operato un ritorno al “libera
Chiesa in libero Stato” di cavourriana memoria e per di più con l’approvazione
della S. Sede: tutto ciò appare paradossale
e merita, a mio avviso, di essere approfondito. In realtà, già la Costituzione della Repubblica,
in vigore dal 1° gennaio 1948, riconosceva la
libertà di coscienza in nome dell’uguaglianza dei cittadini e della libertà di
culto e manifestazione del pensiero (artt. 3, 19 e 21 Cost.), in contraddizione
con il confessionalismo professato dallo Stato fascista, riproposto dopo
l’intermezzo della legislazione liberale di origine risorgimentale, dal taglio
nettamente anticlericale. La Costituzione
repubblicana accolse formalmente i Patti là ove essa afferma, per ovvie e predominanti
ragioni politiche, che i “rapporti” tra lo Stato e la Chiesa, entrambi sovrani
e indipendenti nel loro ordine, “sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle
due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale” (art. 7.2).
Il “ristabilimento” dello Stato cattolico avvenne dunque
in Italia grazie ai Patti Lateranensi, merito dello Stato fascista ed
anzi, per esser storicamente obiettivi, soprattutto dell’iniziativa personale
di Benito Mussolini. Ma, non è ancor oggi, e con immutata
virulenza, condannato il fascismo, anche in àmbito cattolico, come Stato “neo-pagano”
oltre che dittatoriale e dispotico? La
Chiesa aveva, nelle circostanze di allora, ottenuto molto dal regime, tuttavia,
come scriveva Arturo Carlo Jemolo, illustre giurista cattolico liberale
e antifascista, nonostante ciò, “il pericolo per le idee cristiane, comuni a
tutte le confessioni, era in quella mistica nazionalistica, in
quell’esaltazione dell’irrazionale, in quel mito della forza, la nube del
neo-paganesimo che da quarant’anni almeno offuscava il cielo cristiano, e di
cui il fascismo non era che una espressione.”
Ma sminuire l’articolato, complesso e anche
contraddittorio fenomeno fascista a mera “espressione del neo-paganesimo di
quegli anni”, mettendolo arbitrariamente sullo stesso piano del nazismo, non
appare alquanto riduttivo? E quanto ad
esaltazione e applicazione del culto della forza, che dire dei regimi comunisti,
gli Stati dal “totalitarismo perfetto”, rispetto ai quali l’autoritarismo
“totalitario” del regime fascista sembra (fortunatamente) un gioco da ragazzi? E della bellicosa Repubblica a Stelle e
Strisce, che non ha mai disdegnato di esportare i propri ideali libertari,
ugualitari, umanitari con le sue poderose e letali armate, però sempre
condannando ufficialmente l’uso della forza?
Anche il nazismo era “neo-pagano” e assai più del fascismo. Il c.d. neo-paganesimo mussoliniano si
rifaceva soprattutto all’impero romano stordendo l’italica gente con la
retorica delle “quadrate legioni”, ma di quell’impero esaltava anche a gran
voce l’opera civilizzatrice, che cercava a modo suo di imitare: alle guerre di conquista e riconquista
seguivano le opere della pace, il c.d. “incivilimento”, che cercavano di
coinvolgere i popoli sottomessi con ampia costruzione di “infrastrutture” di
tutti i tipi. Il “paganesimo” di Hitler affondava le sue radici in Wotan e nel
Walhalla, nella barbarie del germanesimo arcaico e primitivo, riciclato dalla
sub-cultura völkisch della
quale il dittatore austriaco era imbevuto, malamente riverniciata da qualche pennellata
wagneriana.
Certamente, Mussolini aveva agito per calcolo politico,
nel risolvere la Questione Romana: ingraziarsi i cattolici, al tempo la
stragrande maggioranza degli italiani; ottenere prestigio all’estero; ottenere
se non l’appoggio un atteggiamento ampiamente benevolo da parte della Chiesa
cattolica, potenza spirituale e di riflesso politica ancora di notevole importanza
sulla scena nazionale e internazionale.
In un regime come quello nazista, che angariava in vario modo la Chiesa
cattolica e stava mettendo in piedi tra i Protestanti un “cristianesimo
tedesco” infeudato al Führerprinzip,
mai la Chiesa avrebbe ottenuto
ciò che ottenne dal fascismo. “Nessuna
speranza per la Chiesa, in regime nazista, di vedersi consegnare dallo Stato la
legislazione matrimoniale, di avere illimitata libertà scolastica, di ottenere
libertà completa per la predicazione del clero, di mantenere un clero che
dipendesse effettivamente da Roma e che non fosse più fortemente legato al
potere politico.”
Come mai il regime, che non era ancora quello delle imprudenti
conquiste “imperiali” e delle ingiuste leggi razziali, aveva fatto tante
concessioni, chiudendo in modo onorevole e vantaggioso per la Chiesa il doloroso
capitolo anticlericale e per certi aspetti persino antireligioso apertosi col Risorgimento?
La risposta la troviamo, credo, nell’intuizione di
Mussolini, manifestatasi nella celebre lettera del 4 maggio 1926 al
Guardasigilli Alfredo Rocco, dopo il rifiuto di Pio XI di accettare la
revisione della Legge delle Guarentigie, giustamente mai riconosciuta dalla
Santa Sede, regolante unilateralmente le relazioni con la Chiesa all’insegna
del principio liberale del “libera Chiesa in libero Stato”.
“La Santa Sede, scriveva Mussolini, pur apprezzando il
profondo mutamento di indirizzo, che il trionfo del Fascismo ha segnato nella
politica religiosa dello Stato italiano, reputa che una sistemazione
soddisfacente dei rapporti tra la Chiesa Cattolica e lo Stato in Italia non
possa conseguirsi, se non per via di accordo bilaterale e che un accordo di tal
fatta presuppone risoluto, d’intesa tra le due Potestà, il problema della
sistemazione giuridica della Santa Sede, come organo centrale, e pertanto, di
sua natura supernazionale, della Chiesa, il quale, per decreto della
Provvidenza Divina ha sede in Italia.
Il regime fascista, superando in questo, come in ogni
altro campo, le pregiudiziali del liberalismo, ha ripudiato così il principio
dell’agnosticismo religioso dello Stato, come quello di una separazione tra
Chiesa e Stato, altrettanto assurda quanto la separazione tra spirito e
materia…È logico pertanto che il Governo Fascista giudichi con piena serenità
le attuali manifestazioni della Santa Sede, e le reputi degne della piú attenta
considerazione…”.
Mussolini, sposato civilmente con Rachele Guidi, nel
dicembre del 1925, da tre anni Capo del Governo, si sposò anche in chiesa. Al contrario del padre Alessandro, socialista
e acceso anticlericale, la madre era cattolica osservante e aveva fatto
battezzare il futuro Duce. La sorella
Edvige e il fratello Arnaldo erano del pari cattolici praticanti. Arnaldo aveva un certa influenza su Mussolini
ma purtroppo morì nel 1931. È del tutto legittimo ritenere che Mussolini si sia
confessato e comunicato prima di coniugarsi sacramentalmente in chiesa. Che fosse tuttavia diventato anche in
coscienza cattolico è sicuramente azzardato affermarlo. Tale intima conversione sembra sia avvenuta
dopo la caduta del Regime, durante il tempo drammatico della Repubblica Sociale
Italiana, secondo la testimonianza di ben sei sacerdoti, che affermano di
averlo in diverse occasioni confessato e comunicato in quel periodo.
La sua ampia apertura alle esigenze della Chiesa era,
negli anni Venti, solo il frutto di un calcolo politico? Certamente, come si suol dire, il Signore
scrive diritto anche sulle righe storte.
Le “righe storte” erano nel nostro caso quelle scritte da chi professava
un’idea di Stato e Nazione che non derivava dalla tradizione cattolica ma da un
insieme di spezzoni ideologici ad essa estranei e persino ostili: dal nazionalismo
coniugato al sindacalismo rivoluzionario e a certe istanze del socialismo alle
correnti filosofiche antipositiviste ma vitalistiche e professanti il culto
dell’azione, elementi che l’idealismo gentiliano cercava di ridurre a sintesi
nella sua concezione dello Stato – e tuttavia riconosceva nel cattolicesimo,
religione bimillenaria del popolo italiano, un elemento fondamentale di questa
stessa concezione dello Stato, come risulta, ad esempio, dalla celebre voce Fascismo
- Dottrina del fascismo della Enciclopedia Treccani (XIV,
1932), al tempo diretta da Giovanni Gentile, che vi fece collaborare anche
accademici antifascisti.
La Dottrina del fascismo, firmata da Mussolini, fu
scritta, almeno nella parte iniziale dove si enuncia il concetto dello Stato
totalitario, da Gentile: un totalitarismo più filosofico che politico,
incentrato sull’idea che lo Stato, come dimensione soprattutto spirituale,
rappresenta il superamento degli egoismi individuali (particolarmente esiziali
nella storia dell’ Italia post-romana, dominata dal trionfo del “particulare” anarchico-individualista
e dalla sudditanza anche morale e psicologica alle “preponderanze straniere”),
realizzando una totalità etica nella quale si ha la sintesi di Stato ed
individuo (e si attua il superamento dell’io empirico nell’io trascendentale,
concetto portante della filosofia dello stesso Gentile). Visione nobile e di alto sentire che conferiva
allo Stato un alto contenuto etico ma rischiava
di annullare l’individuo nello Stato e di scadere, all’atto pratico, nello statalismo. C’era però l’esigenza di giustificare lo
Stato dal punto di vista spirituale non solo politico ed economico,
dimostrandone la necessità per la Nazione, intesa come realtà storica concreta,
passato e presente, materiale e spirituale, che non può in realtà mantenersi
senza fondarsi su uno Stato, in costruttiva interrelazione; l’ esigenza di far
valere una superiore visione spirituale, capace di armonizzare i conflitti e
far sparire lo spirito di fazione, antico male d’Italia, riapparso nello
spirito della lotta di classe e nel mito della rivoluzione profusi dal
bolscevismo all’assalto dell’Europa occidentale prostrata dalla guerra. Solo che questo Stato, contrapponendosi da un
lato all’egoistico individualismo liberale e all’utilitarismo capitalistico,
dall’altro allo spietato collettivismo marxista, se riconosceva la libertà
individuale nel campo della proprietà privata e del lavoro, in nome della
necessaria unità della nazione e dello Stato la negava poi in quello politico, abolendo i
partiti politici e i sindacati per instaurare un regime di partito e sindacato
unico, sopprimendo la libertà di espressione; perseguendo gli oppositori
politici attivi in modo capillare, fastidioso e a volte odioso ma non feroce –
c’erano i condoni e le amnistie, le grazie concesse dal Duce, cui piaceva
atteggiarsi a severo ma magnanimo Condottiero; lo scomodo ma sopportabile,
temporaneo e spesso abbreviato “confino di polizia” in zone rurali o nelle
isole (basta leggere Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi) ----- una dittatura appunto nei fatti (per fortuna)
non “totalitaria”, come riconobbe lo stesso Norberto Bobbio, uno dei più
autorevoli esponenti dell’antifascismo:
“Ho già detto come il regime si permettesse di concedere certe libertà.
Ma la campagna razziale è stata una vergogna.”
Nella seconda parte della voce, che sembra scritta
da Mussolini, nel presentare l’origine e i concetti essenziali della dottrina
del fascismo, si afferma, a proposito dello Stato: “Lo stato così come il Fascismo lo concepisce
e attua è un fatto spirituale e morale, poiché concreta la organizzazione
politica, giuridica, economica della Nazione, e tale organizzazione è, nel suo
sorgere e nel suo sviluppo, una manifestazione dello spirito. Lo stato è garante della sicurezza interna ed
esterna, ma è anche il custode e il trasmettitore dello spirito del popolo così
come fu nei secoli elaborato nella lingua, nel costume, nella fede. Lo Stato non è soltanto presente, ma è anche
passato e soprattutto futuro. È lo stato
che trascendendo il limite breve delle vite individuali rappresenta la
coscienza immanente della nazione. Le
forme in cui gli Stati si esprimono, mutano, ma la necessità rimane. È lo Stato
che educa i cittadini alla virtù civile, li rende consapevoli della loro
missione, li sollecita all’unità; armonizza i loro interessi nella giustizia;
tramanda le conquiste del pensiero nelle scienze, nelle arti, nel diritto,
nell’umana solidarietà; porta tutti gli uomini dalla vita elementare della
tribù alla più alta espressione umana di potenza che è l’impero; affida ai
secoli i nomi di coloro che morirono per la sua integrità o per obbedire alle
sue leggi; addita come esempio e raccomanda alle generazioni che verranno i
capitani che lo accrebbero di territorio e i geni che lo illuminarono di
gloria. Quando declina il senso dello
Stato e prevalgono le tendenze dissociatrici e
centrifughe degli individui o dei gruppi, le società nazionali volgono al tramonto.”
Si noterà che questa definizione dello Stato non contiene
nulla di particolarmente totalitario nel senso nel quale si è
storicamente affermato il concetto: sembra uscita dalle letture dei classici
antichi fatta dal Machiavelli dei Discorsi. Nemmeno l’accenno alla potenza dello Stato,
all’impero quale zenit della sua parabola (accenno che avrà funeste conseguenze
pratiche) mostra niente di totalitario ed anzi, questo Stato, che si
vuole in unione organica con la Nazione, non viene forse inteso come
esigenza dello spirito a prescindere dalla sua forma istituzionale concreta, come
se costituisse una vera e propria categoria dello Spirito? Colpisce poi l’assenza di riferimenti
pregnanti al Partito (il PNF, il Partito Nazionale Fascista), il partito
unico, il “moderno Principe” secondo la celebre definizione gramsciana, l’istituzione
essenziale del totalitarismo, non a caso a fondamento dello Stato nella
Germania nazista e soprattutto nella Russia comunista, che fu anzi il modello
dell’autentico totalitarismo, costituito dall’identificazione completa di Stato
e partito unico e nella soppressione di tutte le libertà individuali, con i
sindacati ridotti a “cinghia di trasmissione” della politica del Partito. Nell’articolo del 1922 Stato Anti-Stato e
Fascismo , Mussolini precisava che la nozione fascista dello Stato come
“incarnazione giuridica della nazione” andava approfondita col vedere nello
Stato “un sistema di gerarchie” sottoposte ad un Capo, sempre presente tale
sistema a prescindere dalla forma e dall’origine dello Stato. Ma il nesso essenziale restava quello tra
Nazione e Stato, del quale il Partito (unico) era strumento di attuazione, concettualmente
subordinato allo Stato.
L’esigenza della libertà individuale, nelle sue varie
forme (di movimento, manifestazione del pensiero, scelte politiche), che deve
esser sempre regolata dalle leggi ma non può esser soppressa se non per brevi
periodi, lo Stato fascista avrebbe dovuto realizzarla attraverso le Corporazioni,
organismi creati dai produttori (borghesi e proletari) per superare i
conflitti di classe: essi avrebbero dovuto eleggere liberamente i loro
rappresentanti nazionali ossia in modo indipendente dal PNF. Ma al dunque,
questo non accadde, Mussolini non osò.
Il controllo del partito unico sulle corporazioni, mediante la nomina
dei rappresentanti nazionali, fece fallire la parte veramente innovativa del
progetto, che consisteva nel creare una forma di libertà politica dal basso,
attraverso le organizzazioni dei produttori, del mondo del lavoro in generale,
in sostituzione delle elezioni della democrazia parlamentare, liquidate come
illusori “ludi cartacei” perché sempre condizionate dalla “plutocrazia”, dai gruppi di potere più diversi, anche
occulti. Troppo tardi Mussolini avrebbe cercato
di superarre l’esperienza della dittatura del partito unico e sua personale. Ciò avvenne nel progetto di costituzione
della Repubblica Sociale Italiana, cui stava lavorando su suo incarico
il prof. Carlo Alberto Biggini, validissimo costituzionalista, che prevedeva la repubblica presidenziale
quale futura forma di governo.
Per quanto riguarda
il rapporto con la religione, si noterà l’accenno alla fede come elemento essenziale dello
“spirito del popolo” elaboratosi nei secoli.
Il momento religioso recuperato, dunque, dall’ex mangia-preti e in
gioventù “quasi eretico” romagnolo attraverso la nazione, l’organismo vivente
che si attua nella storia, sublimandosi nello Stato? E quindi da intendersi, la religione, come instrumentum
regni ma solo sino ad un certo punto, se essa va innanzitutto rispettata
come espressione profonda dello “spirito del popolo”? Questo sembra di poter
dire, leggendo la parte dedicata alla religione nella suddetta voce.
“Lo Stato fascista non rimane indifferente di fronte al
fatto religioso in genere e a quella particolare religione positiva che è il
cattolicesimo italiano. Lo stato non ha
una teologia, ma ha una morale. Nello
stato fascista la religione viene considerata come una delle manifestazioni più
profonde dello spirito; non viene, quindi, soltanto rispettata, ma difesa e
protetta. Lo Stato fascista non crea un
suo “Dio” così come volle fare a un certo momento, nei delirii estremi della
Convenzione, Robespierre; né cerca vanamente di cancellarlo dagli animi come fa
il bolscevismo; il Fascismo rispetta il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi
e anche il Dio com’è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo del popolo.”
Mussolini non scrive che lo Stato fascista “crede in Dio”. Non avrebbe potuto. La sua rimane sempre la prospettiva di un
laico che tuttavia mostra un rispetto profondo per la religione dei Padri,
parte integrante dell’anima e della storia della Nazione, alla cui esistenza e
grandezza aveva pur contribuito – un rispetto che magari l’avessero tanti preti
e cattolici senza fede e allo sbando di oggi, AD 2020, nemici e della propria
Patria e della propria Religione. Lo
Stato del resto non può avere una “teologia”, ciò veniva probabilmente
considerato incompatibile con il fine dello Stato, che non è ultraterreno ma
solo terreno; uno Stato che, secondo le idee allora prevalenti, doveva pur
sempre ritenersi “separato” dalla Chiesa che ora voleva proteggere. Ma sulla “separazione” Mussolini, nel lungo e
a tratti polemico discorso che fece alla Camera nell’illustrare i Patti
Lateranensi, non si mostrava affatto convinto.
La formula della separazione era la cavourriana “libera Chiesa in libero
Stato”: lo Stato si disinteressava della Chiesa, concepita come una qualsiasi
società privata, libera di darsi le sue regole e le sue istituzioni, sempre
però nell’àmbito dell’ordinamento dello Stato, che ad esempio pretendeva di
controllare la concessione dei benefici ecclesiastici (vedi supra). “Libera” quindi la Chiesa, ma non del tutto. La Chiesa aveva comunque approfittato di
questa relativa “autonomia” di diritto privato per ristrutturarsi sul piano
sociale, dopo gli sconquassi risorgimentali, e, ad esempio, organizzare, con la
mobilitazione di tutte le sue organizzazioni, una capillare e fruttuosa
opposizione ai tentativi di introdurre il divorzio, istituto peraltro avversato
anche dal Re. La perdita del potere
temporale non aveva intaccato la libertà d’azione della Chiesa in campo
spirituale. S. Pio X, tanto per fare un esempio, aveva potuto procedere in piena
libertà nella sua opera di riforma teologica e morale. Tuttavia questo non bastava: sull’unità
d’Italia gravava la “riserva morale” provocata dal vulnus inflitto alla
Chiesa nel temporale, esacerbato dalla successiva legislazione anticlericale,
nella quale erano penetrate alla fine anche alcune tendenze più estremiste,
mentre la Chiesa, il papato, per quello che erano e rappresentavano, non
potevano esser concepiti e trattati alla stregua di una semplice, neutrale organizzazione
privata qualsiasi. Il Papa, come
riconobbe lo stesso Mussolini citando De Maistre, “è nato Sovrano”. Bisognava restituire al Papa una vera
sovranità temporale. Ma la Legge delle
Guarentigie, pur garantendogli privilegi ed indipendenza economica, lo trattava
come se fosse un soggetto particolare cui si volevano rendere onori
straordinari, avulso dalla Chiesa, considerandolo una sorta di sovrano senza territorio,
posizione inaccettabile.
“Ho molto riflettuto su questa formula – disse Mussolini –
ma io credo che lo stesso Cavour non si rendesse conto che cosa, in realtà,
questa formula potesse significare.
Libera Chiesa in libero Stato: ma
è possibile? Nelle nazioni cattoliche,
no. Le nazioni protestanti hanno risolto
il problema, facendo in modo che il Capo dello Stato sia anche il Capo della
loro religione e hanno costituito la Chiesa nazionale. […] Io
credo, invece, che Cavour volesse intendere che lo Stato dovesse esser libero
completamente e sovrano in quelle che sono le proprie attribuzioni, non
soltanto però di ordine materiale pratico, come si vorrebbe dare ad intendere
- e su ciò torneremo tra poco -, e che
la Chiesa dovesse essere libera per il suo magistero e per la sua missione
pastorale e spirituale.
Non si può pensare una separazione nettissima tra questi
due enti, perché il cittadino è cattolico e il cattolico è cittadino. Bisogna dunque determinare i confini tra
quelle che sono le materie miste. D’altra parte la lotta tra la Chiesa e lo
Stato è millenaria: o è l’Imperatore che domina il Papa o è il Papa che domina
l’Imperatore. Negli Stati moderni, negli
Stati a solida organizzazione costituzionale moderna, dato lo sviluppo dei
tempi, si preferisce vivere in regime di
Concordato. Io credo che Cavour volesse
appunto pensare a una siffatta soluzione del problema dei rapporti tra la
Chiesa e lo Stato.”
La continuità
della politica ecclesiastica mussoliniana con la politica di Cavour non è
sostenibile. E difatti i Patti
Lateranensi valsero a Mussolini l’accusa di aver creato (o ricreato)
addirittura uno “Stato confessionale”, come mugugnava la componente anticlericale
del movimento fascista e come ripeté poi Piero Calamandrei, illustre giurista,
partecipe dell’elaborazione del Codice Civile del 1942, di poi esponente del
Partito d’Azione, composto da antifascisti tra i più rigidi, liberali di sinistra
e socialisti liberali: erano i
democratici intransigenti, che si rifacevano dogmaticamente
all’anticlericalismo risorgimentale, sezione mazziniana.
Ma poteva dirsi lo Stato fascista davvero uno Stato
“confessionale”, ed anzi “cattolico”, pur essendo il suo impianto ideologico
considerato “neo-pagano” per via delle sue origini sindacal-rivoluzionarie e
socialiste (con tanto di elogio di tipo soreliano della violenza), della ripulsa
del “pacifismo”, ritenuto ipocrita, vile e disgregatore delle Nazioni allo
stesso modo della Società delle Nazioni, considerata solo un orpello delle
“plutocrazie”; dell’accettazione della guerra quale mezzo di risolvere le
controversie tra gli Stati; dell’esaltazione dell’idea dell’ impero in nome
dello spirito di sacrificio, della “santità e dell’eroismo”, della creduta
grandezza spirituale della propria nazione? Se all’esterno il regime fascista faceva
spesso “la faccia feroce”, all’interno la sua ideologia lo orientava verso la pacificazione
e il superamento dei conflitti: con la Chiesa innanzitutto, e tra i ceti
produttivi, mediante riforme sociali che creassero il giusto equilibrio tra le
esigenze del capitale e quelle del lavoro.
Il Trattato del Laterano tra la Santa Sede e l’Italia, che
ristabiliva alla prima il potere temporale nella forma del microstato
della Città del Vaticano, a tutti gli effetti soggetto di diritto
internazionale, libero, sovrano e indipendente, garantito nella sua neutralità,
dotato di alcune appendici extraterritoriali, portava nel Preambolo l’invocazione
alla Santissima Trinità: “In nome
della Santissima Trinità, Premesso: Che
la Santa Sede e l’Italia hanno riconosciuto la convenienza di eliminare ogni
ragione di dissidio…”. Cosa ben più
importante, l’art. 1 del Trattato, composto di 27 articoli, ribadiva il principio già affermato dallo
Statuto Albertino (concesso dal Re Carlo Alberto di Savoia-Carignano) per il
Regno di Sardegna, secondo il quale unica religione dello Stato era la
cattolica. “L’Italia riconosce e
riafferma il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del Regno 4 marzo
1848, pel quale la religione cattolica, apostolica, e romana è la sola
religione dello Stato.” Questo
fondamentale principio, che impegnava lo Stato a difendere le istituzioni della
religione cattolica e la morale da essa predicata, non era stato abrogato dal
Regno d’Italia (nato la domenica del 17 marzo 1861), il quale continuava nella
persona di Vittorio Emanuele III, con Mussolini Capo del Governo. Però bisognava evidentemente riaffermarlo
dopo il periodo di contrapposizione frontale fra Stato unitario e Chiesa
cattolica, in séguito all’occupazione militare dello Stato della Chiesa da
parte dei Savoia e alla soppressione violenta del potere temporale, seguíta,
come ho già ricordato, per alcuni decenni da una politica decisamente giurisdizionalista
con la relativa legislazione anticlericale, il cui punto focale era stato
sicuramente l’introduzone del matrimonio civile quale unica forma di matrimonio
riconosciuta dallo Stato – mentre fallì il tentativo, ripetuto tre volte, di
introdurre anche il divorzio. Si può
anzi dire che la politica cavourriana della “separazione”, del “libera Chiesa
in libero Stato” fosse in contraddizione con il confessionalismo mantenuto dallo Statuto Albertino, che implicava
il dovere dello Stato di mantenere e difendere la religione e la morale
cattolica, e, in generale, la giusta collaborazione tra la monarchia cattolica
e la Chiesa cattolica, pur nel rispetto delle rispettive imprescindibili
differenze e nonostante gli occasionali conflitti, anche aspri, sui diritti e
privilegi da mantenere o meno alla Chiesa.
Questa “separazione” era diventata ben netta e grave con l’introduzione
del matrimonio civile quale unico matrimonio riconosciuto dallo Stato; era
diventata una contrapposizione dello Stato alla Chiesa.
Il Concordato,
inoltre, nell’art. 1.2, riconosceva alla città di Roma un carattere sacro,
che lo Stato italiano si impegnava a tutelare:
“In considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile
del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il
Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in
contrasto col detto carattere.” E questa
tutela fu pienamente attuata, come è noto.
Questo riconoscimento al carattere sacro di Roma, in quanto Città
Santa del Cattolicesimo, non piacque affatto ai critici degli Accordi,
numerosi anche tra i fascisti e non solo tra quelli della prima ora, che si
scandalizzarono anche della invocazione iniziale alla Santissima Trinità,
ritenuta (chissà perché) poco dignitosa per la laicità dello Stato, pur
trattandosi di formula più volte usata, nel redigere i trattati internazionali
(come replicò Mussolini nel suo citato discorso alla Camera).
E sul carattere “sacro” riconosciuto alla città di Roma,
che lo Stato italiano si impegnava a tutelare, replicò, estendendo, in modo per
lui tipico, la “sacralità” di Roma alla Roma fondatrice dell’impero, cosa che
giustamente dispiacque all’autorità ecclesiastica:
“Ma io trovo che è stupefacente lo stupore di coloro che
si sono appuntati su questa seconda parte dell’articolo. Ma chi è quel barbaro che può negare il
carattere sacro di Roma? […] Ma Roma è
sacra perché fu la capitale dell’impero e ci ha lasciato le norme del suo
Diritto e le sue reliquie venerabili e memorabili che ancora ci commuovono
quando balzano ad ogni momento dalla terra appena frugata. Ma poi sacra ancora perché è stata la culla
del cattolicismo. Tutti i poeti di tutti
i tempi ed uomini di tutti i popoli hanno riconosciuto il carattere sacro di
Roma.”
Nell’Accordo con
Protocollo Addizionale del 18 febbraio 1984, con il quale furono modificate
alcune parti del Concordato, il carattere sacro di Roma scomparve. L’art. 4 di tale Accordo si limita
infatti a dire che: “La Repubblica
italiana riconosce il particolare significato che Roma, sede vescovile del
Sommo Pontefice, ha per la cattolicità”.
Dalla “sacralità” della Città eterna “centro del Cattolicesimo” ad un
miserello e striminzito “particolare significato” di Roma “per la cattolicità”: un bel salto all’indietro, non c’è dubbio. Questa modifica si comprendeva ancor meglio
alla luce dell’art. 1 del Protocollo Addizionale, che (dopo 123 anni,
1861-1984) cancellava la religione cattolica quale unica religione dello Stato
italiano: “Si considera non più in
vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della
religione cattolica come sola religione dello Stato italiano.” Tale “aggiunta” era fatta in relazione
all’art. 1 dell’Accordo stesso, nel quale si affermava che “lo Stato e
la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani,
impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla
reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. Lo Stato italiano cessava dunque di esser
“confessionale”, anche se la confessionalità non gli aveva affatto impedito di
mantenere la sua indipendenza istituzionale nei confronti della Chiesa. La
dirigenza laica del nostro Paese aveva voluto trarre le ultime conseguenze dai
princìpi della laicità stabiliti nella Costituzione e la Gerarchia cattolica si
era gioiosamente adeguata.
Questa deminutio della religione cattolica da parte
dello Stato italiano repubblicano, che ora non voleva più averla come unica
religione ufficiale, declassando anche il significato religioso della città di
Roma, avveniva dunque con il pieno accordo delle autorità vaticane
dell’epoca, cosa che poteva stupire solo chi non avesse ancora compreso il
significato intrinsecamente distruttivo del Concilio Vaticano II per la stessa
Chiesa. Tali autorità erano ora impegnate
nella “promozione dell’uomo”, nozione tipica, nella sua nebulosità, della retorica
umanitaria e progressista del nostro tempo, e in quella “del Paese”, nozione anch’essa
nebulosa e in sostanza vacua - entrambe le nozioni prive di qualsiasi
significato religioso. La modificazione
del Concordato in senso laicista era stata fortemente voluta, dicono le
cronache, dall’on. Bettino Craxi, socialista e al tempo premier, la cui
carriera politica sarebbe pochi anni
dopo inaspettatamente naufragata e in modo miserevole.
A sostegno della sua mutata posizione, l’autorità vaticana
si appoggiava al Concilio: “ […] avendo
presenti, da parte della Republica italiana, i princìpi sanciti dalla sua
Costituzione, e, da parte della Santa Sede, le dichiarazioni del Concilio
Ecumenico Vaticano II circa la libertà religiosa e i rapporti fra la Chiesa e
la comunità politica, nonché la nuova codificazione del diritto
canonico…”. I testi conciliari
richiamati espressamente in nota erano:
Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa, art.
6; Costituzione pastorale Gaudium et
spes, art. 76.
