martedì 26 maggio 2020

P. Pasqualucci: Caporetto mito perverso dell'Antinazione. A proposito di due recenti saggi.



Paolo  Pasqualucci :       

 Caporetto mito perverso dell'Antinazione
A proposito di due recenti saggi

L’editore Gangemi ha recentemente pubblicato due densi e articolati saggi, risultanti da interventi  a un Convegno su Caporetto tenutosi nel 2017, anno centenario della battaglia, introdotti da una Prefazione di Francesco Mercadante.[1] Il primo è in realtà dedicato al posto occupato nell’ opera di Malaparte dal mito di Caporetto, quale simbolo del supposto inveterato antipatriottismo italiano e addirittura imago perennis dello spirito di rivolta che afferra i popoli quando ridotti a plebe sacrificata in sanguinose e inconcludenti battaglie[2].  Il suo celebre e provocatorio Viva Caporetto! La rivolta dei Santi maledetti, edito inizialmente nel 1921 come Viva Caporetto!, non viene “rivisitato” in relazione alla realtà effettiva della Battaglia e alla conseguente rotta e ritirata, oggetto entrambe di morboso e politicamente correttissimo culto da parte dei pontefici della “cultura della sconfitta” e dell’antinazione.   Malaparte, scrittore nervoso, rapido, incisivo, tuttavia sempre pervaso da un  immenso narcisismo e pertanto afflitto da mania di originalità e da un amor di tesi che lo portavano a lavorare di fantasia sui fatti storici che gli cadevano nella penna, con sgradevole tendenza all’onirico, al macabro, al deforme - a fare, insomma, della parte torbida e crudele, sempre presente nelle umane vicende, il segno distintivo del Tutto.  
Oggi che finalmente disponiamo di una  storiografia che, con il dovuto rigore, ha ribaltato gli stereotipi falsi e bugiardi imposti ormai da troppo tempo sul nostro contributo alla vittoria dell’Intesa nella Grande Guerra, del saggio allucinato di Malaparte su Caporetto bisognerebbe, io credo, occuparsene soprattutto per dimostrarne il carattere paradossale,  tendenzioso e datato, senza lasciarsi fuorviare dal talento letterario e dalle poche verità che vi si mostrano.
Ma il compito di Barberi, ben consapevole ovviamente delle esagerazioni ed invenzioni malapartiane, era quello di far vedere a noi come “Caporetto”, quale “fenomeno storico”, anzi “fase dell’evoluzione dell’umanità” e addirittura supposta  categoria dello spirito italiano, radicalmente votato secondo Malaparte all’antieroismo e all’antinazione,  costituisca la linfa torbida che rocciosamente scorre nella multifaria “filosofia” della vita e della storia dello scrittore.[3] Compito non facile, svolto con grande finezza di analisi, in particolare nei ripetuti collegamenti con le riflessioni storico-esistenziali di un Carl Schmitt, in specie dello Schmitt che si rapportava simbolicamente al Benito Cereno del celebre racconto.  Un paragone che a prima vista può sorprendere, data la differenza di levatura e di interessi tra i due personaggi, accostati quali interpreti originali e pessimistici della nostra tragica epoca,  ma che appare del tutto giustificato grazie alle molteplici sfumature messe in rilievo da un’analisi che richiederebbe  un discorso a sé, qui impossibile. 

Ma ristabiliamo il vero su Caporetto. Fu soprattutto un grave, ma non decisivo, “rovescio militare”, simile a quelli patiti da altri eserciti nella I gm (dai russi, dagli stessi austriaci per mano dei russi ma anche dai francesi, nell’iniziale, travolgente avanzata tedesca dal Nordovest della Francia, fermata poi con la Battaglia della Marna, fiume poco a nord di Parigi, nel settembre del ‘14).  Lo dimostrò già nel 1928 Gioacchino Volpe, in un equilibrato suo scritto, ancor oggi perfettamente leggibile, nel quale pur metteva nel dovuto rilievo gli errori e le carenze dei nostri Comandi, della società civile, degli stessi soldati, peraltro più vittime che colpevoli;  insomma i molteplici fattori che contribuirono a quella pesante sconfitta.[4]   Fu lo sciagurato  Bollettino emesso da Cadorna il 28 ottobre, trovandosi il Comando supremo in stato confusionale, al pari di quasi tutti i comandanti in loco, poco o punto informati dell’effettiva situazione sul terreno, avendo l’artiglieria nemica fatto saltare tutti i collegamenti --- fu quel Bollettino, che accusava ingiustamente dello sfondamento alcuni reparti della II Armata, “vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”, a far di Caporetto un rovescio in primo luogo morale: in un certo senso, a creare la leggenda perversa di Caporetto, diventata per noi italiani immagine emblematica della disfatta, della fuga, della viltà nazionale.   
Come spiega Giuseppe Fornari nel secondo saggio del volume,[5] v’erano deficienze organizzative e culturali presso tutti gli Stati Maggiori dell’epoca;  quelle specifiche del nostro concernevano “il coordinamento logistico e informativo, una burocrazia soffocante e inerziale, e la specifica difficoltà a passare dall’assetto offensivo, che Cadorna aveva stabilito sin dal 1915, all’assetto difensivo da lui deciso dopo il dissanguamento dell’XI battaglia dell’Isonzo”, avutasi nell’estate del 1917. 
Cadorna era stato progressivamente informato da disertori austroungarici  dell’imminente attacco ma solo negli ultimi giorni ne aveva individuato la direttrice, la zona tra Plezzo e Tolmino sull’alto Isonzo, per il 24 ottobre.  Dal 10 ottobre aveva tuttavia inutilmente esortato il generale Capello, comandante della II armata, responsabile del settore, a mettere le proprie truppe sulla difensiva, nel senso di non lasciarle nella scomoda e mal coperta posizione (ammassate in avanti, a cavallo di un’ansa dell’Isonzo, con la propria artiglieria su posizioni avanzate) raggiunta con la grande e sanguinosa offensiva dell’agosto precedente, XI battaglia dell’Isonzo, che aveva portato alla conquista di parte consistente dell’altopiano carsico della Bainsizza, mettendo alle corde l’esercito nemico (rivoltosi appunto subito dopo e con urgenza ai tedeschi per un’offensiva “di alleggerimento”, quella che poi avrebbe sfondato a Caporetto).
“Per capire la rotta di Caporetto occorre analizzare adeguatamente la consistenza e la capacità di penetrazione dell’offensiva austro-tedesca, su cui anche si cade in ricorrenti luoghi comuni.  Essa è stata senz’altro coadiuvata dall’idea, non conosciuta sul fronte dell’Isonzo, della cosiddetta infiltrazione, cioè della penetrazione non più mediante attacchi alle cime fortificate [portati con assalti frontali alla baionetta, a ondate], bensì lungo il fondovalle, elementi cui si sono aggiunte le condizioni metereologiche [fitte nebbie] che hanno grandemente ridotto la visibilità e le possibilità di intervento delle batterie italiane […] Il fattore decisivo del successo nemico è stato [oltre alla sorpresa] la formidabile cooperazione, introdotta dai tedeschi, fra l’artiglieria, ammassata in una concentrazione imprevista, e le tattiche di assalto ad essa coordinate con estrema precisione e rese micidiali con l’impiego di innovative mitragliatrici leggere [portatili].  Questa combinazione, che anticipa le tecniche di combattimento e gli armamenti della Seconda guerra mondiale, ha colto alla sprovvista l’esercito italiano, provocando il disorientamento e il rapido sgretolamento di un fronte organizzato secondo tutt’altri criteri”.
 Anche la fortuna aiutò gli austrotedeschi, precisa Fornari: la nebbia persistente per giorni impedì alla nostra ricognizione aerea di accorgersi del formidabile schieramento di truppe e artiglierie che si stava raccogliendo nella zona d’attacco e favorì le prime, delicate fasi dell’assalto delle fanterie, non viste dalle nostre batterie superstiti, dopo l’apocalittico bombardamento nemico iniziale.[6]    