Mussolini costrinse i vescovi, non designati da lui ma dal
Papa, a prestar tuttavia giuramento anche al Re in quanto Capo dello Stato e al
Governo, riaffermando quindi in tal modo l’autorità dello Stato; però diede al
matrimonio religioso valore anche per l’ordinamento dello Stato, attribuendo
compiti di funzionario di stato civile al celebrante, che poteva provvedere al
deposito degli atti nel registro dello stato civile (nell’Anagrafe di ogni comune). Una innovazione benefica, di enorme importanza
per la morale e i costumi della società italiana, che la rimetteva in
careggiata con la sua bimillenaria religione cattolica, restituendola al matrimonio
cattolico per lo scorno amarissimo di quello schieramento liberal-massonico di
sinistra impegnato da decenni a combattere i valori della religione del popolo
italiano, cominciando appunto dal valore fondamentale rappresentato dal
matrimonio cattolico, detto ora concordatario. Certo, il matrimonio civile (senza divorzio)
restava valido ma pochi vi ricorrevano. L’importante era aver riconosciuto
quello religioso, praticato dalla stragranda maggioranza degli italiani; l’aver
di nuovo riconosciuto, lo Stato, che la famiglia, cellula della società, poteva
recuperare la sua origine religiosa, indissolubile, nell’unione celebrata sacramentalmente,
in chiesa dagli sposi. Considerando
quest’ultimo punto e le ampie aperture e favori al cattolicesimo negli altri
campi, anche in quello finanziario, si può sostenere che, se lo Stato fascista
era cattolico soprattutto per la forma, questa forma era tale da permettere
alla sostanza, al cattolicesimo ovvero all’insegnamento e
all’opera della Chiesa, di radicarsi nuovamente in profondità nella società
italiana. Che poi, dopo la caduta in
disgrazia del 25 luglio Mussolini non si sentisse solo formalmente cattolico,
lo si può dedurre, io credo, dal fatto che anche la R.S.I., Stato per forza di
cose satellite dei nazisti, mantenne la religione cattolica quale unica
religione dello Stato e mantenne il matrimonio concordatario: una scelta che difficilmente sembra dettata
dalla Ragion di Stato, in quei frangenti.
Infatti, nel Manifesto
di Verona, del novembre 1943, che
conteneva il programma ancora generico in 18 punti del Partito Fascista
Repubblicano, in attesa di una Costituente
che poi gli eventi bellici impedirono di
convocare, si diceva : “6. La religione della Repubblica è la cattolica apostolica romana. Ogni altro culto che non contrasti alle leggi
è rispettato.” Di fatto, quello ebraico
veniva soppresso: il n. 7 proclamava
l’ostilità agli ebrei, e la situazione
non consentiva probabilmente di agire diversamente: “7.
Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità
nemica.” Nonostante quest’affermazione,
“il problema ebraico era affrontato quasi di scorcio” da Mussolini, nota De
Felice, sequestrando arbitrariamente i beni degli ebrei (in quanto “stranieri”
e “nemici”) ma internandoli in dignitosi campi di raccolta con l’idea di non
consegnarli ai tedeschi (si era evidentemente capito che i nazisti li
facevano morire). La “caccia all’ebreo”
sarebbe incominciata ugualmente da parte dei nazisti quando, nella primavera
del 1944, si dovette affidare la questione al fanatico antisemita Giovanni
Preziosi, uno spretato, appoggiato personalmente da Hitler, che però Mussolini,
pur detestandolo, aveva avuto il torto di lasciar scrivere durante l’infame
campagna di stampa preparatoria delle leggi razziali. Ad ogni modo, certo troppo tardi, al punto
8c, dedicato alla politica estera, si rinnegava di fatto tutta quella
politica “imperiale” (con i suoi
risvolti razzisti) che mai si sarebbe dovuta fare: “c) valorizzazione, a beneficio dei popoli
europei e di quelli autoctoni, delle risorse naturali dell’Africa, nel rispetto
assoluto di quei popoli, in ispecie mussulmani, che, come l’Egitto, sono già
civilmenre e nuclealmente organizzati.”
Ci fu più volte un aspro confronto con la Chiesa a causa
dell’educazione della gioventù. Prima
della ratifica dei Patti, nel 1927, Mussolini sciolse i boy-scouts
cattolici (fondati nel 1918) perché – questa l’accusa – facevano di fatto propaganda ostile al regime. Il regime mirava al monopolio dell’educazione
della gioventù nelle sue organizzazioni di massa, riconoscendo le
organizzazioni giovanili dell’Azione Cattolica a condizione che si occupassero
solo dell’aspetto “morale, culturale e religioso”. Sembrò ad un certo punto che nell’AC
riaffiorassero vecchi arnesi del Partito Popolare e ispirassero atteggiamenti
di opposizione al regime, che ovviamente reagì, anche con i suoi ricorrenti,
deprecabili sistemi “maneschi”, per così dire, una brutale eredità dello
squadrismo delle origini, della quale il fascismo non riuscì mai a liberarsi. Il contenzioso fu composto nel 1938 grazie
alla mediazione dell’allora cardinale Eugenio Pacelli, Segretario di
Stato.
L’educazione politico-sportivo-patriottica di massa, con
tutte le sue cerimonie, feste, campeggi, escursioni, i suoi addestramenti di
tipo militare anche per le donne (per loro, comunque, solo gare di tiro al
bersaglio, anche se con vere armi da fuoco), rappresentava una caratteristica
dello Stato appunto totalitario, che voleva la partecipazione totale e
continua dei cittadini --- in Italia, ad un certo momento, verso la fine degli
anni Trenta, fonte anche di stanchezza e insofferenza nei confronti del regime,
tutto questo addestramento, a causa, per esempio, degli obblighi
malvisti delle adunanze e parate del poco amato “sabato fascista”, e di
infinite barzellette contro segretari del PNF come il troppo solerte Achille
Starace, poco elastico esecutore delle
direttive mussoliniane. La mistica
della Nazione, attuandosi a livello di cultura popolare con i “catechismi”
ingenui e retorici imbevuti di “mistica fascista”, accrebbe l’opposizione
morale di parte dei ceti colti al regime, verso il quale anche uomini di cultura aderenti al fascismo o
fascisti cominciarono a provare un senso di disagio, più o meno profondo, che
si acquì con la promulgazione delle leggi razziali. Giustamente la Chiesa aveva sempre visto con preoccupazione quest’aspetto del fascismo,
accentuatosi nel secondo decennio, che educava la gioventù secondo ideali
patriottici e guerreschi innalzati a vera e propria “religione secolare”, come
è stato detto, potenzialmente sostitutivi della vera religione, anche se la
Chiesa manteneva sempre un rapporto pubblico
con questa gioventù, per esempio con le Messe al Campo celebrate per Balilla,
Avanguardisti, etc. E un nesso più profondo
manteneva grazie all’insegnamento di religione in tutte le scuole. Ma non
poteva bastare, ovviamente. Come non poteva bastare che il fascismo avesse
riconosciuto le scuole private confessionali, le organizzazioni giovanili
cattoliche e avesse concesso il riconoscimento statale all’Università Cattolica.
La Chiesa non poteva permettere che lo
Stato avocasse a sè l’educazione della gioventù, lasciando ad essa solo l’aspetto religioso della stessa: compito
dello Stato doveva esser quello di completare la formazione che la gioventù già
riceveva nella famiglia e ad opera della Chiesa, come sottolineò Pio XI in una
Allocuzione, riprovando apertamente nell’Enciclica Non abbiamo bisogno,
del 20 giugno 1931, il culto del Fascio Littorio ossia “la religiosità fascista, la formula
del giuramento del partito, la statolatria del regime, la pretesa di monopolio
dell’educazione delle nuove generazioni e del dominio delle coscienze.”
Ma Mussolini aveva sempre insistito sul carattere morale
che lo Stato fascista voleva avere (Stato etico). Alla fine del citato discorso alla Camera,
aveva detto: “Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito, una
sua morale, che è quella che dà la forza alle sue leggi e per la quale esso
riesce a farsi ubbidire dai cittadini?
Che cosa sarebbe lo Stato? Una cosa miserevole, davanti alla quale i
cittadini avrebbero il diritto della rivolta o del disprezzo. Lo Stato fascista rivendica in pieno il suo
carattere di eticità: è Cattolico, ma è
Fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente Fascista. Il Cattolicesimo lo integra, e noi lo
dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o
metafisica, di cambiarci le carte in tavola.
Ognuno pensi che non ha di fronte a sé
lo Stato agnostico demoliberale, una specie di materasso sul quale tutti
passavano a vicenda; ma ha dinanzi a sè uno Stato che è conscio della sua
missione e che rappresenta un popolo che cammina, uno Stato che trasforma
questo popolo continuamente, anche nel suo aspetto fisico.”
Su queste basi, lo Stato non
si poteva limitare a perfezionare l’educazione che i singoli ricevevano
dalla famiglia e dalla Chiesa.
L’educazione della gioventù spettava in un àmbito preciso allo Stato
anche in considerazione della situazione storica dominante, secondo Mussolini,
che imponeva limiti alle famiglie, impegnate nella dura lotta per l’esistenza, e
richiedeva nel popolo un’anima virile e guerriera. Nel discorso di replica al Senato, Mussolini
chiarì il punto, dopo aver ricordato che il regime non aveva il monopolio
dell’istruzione, come dimostrava il “riconoscimento” (nell’ottobre del 1924) della
prima Università Cattolica italiana, fondata come istituto privato nel 1921: “Dire che l’istruzione spetta alla famiglia,
è dire cosa al di fuori della realtà contemporanea. La famiglia moderna, assillata dalle
necessità di ordine economico, vessata quotidianamente dalla lotta per la vita,
non può istruire nessuno. Solo lo Stato,
con i suoi mezzi di ogni specie, può assolvere questo cómpito. Aggiungo che solo lo Stato può anche
impartire la necessaria istruzione religiosa, integrandola con il complesso delle
altre discipline [la Riforma Gentile (vedi supra) aveva reintrodotto
l’insegnamento della religione nella scuola pubblica, alle elementari, poi allargato
al resto della scuola dagli Accordi].
Qual’è allora l’educazione che noi rivendichiamo in maniera
totalitaria? L’educazione del
cittadino.” E perché tale educazione era
necessaria? Perché, continuava, il mondo
era popolato da “lupi feroci” e occorreva sapersi difendere, facendo rivivere
nel popolo italiano le sue antiche (e quasi scomparse) virtù guerriere. Pertanto: “Necessaria è questa educazione
virile e guerriera in Italia, perché durante lunghi secoli le virtù militari
del popolo italiano non hanno potuto rifulgere.
È solo la guerra che va dal 1915 al 1918 che costituisce, dopo le guerre
dell’Impero Romano, la prima guerra combattuta e vinta dal popolo
italiano. E poiché abbiamo degli
interessi da difendere giorno per giorno come esistenza di un popolo, non
possiamo cedere alle lusinghe dell’universalismo, che io comprendo nei popoli
che sono arrivati, ma che non posso ammettere nei popoli che debbono arrivare.”
L’educazione del cittadino era
appunto quella impartita dalle molteplici organizzazioni del regime, articolate
sul partito unico, al di là della famiglia e anche della scuola. Ma Mussolini non misconosceva in tal modo il
ruolo della famiglia, a vantaggio dello Stato? Il fatto è che la pedagogia
della quale riteneva incapace la famiglia era appunto quella di un’educazione
del cittadino che instillasse virtù
civico-militari. Si può dire, tuttavia, a correzione del troppo reciso suo
giudizio, che in molte famiglie italiane si insegnavano i presupposti delle
virtù civiche e militari, anche se, ovviamente,
la famiglia italiana educava tradizionalmente in primo luogo alle virtù
cattoliche, ad essere buoni cristiani, secondo l’insegnamento della Chiesa. Dalle
dichiarazioni di Pio XI nella Non abbiamo bisogno si potrebbe credere
che il regime strappasse i bambini alle famiglie per educarli nelle sue
organizzazioni. Ma non era così. L’educazione
“del cittadino” impartita dal regime non si sostituiva a quella ricevuta in
famiglia bensì si sovrapponeva ad essa con tutto il suo apparato
esteriore, che consentiva comunque ai giovani di fare atletica, sport,
campeggi, escursioni, maschi e femmine rigorosamente separati. L’istituto famigliare fu oggetto di grande
tutela sotto il fascismo con l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, con
il promuovere le famiglie prolifiche, l’aiuto a quelle povere, con l’aver
restituito la famiglia al matrimonio religioso.
Quest’àmbito dell’educazione famigliare non veniva toccato dal regime,
ne risultava anzi potenziato, anche se poteva entrare in contraddizione con alcuni
valori insegnati dall’educazione del cittadino di tipo “totalitario”, tutti
incentrati sul “culto della Patria” nella forma, innestata sul “culto del Duce”,
del “culto del [Fascio] Littorio”. Il
“culto della Patria”, diventato “religione secolare”, poteva far concorrenza
alla vera religione e presso alcuni o molti sostituirsi ad essa, facendo prevalere
ideali profani, inclinanti al culto della forza, nei confronti dei valori del
cristianesimo. Il pericolo c’era. Da qui l’accusa al fascismo di essere una
forma di paganesimo, di costituire una “statolatrìa pagana”, di attuare
un riconoscimento solo formale, esteriore dei valori cattolici.
Nell’ottica mussoliniana,
l’”educazione del cittadino” organizzata dallo Stato veniva ad integrare,
superandola, quella che l’individuo riceveva dalla famiglia e dalla Chiesa
tramite la religione nonché dalla scuola, che era statale e confessionale ossia
pubblica e privata. Nella scuola
pubblica già si mostrava l’indottrinamento della “religione secolare” che il fascismo voleva
essere, per esempio attraverso il culto della bandiera tricolore.
“Queste iniziative, prese nel quadro della Riforma Gentile, erano parte di un
disegno preciso di politicizzazione della scuola, attraverso l’introduzione, in
una forma sconosciuta nel passato, di riti e simboli per educare i ragazzi al culto
della patria, esaltando soprattutto, attraverso la Grande guerra, il fascismo.” Ma la politicizzazione attraverso la “liturgia
della Patria fascista” era attiva (e allo stesso modo) in tutti gli ordini
dell’insegnamento, per esempio anche al Liceo?
Se si legge l’Autobiografia di Bobbio, non ne troviamo
traccia. Egli frequentò il famoso Liceo Massimo
D’Azeglio di Torino, dove insegnavano professori notoriamente antifascisti, tra cui
il prestigioso Augusto Monti, Liceo nel
quale, scrive, ragazzi di sentimenti antifascisti e ragazzi fascistissimi erano
compagni di banco, senza problemi. Nonostante i “riti” e i “simboli” imposti dal
regime, l’insegnamento (come ho già ricordato) restava sostanzialmente libero,
tant’è vero che il D’Azeglio fu una fucina di antifascismo, una delle
culle del Partito d’Azione. E il D’Azeglio
non fu certo un caso isolato, in Italia.
A Roma, forse il suo più famoso Liceo, il Visconti, era noto per
le tendenze di sinistra. E anche in fama
di antifascismo del corpo docente era un altro famoso liceo classico della
capitale, il Tasso, ove fu bocciato uno dei figli di Mussolini, il quale
non fece una piega (bocciato perché non studiava, non per altri motivi).
Al D’Azeglio studiò
anche Augusto del Noce, il quale scrive:
“ Il gruppo di punta dei cattolici comunisti romani veniva dal Liceo
Visconti di Roma, da cui pure uscivano, studenti di quegli stessi anni, e
affiatati con loro, parecchi tra i giovani comunisti della nuova ondata (p.es.,
Bufalini, Bruno Zevi). Su Felice Balbo
[uno dei cattolici comunisti più importanti], allievo (come chi scrive) del
Liceo D’Azeglio di Torino, fu decisiva, inizialmente, l’influenza di Augusto
Monti, suo professore di lettere italiane, mentre fu scarsa quella dei suoi
insegnanti universitari. Si può dire che
la conquista del Liceo D’Azeglio, precedentemente permeato di spirito
nazionalistico, da parte di Monti, sia stata una delle poche azioni riuscite
dell’antifascismo tra il ’25 e il ’31 (anno in cui il Monti lasciò
l’insegnamento). Tra i suoi allievi di
quel periodo, rimasti a lui legatissimi, Vittorio Foa, Giancarlo Paietta,
Cesare Pavese, Massimo Mila; allievi dell’altra sezione, ma successivamente
anch’essi legati al Monti, Leone Ginzburg e Norberto Bobbio. Chi ama gli accostamenti simbolici può
vedere, nell’incontro di Rodano [catto-comunista romano] e di Balbo, quello dei
due licei probabilmente più antifascisti dell’Italia di allora; di due scuole laiche, così che quei due
giovani cattolici conoscevano bene il collegamento che c’era allora tra
laicismo e antifascismo (e che dal Monti, conviene dirlo, era portato al limite
estremo).”
All’antifascismo che permaneva nei
licei pubblici va anche aggiunto quello che si manteneva nelle istituzioni
scolastiche cattoliche, specie universitarie, anche se non mancavano insegnanti
cattolici e sacerdoti sinceramente fascisti.
Ma la famiglia e la scuola non
potevano esaurire la dimensione di vita della gioventù. Questa sembra esser stata la convinzione
mussoliniana: esisteva una dimensione
collettiva e pubblica della gioventù, tipica della società contemporanea,
della quale lo Stato doveva occuparsi perché non poteva esser abbandonata a se
stessa o all’opera di istituzioni inadeguate.
Questo, a mio avviso, è un punto importante, che va oltre le vicende del
rapporto tra Stato e Chiesa in Italia e lo stesso dramma storico del quale è
stato protagonista il fascismo: una
questione ancora gravemente attuale quella della gioventù diventata un ceto
indipendente, se così posso dire, e del tutto anarchico, la cui educazione
pone dei problemi che non sembrano risolvibili dall’intervento di istituzioni
private o ecclesiastiche.
Questa dimensione pubblica della
gioventù come coetus o societas autonoma non era iniziata con i
regimi totalitari. Già si stava affermando tra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del Novecento, in Europa e in America.
In Germania dal 1901 si era sviluppato, da una società sportiva, il Il
Movimento della gioventù (Jugendbewegung), uno spontaneo, imponente
movimento di massa, presente anche in Austria, in misura minore. I giovani,
separati i maschi dalle femmine, si organizzavano in forme autonome ed
indipendenti, in piccoli gruppi, riscoprendo la natura con campeggi, escursioni,
giochi, con il culto della vita all’aria aperta e l’ammirazione per il
paesaggio tedesco, con la pratica dei canti corali, la musica della tradizione
popolare più genuina. Patrioti ma non nazionalisti, di un patriottismo di tipo
pacifico fondato sulla tradizione, più estetico che politico, reagivano alla
società industriale, con i suoi plumbei quartieri operai, il suo conformismo
borghese, il suo materialismo, mostrando i segni di una contestazione in
fieri al mondo degli adulti. In Germania
si infiltravano elementi della cultura nazional-popolare o völkisch, che
propugnava una concezione “mistica” del rapporto con la terra tedesca, sede di
un’energia vitale che bisognava assimilare anche grazie alle celebrazioni di
feste arcaiche come quella del solstizio d’estate, molto popolare tra questi
giovani. Mistica ed estetica, in quanto propugnante non solo
l’ammirazione per le bellezze della natura ma anche del corpo maschile in
comunione con la natura, nella vita all’aperto.
Se nel movimento della
gioventù tedesca si notava la presenza di temi che si potrebbero definire paganeggianti,
e che sarebbero poi confluiti nell’ideologia nazista come componente
nazional-popolare, diverso era il discorso per i movimenti della
gioventù in altri Paesi. In Italia, come
in Germania, Austria-Ungheria e altrove, erano molto attive le società di
ginnastica e sportive, con nomi che riandavano all’antichità classica e
dalle quali si sarebbero poi sviluppate diverse squadre di calcio. Dall’Inghilterra venne, nel 1907-8, il
movimento dei boy-scouts, fondato dal generale inglese Robert
Baden-Powell, un eroe della recente guerra anglo-boera, figlio di un pastore
anglicano. Subito molto popolare, il
movimento dava ai giovani un’inquadratura di tipo militare: si addestravano
alla non facile arte della ricognizione di tipo militare del terreno,
ovviamente senz’armi, integrata da una
serie di giochi, abituandosi alla vita all’aria aperta, all’abilità manuale e a
praticare un codice morale che consisteva nell’esser buoni cittadini, fedeli
alla religione e alla Patria, nell’esser sempre cavallereschi e nell’aiutare il
prossimo (l’etica della famosa “buona azione quotidiana”). La “legge scout” voleva insegnare al ragazzo
le virtù civiche indispensabili per esser da adulto un buon cittadino; a un
ragazzo che nel 1908 era un suddito dell’Impero Britannico, esteso sul 20% circa
del globo, patria da difendere; e nel Primo Dopoguerra, diffusosi il movimento
scout in tutto il mondo, un cittadino leale sì alla sua patria ma ora anche cittadino
del mondo: dopo le carneficine della Grande Guerra, era diffusa la speranza
di unificare in qualche modo il mondo nella Società delle Nazioni, appunto per
evitare nuove, catastrofiche guerre.
Nello scoutismo non si può
dire che ci fossero elementi pagani, come invece in qualche misura nella
Jugendbewegung. Gli Scouts erano
inquadrati da capi adulti mentre il movimento tedesco, nonostante gli adulti,
tendeva a trovare i suoi capi nei giovani stessi. Il movimento scout ebbe tanto
successo in tutto il mondo, coinvolgendo anche le ragazze (le Guide)
in un’organizzazione collegata ma
separata, perché rispondeva evidentemente ad un’esigenza diffusa. La gioventù, numerosa nella società di massa
in formazione, sia borghese che proletaria, sentiva il bisogno di un’attività
fuori delle città, senza i genitori, nella natura, e in qualche misura autonoma
ed indipendente. Nei secoli precedenti,
prima della rivoluzione industriale, dell’urbanesimo, della crescita della
borghesia e del proletariato, la gioventù era soprattutto contadina e la sua
vita all’aria aperta la faceva nel duro lavoro dei campi. Ma ora tutto un mondo giovanile di origine
cittadina (borghese ma anche proletario) cercava di prender coscienza di sè, elevandosi
in qualche modo a categoria dello spirito, cosa positiva se
mantenuta nei giusti limiti e ben inquadrata dagli adulti, negativa se lasciata
a se stessa. Nel Movimento giovanile
tedesco, l’esigenza, potenzialmente anarchica e distruttiva se esasperata, del mettersi
in proprio rispetto alle regole della società borghese creata dagli adulti,
era espressa con maggior consapevolezza. Il motto della Jugendbewegung era infatti:
“vivere secondo la propria vocazione, la propria responsabilità, secondo
l’interiore spontaneità”. Nel Primo Dopoguerra, periodo violento, di
agitazioni, lotte civili, conati rivoluzionari, crisi economica, la gioventù
(coinvolta nell’ultimo anno della Grande Guerra) si sarebbe divisa tra gli opposti
schieramenti, pervasi entrambi da opposti messianismi, intervenendo in massa
nella lotta. Ormai essa aveva acquisito
una dimensione pubblica, una rilevanza politica che andava disciplinata. Negli Stati totalitari questo avvenne
dall’alto, con le ben note organizzazioni giovanili obbligatorie per tutti,
dirette dal partito unico, che si sovrapponevano alla famiglia e alla scuola.
Ma cosa si intendeva
esattamente con “paganesimo”, nella polemica contro il fascismo? Esiste il paganesimo dei culti bacchici e dei
misteri eleusini, della amoralità dei Cinici, delle dissolutrici filosofie
scettiche, ma anche quello dei Classici, della morale socratica e dell’etica stoica.
Il termine era utilizzato in particolare nella pubblicistica cattolica per
denunciare tutte quelle visioni del mondo che si ponessero prospettive
solamente terrene, rivelando una concezione solo naturalistica dell’uomo,
che ne esaltava certe qualità virili ma anche gli istinti aggressivi,
sviluppando ideologie che sublimavano la volontà di potenza dei popoli. E quindi: culto della forza, spirito di
conquista, annullamento dell’individuo
nella massa disciplinata guidata da un Capo carismatico; culto del Collettivo,
sia esso il popolo, la nazione, la razza, la classe. L’intellettuale francese cattolico Gustave
Combès scrisse in quegli anni un
ampio saggio apologetico e polemico, non privo tuttavia di notazioni ancor oggi
interessanti, intitolato : “il ritorno
offensivo del paganesimo”. In questo concetto
includeva praticamente tutti i movimenti politici e spirituali che non si
conciliavano col cattolicesimo: razionalismo, naturalismo, statalismo,
marxismo; laicismo, bolscevismo,
hitlerismo; massoneria, leghe per i diritti dell’uomo, sindacalismo
rivoluzionario, ateismo. L’elenco sembrava troppo ampio per ricavarne
un concetto unitario, vi mancava comunque
il fascismo. Per qual motivo? Il
fascismo, scriveva, “riposa su un principio nettamente pagano: la Nazione al di
sopra di tutto e fine supremo di tutta l’attività umana.” Il suo fondamento metafisico “è fortemente
sospetto”. Tuttavia il fascismo non è una “anti-religione”, non è ostile e non
perseguita il cattolicesimo, non combatte la Chiesa e anzi ha firmato un
Concordato con essa. A causa della sua
“mistica” paganeggiante forse un giorno cambierà atteggiamento verso la Chiesa
(cosa che non avvenne, nemmeno durante la R.S.I.), ma questo giorno non è
ancora arrivato ed anzi il regime ha perso l’anticlericalismo degli inizi: “l’8
gennaio 1938, alla festa del grano, Mussolini ha proclamato ad alta voce che
l’Italia fascista era una nazione cattolica, che avrebbe difeso sino in fondo
la civiltà cristiana.” Pagano, dunque, il fondamento del fascismo ma
sui generis perché nello stesso tempo cristiano, favorevole alla
civiltà cristiana, alla Chiesa, reintegrata in molte sue prerogative. Anche come Stato allora sui generis, il fascismo,
in quanto pagano e cristiano nello stesso tempo?
Il suo concetto dello Stato
nel suo rapporto con la Nazione, da saldarsi, per quanto riguarda la gioventù,
mediante una educazione a sfondo collettivo e guerriero del cittadino, dava
comunque luogo ad una “religione secolare” che certamente non poteva dirsi di
per sè cristiana e della quale la gioventù, soprattutto maschile, era
indubbiamente imbevuta; anche se bisogna osservare, a mio giudizio, che l’amor
di Patria, il senso dell’onore, lo spirito di sacrificio, obbedienza e
disciplina nei confronti dello Stato, l’eroismo come ideale, in quanto valori
non sono certo, come tali, in contraddizione con l’etica cristiana, se pensiamo
per esempio allo spirito delle Crociate, sostituendo alla figura dello Stato
quella più concreta del principe e del re.
Possono però diventarlo se al servizio di un nazionalismo esasperato,
che, pur onorando la religione cattolica, tenda a mettere al centro
dell’esistenza valori solo terreni come quelli rappresentati da un patriottismo
fortemente nazionalistico, con il risultato di far nascere una mentalità
improntata allo spirito di superbia, per
di più a sfondo razzistico, come accadde nel fascismo, soprattutto dall’autunno
del 1938 in poi, quando, fondato l’Impero nel 1936, furono emanate le leggi
sulla “difesa della razza”. Quelle triste leggi, dobbiamo dire,
contraddicevano anche lo spirito del fascismo come appare dalla citata voce Fascismo,
del 1932, che non contemplava spunti razzistici, e come tali furono sentite
anche da molti fascisti: un elemento spurio, infiltratosi per pedissequa
imitazione del funesto alleato nazista.
Sul fascismo come religione
secolare, che voleva coinvolgere la totalità della Nazione e in particolare
i giovani, un’opera fondamentale, molto
dettagliata, ha scritto Emilio Gentile, Il
culto del Littorio, Laterza, Bari, 20096, ammirevole per lo
sforzo di valutare obiettivamente, nella miglior tradizione della scuola di
Renzo De Felice, una materia che, oggi come allora, si presta facilmente all’ironia e al dileggio. Infatti,
il “culto del Littorio”, sorta di religione popolare laica e
patriottica, ancor oggi è oggetto di dileggio per gli aspetti di ingenua cultura
popolare e subcultura che indubbiamente mostrò di possedere, come, a ben
vedere, ogni “culto” del genere (e senza dimenticare di che cosa sia capace la
retorica di tipo democratico, che è sempre quella – peggiorata – delle “magnifiche sorti e progressive” e dei
discorsi ottusi del buon Homais di flaubertiana memoria). Si è anche irriso al fatto che tutta
l’educazione di massa, virile e militaresca impartita alla GIL (Gioventù
italiana del Littorio) producesse poi, si disse, solo carne da cannone: un esercito di cartapesta, che fu alla fine
ingloriosamente travolto nella II g.m. (ma non si vuol vedere, tuttavia, anche
per ignoranza dei fatti, che quest’esercito riuscì comunque a tenere dignitosamente
il campo per tre anni e tre mesi in una lotta del tutto ímpari contro le
maggiori potenze del globo).
Particolarmente patetici sono sempre apparsi i giovani delle formazioni
militarizzate della Gioventù fascista, che il regime, si è detto, ha fatto irresponsabilmente
giocare ai soldatini, con le loro inutili parate, i loro “moschetti balilla”, esaltandoli
e rincretinendoli con la sua insopportabile retorica patriottarda.
Sarebbe, tuttavia, necessario, io credo, per avere un
quadro completo e obiettivo, guardare le cose anche da un altro punto di vista. La mussoliniana “educazione del cittadino”,
pur non trascurando la formazione dell’élite nell’àmbito delle attività
culturali della Gioventù Universitaria Fascista, né la formazione
scolastica del popolo, voleva creare soprattutto dei combattenti: quale fu, allora, l’apporto effettivo
del volontariato dei “cittadini” educati dal regime alle guerre dichiarate dal
regime? Mi sia consentita una parentesi
di storia militare, storia da noi praticamente ignorata e tuttavia parte
essenziale della storia con la S maiuscola.
Come notava Machiavelli, in una sola “giornata” ossia perdendo una sola
battaglia si può perdere tutto quello che si è “acquistato” in molti secoli. E
si può perdere lo stesso Stato (Il
Principe, cap. XII).
La generazione nata
e cresciuta con il regime si presentò in massa (circa 24.000 giovani, dai 15 ai
18 anni, inquadrati e armati – i quindicenni avendo fornito dati falsi) per andare
volontari in guerra, nell’ottobre del 1940, su iniziativa forse personale di
Ettore Muti, pilota eroe di guerra e segretario del PNF, convergendo da tutta
Italia in una grande ed entusiastica adunata nazionale a Padova (Marcia
della Giovinezza). C’era la guerra,
la Patria era impegnata in una lotta mortale e loro volevano andare al fronte. Punto.
I giovani provenivano da ogni ceto, c’era persino qualche aristocratico. Osteggiata dai generali italiani, che non
sapevano che farne (c’erano già le formazioni volontarie di Camicie Nere adulte
nell’esercito, adesso bisognava arruolare anche i ragazzi?), la gioventù, dopo
aver sfilato di fronte al Duce, nel Prato della Valle di Padova, la più grande
piazza d’Italia, dovette disperdersi e tornare a casa in attesa di tempi migliori,
estremamente delusa. Ma un nucleo di
coriacei, diverse centinaia, rifiutò di sciogliersi, barricandosi nel recinto
della Fiera di Padova. Dopo varie,
complicate e alterne vicende e mesi di durissimo addestramento, condotto anche
con munizioni vere, furono costituiti due battaglioni di fanteria leggera,
chiamati “Giovani fascisti”, di poi “Mussolini’s Boys” per gli inglesi. In totale neanche tremila ragazzi in tutto,
un reggimento, inquadrato da ufficiali e sottufficiali dei bersaglieri. Mandati in Africa, al battesimo del fuoco si
distinsero subito (tra la sorpresa generale) per la difesa leonina di due basse
colline attrezzate a modesto caposaldo, però di notevole importanza strategica
in quanto occasionale punto meridionale del fronte africano del momento,
situato a cavallo di una pista che giungeva sino alla costa. Tennero testa per
quasi cinque giorni, tre di combattimento, in poco più di un migliaio, a sette
assalti delle migliori truppe britanniche, carri e fanterie appoggiati dall’artiglieria
(Seconda Battaglia di Bir el Gobi, 3-6 dicembre 1941). Circondati e senza più viveri e quasi senza
più munizioni, si ritirarono da alcune postazioni più esterne ma tennero fino al sopraggiungere di una divisione corazzata
tedesca, che costrinse gli inglesi a togliere l’assedio. La loro inaspettata resistenza impedì agli
inglesi di aggirare Rommel da sud a sorpresa con una poderosa forza e chiudere
tutte le truppe dell’Asse in una gigantesca sacca (l’operazione Crusader,
pur liberando Tobruk e rioccupando pro tempore la Cirenaica dopo circa venti
giorni di intense battaglie di carri, mancò così il suo obiettivo strategico). Infatti, Rommel, capita la situazione, ebbe
il tempo di far ritirare le sue forze
con calma e combattendo. Ripiegarono in
ordine anche i GF, che da allora costituirono un reparto d’élite, che si fece
tutta la guerra d’Africa, assai rispettato dal nemico. In Tunisia fu l’ultima
unità dell’Asse ad arrendersi, il 12 maggio 1943, un giorno dopo i
tedeschi. Queste le perdite (molto alte)
del reggimento dal dicembre 1941 al maggio 1943, su una forza complessiva
impiegata in combattimento di 2282 uomini: 892 morti, 272 dispersi, 391 feriti
tra volontari, graduati, sottufficiali e ufficiali.
Non si può dire che la gioventù educata dal regime non
abbia risposto e non abbia saputo
battersi bene, nonostante l’armamento sempre inferiore soprattutto
nell’artiglieria anticarro, durante la II g.m., compiendo il suo dovere patriottico, e quindi che “l’educazione
del cittadino” ricevuta dal regime sia stata militarmente inefficace.
Piuttosto, questa gioventù non sembra esser stata valorizzata in modo
adeguato dai nostri comandi. Ma anche i
reparti di Camicie Nere, fanteria leggera di volontari adulti
iscritti al partito inquadrata nel Regio Esercito, dall’Etiopia alla Spagna
alla Russia fecero sempre il loro dovere.
Di quelli battutisi in Russia
fece l’inaspettato elogio in un colloquio ufficiale in Russia nel 1961
addirittura Nikita Krusciov, al tempo padrone dell’ Unione Sovietica, che se li
era trovati di fronte sul fronte ucraino. Cosa voglio dire, citando questi fatti? Che il discorso completo ed obiettivo
sull’educazione militaresca “totalitaria” della gioventù fascista, dato il suo
peculiare carattere, messe giustamente in rilievo le carenze sul piano
culturale, dovrebbe, io credo, tener conto anche di quello che poi si è
verificato sul campo, dove diciottenni e giovani morirono a migliaia
combattendo lealmente e valorosamente, meritandosi il rispetto del nemico, per
quell’ideale di Patria nel quale erano
stati cresciuti: “culto” nel quale l’eroismo
e il concetto dell’onore , della fedeltà, del sacrificio, rappresentavano
colonne portanti, anche se avviluppate nella rimbombante retorica della mistica
fascista. Sono morti in una guerra
sbagliata, che non si doveva fare, esito forse inevitabile di un’alleanza che
ugualmente non si doveva fare, pagando con un’ingiusta damnatio memoriae da
parte di una “cultura”, quella nostra odierna, pesantemente condizionata
dall’antifascismo ideologico, la quale, peraltro, di contro al “culto della
Patria” giustifica (quando non pratica) il “culto della droga”, della “rivoluzione
sessuale” con tutte le sue turpitudini e, naturalmente, il “culto della pace”,
prima di tutto, a tutti i costi, a qualunque prezzo.
Valga dunque il
vero: lo Stato fascista non era
“neutrale rispetto ai valori etici”, come quello democratico decadente odierno,
il quale, dalla neutralità è passato stoltamente all’ostilità ovvero
a legiferare in aperta violazione dell’etica cristiana e naturale, dimostrandosi
così addirittura nemico dei valori etici fondamentali. E non solo perché si dichiarava “Stato etico”
nel senso gentiliano del termine, lo Stato fascista, e si proponeva di
inculcare nei giovani virtù civili e militari, sentimenti patriottici e una
morale civile basata (lo ripeto) sul senso dell’onore, l’obbedienza, la
disciplina, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, mediante l’azione “pedagogica” del Partito
nelle sue organizzazioni di massa (culturali, sportive, militari), ma anche
perché aveva re-instaurato e protetto valori essenziali della civiltà
cristiana, ossia della morale cattolica, soprattutto quelli connessi al
matrimonio e alla famiglia. Lo Stato
fascista aveva una morale che voleva incorporare la morale cattolica e
farla contribuire alla crescita di un’Italia forte e grande, potente, capace di
difendersi e imporsi, dopo secoli di servaggio agli stranieri e umiliazioni di
ogni tipo.
Questi ideali di forza, indipendenza e potenza della
Nazione rinviano ad una concezione del mondo che sembra escludere i valori cattolici
più tradizionali, anche se bisogna precisare che i volontari fascisti potevano
forse sembrare degli esaltati, soprattutto i diciottenni, ma non erano in genere
dei fanatici, come pretendeva certa bugiarda propaganda nemica. Erano ragazzi e giovani normali, con gli stessi
modelli dei loro coetanei, attori americani e film western compresi, però
dotati di un fervente e acceso amor di Patria e di Gloria. Spiritualmente si
sentivano “mussoliniani”. Si sentivano gli eredi degli Arditi della I
g.m.; meglio ancora, dei Ragazzi del ’99, i diciottenni di leva che si
erano sacrificati con vero eroismo a migliaia sul Grappa e sul Piave nel novembre
e dicembre 1917, contribuendo efficacemente a bloccare l’assalto della formidabile
armata austro-tedesca vincitrice a Caporetto; dei ragazzi eroi delle Battaglie
Risorgimentali, come la piccola vedetta lombarda o il tamburino sardo,
figure esemplari di caduti per la Patria, ritagliate dal deamicisiano Cuore;
del Balilla che a Genova, il 5 dicembre
1746, secondo la tradizione, aveva iniziato la sassaiola dalla quale
partì poi la rivolta popolare che cacciò un esercito austriaco dalla città. C’era alla base sempre l’esigenza di riscatto
morale tipica del nostro Risorgimento, contro le sudditanze e le viltà di
un’Italia sempre sottomessa negli ultimi secoli alle preponderanze straniere e
da tutti disprezzata.
Come risulta dai discorsi parlamentari di Mussolini sopra
citati, egli non riteneva la famiglia (né tantomeno la Chiesa) in grado di
provvedere all’educazione “virile” richiesta dalle circostanze storiche: la famiglia educava alle virtù famigliari e
domestiche, la Chiesa a quelle della religione.
Ma la virtù civile necessaria al cittadino richiedeva una “educazione
del cittadino” che poteva esser impartita solo dallo Stato. Ora, quest’impostazione dobbiamo considerarla
frutto dell’ideologia fascista, che forzava la realtà in nome dei suoi ideali e
miti, derivanti in parte dal combattentismo della Grande Guerra, oppure espressione
di un’esigenza che permane ben al di là del fenomeno fascista, passato in
giudicato da tanti anni? Per meglio
dire: se esiste l’esigenza obiettiva di una “educazione del cittadino”,
che gli inculchi valori civici, civili e militari, quest’esigenza
richiede lo Stato per realizzarsi o potrebbe esser espletata anche ad opera
della famiglia, della scuola e della Chiesa, certo non nella forma di una
“religione secolare” ossia secondo le modalità di uno Stato totalitario? I diciottenni che nell’autunno del 1917
risposero con slancio alla leva per la Patria in pericolo non avevano avuto bisogno
di un’educazione totalitaria al culto della Patria, quel “culto” in un certo
senso era già oggettivamente presente nel patriottismo tra loro ampiamente
diffuso, grazie anche al pensiero di un “profeta del Risorgimento” come
Mazzini, “l’apostolo della Patria”; anche se è vero che, dopo la rotta di
Caporetto, ci fu una reazione patriottica spontanea, istintiva, nella nazione e
al fronte, la cui anima furono le associazioni dei combattenti e mutilati di
guerra: non volevamo tornare ad esser invasi, suddivisi, calpestati, ridotti
nuovamente ad “espressione geografica”. Se
in Italia, data la sua particolare e disgraziata storia, esisteva secondo
Mussolini la necessità di creare uno spirito militare ed ardentemente
patriottico nella gioventù, inquadrandola pertanto in certe istituzioni ad hoc
del regime, l’inquadramento obbligatorio statale e partitico dei giovani, e in
misura anche più capillare, ebbe ugualmente luogo in Germania e nell’Unione
Sovietica, dove sicuramente non c’era alcun bisogno di creare uno “spirito
militare” nella popolazione, cominciando
per l’appunto dalla gioventù.
Con l’irrompere delle masse nella storia, operaie,
studentesche, giovanili, in séguito alla rivoluzione industriale, all’aumento
della popolazione, ai progressi della scienza, alla formazione dello Stato
moderno, all’estendersi del modello di vita europeo su quasi tutto il globo
(vedi supra), il problema educativo si pose in modo nuovo anche per la Chiesa,
da alcuni secoli sulla difensiva, dal punto di vista culturale e spirituale
generale. Nel suo necessario opporsi
alla secolarizzazione sempre più diffusa, occorreva che essa affrontasse il
problema con un’organizzazione di massa, quale fu appunto l’Azione cattolica,
creata nel 1926 da PioXI, “pupilla dei miei occhi”, come disse. Essa comprendeva molteplici organizzazioni. Tra i suoi compiti, fondamentale, ovviamente,
l’educazione della gioventù secondo i valori cattolici: bisognava, quindi,
ispirare ai valori cattolici istituzioni popolari come i boy-scouts. Nello stesso anno, Pio XI fece condannare in
modo brusco (vedi supra) l’Action française, nella quale molti
erano i cattolici, lasciandola accusare di essere un’organizzazione non cattolica,
con sfumature pagane, che si serviva della religione unicamente per attrarre
i giovani cattolici; accusa energicamente negata dai quadri dell’ AF, ai quali
non fu però concesso di difendersi. L’Action
française difendeva i valori tradizionali, compresi quelli cattolici,
contro il laicismo spinto della radical-massonica Terza Repubblica, anche se li
faceva suoi esaltando la monarchia francese tradizionale, chiave di volta della
sua concezione della Nazione francese stessa. Se il fascismo restituiva alla
Chiesa un potere temporale, proteggeva e voleva “integrare” il cattolicesimo in
quanto radicato nella storia e nella grandezza della nazione italiana, non quindi
per vero sentimento religioso ma in conseguenza della sua ideologia
nazionalistica, Maurras, personalmente non credente ma anima tormentata dall’idea
di Dio e vicina alla fede, li faceva suoi, in modo simile, cioè grazie al suo “monarchismo”,
alla riproposizione come valore assoluto della monarchia cattolica del passato
abbattuta dalla Rivoluzione, istituzione
e valore radicato nel cuore stesso della storia e grandezza della Francia.
Come in Italia, anche in Francia la Provvidenza, mutatis
mutandis, sembrava voler scrivere diritto servendosi delle righe storte dei
due forti nazionalismi, entrambi formatisi al di fuori della tradizione di
pensiero cattolica, anche se alquanto diversi tra loro. Quello maurrassiano, nonostante la formazione
postivistica del suo autore, professava il culto antimoderno della Nazione (e
tutto sommato manicheo nella sua condanna radicale e senza appello della
democrazia, vista come il Male); di una Nazione da lui detta “integrale”,
incarnata dalla monarchia tradizionale, organica, dei corpi intermedi. Invece, la Nazione che il fascismo voleva
realizzare più che al passato era costretta a guardare all’avvenire e a
mostrare componenti “giacobine”, spiccatamente moderne: voleva essere cattolica
ma nello stesso tempo “in armi”, aperta alle esigenze delle masse, disciplinate
dall’azione del partito unico e dello Stato totalitario, che tuttavia si voleva
sempre fondare sulla famiglia cattolica tradizionale e sulla religione
cattolica. Ma, con la sua improvvisa
condanna, un fulmine a ciel sereno, Pio XI diede a molti l’impressione di voler
rendere l’associazione maurrassiana impossibile ai cattolici, soprattutto ai giovani,
per farli entrare nell’Azione Cattolica. L’Action Française
avrebbe (forse) potuto col tempo diventare cattolica, grazie alla presenza di
numerosi cattolici che, nonostante certe sue prese di posizione (p.e. le
simpatie per il sindacalismo rivoluzionario di Sorel), la percepivano come un valido baluardo politico e anche
culturale contro la Modernità dilagante imposta dallo Stato Repubblicano e
dall’avanzata del comunismo eversore anche sul piano etico. In Italia, però, Pio XI aveva uno spazio di
manovra piuttosto limitato, finché c’era il fascismo al potere: doveva subire per l’Azione Cattolica
le limitazioni sopra ricordate. Non
poteva certo “scomunicare” le organizzazioni del regime, doveva accontentarsi
di mantenere con esse un rapporto basato principalmente sulla presenza dei
sacerdoti che vi amministravano i Sacramenti, con le Messe al Campo, per
esempio.
Scomparso definitivamente il fascismo nelle uccisioni e
massacri di fine guerra e a guerra finita perpetrati nell’Italia Settentrionale
dai partigiani scatenatisi dopo la vittoria alleata, in quel torno di tempo la
Chiesa ebbe finalmente la possibilità di accogliere parte assai notevole della
gioventù nelle sue organizzazioni. L’Azione
Cattolica raggiunse i tre milioni di iscritti e si mobilitò con i suoi
“comitati civici”, collegati alle parrocchie, con ottimi risultati contro il
pericolo che il Fronte Popolare, dominato dai comunisti, vincesse in Italia le
elezioni politiche del 18 aprile 1948, vinte invece dalla Democrazia Cristiana,
che nell’occasione, godendo anche dei voti di tanti laici non comunisti nonché
di monarchici ed ex-fascisti, rappresentò la difesa della Patria italiana,
cristiana e occidentale dall’assalto dell’orda social-comunista, ben armata e
agli ordini di Stalin. Ma quale fu, alla fine, il risultato dell’
educazione di massa impartita dalla Chiesa?
Riuscì essa a rappresentare un’alternativa valida all’educazione
propinata dal mondo laico, di fatto anticristiana in nome della democrazia,
visto che coltivava la pianticella velenosa dell’individualismo borghese chiuso
al trascendente, che avrebbe prodotto l’albero della Rivoluzone che di tutto
avrebbe fatto tabula rasa?
Al posto (e anche
contro) gli ideali nazionalistici e guerrieri del fascismo, screditati dalla
disfatta, si prospettò ora ai giovani l’universalismo del cattolicesimo. Nel personale dell’Azione Cattolica
furono inizalmente accolti quadri delle soppresse organizzazioni fasciste, che
vi portarono per qualche tempo uno stile fatto di senso della gerarchia, disciplina,
patriottismo, però come in sordina. Ma l’universalismo sul tipo di
quello temuto da Mussolini cominciò a prevalere innestatovi dal personalismo
ispirato da Maritain (vedi supra).
Alla Patria, dopo il “culto” esasperato tributatole dal defunto regime,
si sostituì la persona fondata sulla dignità dell’uomo, la persona-cittadino
del mondo, il cui orizzonte morale doveva vertere in primis sul bene del
genere umano rappresentato soprattutto dai poveri, dagli oppressi, dalla loro
esigenza di giustizia. L’universalismo
cristiano veniva diffuso soprattutto come istanza dell’esigenza universale di
giustizia sociale, e quindi come istanza umanitaria e politica, invece che, secondo l’insegnamento tradizionale,
come istanza religiosa ed etica perché volta per sua natura alla
salvezza delle anime dall’eterna dannazione, mirante quindi alla vita eterna
assai più che alle riforme sociali, come tali oggetto del cristianesimo
secondario, secondo l’acuta distinzione di Amerio. Ma la persona , con la sua algida dignità
conferita a priori, scissa da ogni merito, era qualcosa di astratto, senza
volto, senza storia, senza carne e sangue, che non si poteva collocare in
nessuna Nazione, né organica, né giacobina.
Un fantasma, portatore tuttavia dell’allucinato messianesimo della
“nuova cristianità” di Maritain, capace di disseminare ai quattro venti la
sventura ossia quell’idea assurda e folle dell’unità del genere umano,
in quanto costituito dalle cosiddette persone (buone per natura) tutte uguali
tra loro con i loro supposti diritti umani, scaturenti dalla loro non meno
supposta, innata dignità: realizzare
quest’idea doveva ora la Chiesa proporsi come fine della sua missione. Quest’idea, circolante nella Nouvelle
théologie, avrebbe trovato la sua
consacrazione nel Concilio Vaticano II, nella Lumen Gentium e
soprattutto nella Gaudium et spes, diffondendosi poi come “spirito del
Concilio” nelle riforme attuate obbedendo al Concilio.
Bisognava dimenticare l’esaltato ed ora esecrato
nazionalismo del fascismo, che aveva portato il Paese alla rovina, si sottolineava
di continuo. Anche nel campo della
cultura, guai a far professione di orgoglio nazionale per qualche nostro genio
del passato. Ma si finì coll’eliminare l’idea stessa di Nazione, nel senso di
farla scomparire sacrificandola all’idea-mito dell’unità del genere umano
all’insegna della giustizia sociale: ma questa era una deformazione e persino
una caricatura dell’autentico universalismo cattolico. Se si oscurò l’idea della Nazione come
Patria storicamente determinata e da preservare, anche come patria cattolica,
rimanendo essa nel migliore dei casi solo come occasionale riflesso culturale,
letterario, fatto di costume, scomparve del tutto, sommerso dall’avversione, il
concetto dello Stato, identificato con l’ora screditato statalismo fascista,
oppressore delle libertà individuali sacrificate ad un’aspirazione di grandezza
non alla nostra portata, spietatamente punita dalle Grandi Potenze. Ma,
soprattutto in Italia, la tradizione cattolica sentiva sempre lo Stato
nazionale e unitario (e non solo quello liberale anticlericale avverso ora al papato ora al cattolicesimo) come un
principio ostile, da combattere, ridurre nelle sue pretese o persino eliminare,
nella speranza che in qualche modo risuscitasse la dimensione dell’impero
medievale, considerata l’immutabile archetipo dello Stato cristiano. Ma quest’ultimo aspetto era del tutto
minoritario (è tornato di moda oggi). Prevaleva l’elogio della democrazia di tipo
americano (visto che gli Stati Uniti erano superiori perché avevano vinto, il
loro sistema permetteva certe essenziali libertà individuali e ci difendevano
dalla Russia Sovietica); elogio (vedi supra) sempre in chiave personalistica,
inclusa nell’universalismo appena menzionato, inteso al superamento sia della
Nazione che dello Stato, come valori ma anche (in prospettiva) come realtà.
Il risultato di un’educazione cattolica delle masse così
articolata fu, pertanto, alla fine coerente con la snazionalizzazione delle
masse, con l’odio per la Patria e
i suoi valori, dominante nella cultura laica sempre più diffusa, con le sue
sempre più evidenti tendenze edonistiche, intrecciate a quell’odio. Il Concilio aprì anche al femminismo e
all’educazione sessuale. Tutto il mondo cattolico fu riformato nello spirito
del Concilio, la Chiesa doveva ora porsi come coscienza del mondo nel
segno dell’unità del genere umano, doveva esserne il sacramento (Lumen
Gentium, 1). Il termine convertire scomparve. Nel Corpo degli Esploratori cattolici si mescolarono maschi e femmine. La vera
tradizione scout, con i suoi tratti tipicamente maschili, di confronto ragionato
con la natura, competitività disciplinata e leale, con i suoi canti, il suo
stile di tipo militare e pionieristico,
alle ragazze nulla diceva e presto scomparve. Il movimento, inizialmente assai
ampio, si divise e declinò. Qualche
tempo fa le cronache se ne sono ricordate per certe sue prese di posizione gay-friendly. Meno male che a Pio XI
sembravano immorali le adunate non promiscue delle mussoliniane Giovani
Italiane rigidamente inquadrate, le loro prove ginniche in calzoncini sino
al ginocchio, le loro partecipazioni alle gare di tiro con la pistola e il “moschetto
balilla” cioè più piccolo di quello standard.
La Democrazia cristiana si dichiarò e dimostrò “un partito di centro che
guardava a sinistra” e tutto il movimento cattolico si spostò gradualmente a
sinistra, con l’approvazione della Gerarchia, da Giovanni XXIII in poi. L’ Azione
Cattolica si ridusse alla fine a circa trecentomila iscritti. Ma, ciò che più conta, fu la massa della
gioventù, che si voleva liberare sia della famiglia che della scuola, e quindi
dell’educazione finora ricevuta nelle istituzioni laiche, a sottrarsi
all’abbraccio della religione ossia della Chiesa, come si vide con i sommovimenti
studenteschi del Sessantotto, le cui conseguenze negative durano tuttora.
In modo assai più radicale dei loro precursori della Jugendbewegung, i giovani e le giovani si misero in proprio
, per così dire, sul piano dei valori e dei comportamenti, sprofondati in
una subcultura dal taglio edonistico e anarchico-rivoluzionario di origine
americana, quella degli Hippies, della
Woodstock Nation, dell’LSD – il tutto mescolato a lacerti marxiani, freudiani,
esistenzialisti in un gigantesco, tossico pastone. In definitiva, refrattaria, questa gioventù
ribelle, ad ogni idea di responsabilità, dovere, rispetto per l’autorità,
sacrificio, onesto lavoro, matrimonio e famiglia… Del resto, l’hanno detto in tanti, il Sessantotto
non era già cominciato all’interno della Chiesa, con il Concilio, il cui
“spirito” si contrapponeva all’autorità della tradizione e allo stesso
principio d’autorità? Il Sessantotto non
fu solo una ribellione della massa dei giovani contro la politica ufficiale,
l’autorità costituita, la Patria, lo Stato, la famiglia, la morale, la
religione, in nome del preteso diritto della gioventù ad una libertà assoluta, ad
una vita bella e senza prove, senza sforzo e fatica, felice: fu anche una rivolta contro la cultura. E rappresentò la fine della cultura, intesa
in senso proprio cioè come lungo e difficile studio, ragionamento capace di
valutare molteplici e complessi aspetti del reale, paziente ricerca, ferrea volontà di pervenire
al vero, rispetto per la tradizione e per i maestri. Al potere della cultura si sostituì la
fantasia al potere, come recitava il celebre slogan degli studenti
parigini, ossia l’incoltura di massa.
Prima del Concilio, i valori che nelle organizzazioni cattoliche
si insegnavano ai ragazzi e ai giovani, erano soprattutto quelli della morale
cattolica tradizionale, fondamentali per la crescita sana della propria
individualità e per la creazione di famiglie cristiane: il bravo padre di famiglia cattolico sarebbe
poi stato, per forza di cose, anche buon cittadino, nel modo giusto. Ma circa
l’“educazione del cittadino” che stava a cuore a Mussolini: l’ idea della
Patria, dello Stato, della Nazione, la necessità di uno spirito militare, di
credere in valori civili trascendenti il singolo? Tutto questo, appaltato alla “mistica
fascista”, era caduto in discredito ed era proibito persino accennare a questi
ideali, fare persino il nome della Patria, nome comunque avversato per
principio dalla cultura di sinistra, in particolare da quella di impronta
marxista, sempre più presente e invasiva.
A ben vedere, è proibito ancor oggi.
In ogni caso, i divieti culturali imposti dall’antifascismo, intento a
snazionalizzare il popolo italiano in nome della democrazia, della giustizia
sociale universale, della pace tra i popoli, valsero anche per l’educazione che
si riceveva nelle organizzazioni cattoliche, anche se attuati in modo meno fazioso. La gioventù liberata dalla retorica nazionalista
del fascismo fu diseducata a pensare in termini di Patria, Nazione, dovere
patriottico, spirito militare, senso della fedeltà e dell’onore: il vuoto lasciato dalla scomparsa di questi
pur necessari valori (da interpretarsi in modo equilibrato, si capisce) non fu
in alcun modo riempito dall’educazione impartita dalla Chiesa. Grazie al connubio universalismo-personalismo
modellato da Maritain, in nome della
supposta dignità della persona come valore assoluto, l’educazione cattolica
si adeguò a quello che chiamo il tratto nichilistico, perché negatore
non solo della Nazione e dello Stato ma anche della nostra storia e cultura,
tipico della pedagogia emasculante (se così posso dire) che
imperversava sul fronte laico. Alla
fine, anche la pedagogia aggiornata ai tempi professata dalla Chiesa fu travolta
dalla rivoluzione del Sessantotto.
La Chiesa si è dimostrata inadatta ad impartire l’educazione
del cittadino. Il suo compito è
l’educazione cristiana del cittadino, che dovrebbe per l’appunto esser
integrata da un’educazione civile del cittadino, civile e militare, ma
non in uno Stato totalitario, bensì in uno Stato cristiano, che si ispirasse
cioè ai valori del cattolicesimo, coniugando nel modo giusto libertà e autorità.
Uno Stato che indirizzasse l’educazione
nel senso dei giusti valori e incoraggiasse un inquadramento della gioventù nelle forme virtuose che ad
essa si addicono, cominciando con un’azione indiretta, per esempio col
restringere la libertà senza limiti di cui si sono appropriati oggi i giovani,
una libertà che è in realtà sfrenata licenza. E questo sarebbe possibile, io credo, anche
in una democrazia (ad esempio di tipo presidenziale) che rispettasse il
principio di autorità, che si concepisse come forma di governo e non
come forma di vita poiché quando diventa forma di vita, la democrazia si
dissolve fatalmente nell’anarchia e nella corruzione dei costumi. E difatti, con i movimenti spontanei che portarono al Sessantotto e da allora proliferarono,
la gioventù contestatrice di ogni principio che non fosse quello del proprio
narcisistico piacere e della propria volontà di potenza, cominciò ad
organizzare spontaneamente le proprie adunate e cerimonie di massa,
diventate tipiche nei megaconcerti e megadiscoteche, riti peraltro ben inseriti nel consumismo planetario della affluent
society; riti tribali all’insegna di
musiche bestiali, del consumo di droga, di alcool, di una promiscuità senza
limiti.
La gioventù, in quanto autentica forma dello spirito, si è
dissolta nel processo, in corso da decenni, di autoannientamento della
democrazia in Occidente, iniziatosi con la rivoluzione sessuale seguíta poi
dalla globalizzazione economico-finanziaria: è diventata un gregge informe,
galassia nella quale il modus vivendi del gregge si coniuga all’atomismo
più radicale. Oggi abbiamo forse toccato il fondo: la
gioventù, dalla cui contestazione è partita la demolizione del sistema
scolastico in quanto tale, quando
va in classe, trova l’insegnamento gender; all’esterno della scuola, il pusher.
*
Postilla.
Anni fa apparve sulla stampa più diffusa il resoconto di
un’udienza concessa da Pio XI il 7 aprile 1938 al gesuita P. Tacchi Venturi, che
curava dietro le quinte i rapporti tra Mussolini e il Papa, nella quale il
gesuita riferiva proposte di tipo politico di Mussolini a Pio XI, poco dopo
l’incorporazione dell’Austria al III Reich (il 12 marzo precedente),
cosa che mise il dittatore italiano in notevole ansia. Il testo fu scoperto negli Archivi Vaticani
dalla prof. Emma Fattorini, storica. Esso fece un certo scalpore nell’opinione pubblica
più attenta al nostro recente passato.
Infatti, il padre gesuita riferiva che il Duce suggeriva al Papa di
scomunicare Hitler (nato suddito austro-ungarico e quindi battezzato, si
suppone) in modo da permettere a lui, Mussolini, di avere un punto d’appoggio
estremamente autorevole grazie al quale prendere le distanze e dissociarsi dallo
scomodo e assai temuto personaggio, che stava proprio allora concludendo la sua
alleanza con l’Italia, dopo aver portato i confini della Grande Germania
sull’arco alpino orientale. Il Papa, pur
avendo da poco condannato il nazismo con l’ Enciclica Mit brennender Sorge [Con
bruciante afflizione] (1936), anche se in termini formalmente moderati, non osò
prendere nemmeno in considerazione un passo così audace, che avrebbe sicuramente
esposto i cattolici tedeschi e austriaci a feroci rappresaglie e sarebbe stato
molto impopolare anche in Austria, avendo quella popolazione sanzionato
l’unione (Anschluss) con la Germania con un plebiscito quasi del 100%. Tuttavia l’episodio dimostra, a mio avviso,
che Mussolini era propenso a cercare nel Papa, e quindi nel cattolicesimo, un
valido appoggio in funzione antihitleriana.
Appoggio eminentemente politico, inizialmente, che avrebbe però potuto
avere degli sviluppi anche in campo spirituale, una volta concesso.
6.2 L’ambiguo
compromesso del Concilio con il principio laico della coscienza unica fonte della moralità.
Nel prosieguo del suo saggio, il prof. Castellano porta ad
esempio dei compromessi con l’errore cui può giungere il “clericalismo”, nel
senso da lui chiarito, la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà
religiosa.
Dopo aver ricordato il graduale incamminarsi del suo
schema, emendato ben 13 volte, verso una stesura ammodernante, iter
tormentato a causa della resistenza dei Padri che volevano restare fedeli al
dogma, egli così riassume il senso complessivo del testo definitivo:
“Il testo finale di
Dignitatis humanae è il risultato di un compromesso su ciò su cui si
cede parzialmente. In altre parole, non
permette di affermare che la Chiesa abbia mutato di dottrina ma nemmeno
permette di dire che essa abbia conservato integralmente la dottrina anteriore
al Concilio. Vi sono degli
approfondimenti eodem sensu eademque sententia ma vi si trovano anche
segni di radicali mutamenti d’indirizzo.
I muri eretti contro la Modernità sono stati abbattuti, l’ha ben fatto
vedere Julio Alvear Télles. Ne è seguito che
i papi postconciliari hanno adottato e mantenuto una posizione equivoca: da un lato, si sono sforzati di proporre
fedelmente la dottrina di sempre; dall’altro, ciascuno, con stile e
sensibilità propri, ha affermato la novità del Concilio e in particolare di Dignitatis
humanae. Il personalismo particolare
di Giovanni Paolo II, il liberalismo singolare di Benedetto XVI e il
radicalismo multiforme di Francesco costituiscono una coerente evoluzione della
svolta rappresentata dal menzionato compromesso, rispondente alle attese
della pastorale “clericale”, nel senso sopra visto. Senza inquadrarle in siffatto contesto,
numerose affermazioni di papa Wojtyla e di papa Bergoglio risulterebbero
incomprensibili.”