Ma la crisi morale, che pur serpeggiava e in modo serio, non fu affatto la causa del cedimento di Caporetto. Tutti gli eserciti erano moralmente in crisi dopo tre anni di quella tremenda e inconcludente guerra: mentre quello russo, duramente battuto, era in stato di collasso pre-rivoluzionario dall’autunno del ’16, nella tarda primavera del ’17 l’esercito francese, dopo il fallimento dell’ennesima sanguinosa offensiva, fu scosso da massicci ammutinamenti, tenuti accuratamente nascosti per anni, che costrinsero a riorganizzarlo in profondità e a sospendere ogni suo impiego offensivo per circa un anno. Da noi, fu lo sfondamento a farla esplodere, la crisi, in parte delle truppe, durante la ritirata, visto che circa 350.000 sbandati (poi in gran parte recuperati ai ranghi) si diressero verso l’interno pensando soprattutto a mettere la massima distanza tra loro stessi e il nemico – disertori in gran parte di retrovia e seconda linea (nota bene), non addestrati al combattimento, che gli “orrori della guerra di trincea e degli assalti frontali” li conoscevano più che altro  per sentito dire. La causa della sconfitta fu però strettamente militare, dovuta alla classica combinazione di limiti, errori, insufficienze tecniche dello sconfitto; meriti e superiorità dell’attaccante nel punto decisivo; fortuna.  
Fornari giustamente batte in breccia la vulgata che ancor oggi (e anzi ancor più oggi nel clima di torbido e dissennato “pacifismo” imperante) fa della crisi morale una “concausa” o addirittura una persino esaltata “causa” della rotta (in quest’ultimo caso, riprendendo per l’appunto tematiche di tipo malapartiano).
“A venir presentata come concausa è infatti la spossatezza fisica e psicologica delle truppe, trattate per due anni e mezzo come “carne da cannone” e mandate regolarmente al massacro, in una guerra che non era stata decisa dalla maggior parte di quelli che la combattevano, e che a non pochi di loro rimaneva estranea”.  Pur cogliendo questa prospettiva una scomoda verità, resta il fatto che il soldato italiano, coscritto per servire la nuova Patria unitaria in un esercito finalmente nazionale, qual  fosse il grado della sua consapevolezza patriottica, il suo dovere l’ha sempre fatto, anche nelle condizioni più difficili. 
“La rotta di Caporetto non è stata provocata dai reparti al fronte ma preparata e propiziata da disfunzioni sistemiche comuni a tutti gli eserciti in guerra, e da noi declinate secondo le modalità oligarchiche e autoritarie tipiche della società italiana.  L’ampia indagine di Paolo Gaspari dimostra al di là di ogni dubbio che i soldati italiani, nei settori coinvolti, hanno combattuto con abnegazione, e in più casi sono stati abbandonati dai loro ufficiali.  Le truppe di Caporetto si sono sbandate per il fondamentale motivo che non erano guidate da uno Stato Maggiore del tutto all’altezza della situazione, non perché non volessero battersi, tant’è vero che le stesse identiche truppe, una volta guidate, si sono sapute velocemente riorganizzare sul Piave appena una decina di giorni dopo, malgrado l’avvilimento e le ingenti perdite di uomini e materiali. È su questo passaggio essenziale che si fa ancor oggi troppa confusione logica e interpretativa.  Caporetto non è stata provocata dal morale basso di fanti ed alpini, bensì dalla limitatezza mentale e morale di una casta militare spesso e volentieri incapace di rendersi conto dei sacrifici spaventosi che stava imponendo ai suoi soldati…”.[7]  Giuste parole, che richiamano le celebri righe del cap. XXVI de Il Principe:  “.. Specchiatevi ne’ duelli  e ne’ congressi [combattimenti] de’ pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno.  Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono.  E tutto procede dalla debolezza de’ capi…”.  
Il nostro problema è stato ed è quello della classe dirigente, sia civile che militare, assai più che del popolo.  Nello specifico, la casta dirigente militare, la quale aveva approfondito il solco tra sé e il soldato, anche per colpa dell’incredibile insensibilità di Cadorna in proposito, comandante per altri versi non privo di qualità, tant’è vero che gli austriaci furono contenti di non trovarselo più di fronte, dopo Caporetto, come disse a guerra finita uno dei loro migliori comandanti.[8] Vi si pose rimedio, all’insensibilità iniziale, solo dopo Caporetto, col napoletano Armando Diaz nuovo Comandante in Capo. Lo Stato Maggiore entrò in guerra senza preoccuparsi troppo del lato umano del combattente, con le sue giuste e in genere modeste necessità, soddisfacendo le quali in modo ragionevole si ottengono, tra l’altro, anche migliori risultati sul piano strettamente bellico.  Questa insensibilità e durezza (comuni in parte anche ad altri eserciti) non erano tuttavia, per fortuna, assolute; in parte (non piccola) venivano “riparate dall’umanità di alcuni alti ufficiali e di molti ufficiali intermedi”[9], quelli più a contatto con i soldati.
La rotta, dunque. Le immense retrovie della II armata (un’unità monstre lasciata crescere sino a 670.000 uomini – una trentina di divisioni più i servizi logistici, e quindi con meno della metà composta da combattenti di prima linea), vedendosi arrivare addosso all’improvviso e nel silenzio delle nostre accecate o distrutte artiglierie gli austrotedeschi infiltratisi e lanciatisi giù per i fondovalle nebbiosi e poco difesi, cominciarono a fuggire in massa verso Ovest gridando al tradimento – a decine e poi a centinaia di migliaia, diffondendo un panico che coinvolse immediatamente anche la popolazione.  La massa militarcivile si impastò sulle poche strade e ponti rendendo quasi impossibile il traffico militare nella zona alle spalle dello sfondamento.  Ma la parte effettivamente combattente dell’esercito, cioè tutto l’esercito di prima linea, tranne le circa 10 divisioni dell’ala sinistra della II Armata perdute nell’alto Isonzo, pur dovendo lasciare indietro l’armamento pesante e molto materiale, si ritirò ancor inquadrata, armata e sufficientemente coesa, sostenendo combattimenti di retroguardia. Diversi reparti resistettero sino alla cattura per accerchiamento o all’annientamento fra Isonzo e Tagliamento; per esempio, unità della stessa II Armata, la brigata Bologna e le formazioni di cavalleria, consentendo così la ritirata del grosso.  Ci furono sei brevi ma aspre e disperate battaglie contro forze nettamente superiori, tra i due fiumi, dal 26 al 30 ottobre.[10] Fondamentale fu l’aver potuto portare in ordine sul Piave la III armata, schierata dalla Bainsizza al mare, con 300.000 uomini, almeno 100.000 dei quali in pieno assetto di guerra. Su 65 divisioni costituenti l’esercito, ne schierammo  dallo Stelvio alla foce del Piave 33 di pronto impiego, compresi resti della II Armata, cui si aggiungevano altri resti, della stessa II armata e del gruppo Carnia, circa 10 divisioni in fase di riorganizzazione.  Queste unità erano tutte truppe di prima linea, dislocate su un fronte ora per natura più solido (con il Grappa fatto parzialmente fortificare in precedenza da Cadorna), e raccorciato di ben 244 km rispetto a quello complicato dell’Isonzo. Di contro, circa 40 complessive divisioni nemiche, la cui artiglieria pesante era rimasta inizialmente indietro.  I tedeschi ritirarono presto la loro, occorrendo essa nelle Fiandre.   

Col centenario della Grande Guerra, accanto a qualche pubblicazione più seria e obiettiva, è stata riproposta anche all’estero, per esempio dagli epigoni di Denis Mack Smith  e A. J. P. Taylor, la vulgata secondo la quale l’esercito italiano è stato praticamente distrutto a Caporetto, in sostanza dissolvendosi, mentre al Piave e sul Grappa sarebbero stati i franco-inglesi a fermare il nemico e poi, si capisce, a vincere la grande battaglia difensiva del giugno del ’18 (o del Solstizio) e a dare il colpo di grazia al morente impero a Vittorio Veneto, con i rimasugli degli italiani sempre ben nascosti dietro di loro, pronti però i loro politici codardi a lucrare sulle vittorie altrui!  Si tratta ovviamente di  falsità e calunnie colossali, che riprendono quelle diffuse al tempo di Versailles da certa pubblicistica, soprattutto francese, per negare in malafede il pur fondamentale contributo dell’Italia alla vittoria comune.[11]  Dovevano allora soffrire di allucinazioni gli estensori negli anni Trenta della Relazione ufficiale austriaca, quando scrissero che il medesimo Regio Esercito, “presunto in dissoluzione” dopo la batosta di Caporetto, dopo soli quindici giorni era di colpo risorto sul Grappa e sul Piave, bloccando definitivamente e da solo, in due settimane di sanguinosi e feroci combattimenti novembrini, l’avanzata nemica, con gli Alleati schierati alle spalle quale  fondamentale riserva strategica, ma senza intervenire direttamente nella battaglia, in quella delicata fase, fatta eccezione per preziose aliquote di  artiglieria.  Non dovettero accorrere a tappare alcuna falla, l’assottigliata e ancor precaria linea italiana tenne fermo da sola, grazie soprattutto al valore dei suoi soldati.[12]
La Battaglia d’arresto contro gli austro-tedeschi si sviluppò in due fasi: dal 10 al 26 novembre si ebbe quella più difficile. Ci fu una breve pausa e la nostra linea si rinforzò con i complementi della classe del 1899 e con gli altri reparti superstiti della II Armata nel frattempo ricostituitisi.  Sul Grappa si combatté per quasi un mese e mezzo, con pochissime pause.  Gli Alleati entrarono in linea solo il 4 dicembre, quando iniziò la seconda fase, che ebbe di nuovo momenti durissimi e si prolungò sino al 25 del mese, coinvolgendo  in prevalenza le truppe italiane, obiettivo principale degli attacchi nemici.  Nel Paese l’improvvisa rotta provocò una ventata di patriottismo, grazie anche alla capillare e spontanea mobilitazione nazionale di mutilati, invalidi, feriti, organizzazioni di ogni tipo:  non volevamo evidentemente esser di nuovo ridotti ad “appendice austriaca”, come era accaduto – dopo  esser stati  appendice ispanica (asburgico-borbonica) e napoleonica – dal 1815 in poi con le decisioni del Congresso di Vienna (per gli smemorati, numerosi fra gli odierni antiunitari, sciolti e a pacchetti, nonché fra i cattolici c.d. “tradizionalisti”: il Lombardo-Veneto provincia imperiale asburgica, il Granducato di Toscana “seconda progenitura asburgica”, il Ducato di Modena “terza progenitura asburgica”; le ricorrenti guarnigioni austriache in Toscana e nelle città del Papa, incapace da più di tre secoli di difendere il suo Stato da solo; il Regno delle Due Sicilie nella sfera d’influenza asburgo-bavarese, e protettorato economico inglese…).
Malaparte, impregnato dell’atmosfera palingenetico-rivoluzionaria del Primo Dopoguerra, ha voluto sostenere che la stanchezza morale e lo scontento, anzi l’odio, serpeggianti tra le truppe furono la causa di Caporetto.  Il fante, il “cristianissimo fante”, per lui analfabeta sempre lacero e sporco e pidocchioso ma sempre “eroico”,  si sarebbe reso conto a un certo punto di essere vile carne da cannone e avrebbe accumulato un rancore e un odio fortissimi contro la Nazione, esplosi infine a Caporetto:  “Allora il fante, solo, disperato, invelenito d’odio, si buttò contro la legge.  Cioè contro la nazione. Caporetto”.  Dunque la sconfitta sarebbe stata provocata dalla rivolta dei fanti, santi nelle loro sofferenze ma maledetti in quanto plebe e ribelli,  che avrebbero abbandonato in massa le trincee, in una sorta di sciopero militare a sfondo rivoluzionario; fanti antieroi o anzi veri eroi, se il vero eroe è il fante “senza-fucile”, l’inverso dell’autentico eroe.[13] 
Ma valga il vero:  le abbandonarono sì in massa le trincee e le retrovie, ma per sfuggire al nemico che, dopo lo sfondamento, cercava di scendere rapidamente da Nord lungo il Tagliamento, alle spalle dell’intero nostro esercito schierato sull’Isonzo e al di là di esso, per prendere tutti prigionieri in una gigantesca sacca, nonché a estendersi verso Ovest ai piedi delle montagne per sigillare in Cadore la IV e più piccola armata. Bisognava ritirarsi tutti alla svelta, non c’era scelta. Le masse delle retrovie volevano ovviamente salvare la pelle ed evitare la prigionia, per questo se la squagliavano alla grande, altro che rivolta e rivoluzione!  Secondo Malaparte, invece, la massa invelenita, vociante e terrosa, si sarebbe diretta verso l’interno saccheggiando e rubando, uccidendo carabinieri e ufficiali, violentando crocerossine e dame dei Comitati di Assistenza ai soldati, venendo a sua volta decimata in veri e propri massacri di “santi maledetti” ordinati ai carabinieri…E chi ne ha più ne metta, in concorrenza con Addio alle Armi di Hemingway, eccellente scrittore anche lui ma non meno del pratese “pallonaro”, come dicono a Roma di chi ama spararle grosse. 
Stragi di ufficiali e carabinieri, massacri di disertori in fuga, obbrobriosi dileggi e stupri di crocerossine e dame: tutte cose mai avvenute (caso mai avvenute, le violenze contro le donne, per mano nemica), tranne ruberie occasionali di soldati affamati, sbandatisi nella ritirata, che visse i suoi momenti di grave caos solo nella prima settimana e nella zona tra l’alto Isonzo e l’alto Tagliamento, dove si stavano ritirando i resti della  II armata, però combattendo assieme ai pochi rincalzi che erano riusciti a risalire la corrente. [14] 
Del pari falso è il quadretto dell’esaltato di Prato contemplante il povero fante pidocchioso al quale, nei brevi periodi di riposo, gli ottusi regolamenti vietavano di entrare nei paesi delle retrovie per ripulirsi, cambiarsi, fraternizzare…Basta rileggere Un anno sull’altipiano, di Emilio Lussu: i suoi sardi della famosa e gloriosa Brigata Sassari, fanti tra i fanti, erano sempre ben accolti dalla popolazione locale, potevano rimettersi bene in sesto nei brevi periodi di riposo e c’erano anche feste sulle aie durante le quali fraternizzavano con tutti i civili, donne comprese.  Malaparte, equiparando nel clima stralunato di allora l’Italia alla Russia, così concludeva il suo  scritto:  “La rivoluzione, iniziatasi in Europa nell’anno 1917, non è ancora giunta al suo termine logico.  I due avvenimenti iniziali – facce diverse di uno stesso fenomeno – la rivoluzione russa e la rivolta di Caporetto, hanno dato origine a due movimenti paralleli, tesi ad un unico termine, ma l’uno e l’altro da un diverso spirito animati. In quello russo domina il senso della collettività, in quello italiano il senso dell’individuo…”.[15]  
Il paragone è chiaramente insostenibile.  La ritirata della prima linea e la fuga delle disarmate e  foltissime retrovie seguíta allo sfondamento sull’Alto Isonzo rientrano nella dinamica di una battaglia persa, come potevano perderla gli eserciti di allora, con una prima linea estremamente rigida addensata nelle trincee, sostenuta da molteplici e nutrite linee di sussistenza, magazzinaggio, sanità, depositi di munizioni, etc., una volta sfondata la prima linea: con decine se non centinaia di migliaia di prigionieri.  La rivolta di Pietrogrado fu una rivoluzione in piena regola. Motivata dalla disfatta militare e dai fortissimi disagi che la popolazione stava subendo, essa mirava non solo alla pace ma anche all’abdicazione dello zar e non fu riscattata da nessuna Battaglia d’arresto sul Grappa e sul Piave. 
Il saggio di Fornari, molto opportunamente, si sofferma sulle pesanti conseguenze che ebbe Caporetto per i civili ossia sulla durissima occupazione austro-tedesca-ungherese-croato-slovena-bosniaca del Friuli e Veneto invasi, durata un anno, come essa risulta dal Diario di don Pietro Sartor, parroco di Salgareda, comune rivierasco sulla sponda sinistra del Piave.  Il Diario del sacerdote testimonia come, nonostante i rescritti imperiali ordinassero il massimo rispetto per la popolazione e in particolare per le donne, la truppa (tranne ovviamente le eccezioni individuali) rubasse e violentasse a man bassa, giustificando le sue male azioni con l’odio per gli “italiani traditori”.[16]
E a questa testimonianza aggiunge quella delle memorie di guerra del tenente austriaco Fritz Weber. Già note nelle traduzioni (parziali) pubblicate anni fa da Mursia, Fornari le utilizza servendosi degli originali tedeschi, degli anni Trenta, che ampliano la visuale offerta dalle traduzioni italiane.  Scritta da un avversario abbastanza cavalleresco verso di noi – un’eccezione nella storiografia austro-tedesca sulla I gm, del tempo ma anche odierna – l’’opera di Weber offre lo spunto per ampie riflessioni sul tramonto e la fine dello Stato asburgico, vicenda che Fornari inquadra nella visuale più ampia della Finis Europae.   Soprattutto in questa prospettiva si dovrebbe intendere il  significato “storico-filosofico” della Grande Guerra.