Non si può che condividere. L’Autore ricorda in nota come Wojtyla si sia
formato anche su pensatori contemporanei non propriamente ortodossi come
Guardini e Max Scheler. Il secondo,
ricordo, un convertito che alla fine si è distaccato dal cattolicesimo
approdando a un panteismo che riconduce l’origine e il significato della religione
non a Dio ma all’uomo, come risulta dalla sua ultima breve ma densissima
opera: La posizione dell’uomo nel cosmo. È vero che Wojtyla, nella sua tesi di laurea,
ha criticato il “personalismo” di Scheler, rilevandone diverse ed essenziali
incongruenze; tuttavia, ne ha in sostanza accettato l’impostazione fenomenologica,
in quanto “metodo d’indagine da applicare all’analisi degli atti etici”; in particolare, per ciò che concerne i valori
cristiani, da far fruttare in modo da “scoprirne nell’esperienza l’essenza e
verificarne la specifica peculiarità nel confronto con i valori etici
extra-cristiani, come anche i limiti della loro affinità con gli altri.” Ma in tal modo, mi chiedo, l’essenza
sovrannaturale dei valori cristiani, sovrannaturale perché fondati
sulla Verità Rivelata, non è stata perduta o comunque oggettivamente messa in
discussione, volendola verificare “nel confronto con i valori extra-cristiani”,
attuatosi poi di fatto nella pastorale del “dialogo”, con i pessimi risultati che per l’appunto ha
dato?
L’Autore ricorda altresì lo straordinario apprezzamento di
Benedetto XVI per John Locke, per il suo concetto della persona, per il
suo liberalismo, considerato compatibile con il cattolicesimo.
A mio avviso, bisognerebbe anche ricordare che entrambi
questi pontefici hanno mostrato ammirazione per Teilhard de Chardin e Henri
de Lubac, quest’ultimo elevato ultraottantenne da Giovanni Paolo II
addirittura alla porpora, nel 1983, dopo averlo dispensato dalla consacrazione
episcopale: teologi rimasti sempre in forte odor d’eresia (con accenti
deliranti nel primo dei due) e mai correttisi nonostante le censure subíte
regnante Pio XII. Teologi che (modernisticamente) disconoscevano il concetto di
una verità assoluta, rendendo così impossibile l’idea stessa di una “verità
rivelata”, assoluta perché di origine divina; teologi, infine, miranti ad
elidere se non ad eliminare la
differenza tra natura e sovrannaturale, perché inclini ad un panteismo
comportante nozioni spurie come quella della salvezza “comune” del genere umano
– poiché quella (solo) individuale sarebbe egoistica [sic], come
sostengono i moderni, atei o comunque in vario modo miscredenti. La singolare tesi della salvezza
“comunitaria” fu condivisa da Benedetto XVI nella sua Enciclica Spe Salvi,
del 2007, nei parr. 11-14, nei quali lodava apertamente de Lubac per aver (a
suo dire) dimostrato (in Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme,
opera del 1937, messa all’indice) che l’idea della salvezza sarebbe stata
presso i cristiani sempre quella di una “salvezza comune” o “comunitaria”, come
si evincerebbe ad esempio dalle visioni ed immagini testamentarie sulla
salvezza che si realizza nell’àmbito della dimensione collettiva rappresentata
dalla ”città celeste”, dal “Regno di Dio” e simili. Ma è facile replicare che i Beati che si
troveranno tutti assieme nella comunione sovrannaturale con la Santissima
Trinità, si saranno salvati, ognuno di loro, del tutto individualmente, per
come avranno vissuto qui in terra, e che questa “comunione” finale
sovrannaturale è semplicemente il risultato del loro numero, annunciato
nell’Apocalisse come molto grande, fuso nell’unione mistica ineffabile della
Visione Beatifica, nella quale la singola individualità non viene tuttavia a
scomparire. Ma non è la salvezza
individuale dei Beati a non esser accettata dai Figli del Secolo. Come dimostra la citazione di Jean Giono
ripresa nella Spe Salvi par. 13 da de Lubac, non accettano che la
salvezza sia solo per i credenti, per i rinati in Cristo: respingono l’idea
che i non credenti o miscredenti e peccatori non redenti siano lasciati fuori e
per sempre e per di più all’Inferno.
Tutto ciò sembra a loro egoistico e al limite ingiusto, l’opera
di un Dio crudele. Ma Benedetto XVI,
appoggiandosi all’ereticale de Lubac, vuole tranquillizzarli proprio su questo
punto capitale: non preoccupatevi,
sembra dire, anche per i cristiani la salvezza non è un fatto individuale, è un
fatto “comunitario”; essi credono in una
“salvezza comune”.
Ma il concetto
resta oscuro e ambiguo. Che vuol dire
“salvezza comune”? Se non ricomprende
atei e miscredenti allora è sempre riservata ai soli cristiani e ai giusti che
hanno ricevuto il “battesimo di desiderio” che non siano morti in peccato
mortale. Se ricomprende anche atei e
miscredenti e quindi in sostanza tutta l’umanità non convertita, allora ci troviamo
di fronte ad un’eresia, perché si tratterebbe di una “salvezza collettiva” data
a tutti a prescindere, senza bisogno di conversione a Cristo ---- l’errore del
“già tutti salvati dalla Croce” o addirittura dall’Incarnazione, dal Cristo
c.d. “cosmico”: Blondel-Teilhard de Chardin-etc.; errore poi ulteriormente
elaborato da Karl Rahner nella teoria fumosa dei “cristiani anonimi”. In
ogni caso, il termine “salvezza comune” serve solo a confondere la limpida
teologia dei Novissimi, non per nulla deformata e in sostanza scomparsa
dall’insegnamento della Chiesa del post-concilio. Ma la Chiesa ha sempre insegnato, ed è
articolo di fede, che ogni anima viene immediatamente giudicata individualmente
subito dopo la morte e dal Signore inviata subito nel luogo sovrannaturale dove
dovrà restare per sempre (Paradiso o Inferno) o solo provvisoriamente (Purgatorio): “E siccome è destino dell’uomo morire una sol
volta, e che dopo la morte ci sia il giudizio, anche il Cristo dopo essersi
offerto una volta per togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta,
non più col peccato, per dar la salvezza a quelli che lo aspettano”(Ebr 9,
27-28).
E non si comprende come si possa accusare di “egoismo” una
religione come la nostra, che invita continuamente a pregare e mortificarsi per
la salvezza del prossimo, a soccorrerlo per i suoi bisogni e ad amarlo per amor
di Dio, anche quando è nostro nemico e ci fa del male. Un credo religioso più altruistico
non credo sia mai esistito. Esso ammette
persino la salvezza dell’uomo pio, dell’uomo giusto non cattolico o non
cristiano che creda in Dio, non muoia in peccato mortale e senza colpa non conosca
la vera dottrina cattolica, attribuendogli un desiderio implicito o in
voto del battesimo. Il rigorismo
di chi considerava già dannati tutti i non-cattolici, tranne quelli che
mostravano il desiderio esplicito del battesimo, fu sempre condannato
dalla Chiesa, in ultimo da Pio XII, con la Lettera del Sant’Uffizio dell’ 8
agosto 1949 all’arcivescovo di Boston (DS 3866-3873).
A mio avviso, la cosa più grave, in questi paragrafi della
Spe Salvi, è che il suo Autore sembra aderire integralmente alla
proposizione di de Lubac, sempre in Catholicisme, secondo la quale, per
il cattolicesimo, “la salvezza della comunità è condizione della salvezza degli
individui” onde la salvezza sarebbe innanzitutto “sociale” e solo a questo
titolo “individuale”, poiché il peccato sarebbe soprattutto “distruzione
dell’unità del genere umano, frammentazione e divisione” (Spe salvi,
par. 14). Ma il peccato non è invece (annoto) in primis violazione
dell’ordinamento morale stabilito da Dio e quindi offesa a Dio? La Spe Salvi sembra avallare una
nozione errata del peccato, tipica di de Lubac:
il valore da difendere contro il peccato non è e non può essere l’unità
del genere umano (nozione confusa oltre che chimerica quanto alla sua
attuazione) bensì l’unità dell’ordinamento morale del mondo stabilito da Dio
nonché il rispetto della volontà di Dio, che non può essere impunemente
violata. I Testi e l’insegnamento della
Chiesa sino a Pio XII dimostrano esattamente il contrario di quanto
proposto qui da Benedetto XVI: il libero arbitrio è personale e la salvezza
individuale è “condizione” (se vogliamo usare questo termine) di quella
“comune”. La salvezza “comune”, a priori di tutto il popolo in blocco, perché
Eletto, non è forse concetto che rinvia all’ebraismo? L’adesione di Benedetto XVI all’idea singolare
e in odor di eresia della “salvezza comune condizione di quella individuale”,
per afferrarne tutta la gravità, va poi connessa, in quella sua Enciclica, alla
rappresentazione oscura e reticente che essa dà dei Novissimi (parr. 41-48);
dai quali, mentre la nozione del peccato resta ambigua, sembra scomparire
l’idea stessa del Giudizio in senso proprio, che l’Autore sembra voler
trasformare in un momento di speranza per tutti, tranne alcuni pochi
molto cattivi, oscurando la realtà dell’Inferno e la verità di fede della
divisione finale dell’umanità in Eletti e Reprobi. Difatti la sezione viene intitolata, in modo poco comprensibile,
trattandosi di un giudizio divino, unilaterale e definitivo, che non ammette replica;
una decisione senz’appello e che dura in eterno: Il Giudizio come luogo di apprendimento e
di esercizio della speranza.
Circa Papa Francesco, il prof. Castellano ricorda
molto opportunamente come egli, in una delle sue interviste-colloqui con il
giornalista progressista e ateo militante, Eugenio Scalfari, che egli ha usato
saltuariamente, assieme al suo giornale, come una sorta di portavoce ufficioso
[sic] mai smentito dal Vaticano, abbia posto la verità del cristianesimo
nel giudizio della “coscienza morale”, professando una dottrina simile “alla dottrina
etica di Jean-Jacques Rousseau”, notoriamente deista (vedi supra). Le dichiarazioni ex vivae vocis oraculo
di Papa Francesco sulla correttezza della dottrina luterana della
giustificazione per sola fede senza le opere e senza la mediazione della Chiesa
con i Sacramenti (“sulla
giustificazione non aveva sbagliato”) e tutta la sua conseguente politica
di “comunione” con i luterani, hanno destato
stupore e scandalo fra i cattolici rimasti fedeli alla tradizione. Ma, a ben vedere, papa Francesco qui ha solo
tratto le conclusioni da decenni di “dialogo” con i luterani, concretatosi nella
scandalosa Dichiarazione comune sulla giustificazione tra cattolici e
luterani, incoraggiata e condivisa dai suoi due predecessori, documento
nel quale si accettavano proposizioni
chiaramente luterane sulla giustificazione. Nihil novum sub sole, dunque.
Nella celebre dichiarazione orale del 2016, tornando in
volo dall’Armenia, Papa Francesco disse: “Ed oggi luterani e cattolici, con
tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su
questo punto tanto importante lui [Lutero] non aveva sbagliato. Lui ha fatto una “medicina” per la Chiesa,
poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina
etc.”. In effetti, il suo incredibile
elogio dell’eresiarca Bergoglio lo fonda sull’autorità del raggiunto accordo
tra cattolici, luterani, protestanti tutti sulla dottrina della
giustificazione: oggi non ci sarebbe più una dottrina cattolica in proposito,
dogmaticamente definita al Tridentino, ma una nuova dottrina, costituita
da ciò che cattolici ed eretici protestanti avrebbero convenuto in comune. È ovvio che una situazione del genere non è
(a dir poco) normale, per la Chiesa cattolica:
non è possibile per i Papi o chi per loro modificare dogmi formalmente
stabiliti da secoli, per di più mettendosi d’accordo con gli eretici condannati
nei canoni acclusi a quei dogmi (“Ma quand’anche noi stessi o un Angelo disceso
dal cielo vi annunziasse un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo
predicato, sia scomunicato!” -- Gal 1, 8).
In questa incredibile Dichiarazione congiunta sulla
dottrina della giustificazione, sottoscritta dal Consiglio Pontificio per
l’unità dei Cristiani e dalla Federazione luterana mondiale, il 31 ottobre 1999
– certamente un unicum nella storia della Chiesa – si enumerano articoli
di fede che i cattolici avrebbero in comune con gli eretici luterani,
tenendo sullo sfondo le differenze e facendo capire che le condanne di un tempo
non si applicano più! È ovvio che nel
documento le differenze poco interessano, essendo lo scopo del documento stesso
proprio quello di far emergere i supposti elementi in comune tra noi
e gli eretici. E difatti:
Nel § 3 della Dichiarazione,
intitolato La comune comprensione della giustificazione, si legge, al n.
15: “Insieme confessiamo che non in
base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo della grazia, e
nella fede nell’opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e
riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci
chiama a compiere le buone opere”. Al n.
17 del medesimo § 3, si aggiunge, in modo
sempre condiviso, che: “…essa [l’azione
salvifica di Dio] ci dice che noi, in quanto peccatori, dobbiamo la nostra vita
nuova soltanto alla misericordia di Dio che perdona e che fa nuove tutte le
cose, misericordia che noi possiamo ricevere soltanto come
dono nella fede, ma che non ci possiamo meritare in nessun modo.” E infine, nel n. 19 (§
4.1) troviamo affermato in comune e
presentato come fosse cosa ovvia il principio secondo il quale: “la giustificazione avviene soltanto
per opera della grazia.” Per ciò che riguarda le buone opere il
Documento afferma al n. 37 nel § 4.7 intitolato Le
buone opere del giustificato:
“Insieme confessiamo che le buone opere – una vita cristiana
nella fede nella speranza nell’amore – sono la conseguenza
della giustificazione e ne rappresentano i frutti.”
Anche quest’ultima
proposizione è contraria al dettato del dogmatico Concilio di Trento, che
ribadisce il carattere meritorio delle buone opere per la vita eterna,
al conseguimento della quale esse necessariamente concorrono, come
risulta inequivocabilmente dal Nuovo Testamento. Oltre ai famosi passi della Lettera di
Giacomo (2, 17-26), ove si insegna che la fede senza le opere è morta, testo
apertamente e sprezzantemente ignorato da Lutero, ricordiamoci anche di
quest’esortazione di san Paolo, non la sola in argomento, che mostra senza
mezzi termini il carattere meritorio delle opere per la salvezza: “Non ci stanchiamo mai di fare il bene,
perché, se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo [la vita eterna]. Dunque, finché abbiamo tempo, facciamo del
bene a tutti, ma specialmente ai nostri fratelli nella fede” (Gal 6,
9-10). E il giudizio finale non avverrà
anche sulla base delle opere di misericordia verso il nostro prossimo,
fatte od omesse (Mt 25, 31-46) e quindi, nei confronti di ciascuno, non sarà
emesso “secondo i suoi meriti” di fronte a Dio, come recita da sempre l’ Atto
di fede?
Di fronte alle concessioni all’eresia contenute nella Dichiarazione
congiunta, come stupirsi se un Papa in persona è venuto alla fine a dirci
che “su questo importante punto Lutero non aveva sbagliato”? Ovvero, che la dottrina luterana della
giustificazione è corretta? Se non è
sbagliata, evidentemente è corretta; se è corretta, è giusta. Tanto giusta, da esser stata adottata dalla Dichiarazione
congiunta, come risulta dai passi citati, se li si legge per quello che
sono, senza farsi condizionare da una presunzione di ortodossia dottrinale qui
del tutto fuori luogo. Quivi, il
luterano sola fide e sola gratia viene condiviso senza sfumature,
allo stesso modo dell’idea errata che le buone opere sono da intendersi solo
quale conseguenza e frutto della giustificazione.
Bisogna pertanto proclamare ad alta voce che la
professione di fede condivisa con i luterani eretici contraddice apertamente
quanto dichiarato dal Tridentino, nel ribadire la dottrina cattolica di
sempre. Ricordo che quel Concilio, a
conclusione del suo Decreto sulla giustificazione del 13 gennaio 1547,
inflisse 33 anatemi con i relativi canoni. L’eresia del sola fide fu
condannata al canone 9, quella del sola gratia al canone 11, quella che nega la necessità
delle buone opere per la salvezza al canone 24.
Questa sciagurata Dichiarazione congiunta ci è
arrivata tra capo e collo alla fine di un pluridecennale “dialogo” con i
luterani, intensificatosi durante il regno di Giovanni Paolo II, e quindi con
la completa approvazione sua e dell’allora cardinale Ratzinger, che ha evidentemente
mantenuto la sua completa adesione all’iniziativa, una volta diventato
Benedetto XVI. Bisogna dunque ammettere
che Papa Francesco, nel suo modo di esprimersi privo di sfumature, ha tratto
alla luce ciò che era implicito nel “dialogo” con i luterani e nel suo frutto
finale, la Dichiarazione congiunta:
che Lutero aveva visto giusto, che la sua concezione della
giustificazione “non era sbagliata”.
Tanto di cappello a Lutero, allora!
Questo noi cattolici dobbiamo sentirci dire, e in tono del tutto
convinto, a cinque secoli da quello scisma protestante, che, in modo forse
irreparabile, ha devastato la Chiesa universale dalle fondamenta? Il “cinghiale sassone” che tutto ha
calpestato e insozzato aveva dunque ragione?
Ed è addirittura un Papa ad assicurarcelo? E se Lutero aveva ragione,
avevano dunque torto tutti i Papi che ne hanno condannato le eresie? Come si sfugge a questa conclusione,
devastante per la credibilità del papato?
Ma valga il vero:
sappiamo che la dottrina luterana propugna l’idea, contraria alla logica
e al buon senso oltre che alla Sacra Scrittura, secondo la quale noi siamo
giustificati (trovati giusti da Dio e accettati nel suo Regno alla fine dei
tempi) sola fide, senza il necessario concorso delle nostre opere ossia
senza bisogno dell’apporto della nostra volontà, che cooperi liberamente e quotidianamente
all’azione della Grazia in noi. Per
ottenere la certezza della nostra individuale salvezza, qui ed ora – era
questa l’ossessione di Lutero - basta avere (dice l’eretico) la fides
fiducialis: credere che la Crocefissione di Cristo ha meritato e conseguito
la salvezza per tutti noi. Per i suoi
meriti, la misericordia del Padre si sarebbe stesa su di noi tutti come un
mantello che copre i nostri peccati. Non
occorre, dunque, ai fini della salvezza, che ognuno di noi cerchi di diventare un
uomo nuovo in Cristo, slanciandosi con generosità verso di Lui in pensieri,
parole, opere e chiedendo sempre l’aiuto della sua Grazia a questo fine (Gv
3). Basta la fede passiva nell’avvenuta
salvezza ad opera della Croce, senza bisogno del contributo della nostra
intelligenza e volontà. Le buone
opere potranno scaturire da questa fede (nell’esser stati giustificati
dalla Croce) ma non possono concorrere alla nostra salvezza: ritenerlo, sarebbe commettere peccato di superbia! (E se non concorrono, perché farle? Mangiamo e beviamo, tanto basta crederlo,
per esser salvati!)
“La Riforma: una
delle più bugiarde eruzioni degli istinti volgari. Una schiera di istinti forti, divenuti
indomabili e radicalmente volgari vuol farsi largo: bisogna solo inventare dei pretesti e
pronunciare delle parole grosse per dar via libera a queste bestie
scatenate. Lutero come tipo psicologico: contadino improprio, rozzo, che col pretesto
della “libertà evangelica” sfoga tutti i bisogni di violenza accumulati. Si vuole una buona volta tornare a spadroneggiare,
a rubare, a opprimere, a maledire, ben sapendo che i sensi vogliono trovare il
loro tornaconto; ma anzitutto si guarda con libidine all’enorme ricchezza della
Chiesa.”
Il prof. Castellano insiste giustamente sulla sostanziale continuità
nell’insegnamento dei vari Papi postconciliari, negata per esempio da tutti
coloro che contrappongono alle eterodossíe di Bergoglio i suoi due predecessori
quale autentico esempio di purezza dottrinale.
Nonostante la presenza di una evidente “discontinuità” su alcuni punti fondamentali
tra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nei confronti di Papa Francesco, ad
esempio (sottolineo) nell’insegnamento dell’etica cristiana, “esiste tuttavia una linea di fondo coerente ispirata dalla cultura della Modernità e
favorita dagli equivoci dei documenti del Vaticano II nonché dalle
interpretazioni conciliari proposte e messe in pratica.” Si nota, infatti, in tutti questi Papi lo
stesso metodo, che altri non è che il metodo del clericalismo: “riconciliarsi con il mondo (inteso in senso
morale, non metafisico), senza affatto guidarlo, illuminarlo e, se necessario,
contestarlo”. Riconciliarsi, aggiungo
io, senza mai tentare di convertirlo.
E questo mondo ha subìto una accelerazione in senso “liberale-radicale-nichilista”
alla quale ovviamente la Chiesa, con queste premesse, non ha saputo reagire,
anzi vi si è adattata sempre più, riducendosi ad ancella di una cultura
“mondana” costituente esattamente l’opposto del Deposito della Fede.
Il modo di agire della Chiesa visibile odierna si
estrinseca pertanto in quella che si può definire una “méthodologie de
l’échec” della quale l’Autore fa diversi esempi, in campo politico e morale. Questa metodologia della sconfitta,
potremmo tradurre, o, parafrasando il detto di uno storico militare italiano
sulle insufficienze culturali e di preparazione dei nostri Stati Maggiori palesatesi
nella II g.m., una vera e propria inconsapevole tecnica della sconfitta,
consiste nella persistente accettazione del male minore , cosa che comporta
spesso la successiva accettazione di un male peggiore del male minore inizialmente
accettato e, in definitiva, un poco cattolico piegarsi anche al principio ex
facto ius oritur. Questa strategia,
in campo politico, in Italia e altrove, ha sempre condotto al medesimo risultato: “favorire il confluire [jonction] di
cattolici e settatori di dottrine combattute dalla Chiesa in quanto contrarie
alla verità e alla Rivelazione”.
Gli esempi di questa errata “metodologia” apportati
dall’Autore vanno dal Ralliement di Leone XIII al Patto Gentiloni
autorizzato da san Pio X alla accettazione di Pio XII del regime costituzionale
liberale in Italia nel 1947 alla Ostpolitik del cardinal Casaroli al Sinodo
sulla famiglia del 2014-2015. Si tratta allora di una
tendenza negativa, frutto appunto del suddetto “clericalismo”, ben anteriore al
Vaticano II anche se ha tratto da quest’ultimo ulteriore linfa. Qualcuno, osservo, nell’errata “metodologia”,
ci metterebbe anche la Conciliazione.
Ce la mette l’attuale neo-legittimismo, erede del legittimismo di un
tempo, compreso quello degli Ultramontani: la Conciliazione non sarebbe
da accettare perché imposta dallo stato di necessità e perché limiterebbe la
libertà d’azione della Chiesa. Bisogna,
pertanto, ignorarla. Maurras, se non
erro, considerò uno sbaglio per la Chiesa gli Accordi del ’29, perché
gli sembrava (erroneamente) che la mettessero sotto la “tutela” dello Stato
italiano. Ma la Conciliazione andò in senso opposto agli esempi
menzionati: era la Chiesa ad esser
ristabilita nei suoi diritti temporali e nel rispetto dovutole, era lo Stato a
fare le doverose concessioni, anche se negoziate (vedi supra, § 6.1). Fu lo Stato a cedere anche se la Chiesa non
ottenne tutto quello che avrebbe voluto e l’educazione pubblica della gioventù
rimase in gran parte nelle mani del regime. Moralmente, chi ci guadagnò di più fu lo Stato
perché la Chiesa riconobbe il Regno d’Italia e dichiarò risolta la “questione
romana”, riconoscendo Roma come capitale del Regno, mentre, per limitarci a
questo aspetto, acquistava nel temporale la formale, incondizionata libertà di movimento che spetta ad un soggetto
completamente sovrano, ai sensi del diritto internazionale: anzi, lo
riacquistava. Tale riconoscimento era
moralmente un atto dovuto da parte di uno Stato che si dichiarava cattolico, anche
se si inseriva in un reciproco, giuridico do ut des tra Stato e Chiesa, che
risolveva questioni sostanziali conformemente agli usi del diritto internazionale.
Voler considerare
ancor oggi il Papa come impossibilitato a svolgere pienamente e con la dignità
che gli spetta la sua missione apostolica perché “incapsulato” in una
città-Stato, significa, a mio modesto avviso, trascurare del tutto la realtà
effettuale, che ci mostra una ovvia quanto assoluta libertà di movimento, oltre
che di esercizio della suprema potestas, in tutte le sue forme, da parte
dei Papi. Ma oltre a questa
constatazione di fatto, mi sembra giusto precisare, su di un
piano più generale, che, data la natura particolare della Chiesa, la
libertà d’azione del Papa nello spirituale non dipende dalla maggiore o
minore estensione del suo Stato, non è una questione di kmq. La piena sovranità statale, qualità che,
secondo il concetto moderno, non dipende dall’estensione dello Stato né dalla
sua forma di governo, ma dal suo dimostrarsi nel caso concreto Stato
effettivamente operante, con un territorio e dei soggetti che obbediscono ad
un’autorità sovrana considerata legittima (principio di effettività), è
necessaria al papato per svolgere in piena autonomia la sua alta missione, che
è però soprattutto spirituale, religiosa, tant’è vero che grandi Papi
hanno potuto adempiervi anche quando lo Stato della Chiesa ancora non esisteva
e i tempi erano assai procellosi (vedi S. Leone Magno) o era stato
temporaneamente soppresso (vedi S. Pio X).
Pensiamo alla grande figura di S. Leone Magno. La lettera da lui inviata al Concilio
Ecumenico di Calcedonia nell’AD 451, il famoso Tomus Leonis, definiva le
verità di fede contro le eresie cristologiche circolanti in modo così preciso e
profondo da esser spontaneamente acclamata dal Concilio all’unanimità con il
grido: “questa è la voce stessa di Pietro!” e messa immediatamente agli Atti
del Concilio stesso. Ebbene, Leone non
era sovrano temporale. L’impero
d’Occidente esisteva ancora, pur malandato assai. Cadde nel 476. Eravamo nel pieno delle invasioni barbariche. In quello stesso anno 451, Ezio, alleato ai
Visigoti, aveva duramente sconfitto Attila
in Gallia, ai Campi Catalaunici. L’anno dopo il feroce condottiero comparve in
Italia, distrusse Aquileia, saccheggiò e devastò. Al Mincio una delegazione
inviata dall’imperatore d’Occidente, comprendente Leone gli andò incontro,
convincendolo a ritirarsi, dicono le cronache.
Lo convinsero, molto probabilmente, anche la peste serpeggiante nel suo
esercito e la presenza dell’esercito romano che l’aveva battuto l’anno prima,
sempre comandato da Ezio, anche se ora ridotto di numero, schierato sulla riva
destra del Po, per impedirgli di passarlo.
Tre anni dopo, nel 455, Leone si vide arrivare a Roma, del tutto indifesa,
i Vandali di Genserico, venuti dall’Africa con una grande flotta a far bottino. Parte considerevole della popolazione e delle
autorità civili era già fuggita. Leone
tentò di negoziare con i barbari, cristiani ma ariani, in Africa persecutori
dei cattolici. Ottenne che non ci
fossero incendi e massacri. I Vandali imperversarono
tranquilli per due settimane. Spogliarono anche le chiese e si portarono via numerosi
ostaggi.
Dunque: vediamo il Papa che, senza Stato e armi, cerca di
difendere come può Roma inerme, pur dovendosi piegare all’inevitabile, e riesce
comunque a salvare la città dalla distruzione, trovandosi con la sola sua
autorità spirituale ad affrontare i barbari eretici – un Papa che, nello stesso
tempo, aveva raggiunto grazie alla sua austera personalità e grande dottrina una posizione di assoluto prestigio
e superiorità nella Chiesa universale. Leone
vantò più che mai a pieno titolo la conferma del primato petrino, pur non esistendo
come sovrano temporale ed essendo anzi Roma indifesa di fronte ai barbari, che
ne facevano quello che volevano. Da
questo esempio storico dobbiamo forse concludere che il potere temporale non è
necessario al papato? No. È necessario,
per la natura stessa della Chiesa visibile e perché il Papa da tanti secoli lo
considera necessario, tassello ineliminabile della costituzione ecclesiastica
della Chiesa. La storia stessa,
tuttavia, ci dimostra che non bisogna farne un assoluto, come se, a
causa delle mutevoli vicende storiche, cambiando di forma dal punto di vista
territoriale, ad esempio rimpicciolendosi ai livelli odierni, non estendendosi
più da Terracina a Faenza in diagonale a tagliare l’Italia, esso venga per
ciò stesso a diminuire il Papa, danneggiandolo o impedendolo nella sua
missione spirituale, quella che ne giustifica l’esistenza di Vicario di
Cristo in terra. Nessun osservatore imparziale può affermare che i Papi, dalla Conciliazione
in poi, ed è quasi un secolo, siano stati limitati nei loro movimenti o
nell’esercizio del potere, a Roma e su tutta la Chiesa, sia di semplice governo
che spirituale, per il fatto di esser sovrani di uno Stato di soli 44 ettari
quadrati, con alcune modeste dipendenze extraterritoriali. I contrasti con Mussolini
circa l’Azione Cattolica non devono trarre in inganno: rientrano in quei
conflitti di tipo organizzativo tra Stato e Chiesa, su obiettivi di carattere
temporale, che in Italia (e non solo) sono sempre esistiti, sin dal Medio Evo. Anche
oggi, se lo Stato italiano si svegliasse dal torpore e volesse far valere il
suo legittimo diritto a non esser invaso dai cosiddetti migranti clandestini,
quasi invocati invece da Papa Francesco, dovrebbe molto probabilmente entrare in un conflitto di
tipo istituzionale con la Santa Sede, vale a dire su chi è competente a
regolare certe materie di primario interesse, come l’integrità del territorio nazionale,
dello Stato italiano stesso. Ma nessuno
potrebbe dire che un tale (ipotetico) conflitto di competenze limiterebbe il
Papa nella sua libertà di movimento e di Capo della Chiesa universale.
I Papi furono impediti nell’esercizio della loro missione
solo quando furono materialmente, fisicamente, di persona sequestrati e tenuti
prigionieri, come avvenne a Vigilio ad opera di Giustiniano; a san Martino I,
arrestato e fatto morire dopo un lungo e crudele imprigionamento nella penisola
di Cherson dall’imperatore bizantino Costante II, per aver impavidamente
condannato l’eresia monotelita contro la volontà dell’imperatore; a Pio VII ad
opera di Napoleone Bonaparte, fattosi Imperatore dei Francesi.
Ritornando agli esempi del prof. Castellano, Pio XII cosa
avrebbe dovuto fare nel 1947, non riconoscere lo Stato laico e democratico che
ritornava, riaprendo di fatto se non di diritto la “questione romana”? Impensabile, in quei difficili frangenti, in
un Paese devastato materialmente e moralmente, su cui incombeva l’ombra
assassina del Comunismo, che un Papa saggio e prudente come Pio XII potesse
assumere un atteggiamento del genere. La
S. Sede dovette realisticamente accontentarsi di tener fermo ai Patti Lateranensi,
che fossero inseriti nella Costituzione, nonostante quest’ultima ammettesse il
principio laico della libertà di coscienza, in contraddizione (come si è detto)
con il “confessionalismo” dello Statuto Albertino.
A mio avviso, bisognerebbe distinguere tra la politica
della S. Sede anteriore al Concilio e quella ad esso posteriore. Non mi sembra giusto far rientrare nella
stessa “metodologia” le iniziative di un san Pio X, volte a sbloccare la
situazione politica dei cattolici in Italia, con quelle eretiche e addirittura
anticristiane di Papa Francesco, quali appunto il Sinodo sulla famiglia,
nel quale si profilarono tentativi di eversione del matrimonio e della morale
cristiana. Se il Ralliement fu
un errore, sia pur dettato dalle migliori intenzioni, non metterei comunque il Patto
Gentiloni sul suo stesso piano. Si trattava solo di iniziare un graduale
ritorno dei cattolici alla politica in Italia, dopo il lungo non expedit di
Pio IX, senza far peraltro concessioni sul piano sostanziale. Non dovevano
ritornare i cattolici a lottare per la rappresentanza politica ufficiale,
tornare e riempire il vuoto provocato dall’iniziativa di Pio IX, comprensibile
ma durata troppo a lungo; vuoto riempito da massoni, socialisti, nazionalisti
mentre fra le masse si diffondeva sempre più la mentalità positivista,
scientista, marxista ad opera dell’azione delle sinistre e della cultura
profana in generale? Il sentimento di
appartenere ad una Patria italiana comune,
unitaria, si era diffuso, nonostante tutto, ed era condiviso anche da molti
cattolici, che soffrivano della situazione che si era creata con la Chiesa e
della libertà d’azione concessa ad un anticlericalismo bècero e di infimo livello.
Con l’avvento del fascismo e la soppressione dei partiti
politici e sindacati indipendenti, compresi quelli cattolici, la Chiesa dovette
confrontarsi con una dittatura. Tuttavia,
apparente paradosso, fu proprio la peculiare dittatura mussoliniana a
restituirle l’indipendenza e la libertà nel temporale, quella libertà da
essa sempre considerata indispensabile per poter essere veramente libera nell’esercizio
dello spirituale, ora acquisita in una forma istituzionale territorialmente
enormemente più ridotta ma comunque adatta alle esigenze dei tempi. E la
dittatura restituì formalmente alla Chiesa l’influenza vasta e capillare sul costume
e la morale dei privati che le spettava, con l’affidarle in pratica la gestione
ufficiale dell’istituto matrimoniale. Fu
anche grazie agli effetti benefici della Conciliazione che la Chiesa
poté presentarsi, alla fine della II g.m., come istituzione non toccata dagli
sconvolgimenti apocalittici provocati in Italia dalla guerra mondiale e civile;
compatta, anche come ordinamento giuridico riconosciuto, indipendente e
sovrano, all’ombra del grande ascendente e prestigio di un Papa come Pio XII,
pronta a sostenere un nuovo partito cattolico ora al potere nella sua lotta
contro il comunismo all’attacco dell’Occidente – partito i cui quadri si erano
formati durante il fascismo, nell’àmbito della federazione universitaria
cattolica italiana (F.U.C.I.), che aveva tratto profitto dalla sostanziale
libertà di insegnamento tollerata dal regime.
Allo stesso modo che nella società, c’era sempre il
pericolo di trovarsi nei guai in séguito a denunce di zelanti o delatori o
nemici personali per aver criticato il Duce o “il Fascio” ad alta voce o aver
raccontato una barzelletta troppo irriverente contro il regime. Tuttavia non c’era nelle Università del Regno
la cappa di piombo ideologica tipica dei regimi totalitari, come in Germania e ancor
più nella Russia di Stalin. Nelle
biblioteche universitarie si trovavano le opere di Marx e dei classici della
filosofia, senza escludere la filosofia della politica. Si trovavano anche opere di autori stranieri
contemporanei non allineati, presenti anche nelle librerie. Ad esempio, la valida Storia del
bolscevismo dello storico marxista tedesco Arthur Rosenberg, del 1932, apparve in italiano nel 1933: Storia
del bolscevismo. Da Marx ai nostri
giorni, ristampata con Introduzione di Wolf Giusti nelle Edizioni Leonardo, Sansoni,
Roma, 1945.
Ma non si traducevano solo autori di sinistra. Un’opera come quella del filosofo neokantiano
Ernst Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, del 1932, fu tradotta da
Ervino Pocar per la La Nuova Italia, nella prestigiosa collana del pensiero
storico, nel 1936: ed era tutto un inno all’Illuminismo in quanto secolo della critica,
rivalutato contro la condanna che ne aveva fatto il Romanticismo. Di Cassirer, era stato tradotto da Federico
Federici nel 1935 anche: Individuo e
cosmo nella filosofia del Rinascimento, del 1927, sempre per La Nuova
Italia; opera nella quale il Rinascimento veniva interpretato alla luce del
complesso concetto di “forma simbolica”, che l’autore aveva elaborato per la
sua originale Filosofia delle forme simboliche, a partire dal 1925,
tradotta in italiano nel Dopoguerra.
Un esponente molto noto della sinistra intellettuale del
Secondo Dopoguerra, giornalista e scrittore, in una sua autobiografia scrive
che, nell’estate del 1940, lui e sette amici, poi quasi tutti comunisti di
spicco, brindarono a Roma sulla terrazza della redazione de Il Selvaggio,
rivista anticonformista diretta da Leo Longanesi, alla vittoria della Francia e dell’Inghilterra, così
commentando: “Nessuno di noi, si badi,
poteva lamentarsi personalmente del regime, né di come le autorità
fasciste amministrassero la vita
culturale. Avevamo lavoro, carriere
aperte, nessun obbligo, a parte quello puramente formale della tessera [del
PNF]. Il Manifesto di Marx, le opere di Labriola [primo teorico marxista
italiano] etc. erano reperibili nelle pubbliche biblioteche e persino nelle
librerie. Questa era la gioventù
allevata dal regime o almeno la sua parte più scelta…” (Manlio Cancogni, Gli
scervellati. La II g.m. nei ricordi di
uno di loro, Diabasis, 2003, brano riportato da una recensione dell’opera
apparsa sul Corriere della Sera del 18 agosto 2003). Benedetto Croce, favorevole al fascismo anche
dopo il delitto Matteotti perché, disse, unica alternativa al caos dilagante,
passò all’opposizione dopo la svolta autoritaria di Mussolini, nel 1925. Ma potè sempre continuare a pubblicare la sua
rivista La Critica , che rappresentò
l’opposizione liberale al regime, anche se ovviamente con le dovute cautele
e limitazioni. Nel 1936 donò anch’egli
“l’oro alla Patria” (la sua medaglietta di “senatore del Regno”), raccolto per
difenderla dalle “inique sanzioni” irrogate dalla Società delle Nazioni, a
causa dell’invasione italiana dell’Etiopia.
Il palermitano Eugenio Di Carlo, filosofo del diritto
cattolico, conduceva senza problemi la sua battaglia in favore di una
restaurazione del concetto del diritto naturale di origine divina, valore
assoluto, in contrasto allo storicismo
che appariva nella concezione idealistica, gentiliana, del diritto (vedi la sua
Prolusione al corso di filosofia del diritto, tenuta il 18 gennaio 1932
nella R. Università di Perugia, intitolata:
Il diritto naturale nell’attuale fase del pensiero italiano,
Perugia, tip. G. Guerra, 1932, estratto di 44 pagine). Guido Gonella, successivamente autorevole
uomo politico democristiano, come assistente del citato prof. Del Vecchio alla
Cattedra di filosofia del diritto presso La Sapienza, a Roma, seguiva
all’inizio degli Anni Trenta i seminari degli studenti, in genere del I anno di
Giurisprudenza, consistenti in brevi saggi su di un tema. Ne curava una sintesi, inquadrandola
criticamente, che usciva sulla ‘Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto’, diretta dal prof. Del Vecchio.
Nell’anno 1934 furono trattati questi temi: Individuo e Stato – Il
diritto come fatto e come ideale – Romagnosi e Spencer. Dalla selezione degli interventi degli
studenti, che mostrano spesso una discreta maturità, si ha netta l’impressione
di una discussione abbastanza libera, anche se sempe attenta nella terminologia,
e su temi di rilevanza per l’ideologia dominante. Pochi gli interventi di tipo
agiografico, ideologici. Confliggevano
opinioni contrapposte, per lo Stato contro l’ individuo, per l’ individuo non
contro lo Stato ma a favore delle sue irrinunciabili garanzie di fronte al potere
Statale. Del fascismo gli studenti
sembravano apprezzare in particolare il corporativismo perché consentiva
all’individuo di partecipare allo Stato (realtà “etica”) con la mediazione di organizzazioni
sociali, cosa che impediva all’individuo stesso di restare schiacciato dal potere
statale. Nel rapporto tra diritto come
fatto e come ideale, c’era chi affermava
il carattere vago e astratto dell’ideale ossia del diritto naturale e invece
chi all’opposto ribadiva il carattere perenne del diritto naturale di contro al
diritto positivo, di origine statuale: sembrava prevalere una tendenza
antipositivista, volta a trovare al diritto un fondamento metafisico. Scarso interesse, invece, per lo studio dei
rapporti fra la filosofia del diritto di Romagnosi e quella di Spencer (vedi:
Guido Gonella, Le esercitazioni di filosofia del diritto nella R. Università
di Roma nell’anno 1932-33 : Individuo e
Stato – Il diritto come fatto e come ideale – Romagnosi e Spencer, estratto di 40 pp. dalla ‘Rivista Internazionale
di Filosofia del Diritto’, XIV, fasc. III-IV).
Nel 1937 si tenne a Roma, tra marzo e aprile, organizzato
dal prof. Del Vecchio, un convegno (il
terzo) dello Istituto internazionale
di filosofia del diritto e di sociologia giuridica, sul tema: “Il fine del diritto. Bene comune, giustizia, sicurezza giuridica”,
con la partecipazone di insigni studiosi, quali A.J. Carlyle, Gustav Radbruch,
Delos, Adolfo Levi, etc, inclusi anche esponenti della scuola kelseniana. L’interesse suscitato dalle relazioni e dalle
discussioni fu tale, da richiedere il prolungamento di un giorno del Convegno,
in una seduta suppletiva, di Domenica mattina. Furono affrontati in assoluta libertà e con profonde
argomentazioni soprattutto i temi del bene comune e della giustizia. Vedi: Guido Gonella, Il fine del diritto. Bene comune, giustizia, sicurezza giuridica.
Notizia dei lavori della III. Sessione dell’’Institut International de
Philosophie du droit et de Sociologie juridicque’, Roma, Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto, 1937, opuscolo di 31 pagine. Gonella
si qualificava come “segretario della Società Italiana di Filosofia del
Diritto”, dando un eccellente quadro dei lavori del Convegno.
Gli antifascisti in esilio all’estero, nel dipingere una
cultura italiana gemente sotto “la bieca dittatura” e priva di contatti con il
resto del mondo, calcavano la mano, diffondendo un’immagine lontana dal vero, propagandistica.
Dopo
l’improvviso pensionamento dei professori ebrei in applicazione delle leggi
razziali, il clima si appesantì, ma la relativa libertà di insegnamento
tollerata non ne soffrì più di tanto.
Tornando al tema principale. Perché
ad un certo punto né la Gerarchia né la classe politica cattolica furono
all’altezza del loro compito ed anzi, dopo la morte di Pio XII, con l’avvento
del “buon Papa Giovanni”, cominciò a prevalere il “clericalismo” nel senso di
Del Noce, ossia la politica dell’ambiguità, della svendita e del tradimento dei
propri valori? Una risposta, parziale,
può essere: perché l’eresia modernista
non era stata mai veramente estirpata e aveva ricominciato a proliferare negli
anni Trenta in modo semi-clandestino con la c.d. nouvelle théologie,
della quale erano in diverso grado impregnati anche Giovanni XXIII e Paolo VI,
i due papi responsabili dell’andamento negativo del Concilio e della successiva
distruzione della liturgia cattolica, per limitarci a questo. E perché l’eresia continuava a
circolare? Non si trattava evidentemente
solo di mancata fermezza, di mancate condanne. C’era la pressione della società moderna e soprattutto
della cultura moderna, con le sue verità, in primo luogo scientifiche,
che sembravano togliere autorità alla Rivelazione, facendo per esempio apparire
(a prima vista) assurdo il dogma della inerranza dell’intera Scrittura,
anche nelle cose che non riguardano direttamente la fede e i costumi. Sembravano e sembrano a molti anche oggi,
fra i cattolici, afflitti in
generale da un evidente complesso d’inferiorità nei confronti della
scienza. Ma tutti costoro sembrano dimenticare che le verità della
scienza sono pur sempre il frutto di umani ragionamenti ed interpretazioni, ora
confermate ora smentite dall’esperienza, mentre la Scrittura viene
direttamente da Dio, ma servendosi degli strumenti espressivi adatti alla
comprensione dell’uomo comune, per di più in tempi ben anteriori alla nascita
della scienza moderna, addirittura arcaici.
Le verità scientifiche mutano o muta la loro
interpretazione e ciò che sembra solidissimo oggi, domani scompare o viene ampiamente
ridimensionato. L’ evidenza molteplice a
favore del moto di rivoluzione della terra attorno al sole è allo stato
imponente e non si vede come potrebbe esser negata né si vede per qual motivo
essa dovrebbe contraddire la Scrittura, dal momento che il Testo Sacro,
quando si riferisce occasionalmente alla nostra visione dell’universo, si
esprime così come il mondo ci appare tutti i giorni, esattamente come facciamo
noi, che diciamo il sole sorgere e tramontare pur sapendo che né “sorge” né
“tramonta”. Ma su altri essenziali
aspetti il discorso resta aperto.
Per molti secoli si è ritenuto che la luce si propagasse
istantaneamente, salvo scoprire, quasi tre secoli fa, che viaggia ad una
velocità c. Newton ha dovuto
ritenere istantanea l’azione della forza di gravità, cioè “l’azione a distanza”,
concetto che Einstein respinge, interpretandola invece come una variazione di
densità dello spazio in ipotesi curvilineo e sempre pieno di materia-energia
nei cui confronti si esercita, variazione quindi non istantanea. E si potrebbe
continuare con i problemi che affliggono la fisica contemporanea, a cominciare
dalla sua impossibilità di darci una nozione coerente dello spazio: la relatività
generale (la teoria einsteiniana della gravitazione) implica uno spazio curvo,
pieno, continuo mentre la fisica quantistica, che analizza quello che i Greci
chiamavano il sostrato della natura, presuppone uno spazio piano,
euclideo, vuoto, nel quale le particelle elementari saettano in tutte le
direzioni, se così possiamo dire. L’evoluzionismo darwiniano, invece, rimane
“non falsificabile”, come diceva Karl Popper.
Il che significa: se sono tuttora non sottoponibili certi suoi passaggi
cruciali alla verifica razionale della discussione scientifica, resta una teoria
ancora da dimostrare.
Non è qui il luogo per approfondire un tema del genere,
pur essenziale; indagare qui come e
perché la risposta all’attacco variegato dell’eresia sia stata, a vari livelli,
evidentemente insufficiente sul piano culturale, anche da parte di chi ha
difeso e difende l’insegnamento tradizionale della Chiesa. L’ho solo accennato, questo pur vitale tema,
per mettere in rilievo questo punto: il
vero “clericalismo”, nel senso usato dal prof. Castellano, mi sembra quello
originatosi con il Vaticano II, pervaso da un inarrestabiale desiderio di
“apertura” ai valori profani del mondo, anteriormente sconosciuto; espressione
per l’appunto, questo desiderio, del riemergere prepotente dell’eresia
modernista, rimessasi a nuovo nella nouvelle théologie imbevuta di filosofia
profana, penetrata poi nei testi del pastorale Vaticano II.
6.2.1 La
contraddizione dell’art. 16 di ‘Gaudium et spes’, che fa affiorare un concetto
evolutivo della verità, la cui ricerca è condizionata dal rispetto della dignità
umana intesa come valore assoluto.
Il prof. Castellano
sostiene che gli errori penetrati nei testi del Concilio sono stati in qualche
modo temperati o comunque contrati da concetti che, nei medesimi testi, ribadiscono
la dottrina perenne della Chiesa. Nel dibattito
e secondo alcuni anche nel testo di Dignitatis humanae, si affermerebbe
la libertà della coscienza sulla base della coerenza soggettiva della
stessa, sul fondamento cioè di una coscienza retta operante in buona
fede. Tale coscienza dovrebbe considerarsi
retta anche se erronea, supponendo, ad esempio, una sua “legittima ignoranza
invincibile” della vera dottrina cattolica.
Ma, secondo il Nostro, “il Vaticano II respinge quest’interpretazione,
che si è tentato di imporre successivamente (e che Giovanni XXIII stesso
pensava di voler “lasciare aperta” mediante l’Enciclica Pacem in terris). L’insegnamento del Vaticano II sulla
coscienza morale è chiaro: la coscienza
è retta solamente quando si conforma alle norme oggettive della moralità (Gaudium
et spes, 16)”. Non basta, quindi, la buona fede di una
coscienza, per la salvezza.
Concetto chiarissimo, che forse non caratterizza solo
l’etica cristiana, reperibile nell’art. 16 di Gaudium et spes, dedicato
alla “dignità della coscienza morale” nel Capitolo I di quella Costituzione, a
sua volta dedicato alla “dignità della persona umana”. Ma il problema è, a mio avviso, il seguente:
quali sono le “norme oggettive”, chi stabilisce la loro “oggettività” che in
pratica corrisponde al loro contenuto di verità? In altre parole: siamo sicuri che, per il Concilio, le cose
stiano esattamente così? Che esso abbia
affermato un primato della coscienza moralmente retta in modo coerente alla concezione
cattolica della coscienza morale, come insegnata nei secoli dal Magistero? Secondo me, la cosa è alquanto dubbia, se si
considera l’intero articolo 16, che consta di due paragrafi. Nel primo, citando la Lettera ai Romani
2, 14-16, si ribadisce il concetto che “l’uomo ha in realtà una legge scritta
da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa
egli sarà giudicato”. Questa legge parla
attraverso la voce della coscienza, come si suol dire, che ci incita a fare il
bene e a fuggire il male; essa, precisa il testo, “al momento opportuno risuona
nell’intimità del cuore” (GS, 16.1).
Non dobbiamo però dimenticare che san Paolo si riferisce
qui ai pagani, alla coscienza di un uomo che non abbia ancora conosciuto la
Rivelazione. Costui non sarà dannato,
come erroneamente ritenevano alcuni, se avrà saputo ascoltare la voce di Dio
che parla nella sua coscienza attraverso i dettami della legge naturale, la
quale gli fa vedere la differenza tra il bene e il male. La conoscenza della legge morale per il
cristiano, all’opposto, si arricchisce delle verità di ordine etico rivelate da
Nostro Signore, per esempio nel Discorso della Montagna: anche per noi cattolici deve valere l’ascolto
della voce della coscienza ma il nostro metro di giudizio si basa sempre sulle
verità rivelate dal Signore e insegnate dalla Chiesa, che integrano la legge di
natura intuita dalla nostra coscienza. Che la coscienza cristiana rappresenti
una integrazione di quella naturale, un suo elevamento ed affinamento, e che
essa sia impegnata a conoscere, mantenere, attuare un ordinamento morale che è
di origine esplicitamente sovrannaturale e non invece implicitamente
sovrannaturale (come ovviamente in Rom 2, 14-16, citato); che quindi tale coscienza, quanto alla sua
consapevolezza e al fine cui deve mirare, non possa assolutamente porsi sullo
stesso piano della coscienza di chi non appartiene alla Chiesa, tutto ciò non risulta affatto dal par. 2
dell’art. 16. Anzi, vi si afferma lo
straordinario principio che i cristiani devono ricercare la verità da applicare
per risolvere “numerosi problemi morali” unendosi (in dialogo) con gli altri
uomini al fine di cercare questa verità. Ciò induce il lettore a concludere
che, per il Concilio, la verità, anche quella dell’etica, più che dalla
Rivelazione e dal conseguente insegnamento della Chiesa risulta dalla ricerca
in comune con tutti gli altri uomini, fatta, si capisce, con una “coscienza
retta”, sensibile alla voce della legge naturale e divina in noi. Ma che la verità della religione e della
morale sia da ottenersi con una ricerca della verità, fatta per di più
in comune con tutti gli altri uomini, questo non è un concetto cattolico e a ben vedere
nemmeno un concetto che le filosofie profane dotate di sostanza speculativa
accetterebbero per determinare che cosa debba intendersi con religione e
ordinamento morale.
A me sembra evidente che nel secondo
paragrafo l’art. 16 venga a contraddire ciò che ha appena stabilito nel primo:
se la verità che la coscienza ci svela è quella della legge di natura di
origine divina, questa verità avrà un significato assoluto e non potrà
risultare da una “ricerca della verità” assieme “agli altri uomini”, in
generale, venendo in tal modo la sua origine ad esser impropriamente trasposta
nell’attività dell’uomo. L’introduzione
del concetto della “ricerca della verità” collettiva nella morale apre le porte
ai sincretismi più ampi e in definitiva al relativismo etico.
“Nella fedeltà alla coscienza - recita il discutibile testo
- i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per
risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita
privata quanto in quella sociale. Quanto
più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si
allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme
oggettive della moralità” (GS 16.2).
Di quale “verità” si tratta qui? Evidentemente, di quella concernente la
religione e i costumi. E questa verità
non dovrebbe risultare per il credente già dall’insegnamento infallibile della
Chiesa Cattolica, cioè dalla Tradizione e dal Magistero? Al possesso sicuro della verità sulla fede e
i costumi stabilite nei secoli dal Magistero, il Concilio sostituisce la
“ricerca” della verità come criterio generale, da applicarsi anche all’etica: la
verità, pertanto, come qualcosa di indeterminato che sempre si insegue;
conforme, quest’idea, come sappiamo, allo Spirito del Secolo, che, superficiale
com’è, privilegia la “ricerca”, ovvero l’esperimento, la novità, la
stravaganza, il moto perpetuo, la discussione infinita, il contestare e mettere
in crisi come sistema di vita, insomma quello che Romano Amerio chiamava il mobilismo. Non solo.
Questa “ricerca”, sempre in conformità allo Spirito del Secolo, deve
aver luogo “in unione con gli altri uomini” e quindi anche e soprattutto con
gli acattolici e i non-cristiani cioè con coloro che negano tutte o quasi le
verità insegnate dalla Chiesa Cattolica.
Come può un “ricerca” del genere pervenire a risultati positivi per la
fede e per i credenti, tanto più che essa deve applicarsi anche ai “problemi
morali”? I cristiani, i cattolici, i
“problemi morali” li dovranno d’ora in poi risolvere ecumenicamente, nel
dialogo con gli altri uomini, non in applicazione delle regole
tramandate della loro fede e della loro morale.
Infatti, l’intesa “con gli altri uomini” è affidata alla certezza
dell’esistenza di “norme oggettive della moralità”, che possono esser trovate
in comune da tutti gli uomini cosiddetti di buona volontà, che si affidino
alla loro coscienza morale e attuino (nel dialogo) una ricerca in comune. Ma queste “norme oggettive della moralità”
così concepite non possono essere quelle della morale cristiana: se lo fossero,
la “ricerca” della verità che ci permette di risolvere i problemi morali non si
potrebbe fare con chi non professa la morale cristiana. E del resto il testo in nessun punto afferma
che i “cristiani” hanno il dovere di far valere la morale cristiana, in
teoria e in pratica, nei confronti di chi non appartiene al cristianesimo,
predicandone la superiorità perché di origine divina rivelata e pertanto
unica che porti alla salvezza.
L’insostenibilità di tutto il discorso mi sembra
palese. Non si riesce a comprendere,
tanto per fare un esempio, come possano trovare una norma morale comune per una
sana vita familiare, i cattolici, per i quali l’indissolubilità del matrimonio
è dogma di fede, con i protestanti e gli ortodossi, che invece la negano (per
tacere di chi, come i musulmani, ammette la poligamia, il concubinato, il
ripudio, il matrimonio temporaneo, le spose bambine). E quando mai le “norme oggettive” della
moralità, a cominciare da quelle della morale cattolica, sono state stabilite
in questo modo, nella ricerca comune di tutti? Ma ciò che colpisce maggiormente è la separazione
che si viene a creare della morale dalla Rivelazione: le “norme oggettive”
della moralità non dipendono più dalla Rivelazione ma dalla “coscienza morale”,
che le trova nella ricerca comune “con tutti gli altri uomini”. La contraddittorietà intrinseca a questo
concetto di “norme oggettive” della moralità mi sembra evidente. Le norme “oggettive” vengono in realtà ad esser
poste dalla coscienza e sono quindi “soggettive”. E come possono esprimere un ordine
“oggettivo” norme che dovrebbero essere trovate in comune da uomini che professano
concezioni morali diverse e persino opposte?
E come può costruirsi una vita sociale in comune su queste basi? E difatti, la vita in comune delle nostre
società “multiculturali”, un tempo cattoliche, non sta cadendo sempre più nel
caos morale (e anche civile) più completo?
Gaudium et spes 16.2
fa riferimento, come si è visto, alla “legge scritta da Dio dentro il cuore”
dell’uomo, in corde suo: questa
legge sarebbe quella che si deve evidentemente riscontrare nelle “norme
oggettive” della moralità. Ma come si fa
a riscontrarla se le sue “norme oggettive” devono risultare da una ricerca in
comune, basata sulla supposta “coscienza retta”, condotta da uomini che hanno
la loro propria visione soggettiva della moralità, spesso in contrasto con ciò
che prescrive “la legge scritta da Dio dentro il cuore”? Non è il riconoscimento dell’intelletto
nostro alla Verità Rivelata, è la coscienza (dialogante con l’Essere Supremo e
la natura ed ora con tutti “gli altri”) a far emergere la legge dalle profondità
del “cuore”: la coscienza viene quindi
ad esser di fatto l’autorità che determina alla fine le norme della moralità da
applicarsi, a stabilire il risultato della “ricerca” in comune della
verità. Compare l’ombra di Jean-Jacques
Rousseau, della sua Professione di fede di un Vicario savoiardo,
deistica e pelagiana, incentrata sulla esaltazione della “coscienza”
individuale quale fonte effettiva della morale.
Il testo conciliare precisa, inoltre, che, quando prevale
la coscienza “retta”, gli uomini si allontanano dal “cieco arbitrio”. Ma per resistere al “cieco arbitrio” delle
passioni, delle tentazioni, dei cattivi pensieri e desideri, non occorre forse
l’aiuto della Grazia? Questa è sempre
stata la verità cattolica, basata sulla Tradizione e sulla Scrittura: senza la Grazia, senza l’aiuto dello Spirito
Santo, non riusciamo ad osservare né la morale naturale (della legge “inscritta
nei nostri cuori”) né quella rivelata che la perfeziona. Non per nulla il Signore ha detto: “Senza di Me non potete far nulla”, Gv 15,
5. Ma della Grazia il testo del Concilio
non fa cenno alcuno. La “conformità”
alle norme “oggettive” della legge morale, posta da Dio nei nostri cuori,
dipende ora, anche per i cattolici, esclusivamente dalla “rettitudine” della
coscienza e cioè dall’individuo, immerso nella “ricerca della verità” insieme a
tutti gli altri uomini. Tra l’altro, su
un presupposto del tutto aleatorio ossia che questi “altri” siano
effettivamente interessati alla ricerca della verità, da soli e in comune, cosa
che il sano realismo è costretto a negare: basti pensare ai musulmani, per i
quali ogni possibile verità è già contenuta nel Corano, creduto un “archetipo
celeste” comunicato in arabo, che non si dovrebbe nemmeno tradurre nelle altre
lingue.
E non è estremamente grave che, al modo dei deisti, si sia
concesso di fatto spazio all’idea secondo la quale la “coscienza morale” unisce
gli uomini al di là e al di sopra delle religioni positive? Perché questo è ciò che accade, con la
suddetta ricerca in comune del vero in etica. Grave, dal momento che la
nostra religione positiva è l’unica ad esser stata rivelata dal vero
Dio, la Santissima Monotriade, mentre l’ebraismo ha per noi cattolici
apostatato, non avendo riconosciuto (ancora) il vero Messia, Nostro Signore Gesù
Cristo. Ora, invece, la “coscienza
morale” rettamente intesa unirebbe gli uomini in una “ricerca della verità” da
farsi in comune anche per ciò che riguarda i “problemi” e quindi i valori
morali. Ma questa è appunto una visione
se vogliamo di tipo umanistico della religione, non cattolica;
dell’umanesimo di tipo massonico, che, interpretando il fenomeno religioso in
chiave completamente razionalistica (essendo la Massoneria speculativa
originariamente un prodotto del deismo sviluppatosi in àmbito anglicano,
propalante il principio di tolleranza enunciato qualche decennio prima da un John
Locke), intende come unica e vera religione per l’appunto quel Dio impersonale e anonimo che la
ragione coglierebbe al di là delle religioni positive, storiche, con i loro
(per i massoni) miti superstiziosi e, per conseguenza, concepisce la vera morale come un insieme di
precetti che deve esser sempre la ragione, espressione della nostra libera
coscienza, a determinare.
I valori religiosi
e morali vengono dunque sottoposti, dal Concilio, al criterio della “verità
come ricerca”, della verità in itinere, potremmo dire. Nell’ art. 16 della Gaudium et spes i
Novatori sono dunque riusciti a far filtrare il concetto (non cattolico) che la
“verità”, anche quella da applicare nelle questioni morali pratiche, non la
possediamo ancora (non la si ricava da un Magistero infallibile di venti
secoli) ma deve risultare dallo sforzo comune e comunitario della “coscienza”
di ciascuno. Per questo, circa
sessant’anni di “dialogo”, condotto secondo la logica di suddetta “ricerca”,
non hanno portato a nulla. Anzi, hanno
sortito un effetto nefasto:
inevitabilmente, le “verità” delle quali si sono imbevuti tanti
cattolici dialoganti sono state quelle delle controparti ed i cattolici hanno apostatato
a milioni o sono caduti in massa nell’indifferentismo più completo.
Questo appare dunque un ulteriore grave difetto della Dignitatis
humanae: l’aver posto a fondamento
del concetto della “libertà religiosa” un concetto di verità fondato sui moti e
la sensibilità della coscienza individuale e pertanto privo di un effettivo
nesso con il sovrannaturale, per ciò stesso inapplicabile al concetto di verità
rivelata, come sempre inteso dalla Chiesa.