Ma, mi chiedo, non bisogna stabilire o ristabilire prima di tutto il “significato” che la Grande Guerra ha avuto per noi italiani, per la nostra “identità”, come si dice oggi?  Le riflessioni di Fornari su questo essenziale aspetto mi sembrano in sostanziale controtendenza a quelle di Mercadante, nella citata Prefazione, succosa per varietà di temi che l’Autore intreccia con la maestrìa e lo stile pungente suoi propri, da quel grande polemista che egli è; tuttavia, a mio avviso, dissolvente nel discorso di fondo, perché caratterizzato da una visione sostanzialmente individualistica e anarchica, e quindi antistorica, utopistica. Fornari ha il grande merito di contraddire validamente lo stereotipo negativo e fuorviante oggi imposto alla nostra partecipazione alla Grande Guerra.  Non si ripete sempre:  “inutile strage, finita per noi malamente a Caporetto, falsa vittoria che per di più ha dato origine al fascismo, della quale bisogna celebrare solo il dolore per le vittime e in essa condannare ogni guerra…”?
Contro la pappa del cuore del dolore delle e per le vittime della guerra e della storia fatta trangugiare coi mestoli dal politicamente corretto alle masse, per eliminare la storia e gli ideali scomodi ma autentici dal loro orizzonte materiale e spirituale, bisogna dire che la I gm è stata sì, purtroppo, una grande “strage” ma affatto “inutile”, per noi italiani.     
C’era un modo diverso dalla guerra – imposta da un nemico del nome italiano  plurisecolare e implacabile, che nulla concedeva e nulla avrebbe mai concesso – per realizzare finalmente la nostra completa unità nazionale, il cui interrotto processo ci aveva lasciato con l’intera valle dell’Adige e metà dell’arco alpino in mano al nemico sin al di qua della foce dell’Isonzo: i confini del 1866, indifendibili; per vivere finalmente in un solo e compiuto Stato dopo secoli di dominio straniero, diretto e indiretto, tenacissimo sempre nel tenerci deboli e divisi, avverso anche ad una qualsiasi asfittica confederazione italiana; in uno Stato nostro, riscattando così un passato di tragedie e infinite umiliazioni e sudditanze, anche economiche, iniziatesi con le Guerre d’Italia (1494-1559), allorché “Italia è suta corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ Svizzeri”(Il Principe, cap. XII), quando le monarchie nazionali europee e i Confederati, combattendo tra di loro e contro di noi,   si spartirono l’Italia militarmente debole e divisa (si salvò solo Venezia, lottando disperatamente) --- l’Italia rinascimentale, superiore agli invasori per cultura, civiltà e ricchezza ma incapace di riunire le modeste forze individuali dei singoli Stati per una difesa comune?  Naturalmente, la domanda vale se si considerano l’unità e l’indipendenza dell’Italia, come nazione e come Stato degni di questo nome, valori irrinunciabili, assoluti, per realizzare o mantenere i quali è legittima anche la guerra. Vale, quindi, se ci si considera ancora italiani e non “volgo disperso che nome non ha”, prono ad ogni sudditanza e servitù.