Secondo il suo insegnamento costante, l’indispensabile adesione del
nostro intelletto alle verità di fede, non bastando quella pur utile del nostro
sentimento, avviene sempre con l’aiuto decisivo dello Spirito Santo e mai per
la sola e pura forza di convinzione di quelle verità o per le sole capacità del
nostro intelletto, che pur deve dare il suo contributo, fin dove può
giungere. Ma nemmeno nell’àmbito delle
conoscenze profane si può dire che la verità si imponga unicamente per la forza
che pur possiede. Anche qui devono
intervenire altri fattori.
6.2.2 Applicazioni
nei testi stessi del Concilio della nozione della verità come ricerca della
verità.
Il tema della ricerca della verità, quale modo di
essere della coscienza, cui deve esser riconosciuta la libertà necessaria alla
ricerca, in nome della dignità dell’uomo, e quindi il concetto,
tipicamente moderno e modernista, della verità come ricerca della verità,
trova molteplice attuazione in vari testi chiave del Vaticano II.
Si dice infatti nel Proemio o art. 1 di Dignitatis
humanae: “ Il sacro Concilio
professa pure che questi doveri [cercare la verità ed aderirvi soprattutto per
ciò che concerne Dio e la sua Chiesa] attingono e vincolano la coscienza degli
uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la
quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore. E poiché la libertà religiosa, che gli esseri
umani esigono nell’adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l’immunità
dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina
tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo.”
(DH 1.3)
Dovere, con quale oggetto?
Si suppone, quello di ricercare la verità sulla “vera religione e
l’unica Chiesa di Cristo”. Nella riaffermazione
di questo “dovere”, il prof. Castellano vede giustamente una “precisazione
dottrinale” indispensabile, che “salva la dottrina tradizionale della Chiesa su
un punto essenziale.” Indubbiamente era questa l’intenzione di
coloro che sono riusciti ad introdurre questa precisazione dottrinale nel
testo. Ma che tale precisazione salvi la
dottrina tradizionale, evitandole le ambiguità della nouvelle théologie infestante
le Commissioni conciliari, ciò è tutto da vedere, a mio avviso. Consideriamo attentamente i testi.
Poiché la verità possiede indubbiamente una sua intrinseca
“forza”, si suppone che, grazie al “dialogo” e alla ricerca “con tutti gli
altri”, le menti dei dialoganti si lascino convincere dalla verità ossia
(concludo) dal fatto dell’esistenza della “vera religione e dell’unica Chiesa
di Cristo”. Questa verità è
tuttavia o g g i a sua volta ambigua, dal momento che
“l’unica Chiesa di Cristo” nel senso del Concilio, non è solamente la
Chiesa cattolica, come sempre ritenuto; è la “Chiesa di Cristo” di cui all’art.
8 della Lumen Gentium e all’art. 3 del Decreto Unitatis redintegratio
sull’ecumenismo, nella quale pertanto sussistono, come elementi dei quali
si serve lo Spirito Santo nell’opera della salvezza, anche le altre religioni
cristiane, pur se in comunione meno piena rispetto a quella della Chiesa
cattolica, perché gravate dai noti errori, peraltro pudicamente taciuti dal
Vaticano II! E quindi: qual è il
contenuto di verità ossia la correttezza dottrinale di un concetto del genere,
che “forza di convinzione” può possedere, se appare in se stesso ambiguo e
dottrinalmente eterodosso? Ma il vero è
che il “dialogo” proposto sulla base del Concilio non vuole convincere per il
suo contenuto di verità, vale a dire in quanto esposizione delle verità di fede
al fine di convertire; non volendo a priori convertire, vuol convincere proprio
per le falsità che contiene, costituite cioè dalle proposizioni di una
versione edulcorata e posticcia della nostra religione (il falso Cristo la cui
misericordia tutti perdona senza pretendere che si convertino a Lui e cambino
vita), messa in piedi per giungere ad iniziative comuni con le altre religioni
e realizzare per tal via l’unità del genere umano: un’utopia malsana,
insensata, penetrata però nei testi del Concilio, a partire dall’art. 1 della Lumen
Gentium.
Ma prescindendo da ciò e restando al concetto della verità.
Si può forse negare che la verità possiede una sua intima, trascinante forza di
convinzione? È certamente vero. La
verità, una volta accertata, ci costringe moralmente con la sua indefettibile
autorità. La legge positiva stessa non
ci costringe all’obbedienza, oltre che per esser un comando in genere fornito
di sanzione, anche per il contenuto di verità che mostra di possedere, quando
lo possiede? In ogni caso, la verità
possiede un’autorità di fronte alla quale non possiamo far valere la
nostra opinione personale: dobbiamo
invece inchinarci ed obbedire. La verità
e l’autorità si implicano a vicenda, nel senso che la verità ha come tale autorità. Non ha però potere, il potere di farsi
accettare, imponendosi senza ulteriori indugi.
Infatti, c h i la riconoscerà l’autorità
della verità, della verità in sé e per sé, nella sua intrinseca
oggettività? Tutti gli uomini, la
riconosceranno, senza eccezione, una volta “soavemente” convinti con validi
ragionamenti?
La riconosceranno soprattutto gli intelletti già disposti
ad accettare la verità. Non quelli, in
genere la maggioranza, che non sono disposti, per i più vari motivi, e che anzi
arrivano persino a respingere la verità proprio perché è la verità. Con la sua sublime predicazione, le profezie,
i miracoli, Nostro Signore ha forse convinto tutto Israele o solo una piccola
parte? San Giovanni scrive che molti
“tra i capi” di Israele credettero in Cristo, “ma non lo confessavano per paura
di esser scacciati dalla sinagoga” ad opera dei Farisei (Gv 12, 42). Avevano capito Chi effettivamente era Gesù di
Nazareth ma le loro passioni e le loro paure facevano velo alle loro volontà,
e, in quelli che non credettero, al loro intelletto. Pensare che la verità possa convincere
semplicemente con la sua propria forza e portare di per sé all’azione, ciò
significa applicare alla maggioranza del genere umano ciò che si è sempre
rivelato esser la caratteristica di una eletta minoranza; significa, quindi,
avere un concetto utopistico della natura umana, come se fosse immune dalle
conseguenze del peccato originale; significa voler negare che le nostre passioni,
i pregiudizi, i vizi, gli interessi fanno spesso aggio sull’intelligenza e la
volontà. E tanto più quanto detto vale
per le verità sovrannaturali della nostra Fede, cui non possiamo accedere senza
l’aiuto dello Spirito Santo poiché esse sono “scandalo per i Giudei e follia
per i Greci” (1 Cr 1, 23). Come ripetevano i Santi Padri, senza amare le
Sacre Scritture è impossibile comprenderle (“non introitur in veritatem,
nisi per charitatem” – Sant’Agostino) e non si amano senza la fede. O,
aggiungo io, senza la sincera propensione a trovare la fede proprio mediante le
Scritture, affidandosi senza remore al loro contenuto di verità, ancora non
evidente, non fatto ancora proprio, da colui che sta iniziando la difficile ricerca,
spesso spiritualmente molto sofferta. Ma
senza la fede, fermamente voluta se non ancora trovata, è impossibile comprendere
le Sacre Scritture: esse restano un
libro chiuso con sette sigilli. Senza la
fede, vuol poi dire senza l’aiuto dello Spirito Santo, della Grazia. Per tal motivo, la Chiesa Cattolica ha sempre
insegnato che il senso delle Scritture (raramente facile a cogliersi) spetta alla Chiesa stessa
stabilirlo, godendo essa sempre dell’aiuto sovrannaturale dello Spirito Santo
(il quale, nei momenti di crisi nei costumi e nella fede, impedisce alle
cattive dottrine di radicarsi e successivamente illumina e sostiene il
Magistero nell’opera di pulizia e
restaurazione).
Il concetto della verità posto dal Concilio a fondamento
dell’intera Dignitatis humanae , che ne costituisce come lo spirito,
appare irrealistico, non conforme alla Tradizione della Chiesa, al suo sano
realismo e al giusto concetto della verità da applicarsi alla comprensione dei
dogmi della fede. E forse non immune da una tinta pelagiana. Dopo averlo visto
all’opera nell’ art. 16 della Gaudium et spes, nella determinazione
assieme agli “altri” dei valori da applicarsi nella morale, vediamo ora come si
applichi nella sfera della libertà religiosa.
Ci illumina l’art. 3 di Dignitatis humanae, dedicato alla
“ricerca della verità in materia religiosa”.
Rifacendosi a san Tommaso, il Concilio ci ricorda che
“norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva e
universale, per mezzo della quale Dio con sapienza e amore ordina, dirige e
governa l’universo e le vie della comunità umana” (DH 3.1). Di questa legge, Dio “rende partecipe
l’essere umano, cosicché l’uomo, sotto la sua guida soavemente provvida, possa
sempre meglio conoscere l’immutabile verità” (DH 3.1). Ma come deve esser concretamente ricercata
“l’immutabile verità”? E quale sarà “l’immutabile verità”? Di sicuro non riguarderà la scienza o la
filosofia o la letteratura bensì quei precetti che concernono Dio e l’ordine da
Lui stabilito: Dio, l’uomo e il mondo, come si diceva una volta. La loro ricerca da parte dell’uomo sarà la
ricerca della presenza della “legge divina” che ordina e regge l’universo e la
“comunità umana”. Ora, dalla Sacra
Scrittura e dal Magistero della Chiesa, dalla teologia ortodossa e dalla
filosofia cristiana, non abbiamo noi già un’idea sufficiente dell’immutabile
verità, sia nelle sue componenti strettamente religiose che in quelle
morali e metafisiche? E di riflesso, sociali
e politiche? Voglio solo dire che
l’immutabile verità “in materia religiosa” invece che come saldo possesso sulla
base del Deposito della Fede, custodito dal Romano Pontefice, possesso che
garantisce tutta una serie di verità fondamentali anche non strettamente
religiose, viene qui presentata e sentita come problema, perché
sottoponibile sempre ad un’ulteriore “ricerca”.
L’art. 3 di Dignitatis humanae si propone, pertanto,
di illustrare i giusti criteri di questa “ricerca”. Questi criteri devono tener conto del valore
assoluto della dignità umana non del valore assoluto che la verità
cattolica possiede intrinsecamente, in quanto sempre fedele nei secoli al
Deposito della Fede, di origine divina, e che dovrebbe esser fatto valere (con
il giusto spirito di carità) nei confronti dei non-cattolici, al fine della
loro conversione.
“La verità, però, va cercata in modo rispondente alla
dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente,
con l’aiuto dell’insegnamento e dell’educazione, per mezzo dello scambio e del
dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni
rivelano agli altri la verità che hanno scoperta [invenerunt] o che
ritengono di aver scoperta”(DH 3.2).
Il principio qui affermato fa consistere la verità “in
materia religiosa” in qualcosa che è “scoperto”, trovato dalla coscienza
individuale nella ricerca “con gli altri”, nello “scambio e nel dialogo”
reciproci, nella messa in comune delle verità “scoperte”, ove gli “altri” [alii]
non sono semplicemente gli altri cattolici, ma gli altri in generale, tutti
gli altri uomini, a qualsiasi credo appartengano. È il medesimo, straordinario concetto di
cui all’art. 16 di Gaudium et spes, applicato ora senza sfumature alla
verità “in materia religiosa”. Una “ricerca” della verità “in materia
religiosa” concepita in questo modo può naturalmente avere ad oggetto la lex
aeterna, la legge morale naturale, ma alla maniera dei deisti: coinvolgendo
tutti (senz’escludere nemmeno i miscredenti – vedi infra) non può avere
ad oggetto la Verità Rivelata, negata dai non-cristiani e in parte dagli
eretici e scismatici, necessariamente invitati alla “ricerca”.
L’art. 3.1 di Dignitatis humanae, come si è visto,
afferma che l’uomo gode della “guida soavemente provvida” da parte di Dio per
conoscere “sempre meglio l’immutabile verità”.
A questo riferimento di carattere generale, il Concilio, nell’indicare
il metodo della ricerca, non avrebbe dovuto far seguire un preciso riferimento
allo Spirito Santo? Detto
altrimenti: non avrebbe dovuto
aggiungere che senza l’aiuto dello Spirito Santo la “libera ricerca” della
verità “nel dialogo” con tutti gli “altri” non sarebbe approdata a nulla? Invece il Concilio tace completamente
dell’indispensabile apporto dello Spirito Santo! E come avrebbe potuto parlarne, nel
propugnare una “ricerca dell’immutabile verità” da farsi in comune con tutti
gli acattolici, i non-cristiani e persino gli atei e i miscredenti? Non è forse vero che anche con gli atei e
miscredenti dobbiamo noi cattolici lavorare “in leale e prudente dialogo”, non
per cercare di convertire (non sia mai) bensì per costruire un mondo migliore,
il che implica evidentemente che bisogna ricercare anche con loro la verità
nella morale e nella religione? Anche
con loro, perché anche loro, in nome della loro umana dignità, hanno diritto
alla libertà di coscienza in religione, anche se la loro è una religione di
segno contrario, è la negazione stessa della legittimità della religione, già
come semplice atteggiamento dello spirito umano.
Anche questa
dottrina della “libera ricerca” della verità in materia religiosa, a mio parere
contraddice nettamente l’insegnamento tradizionale, secondo il quale,
per il cattolico, la verità “in materia religiosa” e nella morale è una verità
rivelata da Dio e mantenuta da due millenni nel Deposito della Fede, custodito
dal Magistero. Data la sua fonte, si tratta
di una verità assolutamente oggettiva che esiste indipendentemente da
noi e che perciò richiede, esige l’assenso del nostro intelletto e della
nostra volontà, assenso possibile solo con l’aiuto determinante della
Grazia. Essa esige di esser riconosciuta,
fatta propria e messa in pratica dal
credente, non di esser da lui “trovata” con le sue sole forze e per di più in
una cosiddetta ricerca in comune con gli altri, cioè con gli eretici,
gli scismatici, i non-cristiani, i miscredenti!
Non ha qui il Concilio messo in comune Cristo e Beliar? Al criterio oggettivo tipico del
cattolicesimo, della verità “in materia religiosa” che è tale innanzitutto perché
rivelata da Dio, si sostituisce quello soggettivo, di origine
protestante e tipico del pensiero moderno e contemporaneo, suo vero e proprio
feticcio, di una verità che è tale perché “trovata” dalla coscienza individuale
nella sua “ricerca”, da sola o in comune “con gli altri”; perché risultato
della “ricerca” del soggetto, individuale e collettiva. In questo modo non si è aperta la porta
all’irruzione nel cattolicesimo di una religiosità individuale anomala; una religiosità della “ricerca”, della
“sperimentazione”, del “cuore”, del “sentimento di umanità” o di “solidarietà”,
della “coscienza”, del “dialogo”, caramellosa e dolciastra, una pappa del
cuore capace di sciogliersi in tutte le pietanze, che ha sostituito la fede
con la sentimentalità, facile preda infine delle seduzioni dei Settari
smercianti tutti i falsi carismi di uno “Spirito” non meglio specificato ?
La presenza dell’idea della “verità come ricerca” la
troviamo, a mio avviso, anche nella definizione di “progresso estrinseco” nella
conoscenza delle verità di fede risultanti dalla “tradizione di origine
apostolica”. E mi sembra che esso costituisca
il sostrato o l’autentico fondamento della nozione di tradizione vivente praticata
dal Magistero dal Concilio in poi e ricavabile dai testi conciliari. Infatti,
l’art. 8.2 della costituzione Dei Verbum sulla rivelazione divina, dedicato alla “sacra
Tradizione”, afferma che la comprensione delle verità di fede mantenute in
questa “tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’
assistenza dello Spirito Santo”. La
Chiesa possiede dunque la verità di origine divina ma (apprendiamo ora) non
ancora nella sua pienezza. Precisa
infatti il testo che: “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente
alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le
parole di Dio [Ecclesia scilicet, volventibus saeculis, ad plenitudinem
divinae veritatis iugiter tendit, donec in ipsa consummentur verba Dei]”
(DV 8.2). Non dice, il testo, che la Chiesa tende incessantemente ad attuare
pienamente in tutto ciò che fa la verità divina che custodisce da secoli
ossia ad esser sempre all’altezza della sua alta e difficile missione
spirituale; dice, invece, che la Chiesa tende continuamente alla pienezza
della verità divina, della verità stessa, rivelataci da Cristo Nostro Signore. Ora, se uno tende “incessantemente” (iugiter)
a possedere una cosa nella sua pienezza, vuol dire che questa “pienezza” ancora
non la possiede, pur tendendovi di continuo.
Ergo: la “verità divina” ovvero la verità rivelata nella sua “pienezza”,
la Chiesa non la possederebbe ancora, dopo venti secoli da che esiste, la
Chiesa. Essa vi “tenderebbe incessantemente”,
senza averla ancora raggiunta, così come la “coscienza morale” dei cattolici
tende alla verità rappresentata dalle “norme oggettive” della morale, nel
dialogo planetario con tutti gli uomini!
Non la possiede già nel Deposito della Fede, conclusosi con la morte
dell’ultimo Apostolo, vi tende con una ricerca continua da effettuarsi ora in
dialogo e comunione con tutto il resto del genere umano! Ma questo non significa, altresì, insinuare
che la Rivelazione non si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, come
invece si è sempre ritenuto?
Il concetto di “verità divina” qui esposto appare in
patente contraddizione con quello del Deposito della Fede, che esprime il
concetto del possesso sicuro della verità rivelata non certo quello del tendere
incessantemente verso di essa. Al
concetto tradizionale della verità rivelata come possesso garantito alla Chiesa
dallo Spirito Santo dalla morte dell’ultimo Apostolo in poi, quindi ben
definito nei suoi dogmi, si sostituisce l’idea della verità come un tendere,
quasi una Sehnsucht alla maniera dei Romantici; quella di un progredire che resta indeterminato,
visto che non ha ancora raggiunto la sua “pienezza”, pur essendo sempre
sorretto (per definizione) dallo Spirito Santo!
E di questa nozione della “pienezza”, dobbiamo forse dire che sia chiara
ed evidente? Né l’impressione fortemente
negativa di questa conclusione del §
8.2 DV può esser mitigata, a mio avviso,
dalla frase finale: “finché in essa vengano a compimento le parole di
Dio.” Che significa? Questo “venire a compimento” vuol forse
riferirsi alla Parousia di Nostro Signore?
Se così fosse, allor il testo conciliare – incredibile dictu –
affermerebbe che la Chiesa tende incessantemente ad una “pienezza della verità
divina” che non riuscirà mai a conseguire in questo mondo (nonostante
l’assistenza dello Spirito Santo), se il compimento di tale “tendere” si avrà
solo “al compimento delle Parole di Dio” cioè alla fine del mondo. Se invece il “venire a compimento delle
parole di Dio” non si riferisce alla Parousia, a cosa si riferisce,
allora? A quale momento nel tempo? In ogni caso l’inciso finale resta oscuro,
degna conclusione dell’ambiguità del testo.
Nel paragrafo finale di DV 8, si traggono le conclusioni
sull’idea di tradizione. Che la
tradizione venga presentata qui anche come fonte della Rivelazione, non si
direbbe proprio, secondo i critici di questo testo: sembra prevalere la nozione
di una tradizione interpretativa (perché si limita a far conoscere e far
comprendere) assai più che costitutiva del dogma. Ma, ai fini del nostro tema, preme rilevare
che la tradizione viene per l’appunto presentata ora come “tradizione
vivente”. Recita infatti il testo: “Le asserzioni dei santi Padri attestano la
vivificante presenza di questa tradizione [Sanctorum Patrum dicta huius
Traditionis vivificam testificantur praesentiam, cuius divitiae etc], le
cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e
che prega. È questa tradizione che fa
conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più
profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre
Scritture” (DV 8.3).
La Tradizione dalla “presenza vivifica”, detta anche
“vivente”, venne appunto opposta da Giovanni Paolo II e dal cardinale Ratzinger
a mons. Lefebvre quando fu dichiarato scomunicato ipso iure per aver
consacrato quattro vescovi (con solo potestà d’Ordine) a Écône
per garantire la sopravvivenza della FSSPX, ma senza mandato perché il Papa gli
aveva imposto di attendere ancora a nominare un successore, dopo mesi di lunghe
ed estenuanti trattative, con Roma che avanzava sempre nuove richieste. Secondo i due augusti critici, l’atto di
indisciplina, era il risultato finale dell’avversione di mons. Lefebvre per la
Messa del Novus Ordo, da lui mai celebrata, e questa avversione derivava,
sempre second loro, dal fatto che mons. Lefebvre non comprendeva il significato
“vivente” della Tradizione. Grazie a
questo significato, e quindi al carattere evolutivo della Tradizione in
relazione all’evoluzione dei tempi, le riforme liturgiche del tutto innovatrici
imposte (contro tutta la Tradizione liturgica) da Paolo VI dovevano
ritenersi in armonia con la Tradizione, se appunto la si intendeva nel suo
significato di “tradizione vivente”.
Ora, mi sembra impossibile negare che questo superficiale, inaccettabile
concetto di “tradizione vivente” costituisca l’applicazione all’idea della
Tradizione della nozione di “verità come ricerca”, come “tendere incessante” e
quindi come evoluzione e sviluppo, nel quale alla fine si può far rientrare di
tutto - anche l’orrendo culto pagano
dell’idolo ligneo detto Pachamama,
celebrato di recente in S. Pietro, alla presenza sorridente di Papa Francesco!
* *
Abbiamo visto che, nel Proemio o art. 1 della Dignitatis
humanae, si afferma che la nuova dottrina sulla libertà religiosa deve
ritenersi coerente con la Tradizione della Chiesa perché “lascia intatta la
dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società
verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (DH, 1.3). Ma che efficacia ha il mantenimento di questo
“dovere”, in armonia, come ha rilevato il prof. Castellano, con la dottrina di
sempre della Chiesa, se l’attuazione di questo “dovere” avviene all’insegna di
un concetto di verità desunto dal pensiero moderno, che non lascia spazio al
concetto stesso di verità rivelata?
Questo “dovere” viene mantenuto nel modo giusto? O non, piuttosto, in modo contraddittorio,
mancandogli il supporto del vero concetto cattolico della verità (adaequatio
rei et intellectus), che si fonda sempre su Aristotele e la Scolastica, ma
anche e soprattutto sul senso comune e la recta ratio: la verità quale
concordanza della cosa indagata con l’intelletto che la sta indagando secondo i
canoni naturali del ragionamento:
principio di causalità, di identità e non contraddizione, di ragion
sufficiente?
Il concetto della verità come ricerca, che tende
incessantemente al suo oggetto senza mai comprenderlo in modo definitivo, ha
una delle sue fonti principali nella filosofia di Maurice Blondel. L’ 1 dicembre del 1924 il Sant’Uffizio
condannò dodici proposizioni estratte dalla “filosofia dell’azione” di Blondel.
La condanna, firmata dal cardinale Merry Del Val, fu pubblicata solo su fonti
cattoliche francesi, secondarie rispetto a quelle vaticane ufficiali, e passò
praticamente inosservata. La
proposizione n. 5 riguardava il concetto della verità come si deduceva dagli
scritti del filosofo francese: “La verità
non si trova in nessun atto particolare dell’intelletto, nel quale si avrebbe
la conformità con l’oggetto, come dicono gli scolastici, ma la verità
è sempre in divenire e consiste nella progressiva adeguazione
dell’intelletto alla vita, ovvero in un certo moto perpetuo tramite il
quale l’intelletto si sforza di spiegare ciò che l’esperienza partorisce o
ciò che l’azione esige; in modo tale, però, che in tutto il progresso non
ci sia nulla di definito e stabile.”
Nella dodicesima proposizione condannata, appariva in modo ancor più
netto l’idea della verità come un tendere incessantemente ad uno stadio
ulteriore del vero, applicata per di più anche al dogma della fede: “Anche dopo aver concepito la fede, l’uomo
non deve riposare nel dogma della religione e aderire ad essa fissamente e
immobilmente, ma deve rimanere sempre ansioso di progredire verso
un’ulteriore verità, con l’evolvere verso nuovi significati, anzi anche correggendo
quel che crede.”
Commentava il P. Réginald Garrigou-Lagrange, dal cui articolo
del 1946 (dianzi citato) ho tratto quanto appena riportato: “A quale vita ci si
riferisce in questa definizione “conformitas mentis et vitae”? Alla vita umana. E come evitare la
proposizione modernista: “La verità non
è immutabile più di quanto non lo sia l’uomo, poiché evolve con lui, in lui e
per lui”(Denz. 2058, [Decr. Lamentabili])? Si comprenderà ora perché Pio X abbia detto a
proposito dei modernisti: “pervertono
la nozione della verità eterna” (Denz. 2080 – [Encl. Pascendi,
proposizione omessa nel Denz.-Schönmetzer, edito dopo il Concilio]). È molto pericoloso affermare [come facevano i
“nuovi teologi”]: “I concetti cambiano,
le affermazioni restano.” Se il concetto
stesso di verità cambia, le affermazioni [dogmatiche] non rimangono più vere
allo stesso modo, né mantengono lo
stesso senso. Quindi il significato
di ciò che è stabilito nei Concili non è più conservato, come si pretende.”
In effetti, Blondel faceva scaturire il concetto stesso di
“rivelazione” dall’esperienza interiore del soggetto, essendo per lui la fede,
anche quella cristiana, “expérience divine en nous” assai più che dato
oggettivo di un Dio che si rivela a noi dall’esterno, con segni sensibili,
oggetto d’esperienza, tramandato da testimoni assolutamente veritieri (Vedi:
2 Pt 1, 16 ss.). In quanto risultato di
questa esperienza, secondo Blondel, “la pratica precede e prepara la credenza”
onde si può dire che sia l’azione a creare la fede. In senso generale, cos’è per lui
l’azione? “È questa sintesi del volere,
del conoscere e dell’essere, questo legame del composto umano che non si può
scindere senza distruggere tutto ciò che si è separato; è il punto preciso nel
quale convergono il mondo del pensiero, il mondo morale e il mondo della
scienza; e se non si uniscono, il tutto crolla.” Definizione ambiziosa, come ognun può vedere,
complessa ed anche complicata, che tuttavia non riesce a risolvere il problema
fondamentale del rapporto tra azione e trascendenza, posto esplicitamente nel
testo, se ambiguo appare alla fine dell’opera il nesso che l’azione dovrebbe
stabilire in modo chiaro tra la natura e il sovrannaturale, nel famoso passo,
tante volte criticato, per la sua oscurità e perché in odor di eresia, per un
cattolico. Cito nell’originale: “Ainsi
il est impossible que l’ordre naturel soit, et impossible qu’il ne soit
pas: c’est la grande épreuve de l’homme
qui, voulant infiniment, voudrait souvent que l’infini ne fût pas. Ainsi, en revanche, il est impossible que
l’ordre surnaturel soit sans l’ordre naturel auquel il est nécessaire, et
impossible qu’il ne soit pas, puisque l’ordre naturel tout entier le garantit
en l’exigeant. Solidarité des conditions
scientifiques, qui se traduit en un système de vérités réelles.” La
distinzione tra la natura e il sovrannaturale sembra qui scomparsa e “l’ordine
naturale” sembra necessario a quello sovrannaturale, contraddicendo pertanto il
principio che Dio non ha bisogno della natura per essere Dio e l’ordine naturale
esiste per un atto del tutto gratuito di Dio.
È evidente come i neomodernisti traessero ispirazione
dalla “filosofia dell’azione” di un Blondel.
Non posso qui dilungarmi su di essa.
Mi corre tuttavia l’obbligo di sottolineare la sostanziale superficialità
del concetto di verità proposto dal filosofo francese, nonostante l’indubbia
originalità e le sottili analisi presenti ne L’Action, e aspetti
positivi come le sue argomentate critiche alla mentalità scientistica al tempo
prevalente. Blondel bolla il
tradizionale concetto aristotelico-tomistico della “adaequatio rei et
intellectus” come “chimerico”. Non
“chimerico” ed invece “realistico” sarebbe, al contrario, quello da lui proposto
: ”concordanza reale di mente e vita”.
Ora, se c’è un concetto che appare “chimerico” nella sua ondivaga
vaghezza è proprio quello di “vita”. Che
vuol dire? Ci si può far rientrare
tutto. La “vita” sarebbe poi soprattuto
“azione”. Ma “azione”, come? Come comportamento razionale secondo princìpi
morali che trascendono l’azione stessa, rispondente ai canoni della causalità,
del principio di identità e non-contraddizione e di ragion sufficiente, oppure
come “slancio vitale” che produce il proprio principio ispiratore per il fatto
stesso del suo “slancio” e quindi sulla base del sentimento, del cuore,
dell’indeterminato accavallarsi delle passioni e degli impulsi? La “filosofia dell’azione”, in quanto fondata
sulla categoria della “vita”, sul “vitalismo”, non appare forse incline all’irrazionalismo? Non rimanda alla “filosofia della vita” di
pensatori come Schleiermacher, al tendere indeterminato e narcisistico dei
Romantici verso l’indefinibile Assoluto?
In Germania, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, fu
articolata in particolare da pensatori come Wilhelm Dilthey, che costruì il
concetto dello spirito come “vita” nel senso di “esperienza vissuta” (Erlebnis)
dalla coscienza individuale, da interpretarsi sempre storicamente e quindi
secondo lo spirito del proprio tempo, la temporalità nella quale il
soggetto si trova sempre immerso. Da ciò
un concetto storicistico della verità, sempre condizionata dal proprio tempo,
le esigenze del quale si riflettono nell’esperienza vissuta, nella “vita”
appunto. Tale concezione risulta
chiaramente incompatibile con l’idea stessa di verità rivelata da Dio, in
quanto tale immutabile e quindi assoluta, perché le verità religiose e morali che essa
annunzia (per esempio, l’indissolubilità del matrimonio, l’etica del Discorso
della Montagna, l’identità del Figlio col Padre, la salvezza per i soli Eletti,
la divisione finale dell’umanità in Eletti e Reprobi) non possono per
definizione esser sottoposte alla temporalità, ossia al giudizio che ne
possa dare, nel tempo storico determinato, la mutevole coscienza
dell’esperienza vissuta del soggetto.
Si può dire che, storicamente, le blondeliane e bergsoniane
filosofie della “vita”, dello “slancio vitale”, dell’”azione” abbiano
rappresentato una reazione inevitabile e per certi aspetti salutare contro i
dogmi angusti e superficiali del positivismo dominante a fine Ottocento,
con il suo scientismo, il suo materialismo, il suo determinismo, la sua
miscredenza venata di irreligiosità, la sua generalizzata aridità spirituale,
che voleva interpretare tutti i nostri moti dell’animo in chiave
fisiologica. Tuttavia, al di là di un’efficace
azione di rottura, cosa offrivano esse di costruttivo, soprattutto per il
cattolico? Assai poco, a ben vedere. Rivalutavano il sentimento, l’interiorità, la
psiche come espressioni insopprimibili della “vita”, ridando in tal modo
dignità al fenomeno religioso, del quale il sentimento del divino è parte
importante anche se non decisiva, ma non rifiutavano il mito positivista del
progresso. Lo rinverdivano in una
spiritualità confusa, narcisistica e sincretistica, incompatibile con il vero
spirito religioso; giustificavano un soggettivismo del sentimento, una
spiritualità che azzerava tutte le religioni, riducendole a mere istanze del
sentimento individuale della “vita”.
Bisogna invece ribadire, all’unisono con P.
Garrigou-Lagrange, che il concetto della verità come adaequatio o concordantia
rei et intellectus ha un valore
universale, immutabile, paradigmatico.
Nella scienza, esso resta fondamentale.
Albert Einstein non ha avuto il premio Nobel per la sua teoria della
relatività ma per la sua teoria (all’epoca innovatrice) sulla trasmissione
della luce in pacchetti di energia o “fotoni”, presenti nel treno d’onde
elettromagnetiche che pur costituisce il raggio di luce. E questo, perché? Perché la sua ipotesi sull’esistenza dei
fotoni è stata sperimentalmente comprovata mentre la teoria della relatività è
rimasta una teoria, per quanto geniale e stimolante anche per chi non la
condivide. È mancata per quest’ultima la
conferma sperimentale ossia “la concordanza tra l’intelletto [l’ipotesi] e la
cosa [qui la realtà esteriore, in una sua determinata configurazione].
Noi applichiamo questo concetto della verità (nel quale la
res, quale essa sia, rappresenta una realtà oggettivamente diversa dal
pensiero che la indaga e della quale esso deve dimostrare l’effettiva natura)
nella vita di tutti i giorni, nella nostra filosofia pratica, nelle
previsioni contenute nei giudizi con i quali ci conduciamo nei negozi
quotidiani, verificate o meno queste previsioni dal loro avverarsi o meno
secondo lo schema causale tipico del modus operandi del nostro intelletto: “se A, allora B”. Secondo uno schema causale che considera
sempre la causa efficiente (chi ha fatto questo, cosa l’ha
prodotto e quando) e quella finale (perché, a qual fine). Non secondo un’idea indeterminata di “vita”,
vale a dire di realtà in continuo e magmatico progresso, posseduta da un
movimento che l’intelletto sia sempre costretto a rincorrere, registrandone
magari a caso ciò che via via vi appare, come se costituisse l’unico vero
da esso conoscibile. E questo falso
concetto della verità, che rende il nostro intelletto del tutto passivo di
fronte alla cosiddetta “vita”, dominata dalle forze dell’azione,
comprese le più oscure, si dovrebbe applicare anche alle verità di origine
sovrannaturale della nostra religione!
Ma valga il vero:
la concezione evolutiva della verità, che la concepisce come un riflesso
della “vita” in (supposta) perenne evoluzione – ci sono certo grandi mutamenti,
da un’epoca all’altra ma i peccati degli uomini e delle donne non sono sempre
gli stessi? – comporta per logica conseguenza il rifiuto di accettare il
carattere immutabile del dogma e quindi, a ben vedere (magari anche
senza rendersene conto) il dogma in quanto tale, dato che per quella
concezione l’esistenza del dogma non impedisce affatto la ricerca costante del
soggetto verso una “verità ulteriore”, che contenga “nuovi significati” e
pertanto la possibilità di continue rettifiche, come si deduce dalla
dodicesima proposizione di Blondel condannata.
I modernisti affermavano, in genere, la loro fede nei dogmi insegnati
dalla Chiesa e tuttavia li volevano mantenere aperti alla possibilità di “nuovi
significati”, da esplorare con il contributo del pensiero moderno, forte delle
sue metodologie scientifiche. Ma un
dogma che ammetta, da parte di teologi e fedeli, la ricerca continua di una
“verità ulteriore” rispetto a quella da esso proclamata come definitiva, non
è più un dogma. I modernisti non sembravano
rendersi conto dell’intima contraddizione nella quale erano caduti,
irrisolvibile per chi aveva fatto causa comune con il soggettivismo e
l’immanentismo del pensiero moderno, nemico del principio di identità e
non-contraddizione, incline, grazie anche agli apporti della fisica
contemporanea, a sostituire il principio causale con il c a s o . Essi si
trovavano anche disarmati di fronte all’empirismo brutale della scienza moderna,
che dovevano subire acriticamente, rifugiandosi nell’irrazionale tipico
delle subculture: si pensi alla popolarità che godeva anche presso di loro
quella torbida manifestazione della “vita” rappresentata dalla teosofia.
Consideriamo, inoltre, un ulteriore aspetto di quest’idea
nuova, di una ricerca della verità nelle cose della morale e della religione da
effettuarsi in modo ecumenico, vale a dire in comunione “con gli altri
uomini”, in nome di un vincolo comune che sarebbe rappresentato dalla
“coscienza morale” di ognuno, che si suppone per principio “retta”. Retta, nella misura in cui sa ascoltare
la voce di Dio che parla nella nostra coscienza attraverso i dettàmi della
legge naturale? Ma la nozione di legge
di natura, che ci comanda anche indipendentemente dalla Rivelazione, tanto
per fare un esempio è sconosciuta ai musulmani, il cui monoteismo
volontaristico all’estremo non la ammette:
esiste solo la volontà di Allah come risulta dal Corano, il Dominatore
dal decreto imperscrutabile, che può fare e disfare a suo piacimento. E
l’ebraismo tradizionale, ortodosso, ammette la legge di natura nel senso della
tradizione occidentale? E i buddisti? Gli indù? Tutte le altre religioni? Il Concilio attribuisce ad ogni uomo, di ogni
religione o ateo, una nozione di coscienza, interiorità sensibile ai comandi
della legge di natura e divina che parli in essa, quando tale nozione
appartiene invece ad una tradizione di pensiero soprattutto occidentale,
classica e poi cristiana, peraltro oscuratasi con il razionalismo del Seicento e Settecento, con il Romanticismo, per
cadere alla fine addirittura in discredito all’epoca del trionfo del
positivismo. A partire dalla Rivoluzione
Francese e soprattutto oggi è stata sostituita da un pessimo surrogato, dai
“diritti umani”, fondati sulla supposta dignità dell’uomo, cioè sulla sua
semplice qualità di essere umano, indipendentemente da ogni possibile nesso con
le leggi della natura e divine, con l’Iddio che l’ha creato.
In realtà non si vede come la “ricerca della verità nel
dialogo con tutti gli altri uomini” in materia morale e religiosa possa portare
ad un risultato coerente in sé e con il Deposito della Fede, e come possa
evitare di risolversi in una gigantesca Torre di Babele per quanto riguarda il
cattolicesimo, la cui gerarchia stoltamente l’ha proposta e messa in pratica. La coscienza dei dialoganti in ricerca
apparterrà, infatti, sempre a membri di religioni assai diverse tra di loro ed
anzi antagoniste, e persino contrapposte in aspetti essenziali delle loro
etiche e visioni religiose, nonché gravate da memorie storiche intessute di
reciproci sanguinosi e feroci conflitti. Com’è possibile che una ricerca
condotta in queste condizioni pervenga alla conoscenza del vero Dio e trovi la
soluzione di problemi morali comuni? Che
vuol dire poi “comuni”? Che problemi
morali “comuni” possiamo avere noi cattolici con i musulmani o i buddisti o gli
animisti, insomma con le molte religioni che esistono sulla faccia della terra? E non ci ha ordinato Nostro Signore Risorto (Mt
28, 18-19) che il nostro dovere di cristiani è quello di convertire (con la
parola e l’esempio) i popoli ai suoi insegnamenti?
Esempi concreti e clamorosi dei disastri provocati nel
cattolicesimo dal metodo della ricerca in comune con i non cattolici in materia
di religione, non mancano di certo. Pensiamo alla recente Dichiarazione di Abu
Dhabi sulla fratellanza umana fatta da Papa Francesco in comune con rabbini
e imam, nel febbraio del 2019, contenente una palese eresia (violazione del
Primo Comandamento) nel dichiarare che la pluralità delle religioni è stata
voluta da Dio. E pensiamo alla già ricordata Dichiarazione congiunta sulla
giustificazione tra cattolici e luterani.
Come si è visto, essa devìa dal chiaro dettato del dogmatico Tridentino
e introduce proposizioni dal taglio luterano ossia eretiche nella dottrina
cattolica sulla giustificazione. Questi sono fatti assolutamente incontournables,
come dicono i francesi. Non si tratta,
quindi, solo di confusione dottrinale e pastorale, già di per sé un fatto
gravissimo ed inaudito. In questa
confusione circolano gravi errori, deviazioni manifeste dal Deposito
della Fede, messe nero su bianco. E lo
stesso Concilio non si è limitato a dare indicazioni ambigue e generiche
di nuove dottrine e liturgie. Ha
dato anche direttive precise in senso contrario ed opposto alla vera
missione della Chiesa, stabilita per sempre dal Signore per i suoi Sacerdoti e
indirettamente per tutti i fedeli, anch’essi milites Christi.
Infatti, nella Dichiarazione Nostra Aetate sulle
relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, degno complemento della Dignitatis
humanae, all’art. 2, dopo aver rappresentato in modo edulcorato e
sostanzialmente falso l’induismo e il buddismo, quasi le loro supposte “ascesi”
e “mistiche” costituissero un modello spirituale valido anche per le esigenze
spirituali dei cattolici; dopo aver ribadito che la Chiesa “annuncia ed è
tenuta ad annunciare il Cristo che è “via, verità e vita” (Gv 14, 6)”,
presentando tuttavia “il Cristo” in questo modo: “ [via] in cui gli uomini
devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato
con se stesso tutte le cose [2 Cor 5, 18-19]”, vale a dire sostituendo alla salvezza
l’ambigua pienezza tipica dell’ecumenismo conciliare (che si è
inventato la partecipazione meno piena di sette e “chiese” non
cattoliche al disegno della salvezza – LG 8, UR 3; giustificata qui in base ad
un’interpretazione a sfondo panteistico, teilhardiano di 2 Cor 5, 18-19); dopo aver presentato l’annuncio cristiano
della salvezza in questo modo impoverito e monco, come esorta i fedeli a
comportarsi nei confronti delle religioni non cristiane? In modo che essi, i seguaci delle altre religioni,
si mantengano e progrediscano nei loro propri valori spirituali!! Come se san Paolo, invece di
convertire i pagani cui si rivolgeva, avesse detto loro: “Certo, io proclamo la
vera religione nella sua pienezza, quella del Cristo, ma voi restate quello che
siete, restate pagani, anche se vi manca la pienezza della vera religione,
continuate ad adorare i vostri dèi, tanto il Cristo ha già riconciliato in se
stesso tutte le cose, natura e uomini!”.
Ma ecco l’infausto passo:
“Essa perciò [la Chiesa] esorta i suoi figli affinché, con
prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle
altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana,
riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e
socio-culturali che si trovano in essi”(NAet 2.5).
Invece di esortare i fedeli cattolici ad un rinnovato
slancio morale e religioso nella propria fede in modo da proporla a modello
capace di convertire il maggior numero possibile di infedeli, il Concilio
esorta i cattolici (esortazioni che sappiamo essere ordini) a “riconoscere,
conservare e far progredire per mezzo del dialogo e della collaborazione” t u t t i
i valori dei seguaci delle altre religioni. Si noti la minuzia con la quale questa
apertura all’altro che si vuole imporre ai cattolici è descritta:
bisogna riconoscere, conservare e far progredire i valori spirituali, morali
e socio-culturali che si trovano in essi, nei seguaci delle altre religioni [illa
bona spiritualia et moralia necnon illos valores socio-culturales, quae apud
eos inveniuntur, agnoscant, sevent et promoveant]. Si noti che il testo non usa il congiuntivo
ma l’indicativo. Mi spiego. Non dice: quei valori che eventualmente si
trovino (quae apud eos inveniantur); dice, invece: quei
valori che si trovano (quae apud eos inveniuntur). È una direttiva precisa: presso ebrei,
maomettani, buddisti, indù, animisti, pagani, si trovano, ci sono valori
(positivi)
che i cattolici hanno il dovere non semplicemente di rispettare, per via della
buona fede che si deve riconoscere, per quanto possibile, ad ogni uomo,
allevato dalla nascita in quella determinata religione, anche se non rivelata –
si va ben oltre il rispetto: questi loro “valori” a noi del tutto estranei
e addirittura in molti casi del tutto ostili, noi cattolici li dobbiamo d’ora
in poi oecumenica mente “riconoscere, conservare e far progredire”. Niente di meno! Questa direttiva impone un grande rispetto
per tutte le altre religioni, come se fossero vere come la nostra. E tanti cattolici ancora oggi si rendono
parte attiva nell’applicarla, specialmente tra il clero. Come stupirsi, allora, quando si legge del
tal parroco che non vuole fare il Presepio per non offendere la sensibilità dei
musulmani, per i quali affermare che Gesù di Nazareth è il Figlio di Dio è una
bestemma punibile con la morte? Non sta lo
sfortunato parroco attuando l’obbligo di “riconoscere, conservare e far
progredire” i valori condivisi dai fedeli delle altre religioni?
Naturalmente, l’aberrante direttiva impartita dall’art.
2.5 della Nostra Aetate cerca di nascondere la propria deforme nudità,
la nudità sfacciata e oscena dell’errore che deliberatamente offende il vero
Dio, dietro la foglia di fico dell’inciso: “sempre rendendo testimonianza alla
fede e alla vita cristiana”. Ma che
significato ha quest'esortazione, venendo posta in un contesto che la
contraddice apertamente? Render
testimonianza della fede e vita cristiana, non ha forse sempre significato,
accanto ad una vita improntata agli insegnamenti di Cristo, render
testimonianza del fatto che questi insegnamenti costituiscono l’unica via
della salvezza, che, quindi, il cattolicesimo contiene l’unica e vera
Rivelazione e non può esser messo sullo stesso piano delle altre
religioni? La “fede e la vita cristiana”
sono sempre state concepite e per la nostra santificazione personale e per la
conversione degli infedeli. Se ora,
all’opposto, devon concorrere, mediante il “dialogo”, a riconoscere, mantenere
e addirittura “far progredire” i valori nei quali credono coloro che dovrebbero
convertirsi, allora cosa resta dell’esigenza della conversione del mondo a
Cristo? E dell’autentica nozione di “testimonianza” della “fede e vita cristiana”
con l’esempio della propria vita? La
verità è una sola: l’autentica testimonianza di fede e vita cristiana rende a
priori impossibile la ricerca comune della verità con gli infedeli, il “dialogo”
e insomma l’ecumenismo sincretistico e millenaristico che il Vaticano II ha
estratto dal cappello a cilindro degli imbonitori di eresie.
L’assunto della verità come ricerca da effettuarsi
con tutti gli adepti delle altre religioni anche nella morale e nella
religione, sulla base di una supposta retta coscienza sensibile alla legge
di natura, assunto ben presente e ramificato nei testi del Concilio, come
credo di aver dimostrato, fa apparire un vero e proprio rovesciamento della
missione dei cattolici nei confronti degli infedeli – la quale ora (lo
vediamo ogni giorno) consiste di fatto nell’alacre impegno a far progredire le
altre religioni, anche a danno della propria, convinti di poter realizzare con
loro una sorta di universale “fratellanza umana”, in armonia anche con
l’ambiente, forma suprema (in realtà falsa) di “riconciliazione” tra Dio e il
mondo, che porterebbe alla fine la
Chiesa a dissolversi nell’Umanità. Si
realizzerebbe così “il programma massimo” dei modernisti d’antan: il superamento della Chiesa nel genere
umano, al posto della conversione del genere umano a Cristo.
“Lo scopo vero del modernismo non è, infatti, una riforma
della Chiesa cattolica, utopia irrealizzabile ed impossibile; ma uno sforzo per
risolvere tutti gli elementi vivi del presente cattolicismo nel generale
progresso della società umana. E perciò,
se il programma minimo, a dir cosí, dei moderni protestanti e cattolici è lo
scioglimento delle chiese separate in una sola Chiesa cristiana, il loro
programma massimo non può essere che la risoluzione della Chiesa cristiana
nella democrazia sociale universale, tendente a realizzare una forma ulteriore
e piú vasta di cattolicismo.”
7. Come l’idea
della “dignità dell’uomo”, diventata il valore supremo nei sistemi giuridici
occidentali, sia stata applicata in modo anomalo e si sia rivelata inane nella
difesa dei princì etici fondamentali, venendo anzi usata per distruggerli.
L’ultimo saggio del volume documenta brillantemente un
risvolto giuridico dall’enorme importanza pratica: come e qualmente l’idea della dignità
dell’uomo, che impone il riconoscimento dei “diritti umani”, sia venuta inopinatamente
(e, bisogna dire, impropriamente) a costituire il fondamento stesso degli
ordinamenti giuridici di tipo occidentale. I riflessi di questo mutamento
sulla pratica sono sotto gli occhi di tutti, se solo si pensa alla marea di
“diritti umani” le cui violazioni, vere o presunte, vengono ogni anno
“compensate” nei tribunali di tutto il mondo.
Queste violazioni vengono in genere condannate come negazioni della “dignità” che per nascita spetta ad ogni uomo
e donna. Nello stesso tempo, l’Autore fa
vedere come tale nozione sia stata “strumentalizzata” dal diritto
contemporaneo, che l’avrebbe resa in sostanza una nozione vaga, nella misura in
cui vi si può far rientrare di tutto, anche concetti o valori tra loro contrapposti. La sua analisi è, a mio avviso, di estremo
interesse perché mostra nei fatti, con gli esempi concreti forniti da sentenze
e leggi, l’applicazione confusa, contraddittoria e nello stesso tempo insufficiente
di questo principio della dignità dell’uomo, insufficiente a tutelare
chi dovrebbe essere effettivamente tutelato, come ad esempio i nascituri.
In apertura, l’Autore ribadisce a sua volta che nel
pensiero politico-giuridico classico (Aristotele ma soprattutto san Tommaso) la
dignità dell’uomo non è intesa come un valore assoluto. Aristotele la assimila piuttosto alla nozione
di “merito”, il che del resto è perfettamente logico, in relazione alla giustizia
distributiva, costituita dalla “giusta ripartizione di incarichi e onori
nella Civitas”: essi dovrebbero esser
attribuiti esclusivamente sulla base del merito individuale. Per l’Aquinate la “dignità della persona”
deve esser presa in considerazione sia per la giustizia distributiva che per
quella commutativa, consistente “nella giusta ripartizione dei beni nei
rapporti tra i cittadini.” Ciò significa
che gli attentati alla reputazione di una persona (calunnie, maldicenze, etc)
sono attentati alla sua dignità e quindi da equipararsi a “un furto che sia
compiuto nei confronti dei beni materiali.”
Sul piano politico, le cariche devono esser attribuite guardando alle
“attitudini concrete” dei singoli ad esercitarle. Perciò la dignità della persona, in
quest’ottica, non è un valore assoluto dalle precise conseguenze sul piano giuridico-politico,
quanto piuttosto “un elemento concreto, relativo a ciascuna persona, da
prendersi ovviamente in considerazione sia per organizzare la Città secondo
giustizia che per rendere a ciascuno il suo.”
È comprensibile che siffatta concezione della “dignità dell’uomo”
sia stata lasciata cadere dal pensiero moderno, ispiratosi ad un “razionalismo
astratto”, quello appunto del giusnaturalismo moderno, caratterizzato da
una concezione razionalistica della legge di natura. Durante l’iniziale, infuocato periodo della
Rivoluzione Francese, troviamo solo accenni alla “dignità dell’uomo” nei
dibattiti assembleari di quegli anni, senza che il concetto penetri nelle Dichiarazioni
rivoluzionarie dei diritti. Nei
dibattiti della prima metà dell’Ottocento intorno all’abolizione della
schiavitù, si disse e scrisse che “l’esclavage des nègres est une injure à la
dignité humaine”. La schiavitù fu
abolita il 27 aprile 1848, durante la II Repubblica, che ebbe breve vita dopo
la Rivoluzione del 1848. Nel Preambolo
del Decreto di abolizione si scriveva:
“Visto che la schiavitù attenta alla dignità dell’uomo: che distrugge il
libero arbitrio dell’uomo, sopprimendo il principio naturale del diritto e del
dovere; che è flagrante violazione del dogma repubblicano: Libertà,
Uguaglianza, Fraternità…”. Ma perché l’uomo possiede una innata
dignità? Evidentemente, perché “è nato
libero e possiede per natura diritti e doveri”.
La dignità, in quanto appartenente alla natura dell’uomo così
concepita (con l’eliminazione radicale del concetto del peccato originale),
risulta essere come valore l’identicum della libertà dell’uomo,
ragion per cui il suo riconoscimento non può aver luogo che nel “regime
repubblicano”, con i suoi tre famosi dogmi (Libertà, uguaglianza, fraternità), ossia in una forma di Stato di tipo
democratico-repubblicano perché unica forma che manterrebbe o ripristinerebbe
gli uomini nella loro libertà (e
uguaglianza) originaria.
Ma in questo modo, postilla il prof. Huten, già da
quest’epoca “la dignità ‘moderna’ diventa un concetto vuoto il cui contenuto e
le cui conseguenze [sul piano pratico] possono variare indefinitamente, a
capriccio del legislatore.” Il contenuto verrà infatti ad esser riempito
via via dai “diritti” che il legislatore o il giudice riconosceranno alla libertà
della quale si fa credito all’ uomo in quanto tale. La dimostrazione di questo assunto costituisce
il tema principale del saggio del prof. Huten. L’utilizzo della nozione della “dignità
dell’uomo” rimase tuttavia episodico nella legislazione, anche durante
l’ultralaica Terza Repubblica, che rinviò solo saltuariamente alla nozione
della “eminente dignità della persona umana”, utilizzando una fraseologia di
origine kantiana, introdotta in Francia dal filosofo Henri Michel alla fine
dell’Ottocento, in pieno positivismo, in un testo di filosofia della politica
che ebbe fortuna: L’idée de l’État,
del 1896.
Come sappiamo (vedi supra, § 2),
è solo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi che la nozione della
dignità della persona comincia ad imporsi nel diritto e in particolare nel
diritto internazionale, a cominciare dal preambolo della Carta delle Nazione
Unite, adottata a San Francisco il 26 giugno 1945. In questo testo i popoli delle Nazioni Unite
affermano di voler “proclamare nuovamente la loro fede nei diritti fondamentali
dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei
diritti di uomini e donne, così come
delle nazioni, grandi e piccole”. Come mai la “dignità della persona umana”
compare tra le finalità delle Nazioni Unite?
Spiega l’Autore: influiva l’accordo
in corso all’epoca tra le Potenze sul significato da conferire al Processo di
Norimberga (nov. 1945 - ott. 1946) contro i criminali di guerra nazisti,
accusati di “crimini contro l’umanità”.
Infatti, “l’obbligo di rispettare la dignità della persona costituisce
il fondamento legale di questo nuovo tipo di crimine, creato ex novo per
sanzionare delitti di un’ampiezza ineguagliata”. Ma, in questo contesto, “la dignità della
persona umana è solo un fine da perseguire accanto ad altri.” Come è allora avvenuto il salto di qualità,
per cui, nei testi successivi, la dignità “è diventata la “fonte” dei diritti
fondamentali”? La “fonte” per
eccellenza. Aggiungo: una sorta di Grundnorm
o “norma fondamentale”, che conferisce validità all’intero sistema giuridico.
La svolta cominciò con la
Dichiarazione dei popoli americani del 2 maggio 1948 sui diritti
e doveri dell’uomo. Vi si leggeva: “I popoli americani hanno innalzato la
persona umana alla sua dignità […] I diritti essenziali dell’uomo non hanno la
loro origine nel fatto che un individuo è membro di uno Stato determinato bensì
riposano innanzitutto sugli attributi della persona umana”. Una simile
Dichiarazione, postilla il prof. Huten, dimostra un’innegabile influenza di
Maritain, allo stesso modo della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo emanata dall’ Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10
dicembre 1948, cui contribuirono anche altre personalità. Questa famosa dichiarazione afferma che: “la dignità inerente a tutti i membri della
famiglia umana […] costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e
della pace nel mondo.“ Questa formula
riapparirà in altri Patti e Convenzioni di diritto internazionale, negli anni
Sessanta del secolo scorso.
Pertanto: “a partire da
quest’epoca la dignità è dunque presentata nel diritto internazionale come una
sorta di ‘principio base’ chiamato a fornire una nuova coerenza ai diversi
ordinamenti giuridici.”
Dal punto di vista ideologico, questo sviluppo si
comprende bene nel contesto del Secondo Dopoguerra: “come le dichiarazioni del XVIII secolo
avevano proclamato i diritti dell’uomo contro “il dispostismo”, così i testi
del Secondo Dopoguerra proclamavano la dignità umana contro le atrocità iniziali
del totalitarismo. I cristiani simili a
Jacques Maritain hanno senza dubbio visto in ciò l’occasione per inaugurare una
“terza via” vagamente cristiana tra l’individualismo liberale e l’ateismo
marxista. Ma circa settant’anni dopo,
dal punto di vista della pratica giuridica, il tentativo appare chiaramente
fallito. Integrata nella retorica
giusnaturalista odierna, la dignità della persona umana è diventata una nozione
inconsistente al pari degli stessi diritti fondamentali. Fatta propria da correnti
filosofiche e politiche molto diverse, la dignità si presta a divenir l’oggetto
di molteplici interpretazioni, cosa che rende particolarmente aleatoria la sua
applicazione giurisdizionale. La sua
definizione e le sue implicazioni giuridiche concrete sono dunque lasciate al
libero apprezzamento del legislatore e della giurisprudenza, i cui arbitrati
continuano a variare in base a compromessi dettati dall’opportunità.”
Dato il suo multiforme contenuto, il principio della dignità
dell’uomo – prosegue il Nostro – è assente assente da molti importanti Documenti del
diritto internazionale e costituzionale. Manca dalla Convenzione europea per
la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a
Londra nel 1950, dalla Costituzione italiana del 1948 e da altre. Unica eccezione, la tedesca Legge
fondamentale del 23 maggio 1949, cioè l’attuale Costituzione tedesca, che
all’art. 1 afferma: “la dignità dell’essere umano è intangibile […] pertanto il
popolo tedesco riconosce all’essere umano diritti inviolabili e inalienabili”. L’eccezione tedesca si spiega soprattutto con
il desiderio di distanziarsi il più possibile dal modello giuridico nazista,
mettendo la “dignità umana” al punto più alto nella gerarchia dei valori
riconosciuti dall’ordinamento, sottolinea il prof. Huten. L’impostazione della costituzione tedesca ha
servito di modello alle costituzioni di diversi Paesi, soprattutto a quelli che
voltavano pagina rispetto ad un’esperienza di regime autoritario, come la
Spagna, nel 1978, o i Paesi dell’ex blocco comunista sovietico. Forse proprio in conseguenza dell’implosione
e formale scomparsa dell’Unione Sovietica, che rappresentava in Occidente il
tipo per così dire classico di regime totalitario, si è avuta, dalla
metà degli anni Novanta del secolo scorso, una vera e propria “frenesia”
nell’uso del principio della “dignità umana” da parte di legislatori e Alte
Corti di Giustizia. Infatti, essi “si
sono bruscamente impadroniti della dignità umana, iniziando a farle episodicamente
produrre effetti giuridici negli àmbiti
più diversi”.
Guardando alla Francia, l’Autore afferma che il
legislatore l’ha introdotta in un numero crescente di leggi, con l’appoggio di
una parte della dottrina mentre l’altra parte criticava l’incoerenza e le potenzialità
“liberticide” del principio della dignità. Di estremo interesse è, pertanto, la
casistica riportata, ricavata dalle decisioni del Consiglio di Stato, del
Consiglio Costituzionale, da norme dei codici penale e civile; dalle sentenze
della Corte Europea dei diritti dell’uomo e delle Alte Corti di singoli Paesi.
Riporto qui una sintesi.
In uno spettacolo
probabilmente avvenuto nell’ambiente del Circo Equestre, un nano,
opportunamente equipaggiato, proponeva di sua iniziativa a chi volesse tra il
pubblico di gettarlo il più lontano possibile. Il Consiglio di Stato, in seduta
solenne, il 27 ottobre 1995, dichiarò legittima la proibizione del “lancio del
nano”, ancorché consenziente, in nome della “dignità dell’uomo”, offesa nella
persona del nano sottopostosi a questi “lanci”.
Ma una decisione del genere, fu opposto, non attenta alla libertà
individuale di scegliere una professione, e oltretutto senza danneggiare in
alcun modo i terzi? E quindi, “sino a che punto le libertà individuali
possono essere limitate in nome della dignità?”. Osserva inoltre il prof. Huten che il
principio della “dignità” offesa da uno spettacolo pubblico è in séguito stato
applicato una sola volta dal Consiglio di Stato, nel 2014. Eppure, dal 1995 in poi, numerosi sono stati
“gli spettacoli autorizzati il cui carattere scandaloso avrebbe potuto
legittimamente giustificarne la proibizione.”
Ma le dozzine di ricorsi presentati contro certi osceni films furono
rigettati o al massimo portarono a classificare le opere contestate in
categorie adatte ad un pubblico più maturo, cosa del tutto insufficiente (e
spesso puramente teorica, aggiungo).
Conclude quindi giustamente l’Autore:
“La solenne consacrazione del principio della dignità si è dunque
dimostrata largamente inefficace nella giurisprudenza delle corti
amministrative. Essa non ha in alcun
modo rimesso in questione la concezione liberale della moralità pubblica, il
cui contenuto deve adattarsi ai dicta della legge e della
giurisprudenza, che si suppone si adattino all’evoluzione della società.”
Il Consiglio Costituzionale, organo simile alla nostra
Corte Costituzionale, ha riconosciuto come principio costituzionale “la
salvaguardia della dignità della persona umana contro ogni forma di
asservimento e degradazione”, il 27 luglio 1994, relativamente a una Legge
concernente il rispetto del corpo umano.
Tuttavia ha sempre evitato di affermare che tale principio viene violato
dalle molteplici “manipolazioni di embrioni umani autorizzate dalla legge
(concezione, impianto, conservazione, distruzione, esperimenti, etc)”,
nascondendosi, per così dire, dietro l’autorità del legislatore ordinario, il
quale n o n avrebbe “misconosciuto”, in
tutta questa normativa, “il principio della dignità dell’uomo” (decisione del
2013). Ma quest’atteggiamento
dimostra inequivocabilmente lo scacco
completo del principio della dignità, visto che non viene applicato per
impedire che un essere umano sia “concepito, utilizzato come cavia per gli
esperimenti più improbabili ed infine distrutto”. Che l’applicazione dello strombazzato
principio di dignità si riduca poi ad una sinistra farsa, lo dimostra la
decisione che dichiara costituzionale la norma permettente alla donna di
“interrompere la gravidanza” entro dodici settimane dal concepimento e non più
entro dieci, come in precedenza. Tale
norma, secondo il Consiglio, “non spezzerebbe l’equilibrio che il rispetto
della Costituzione impone tra la salvaguardia della dignità della persona umana
contro ogni forma di avvilimento e la libertà concessa alla donna, derivante
dall’art. 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.” Commento del prof. Huten:
“in altre parole, per le prime dodici settimane dall’inizio della
gravidanza, la libertà della donna prevale sulla vita del nascituro. Il principio della dignità è solamente una
norma costituzionale tra tante altre, la cui efficacia dipende dalla
conciliazione [tra le varie istanze pratiche] messa in opera dal legislatore
sotto il controllo timorato del giudice. È pertanto il legislatore il soggetto
che, in base ai rapporti di forza ideologici, ha il compito di definire
provvisoriamente che cos’è la dignità della persona umana. Un tale esito dimostra l’inutilità del principio
costituzionale della dignità: a che serve una norma costituzionale la cui
portata dipende solo dalla legge?”. In effetti, un principio costituzionale, se è
veramente tale, incorporato cioè nella legge fondamentale dell’ordinamento,
dovrebbe imporsi senza discussione alla legge votata da un Parlamento, che è la
norma emessa dal legislatore ordinario, quando quest’ultima sembra violare un
principio costituzionale.