La Patria fondata sullo Stato unitario monarchico costituzionale dei Savoia  costituiva, all’epoca della Grande Guerra, un valore effettivamente sentito, nonostante le contestazioni socialistiche e di parte dei cattolici.  Il Regno d’Italia aveva un suo spessore nella classe dirigente sia civile che militare, una sua indubbia forza e vitalità, anche popolare, senza la quale non avrebbe superato la prova terribile di quella guerra.  Fornari mette giustamente in rilievo questo importante aspetto[17].
Il Regio Esercito  era diventato nel 1917 un coriaceo e potente strumento di guerra.  Per sfondare l’individuato punto debole del suo schieramento, il nemico dovette impiegare  numeri e mezzi imponenti (superiorità di 3 a 1 nei cannoni e 5 a 1 nelle mitragliatrici leggere) e gran numero delle sue truppe e ufficiali migliori, in quel momento addirittura il Gotha della fanteria mondiale, possiamo dire:  le 7 divisioni scelte d’assalto tedesche (su 11 esistenti) e le 7 divisioni scelte austro-ungariche, organizzate in un’armata apposita, la leggendaria XIV Armata austro-tedesca del generale (tedesco) Otto von Below.[18]  Ma la 12a Battaglia dell’Isonzo, che si iniziò a Caporetto in modo così disastroso per noi, finì per l’appunto con la Battaglia d’Arresto sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave,  vinta da noi, con l’aiuto importante ma indiretto degli Alleati: battaglia che fu la nostra Marna, poiché salvò noi e anche l’Intesa. Un crollo dell’Italia sul Piave e la conseguente, sicura occupazione del resto dell’Italia settentrionale (con le sue ricche risorse agricole e industriali) avrebbero messo in seria difficoltà i franco-britannici. Essendo ancora poche ed inesperte le pur potenti divisioni americane e l’esercito francese non ancora riavutosi dalla grave crisi dell’estate, l’apertura di un nuovo ed impegnativo fronte sulle Alpi per fronteggiare i ringalluzziti austro-ungarici avrebbe potuto avere un effetto letale sulla loro capacità di resistere alle grandi offensive tedesche, incombenti dopo il crollo della Russia.[19]

Giustamente Fornari rigetta la tesi di chi vuol collegare con un filo rosso Caporetto a Cassibile, borgo siculo ove fu firmata il 3 settembre 1943 la nostra resa incondizionata dell’8.  Tra i due avvenimenti, come ha notato Pieropan, si può parlare di un “nesso culturale”, nel senso che vi appaiono confermate  certe ancestrali incapacità delle nostre classi dirigenti e in misura minore del popolo, quando ristretti in situazioni veramente difficili.  Ma il paragone finisce lì. Caporetto scatenò uno “psicodramma collettivo” che ancor oggi si vuol continuare a recitare, cosa che rivela il permanere di una fragilità caratteriale di fondo, come sottolinea Fornari. Ma la sconfitta  fu emendata poco dopo dagli stessi protagonisti con le vittoriose battaglie difensive di cui sopra e riscattata infine a Vittorio Veneto, sia pure contro un nemico ormai prossimo al collasso, che tuttavia contro di noi combatté sino all’ultimo.  A Caporetto perdemmo una battaglia vincendo poi la guerra sul nostro fronte, con l’aiuto degli Alleati ma anche e soprattutto per merito nostro:  una verità che, forse troppo esaltata in passato, si vuole oggi pervicacemente occultare, in spregio ai fatti. A Cassibile, invece, perdemmo la guerra, incondizionatamente e senza scampo.  Fu una resa totale, imposta in modo anche disonesto e umiliante, visto che a Cassibile firmammo un testo più corto e assai meno duro di quello (detto Armistizio lungo) che fummo costretti poco dopo ad accettare a Malta, dove i resti della nostra flotta erano andati ad arrendersi, per espressa richiesta inglese nelle clausole d’armistizio.    

L’ultimo paragrafo della Prefazione di  Mercadante titola:  La storia scritta dai vinti: da Caporetto a Cassibile.   I “vinti”che scrivono la storia a Caporetto sarebbero  “i santi maledetti” di Malaparte.  Ma può un’invenzione letteraria “scrivere la storia”?  L’8 settembre ’43 avevamo forze armate stremate da tre anni e tre mesi di durissima ed impari ma dignitosa e valorosa guerra contro le tre principali potenze mondiali e i loro alleati; forze che si disintegrarono, unitamente all’apparato statale, perché lasciate senza ordini  da capi arresisi all’improvviso e fuggiaschi, di fronte al già pianificato, militarmente comprensibile ma proditorio attacco (perché senza dichiarazione di guerra) della formidabile Wehrmacht (piano Achse).  Questi “vinti” la loro misconosciuta “storia” l’avevano caso mai scritta prima, in una guerra tragicamente sbagliata, nella quale il soldato italiano si era battuto come aveva potuto, sempre fedele al senso del dovere.  Protagonista, “agente” della storia è per Mercadante “l’uomo comune”, pur nella sua oscurità: “ogni uomo e ogni donna, senza nome, con il loro comportamento privato:  i piccoli, i mancini, gli zoppi”.[20]
Sarebbero costoro i “vinti” che invece vincono, come le donne di Pietrogrado che, gridando per le strade “pace, pane, libertà” fecero cadere l’8 marzo 1917 l’autocrazia, secondo Mercadante[21]. Crollò invece a causa del disastro militare (come il fascismo) e questa fu la causa principale, nonché per colpa della paralisi produttiva provocata dall’esorbitante impegno bellico e da un inverno eccezionalmente rigido, con temperature medie sui 12 C° sottozero. Le donne elevate a protagoniste anonime della storia non ebbero poi dai bolscevichi otto mesi dopo al potere né il pane né la pace né la libertà ma una ferrea e sanguinaria dittatura comunista, la guerra civile, la carestia endemica, il Terrore. Ne Il dottor Živago, non ci imbattiamo proprio nel dramma angoscioso dei “piccoli” travolti e dispersi senza speranza nella tragedia apocalittica di un intero popolo?  “Un giorno Larisa Fëdorovna uscì di casa per non ritornarvi più.  Forse fu arrestata per istrada.  Morì, o scomparve chissà dove, un numero qualunque di un elenco andato smarrito in uno degli innumerevoli campi di concentramento femminili…”.  Di sicuro nessuno dei “piccoli” rimasti fedeli sarà dimenticato dal Signore (Apoc  21, 4), ma questo avverrà nel Giorno del Giudizio.[22]   
In questo basso mondo, le forze agenti nella storia sono costituite da minoranze agguerrite e motivate, che ora guidano ora trascinano individui e popoli, se ordinate in modo “che quando non credono più si possa far credere loro per forza” (Il Principe, cap. VI).  Possiamo dimenticare questa sgradevole verità?  Doveroso riconoscere il giusto valore dei “piccoli” anche nella grande storia.  Ma esistono “piccoli” che non appartengano inseparabilmente ad un popolo, ad uno Stato, ad una cultura comune? Esistono forse come atomi senza patria e senza storia, così come sembra presentarceli Mercadante? O come particulae capaci di aggregarsi in modo assolutamente spontaneo? In ogni caso, il salto logico da Caporetto a Cassibile può avvenire solo tramutando arbitrariamente la nostra vittoria nella Grande Guerra in una sconfitta (il fermo immagine alla falsa Caporetto di Malaparte!) e il fascismo (caduto prima di Cassibile) quale Male Assoluto, avente nell’istrionico e sempre malfacente Mussolini il suo sgangherato agente, negativo anche quando risolve (e bene) la Questione Romana --- per Mercadante, inspiegabilmente, “in pura perdita per l’autorità ecclesiastica”.[23]