Il principio della dignità , rimasto inutilizzato
nella difesa della moralità pubblica e del diritto alla vita dei nascituri, è
stato invece applicato numerose volte in vari e disparati campi, rivelandosi “une
sorte de ‘chapeau’ susceptible de coiffer n’importe quelle législation, quelle
que soit la conception (ou l’absence de conception) qui le sous-tend”. E spesso tale principio è stato introdotto in
normative preesistenti, senza modificarne in alcun modo il contenuto: libertà
di comunicazione nei media, pubblicazioni destinate alla gioventù, infrazioni
penali alla libertà di stampa, lotta contro la povertà, regolamentazioni
edilizie in relazione all’ambiente, legge del 2013 sull’uguaglianza reale tra
l’uomo e la donna etc. “Da tutto questo coacervo non risulta affatto una
visione d’insieme, che dimostri il carattere “fondamentale” della dignità
umana.” Il principio è stato applicato anche a
situazioni che configurano infrazioni penali catalogate come “violazioni della
dignità della persona”. Quali, ad
esempio, la “forzata dissimulazione del volto” (forse quella imposta dal velo
musulmano), lo sfruttamento degli ambulanti, la prostituzione, il prossenetismo,
il “bizutage” (le cerimonie goliardiche di “iniziazione” delle matricole, da
sempre piene di oscene scurrilità).
Osserva il Nostro: non si vede
come il principio della dignità possa effettivamente unificare in un’unica e
coerente categoria tutte queste diverse forme di illecito e perché altre forme di “violazione
della persona” non siano ricomprese nella medesima fattispecie. Tra l’altro, reati come la prostituzione e il
prossenetismo, sono sempre stati puniti senza bisogno di ricorrere alla nozione
della dignità.
Nel Codice Civile, una legge del 1994 introduce il
principio all’art. 16, proclamando in modo generale che “il primato della
persona proibisce ogni attacco alla sua dignità e garantisce il rispetto
dell’essere umano sin dall’inizio della sua esistenza.” Ma il proclama è
rimasto più che altro teorico: norme che sembrano applicarlo risultano in
realtà dalla legislazione sul rispetto del corpo umano, come ad esempio quelle
che impongono il dovuto rispetto ai resti mortali di persone decedute.
Il quadro offerto dalle giurisdizioni internazionali o
europee non è certamente migliore. In
esse “prevale il più ampio relativismo”. La Corte europea dei diritti umani
applica la Convenzione europea dei diritti umani. Ma come la applica? In maniera molto elastica, commisurando i
princìpi all’evoluzione del costume, del modo di sentire nella società
europea. In tal modo essa mette in opera
un cosiddetto droit vivant, in continua evoluzione, sì da ampliare la
portata dei diritti e delle libertà riconosciute nella Convenzione. Questo metodo, osservo, non ricorda il modo
di procedere della Chiesa “riformata” dal Vaticano II, con la sua idea di una
“tradizione vivente”(vedi supra § 6.2)
capace di assorbire e promuovere le più radicali novità?
Il “diritto vivente” escogitato e applicato dalla Corte
mostra i seguenti tratti, in relazione al nostro tema. La Convenzione avrebbe stabilito come suo
valore essenziale “il rispetto della dignità e della libertà dell’uomo”, pur
senza dirlo esplicitamente. Questo rispetto della dignità la Corte lo
impone in materia di diritto penitenziario, già regolato peraltro dalla
Convenzione in modo esplicito. Ma poi lo
ha esteso alla protezione della identità sessuale scelta dall’individuo
convinto di poter cambiare sesso! Ha,
infatti, sentenziato: “si può
ragionevolmente esigere dalla società che essa accetti determinati inconvenienti
per permettere a delle persone di vivere nella dignità e nel rispetto, in modo
conforme all’identità sessuale scelta da esse a prezzo di grandi sofferenze.” In tal modo, commenta l’Autore, “la Corte
esige che gli Stati modifichino lo stato civile di persone che pretendono aver
cambiato di sesso. Ma così la Corte fa della dignità umana un’insegna che
chiama a raccolta tutti coloro che vogliono imporre agli Stati le loro rivendicazioni, non
conta quanto immorali, anche se ciò comporti degli “inconvenienti”.
Il principio della dignità è dunque invocato per sostenere
un punto vitale per il programma lgbt.
Quando però si è trattato di stabilire se l’aborto di Stato violasse o
meno la Convenzione europea dei diritti umani, la Corte anziché invocarlo per
stabilirne la violazione da parte degli Stati abortisti, si è defilata con il
pretesto che “non esiste alcun consenso in Europa sulla definizione scientifica
e giuridica della vita” (8 luglio 2004).
Ragion per cui, dovevano essere gli Stati a decidere in materia. E negli
altri campi nei quali “i princìpi elementari della legge naturale sono irrisi
(‘matrimonio’ tra persone dello stesso sesso, eutanasia, discorsi o
comportamenti scandalosi, etc.) ugualmete la Corte si è astenuta dall’invocare
la dignità della persona umana”. La “dignità della
persona” non è invocata dove dovrebbe esserlo, quanto per l’appunto si tratta
di difendere principi della legge naturale e divina, violati dalla legislazione
anticristiana e, aggiungo, antiumana che autorizza l’aborto volontario,
il c.d. cambiamento di sesso, il “matrimonio” tra omosessuali e altre ben note
perversioni. È all’opposto invocata per legittimare pratiche immorali o
contronatura che di per se stesse offendono in modo grave la dignità dell’uomo
e rendono anzi indegni coloro che le pongono in essere. Attuano pertanto queste Corti un vero e
proprio rovesciamento dei valori, una Umwälzung
radicale, senza sfumature, come se avessero completamente smarrito il senso
stesso del diritto.
Per quanto riguarda le Corti nazionali, l’Autore si
limita ad esempi tratti dalle supreme Corti tedesche e italiane, con un cenno a
quelle spagnole. Il quadro è assai simile:
sconfortante. In Germania, l’applicazione del principio
della dignità dell’uomo, essendo stato gratificato, come si è visto, di un
“rango supremo” nella scala dei valori protetti dall’ordinamento, viene “invocato
in quasi tutte le cause, anche le più modeste.”
Ci sono casi che cadono addirittura nel ridicolo: l’utente che considera
un’offesa alla dignità dell’uomo il fatto che nelle fatture telefoniche una “ö”
presente nel suo cognome sia scritta “oe”, pratica peraltro conforme all’uso; i
soldati che la invocano per rifiutarsi di salutare i superiori, come da
regolamento; gli avvocati che l’invocano per rifiutarsi di portare la toga in
tribunale; etc. Al punto che c’è chi si chiede se questo
principio tanto esaltato serva veramente a qualcosa, se insomma sia
effettivamente rilevante dal punto di vista giuridico, nella determinazione dei
risultati delle cause giudiziarie. Ma
anche in Germania, del resto, quando si è trattato di questioni veramente
vitali, coinvolgenti la legge naturale e divina, la Corte Costituzionale non ha
avuto il coraggio di imporre il principio della dignità come la “norma
assoluta” che è, secondo la Costituzione.
E così la Corte ha sentenziato, nel 1975, che “la dignità della persona
riconosciuta all’embrione umano, a partire dalla nidazione dell’ovulo ossia
quattordici giorni dopo il concepimento, non si oppone all’aborto.” La Corte, prosegue il Nostro, non avrebbe
dovuto far prevalere la dignità dell’embrione su ogni altra considerazione? Ma
è evidente che si è voluto far prevalere la “dignità della madre” su quella
dell’embrione. Aggiungo:
una prevalenza che mostra un modo sicuramente aberrante di concepire la
“dignità della madre”.
In Italia, infine, la Corte Costituzionale ha solennemente
riconosciusto nel 1992 la dignità della persona umana quale “valore della
Costituzione alla base dei diritti della persona umana”. Si tratterebbe addirittura di una norma
“sovracostituzionale”. Però questa norma
per così dire soprasostanziale deve essere, more solito, “interpretata e
applicata alla luce dell’evoluzione della società. Pertanto la dignità [così intesa] è
suscettibile di “generare” senza posa nuovi diritti, ad esempio nel campo della
libertà sessuale, il cui contenuto
evolve a seconda dei movimenti di opinione.” Il meccanismo è dunque il medesimo, in tutta
Europa e non solo: si stabilisce la dignità
dell’uomo come valore assoluto, inerente all’uomo in quanto tale, per il
solo fatto di esistere. Tale valore deve
esser riconosciuto come principio costituzionale ed applicato in quanto tale ma
secondo i princìpi e le logiche del c.d. “diritto vivente”, ossia di
un’attività normativa, ordinaria e straordinaria, che, anche per ciò che
riguarda le materie eticamente rilevanti, adatta continuamente il diritto al
mutevole costume della società, alla sua cosiddeteta “evoluzione”, anche quando
si tratti di un’evidente “involuzione” verso comportamenti lascivi, deviati e
corrotti.
In Ispagna, la situazione è simile, anche se l’uso del
principio di “dignità dell’uomo” è più limitato, quanto alla forma.
Di fronte a questi dati incontrovertibili, a questo
terribile quadro, non si possono che condividere le riflessioni finali del
prof. Huten sul sostanziale fallimento del principio della dignità, in
quanto principio capace di influenzare concretamente, positivamente il diritto,
almeno in quel minimo etico richiesto dalla recta ratio, nella
fedeltà ai princìpi della morale naturale prima ancora che a quella cristiana.
Il fallimento è duplice. In primo luogo, il principio non è stato
affatto capace di proteggere i più deboli, compito per il quale era in sostanza
nato. Infatti: “Questo principio aveva come scopo quello di
proteggere le persone, specie le più vulnerabili, contro tutte le forme di
violenza, ad esempio come quelle praticate dal regime nazista: sterminio di massa, trattamenti disumani o
degradanti, esperimenti su cavie umane, eugenismo, etc. Certo, la maggioranza degli Stati che hanno
riconosciuto il principio della dignità non hanno riprodotto queste atrocità. Ma allorché i “progressi” della medicina
hanno reso possibile una contraccezione “efficace” nonché aborti “in sicurezza”;
e hanno servito, questi “progressi”, di pretesto agli esperimenti sugli
embrioni o sui feti umani, il principio della dignità si è mostrato
sistematicamente incapace di contrapporsi a queste evoluzioni: i nascituri
indesiderati vengono sterminati in modo massiccio e possono esser oggetto dei
peggiori esperimenti, in nome della ricerca scientifica. I nascituri affetti da una forma di handicap
sono eliminati in modo quasi sistematico mentre la selezione embrionale
praticata nell’àmbito delle tecniche di procreazione assistita rappresenta incontestabilmente
una forma di eugenismo.”
Alla mancata difesa
degli indifesi, alla sostanziale inanità del principio della dignità
dell’uomo, si è aggiunta, ben peggiore addirittura, la sua utilizzazione per
sovvertire l’ordine morale. E questo
è il secondo fallimento. Sottolinea infatti il Nostro: “ tale principio è stato sempre più strumentalizzato
da individui e da gruppi di pressione per costringere gli Stati a riconoscere i
loro “cambiamenti di sesso”, i loro “orientamenti sessuali”, i loro [perversi] “tipi di famiglia” e ben
presto [a riconoscere] senza dubbio la loro “identità di genere”. In nome della
loro dignità le persone sofferenti di gravi malattie, in particolare gli
anziani, possono richiedere di essere sottoposte ad eutanasia in un numero
crescente di Stati.” Con apparente paradosso, il principio della
dignità ha finito per produrre risultati “esattamente opposti a quelli per i
quali era stato in origine proclamato.” Ciò è accaduto perché è stato mal concepito,
senza una adeguata base metafisica, conclude fermamente l’Autore. “La dignità come intesa oggi è una sorta di
ectoplasma giuridico attivato negli anni 1990 per tentare di ridar significato
ai “diritti dell’uomo” o ai “diritti fondamentali”, la cui consistenza
giuridica non ha cessato di liquefarsi, dalla loro proclamazione alla fine del
XVIII secolo in poi.”
Senza una base filosofica valida, conforme alla recta
ratio, come ad esempio quella fornita dall’Aquinate, questo concetto della dignità
resta “aleatorio, in balía dei compromessi politici del legislatore o dei
rischiosi arbitrati della giursiprudenza.”
Occorre pertanto liberarsi, precisa il Nostro, “dei concetti astratti
del giusnaturalismo moderno” e
ristabilire una “concezione razionale del diritto, fondata sui dati effettivi
della natura umana”. Giustissime considerazioni, a mio avviso. Tra i concetti “astratti” del giusnaturalismo
moderno c’è quello stesso dell’uomo, considerato “buono per
natura”. Anche a prescindere dal dogma
del peccato originale, che spiega l’origine profonda del male nell’uomo e nella
società, una considerazione semplicemente realistica della natura umana
impedisce di ritenere l’uomo “buono per natura”. Per natura, l’uomo, quale che sia la
forma della società e il tipo di governo, si mostrerà buono e cattivo nello
stesso tempo, sempre dominato dalla contraddizione, che ora lo spinge verso il
bene ora verso il male.
8. Conclusione :
la dignità non appartiene all’essenza, all’essere dell’uomo ma al suo m o d o di essere ---
è una qualità del nostro comportamento, che ci merita rispetto quando
è d e g n o della nostra natura razionale, disprezzo e
rimprovero quando i n d e g n o .
Dalla precisa analisi del prof. Huten emerge dunque questo
dato sconcertante:
non solo il principio della dignità si è rivelato
incapace di difendere gli autentici valori imponendone il rispetto nella
protezione dei deboli ed innocenti; esso
ha contribuito alla loro distruzione, avendolo legislatori e Corti usato
per legittimare, dal “diritto” ad abortire liberamente in poi, praticamente
tutte le deviazioni che stanno dissolvendo il vero matrimonio e ogni etica
degna di questo nome.
Che dire di fronte a questa catastrofe?
Nella Conclusion générale del volume, i tre co-autori riprendono, come d’uso, alcuni
tra gli spunti offerti dai saggi ivi raccolti, arricchendoli di puntuali
sottolineature. Essi invitano a tener
ben fermo, innanzitutto, il paradosso che affligge il concetto odierno
della dignità dell’uomo:
“Dopo la II g.m. il termine ha invaso il discorso
politico, sociale, religioso: ma esso
perde ogni significato universale nella misura in cui si cerca di precisarlo.” Tant’è vero che alcuni pensatori propongono
di abolirlo, se non lo si “rivisita dai fondamenti”. Di questa situazione apparentemente paradossale,
essi ribadiscono giustamente che la responsabilità ricade interamente sul
pensiero moderno, sulla sua svolta antropologica, grazie alla quale
“l’essere umano non è più definito come immagine del suo Creatore e come essere
in possesso della ragione – guida, a sua volta, d’una volontà che lo conduce liberamente
di bene in bene verso il Bene ultimo – ma grazie ad una “libertà” fondata sulla
dissociazione [déliaison] tra ragione e volontà, sulla ripulsa di ogni
soggezione imposta a quest’ultima, sulla sua non-determinazione più assoluta
[all’obbedienza].” Non c’è quindi da
stupirsi se la definizione della dignità umana di tipo universalista delle
Dichiarazioni del 1948, non priva peraltro di ambiguità, come si è visto, e del
tutto insufficiente dal punto di vista filosofico, si sia alla fine dissolta in
una prassi legislativa e giurisprudenziale “radicalmente soggettivistica”, che
di fatto soddisfa i gruppi di potere e gli interessi meglio organizzati e più
aggressivi.
Il soggettivismo è la cattiva impostazione filosofica
che fa da sfondo a questo regresso nelle leggi e nella giurisprudenza delle
Alte Corti. La Conclusione generale ne
riassume il principio di base: “nella
modernità tardiva, si ritiene buono ciò che io decido esser buono, non
si saprebbe che farsene di un giudizio mirante alla verità”. Aggiungo: si tratta appunto di quel concetto
della verità come verità dipendente dalla vita sempre in evoluzione,
tipico della filosofia dell’azione e dell’esistenzialismo, ma affermatosi di
fatto anche nelle concezioni del diritto del primo Novecento con le teorie di
taglio sociologico sul “diritto vivente” da contrapporsi al rigido diritto
creato dal legislatore; sul diritto che è in primis “esperienza giuridica”
plasmata soprattutto dal giudice, come sostenevano i paladini, in gran parte
austro-tedeschi, del “movimento del diritto libero” (Freirechtsbewegung). Questa concezione della verità, basata
soprattutto sull’esperienza e sulla ricerca, lo si è visto, e in
definitiva sull’esperienza della ricerca, da attuarsi anche in
comunione con l’intero genere umano, è penetrata anche nell’insegnamento
della Chiesa “riformata” dal Concilio (vedi supra §
6.2.1). Tale impostazione finisce col far dipendere
ogni verità dall’opinione del soggetto pensante, dall’ Io, venendo per forza di
cose ad essere la coscienza del soggetto (il pensiero nella forma della coscienza
di sé) l’unico organo capace di cogliere la supposta, continua evoluzione della
realtà intesa come
fluente ed indeterminata v i t a .
In questo senso il soggettivismo contemporaneo è
stato anticipato da Nietzsche, se rileggiamo un suo noto aforisma, nel quale il
concetto della legge si dissolve in quello della “mia natura” individuale,
l’unica che può stabilire il giusto e l’ingiusto : “ nessuna legge può essere sacra per me, se
non quella della mia natura; giusto è solo ciò che è in armonia con la mia
natura, ingiusto ciò che è contro di essa.” E possiamo dire che l’attuale ideologia della
dignità umana si muova nel solco tracciato da Nietzsche, dal momento che,
come ha sottolineato il prof. Giovanni Turco, filosofo del diritto, finisce col
ridursi ad una pura “autodeterminazione della personalità” che equivale
ad una sua “autodistruzione”, in quanto vissuta solo “nell’istante particolare”,
quello del momento in cui la nostra
volontà si determina ad agire facendo leva unicamente su di sé; occasionalisticamente,
vorrei aggiungere, ovvero secondo l’istanza del caso concreto via via mutevole
e vario.
La Conclusione generale si interroga, in
particolare, sui motivi che possono aver indotto la Chiesa ad adeguarsi “ad una
costruzione del pensiero moderno così povera e pericolosa [per la fede]”. Le approfondite analisi cui sono stati
sottoposti Maritain, Murray SI, il “clericalismo”(vedi supra) offrono ricco
e abbondante materiale dal quale si ricava, in conclusione, che la caduta nella
trappola del moderno non si può spiegare solo con l’influenza dell’ambiente,
che pur spingeva a soluzioni di compromesso con la filosofia profana. Quest’influenza c’è stata ma il fattore
determinante l’ha rappresentato l’azione individuale eversiva di pensatori
come Maritain o come Murray, che hanno entrambi creato un modello “ambiguo” di
cristianità, adatto appunto al compromesso con i valori del Secolo. Un modello basato sull’equivoco
dell’esistenza di “valori comuni”, quali la dignità dell’uomo, tra il cattolicesimo
e il Secolo, quando siffatti valori, come è stato dimostrato, non erano e non
potevano affatto essere “comuni”.
Maritain, lo si è visto, credeva di poter proporre una “nuova
cristianità”, capace di dar vita in forma “profana” ad una versione “analogica”
della cristianità “sacrale”. Ma,
ribadisce con nettezza la Conclusione, la cristianità “nuova” di
Maritain “non è analogica, è equivoca, perché senza un nesso
obiettivo con la realtà, trattandosi di una cristianità senza Cristo”. È, osservo, la “cristianità senza Cristo”,
perché del dialogo con tutte le altre religioni, che sta devastando la
Chiesa dal Concilio in poi.
L’americanismo, ripreso dal P. Murray e introdotto nell’insegnamento
della Chiesa, ha creato l’altro grave fraintendimento di far alla fine ritenere
valori cristiani i valori americani di libertà, tolleranza, democrazia,
travestendoli da cattolici mediante il principio della dignità umana. Per cui l’insegnamento odierno della Chiesa si
ritrova fuori centro (non è cattolico), proponendo, come fa, una “libertà
religiosa connessa non all’affermazione della verità del cristianesimo ma come
la più alta manifestazione della dignità dell’uomo.”
Certamente, esisteva una “crisi morale latente nei
cattolici occidentali, compresi quelli canadesi”: la c.d. “rivoluzione tranquilla” (che avrebbe
in pratica scristianizzato il Canada francofono) era già iniziata quando
cominciò il Concilio. Bisognerebbe allora insistere, a mio avviso, sull’azione
nefasta svolta dal Concilio.
Aveva il dovere di esorcizzare gli elementi portanti della crisi sul
piano teologico ossia la penetrazione della Nouvelle théologie nella
Chiesa, attraverso i suoi molteplici rivoli, e procedere ad una chiara e articolata
condanna del marxismo-leninismo, gramscismo incluso, e di altre importanti
correnti del pensiero moderno, tutte anticristiane. Le omissioni sono state clamorose. Ma nella Conclusione generale di
quest’aspetto non si parla. Infatti,
l’azione dei singoli, le tesi eterodosse dei Maritain e dei Murray, echeggiate
da tutta la fitta schiera dei teologi in odor di eresia immessi proditoriamente
da Giovanni XXIII tra i consultori delle Commissioni conciliari, tutto questo
bailamme filosofico-teologico non avrebbe potuto avere gli effetti devastanti
che ha avuto, se non ci fosse stata l’azione eversiva svolta dal pastorale
Vaticano II: con il peso dell’autorità
di un Concilio ecumenico anche se solo pastorale, ha fatto da volano alle correnti ereticali invece
di condannarle e disperderle con i dovuti anatemi. E ha fatto da volano soprattutto perché i
pontefici allora regnanti, Giovanni XXIII e Paolo VI, si sono resi complici
dell’eversione, cosa che si evita sempre di rimarcare.
In definitiva, l’idea della dignità dell’uomo è
usata oggi contro l’uomo. Infatti,
ribadisce la Conclusione generale, essa è allo stato nient’altro che
“uno strumento verbale al servizio delle grandi cause ideologiche della
modernità tardiva. Non bisogna
dimenticare che, grazie ad uno spettacolare rovesciamento di significato, la
“dignità” serve a legittimare e addirittura ad impedire di criticare
pubblicamente gli attentati più flagranti all’integrità fisica e morale di
innumerevoli esseri umani.” Stiamo assistendo al trionfo del materialismo
più radicale, una concezione completamente errata della natura umana,
considerata soprattutto ormai come materiale manipolabile, da esperimento, sociale
e da laboratorio. Una simile concezione
non sa che farsene del principio della
“dignità dell’uomo” e qualche voce, particolarmente arrogante, già da tempo si
è levata per chiedere di liberarci da un concetto così “stupido”. Infatti, in nome della dignità dell’uomo da
salvaguardare, si riesce qualche volta ad impedire le sperimentazioni più estreme
e più folli. “Dall’uomo-macchina di La
Mettrie, 1748, all’uomo neuronico di Jean-Pierre Changeux, 1983, ed infine al sogno transumanista, abbiamo una grande continuità.
Negando l’esistenza stessa della specie, siamo giunti a fabbricare cloni e
ibridi: che posto può ancora occupare il
concetto della dignità umana?”. Nessuno,
a ben vedere. E difatti è stato un professore
di Harvard, lo psicologo americano-canadese Steven Pinker a denunciare
pubblicamente la supposta “stupidità della dignità”, principio che ostacolerebbe
ancora (in qualche sia pur tenue modo) la ricerca scientifica sull’essere umano
(cioè la sua indiscriminata manipolazione).
* *
In questa terribile situazione, qual è tuttavia il nostro
compito, non solo di cattolici ma di esseri razionali, che si rifiutano di portare il loro cervello
all’ammasso del politicamente corretto dominante? Per quanto riguarda questo concetto della dignità
dell’uomo, diventato così importante e nello stesso tempo così ambiguo e
falso nella sua applicazione, si tratterebbe di rimetterlo sui suoi giusti
fondamenti. A questo fine, i saggi qui
riportati offrono ampio, validissimo ed organico nutrimento. Ispirandomi alle loro analisi, mi sia permesso
di abbozzare una definizione, ancorché provvisoria, del concetto della dignità,
con l’auspicio che possa esser utile alla sua ricostruzione.
L’impostazione più aderente al vero sembra essere quella
dei Classici: la dignità dell’uomo non
può essere intesa in senso ontologico ovvero come l’equivalente dell’essenza
dell’uomo, della sua humanitas in quanto tale. Essa appare piuttosto una qualità
della nostra personalità, come risulta dal nostro comportamento, che infatti
può essere dignitoso o privo di dignità, o addirittura indegno. Nel modo di esprimersi comune, il
comportamento dignitoso caratterizza una persona dignitosa. Ma perché è dignitosa, per il solo fatto di
esser questa persona un essere umano?
Evidentemente no, visto che il giudizio sulla dignità o meno del suo
comportamento non è dato a apriori (la cosa non avrebbe senso) ma proviene
esplicitamente a posteriori, dal suo stesso comportamento concreto, come
risulta al nostro individuale giudizio.
Diciamo allora che mostra di avere dignità colui che si comporta in modo
dignitoso; che cioè mostra, a seconda delle circostanze, quelle virtù di
fierezza, giusto orgoglio, senso dell’onore, uniti a equilibrio, controllo di
sé, che concorrono a costituire quella qualità di una persona che chiamiamo dignità.
Ma qual è il metro, il sistema di riferimento di questo
giudizio? Il metro, l’unità di misura,
sarà offerto sempre dalla definizione boeziana della persona: “sostanza individuale di natura razionale – individua
substantia rationalis naturae.”
Dignitoso sarà allora ogni comportamento del soggetto, uomo o donna, che
si dimostri conforme alla natura razionale dell’essere umano, natura che lo
distingue dall’animale, nei cui confronti il concetto della dignità è
ovviamente inapplicabile, allo stesso modo della titolarità di diritti o del
dovere di assumere obblighi. Il
comportamento dignitoso imporrà il rispetto altrui e possiamo dire, allora, che
l’aver dignità è quel nostro modo di essere che ci merita l’altrui
rispetto e stima. E ce li fa perdere, quando si rivela indegno
perché non conforme a ragione: bizzarro
o scorretto, cattivo o addirittura peccaminoso.
La dignità di acquista o si perde a seconda di come ci si
comporta. È una qualità che ci merita
rispetto o ce lo fa venir meno, quando manca.
Nella concezione classica, di origine aristotelica, l’ ente - l’esistente còlto nella sua individualità di
realtà finita – va concepito come rapporto di sostanza e accidenti: tra ciò che
fa essere l’ente ciò che è (uomo, animale, piante, pietra…) senza che possa
esser altro da sé, e le sue qualità particolari, gli “accidenti”, come dicevano
gli Scolastici, che possono variare senza peraltro poter alterare la sostanza,
il permanere dell’ente nella sua natura originaria. Pertanto, perdere la propria dignità a causa
di un nostro comportamento che si riveli poco dignitoso o indegno, ci
toglie il rispetto altrui, perché è venuta meno per colpa nostra quella qualità
che ce lo merita, ma non ci può togliere la nostra sostanza, la nostra humanitas. Restiamo sempre individui creati da Dio e
quindi dotati di ragione e volontà, capaci di emendarci, di riguadagnare la
dignità che avevamo perduto, di godere del rispetto che essa merita.
Affermare, pertanto, che tutti
gli esseri umani, uomini e donne, meritano sempre
rispetto a causa di una loro dignità che si suppone
ontologica, innata, e quindi in maniera sempre indipendente
dal loro comportamento, appare del tutto illogico. Merita
sempre rispetto la loro umanità, che possiede sempre le risorse (razionali,
morali) per perfezionarsi, se le sa usare, ma non può meritarlo il loro
comportamento deviante, quando c’è, che va invece condannato secondo i ben noti
canoni della morale naturale e rivelata.
L’ evangelico “non giudicate, per non esser giudicati” non è un invito
alla neutralità in campo etico, non significa affatto: “rispettate tutti, senza giudicare se fanno
il bene o il male”. All’opposto, è
sempre stato inteso nel senso di condannare
il peccato ma non il peccatore,
che va invece ammonito per la sua edificazione, affinché se ne renda conto, si
penta e cambi vita. Nel peccatore va
sempre rispettata l’umanità, che è la nostra stessa, creata da Dio, ferita ma
non distrutta dal peccato originale. Ma
non si può rispettare il peccato, in quanto tale. Il peccato, quale esso sia, è sempre una violazione
consapevole dell’ordine morale del mondo stabilito da Dio, pertanto non merita
rispetto e non può averlo: il regno del
peccato è il regno della indignitas.
Per tal motivo, quei chierici,
vescovi inclusi, che oggi, pur nel criticare progetti di legge inaccettabili
come l’ormai famoso ddl Zan che vuole punire con pesanti pene detentive la
c.d. “omotransfobia”[sic] e la “misoginia”[sic] (una legge liberticida,
superflua perché le leggi esistenti giò proteggono a sufficienza il mondo lgbt
da offese e aggressioni; una legge tra i cui intenti dichiarati c’è anche
quello di promuovere l’omosessualità nella società con l’aiuto dello Stato, di
imporre il rispetto della supposta dignità
delle persone omosessuali, in quanto tali); in via
preliminare sono soliti affermare, quei chierici, di “provare il massimo
rispetto per gli omosessuali”, errano grandemente se, in nome di un concetto per l’appunto ontologico
della dignità dell’uomo, ritengono che l’omosessuale vada rispettato in quanto tale. Errano
perchè, in tal modo, il rispetto dovuto alla persona viene invece inteso come rispetto
per il peccato, che la persona in oggetto commette. Non si può provare rispetto per un comportamento peccaminoso, nella fattispecie quello degli
omosessuali, che viola gravemente il Sesto Comandamento, e quindi non si potrà rispettare, in nome di
una supposta innata dignità dell’uomo inattaccabile dai suoi peccati,
l’omosessualità di cui lui/lei faccia mostra.
Si dovrà invece condannare questo comportamento come intrinsecamente indegno della natura razionale dell’uomo, che continuiamo d’altro canto a rispettare
nell’omosessuale, esortandolo a rinnegare la sua vita di peccato e quindi a
riacquistare in tal modo la sua dignità di uomo.