[1] Maria Stella Barberi, Giuseppe Fornari, Il riscatto dei fanti.  Caporetto tra letteratura, storia e memorialistica, con una prefazione di Francesco Mercadante, Gangemi Editore-International, Roma, s.d. (ma 2019) pp. 159.    
[2] Maria Stella Barberi, Caporetto proibita.  Fanti e santi nell’opera di Curzio Malaparte, op. cit., pp. 23-70.
[3] Vedi Il riscatto dei fanti, cit., spec., pp. 26-32.
[4] Gioacchino Volpe, Caporetto, rist. di Gherardo Casini Editore, Roma, 1966, pp. 191.
[5] Giuseppe Fornari, Caporetto e il significato storico-filosofico della Grande Guerra:  le testimonianze di don Pietro Sartor e Fritz Weber, pp. 71-159.
[6] Per i passi citati, vedi: Il riscatto dei fanti, cit., pp. 71-72; 77-79. 
[7] Op. cit., p. 82.  L’autore citato nel testo è: P. Gaspari, Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata, Gaspari, Udine, 2017 (I ed. 2011).  Opera fondamentale, che ha compulsato i 16.000 memoriali degli ufficiali italiani fatti prigionieri in tutta la guerra, richiesti dalle Autorità al loro rientro, archivio unico ed immenso,  ignorato finora.
[8] “L’uomo che ci aveva martellato con undici battaglie offensive e che, metodico com’era, avrebbe continuato a martellarci dopo Caporetto, era eliminato.  E ciò costituiva per noi un notevole vantaggio”, così il generale Krauss in una lettera a un professore italiano dopo la guerra. Opinione simile espresse il generale austriaco Conrad von Hoetzendorff in una lettera alla moglie del 3 gennaio 1918.  Vedi: Emilio Faldella, La Grande Guerra. Vol. II: Da Caporetto al Piave. 1917-1918,  Longanesi, Milano, 1965, p. 277.
[9] Fornari, op. cit., p. 83.  Scrisse il generale Faldella:  “Era inevitabile che nel mondo delle trincee covasse il risentimento verso gli ‘imboscati’, tanto più che erano noti casi di favoritismi e di esoneri ingiustificati.  Questo risentimento era più forte dell’avversione alla guerra; infatti, in generale, il soldato considerava di dover fare la guerra come ci si adatta a una fatalità alla quale non ci si può sottrarre; avrebbe soltanto voluto che fosse instaurata una soddisfacente giustizia nella ripartizione del peso.  Sia ben chiaro che, nonostante tutto, il sentimento del dovere e lo spirito di sacrificio erano elevati e saldi; non si ammirerà mai abbastanza il soldato della guerra 1915-18.  Noi, allora giovani ufficiali, che vivemmo la sua vita, ci domandiamo, con un senso di colpa: abbiamo abbastanza apprezzato la sua abnegazione, misurato la gravità dei sacrifici serenamente sopportati?”.  Emilio Faldella, op. cit., pp. 290-291).
[10] La documentazione in Gaspari, op. cit., che ha dedicato anche studi monografici a queste battaglie, finora quasi ignorate, avvenute a Passo Resia, Cividale, Codroipo, Pozzuolo del Friuli…
[11] Si veda per esempio Graham Darby, The Unification of Italy, 2nd ed., 2013, CPSIA, USA, un sunto della storia d’Italia dal 1814 a oggi, per i corsi del Junior College, ove Caporetto viene così descritta:  “L’attacco, guidato dai tedeschi, penetrò per 140 km in Italia in tre settimane, distrusse gran parte dell’esercito italiano e minacciò di buttar il paese fuori dalla guerra.  Divisioni britanniche e francesi dovettero esser inviate in tutta fretta per stabilizzare il fronte”(pp. 114-5).  Mostra invece rispetto per il soldato italiano e riconosce il valido contributo dato da noi alla vittoria comune, Peter Hart, Oral Historian at the Imperial War Museum, in: The Great War, Profile Books, Londra, 2013, pp. 522, pp. 378-392.
[12] E di allucinazioni avrebbe dovuto soffrire anche il generale austriaco Konopicky, capo di stato maggiore del fronte del sud-ovest (Arciduca Eugenio), vale a dire del nostro fronte, e quindi buon testimone, dopo la battaglia d’arresto sul Piave e sul Grappa:  “Sarebbe sembrato incredibile che un Esercito, il quale usciva da una così immane catastrofe, potesse tanto rapidamente risollevarsi.” (Faldella, op. cit., p. 391).  L’alto numero di prigionieri, molti dei quali seconde linee (280.000);  l’alto numero dei caduti e dei feriti, sicuramente superiore ai 40.000 accreditati; i 350.000 e forse più sbandati in gran parte poi recuperati; l’enorme perdita di materiali di ogni tipo; gli oltre 400.000 civili mescolatisi nella fuga; tutto ciò non deve occultare il fatto che, su un fronte assai più ridotto e meglio difendibile, riuscimmo a portare in buon ordine, in grado di sostenere una valida battaglia difensiva, dalle 33 alle 38 divisioni circa.  Scosse nel morale ma nello stesso tempo decise a vender cara la pelle. La II Armata non fu completamente distrutta: ne fu annientata appunto l’ala sinistra, dieci divisioni, mentre parte delle altre circa venti divisioni di prima linea, schierate dalla Bainsizza a Gorizia, poterono ritirarsi in discreta efficienza sino al Piave.  Il fatto che la riserva fosse inizialmente costituita dai franco-britannici,  ci permise di schierare tutto il disponibile in prima linea. Vedi: Piero Pieri, L’Italia nella Prima Guerra Mondiale, Einaudi, Torino, 1965, pp. 162-163;  Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 389-392).  Il Regio Esercito risorse sul Grappa e sul Piave perché in realtà non era mai morto.
[13] Vedi:  Il riscatto dei fanti, cit., pp. 65-68.
[14] “Sul comportamento delle masse di sbandati nei lunghi giorni di marcia verso il Piave abbiamo più interpretazioni che notizie precise.  Ci limitiamo a due osservazioni.  In primo luogo, fra queste centinaia di migliaia di uomini che per più giorni ripiegano senza ordine e senza viveri non si verificano manifestazioni di violenza. Le autovetture di ufficiali dirette a Ovest sono seguite da urla e invettive, ma non risultano casi di ufficiali malmenati o uccisi.  I rapporti con la popolazione sono buoni, i contadini offrono viveri e sopportano i furti inevitabili, senza che si arrivi a episodi di rapina o di saccheggio (ci saranno stati, pare inevitabile, ma non hanno inciso nella memoria collettiva).  In secondo luogo [conclude l’Autore] i casi di fucilazioni sommarie sicuramente accertate sono 34 o 36 ordinate dal generale Andrea Graziani, alle quali vanno aggiunte meno di una decina ordinate da altri”(Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, op. cit., pp. 391-392).   
[15] Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Introduzione di Mario Isnenghi, Oscar Mondadori, 1981, p. 135.  Gli altri riferimenti a quest’opera vengono tutti da questa edizione.
[16] Il riscatto dei fanti, cit., pp. 114-134.   Il Veneto occupato subì tutti i flagelli di una vendicativa invasione straniera: saccheggi, ruberie, requisizioni, uccisioni isolate, fame, miseria, malattie, violenze carnali, prostituzione.  Il chinino, pur disponibile anche per loro in base alla scorte d’anteguerra, fu rifiutato ai civili nelle zone del delta del Piave, infestate cronicamente dalla malaria. Venticinque anni dopo, l’esperienza si sarebbe ripetuta al cubo per tutta l’italia, con la doppia occupazione straniera del biennio atroce 1943-45; una catastrofe, come ha notato uno storico, paragonabile solo a quella della tremenda  Guerra Gotica del 533-554, che fece del Paese terra bruciata e influì negativmaente su tutto il successivo sviluppo della storia italiana (Alberto Leoni, Il paradiso devastato.Storia militare della Campagna d’Italia.1943-1945, Edizioni Ares, Milano, 2012, pp. 495)..
[17] Vedi, Fornari, op. cit., pp. 83-110.
[18] Vedi, Fornari passim e Gaspari, op. cit.  L’Armata fu sciolta dopo la partenza dei tedeschi  dal nostro fronte.
[19] Sull’importanza per la vittoria finale dell’Intesa della nostra tenuta dopo Caporetto (ma anche durante le grandi battaglie dell’estate del ’18) nel quadro generale del conflitto, vedi: Giacomo Properzj, Breve storia di Caporetto, Mursia, Milano, 2017, p. 28; 83-87.  Vedi anche:  Faldella, op. cit., p. 336.
[20] Il riscatto dei fanti, cit., pp. 17-22; p. 13, riferendosi ad un autore francese contemporaneo.
[21] Op. cit., p. 21.
[22] Irène Némirovsky, ebrea russa di cultura francese e grande scrittrice, tragicamente scomparsa ad Auschwitz nel 1942-43, così ricordava l’8 marzo del 1917, vissuto da lei ancor giovane fanciulla direttamente sulla via dove passava il lungo corteo delle donne:  “Ces femmes ne chantaient pas, ne criaient pas.  Elles poussaient devant elles les enfants accrochés à leurs jupes, les grondaient ou riaient avec eux.  Quelques-unes bavardaient entre elles.  Puis, tout à coup, elles s’arrêtaient: leurs rangs semblaient frémir, et, comme un choeur sur une scène obéit à un mot d’ordre, qui n’à pas été perçu dans la salle, elles faisaient jaillir de leurs bouches ouvertes une clameur, une plainte sauvage et sourde qui montait, montait, puis retombait et s’arrêtait, brisée net.  Je demandais en vain aux grandes personnes qui m’accompagnaient: - Que veulent-elles? Que disent-elles? .  Enfin, je crus comprendre qu’elles demandaient du pain.  Ce qui était effrayant, c’était leur nombre…”(I. Némirovsky, Naissance d’une révolution. Scènes vues par une petite fille, in ID., Les mouches d’automne, précédé de La Niaia et suivi de Naissance d’une révolution, Grasset, Paris, 2009, pp. 97-103; p. 98).  Da questa testimonianza visiva, si potrebbe dire che la marcia del corteo era organizzata e diretta da una mano assai esperta nel manovrare le folle, nel servirsi dei "piccoli" per i propri fini rivoluzionari. 
[23] Op. cit., p. 16.  Il perimetro della Città del Vaticano sarebbe solo “simbolico” (ivi).  Non erano però “simbolici” i due soldati tedeschi sempre di guardia su quel perimetro-confine di Stato all’ inizio di Piazza S. Pietro, durante l’occupazione hitleriana di Roma.

giovedì 9 aprile 2020

La salvezza in tempo di pandemìa, senza poter confessare l'ultimo peccato, con il solo Atto di Dolore Perfetto - La dottrina della Chiesa (breve esposizione, a cura di Paolo Pasqualucci)



La salvezza  in tempo di pandemìa,  senza poter confessare l’ ultimo peccato, con il solo Atto  di Dolore Perfetto – La dottrina della Chiesa (breve esposizione, a cura di Paolo  Pasqualucci)

Sommario :  Assediati e isolati dalla pandemìa, la Chiesa ci esorta all’ Atto di Dolore Perfetto, che ci salva – Concetto di contrizione – Il profilo dogmatico – Contrizione e attrizione – La “tristezza che viene da Dio” ci porta al pentimento  per Amor di Dio – La “contrizione perfetta” secondo San Francesco di Sales.

* *

Assediati e isolati dalla pandemìa, la Chiesa ci esorta all’Atto di Dolore Perfetto, che ci salva.

Nella presente universale, terribile pandemía, che sta mettendo in ginocchio tutto il mondo, a causa delle restrizioni severissime imposte alla libertà di riunione e di movimento dall’autorità civile, ci troviamo privati della S. Messa e  nella condizione  di non poterci piú confessare, anche se aggrediti dal morbo e in pericolo di vita.  Come è già successo a tanti poveretti, rischiamo pertanto tutti oggi di morire in solitudine e privi del conforto religioso, completamente abbandonati.  Dio però non ci abbandona.  Mai.  Egli è il Padre Nostro Misericordioso.
È stato giustamente ricordato da alcuni sacerdoti che con la recita individuale dell’atto di contrizione perfetto (“quando proviene dall’ amor di Dio, amato sopra ogni cosa”, unito al fermo proposito di confessarsi non appena possibile) già otteniamo il perdono per i nostri peccati, anche mortali (vedi: Maike Hickson, Clergymen recommend perfect contrition and spiritual communion in times of coronavirus, blog LifeSite News, 19 marzo 2020). Pertanto, non bisogna lasciarsi prendere dallo smarrimento o addirittura dalla disperazione. Penso di far cosa utile, non solo a me stesso, nel cercare di riassumere la dottrina della Chiesa su questo vitale argomento – dottrina che forse molti non conoscono. 
Non si constata da anni che il Sacramento della Riconciliazione ossia la Confessione Sacramentale è caduta ampiamente in desuetudine, mentre si è diffusa la falsa credenza secondo la quale la salvezza sarebbe stata comunque garantita a tutti e subito, perché, come si sente assurdamente ripetere contro la lettera e lo spirito delle Scritture e l’ insegnamento tradizionale della Chiesa, “un Dio buono e misericordioso non può condannare nessuno all’eterna dannazione”?  E quando uno muore, non si sente quasi sempre dire che “è andato alla Casa del Padre”, cioè in Paradiso?  E come lo sappiamo che è andato alla Casa del Padre, ci siamo forse avocati il giudizio cui l’anima di ciascuno è sottoposta dal Signore, subito dopo la morte del corpo?  Ma del Giudizio finale, sia individuale che universale, non è rimasta in realtà praticamente traccia nell’ insegnamento della Gerarchia cattolica attuale.
Papa Francesco, in un’omelia a Santa Marta, il 20 marzo scorso ha esortato i fedeli a recitare l’ Atto di Dolore, che li salva, quando non possono accedere ad un sacerdote, come oggi purtroppo sta avvenendo:
“Se non trovi un sacerdote, parla con Dio direttamente, è tuo Padre, digli la verità, chiedigli perdono con l’atto di dolore, promettigli che poi ti confesserai con un sacerdote e questo ti darà la grazia di Dio.  Si può avere il perdono di Dio senza la presenza di un sacerdote in determinate circostanze.  Fatelo, questo è il momento giusto e opportuno.  Con un atto di dolore ben fatto l’ anima diventerà bianca come la neve” (Il Mattino.it/primo piano/vaticano/coronavirus-italia_papa_francesco etc., 20 marzo 2020). 
Il Papa parlava a braccio, si è limitato a ricordare che l’atto di dolore deve essere ovviamente “ben fatto” per esser gradito a Dio.  Che, nella situazione specifica, debba esprimere una contrizione perfetta, l’ ha comunque ribadito una Nota della Penitenzieria Apostolica circa il Sacramento della Riconciliazione nell’attuale situazione di pandemia, pure del 20 marzo scorso, in un paragrafo applicante l’art. 1452 del Catechismo della Chiesa Cattolica:  “Laddove i singoli fedeli si trovassero nella dolorosa impossibilità di ricevere l’assoluzione sacramentale, si ricorda che la contrizione perfetta, proveniente dall’amore di Dio amato sopra ogni cosa, espressa da una sincera richiesta di perdono (quella che al momento il penitente è in grado di esprimere) e accompagnata dal votum confessionis vale a dire dalla ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale, ottiene il perdono dei peccati, anche mortali (cf. CCC, n. 1452).” (http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/03/20/01/00379.html).
   Ora, nella formula dell’ atto di dolore comunemente in uso, la contrizione per l’ offesa da noi recata a Dio Padre con il nostro peccato, è chiaramente espressa e in posizione concettualmente dominante.  Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i vostri castighi  e molto più perché ho offeso Voi, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa.  Propongo col vostro santo aiuto di non offendervi mai più e di fuggire le occasioni prossime del peccato.  Signore, misericordia, perdonatemi.  

* *
Ho consultato tre classici manuali del passato, di autori tedeschi degli anni Venti e Cinquanta del Secolo scorso, da me reperiti a suo tempo in traduzione francese sul mercato antiquario, in passato tutti debitamente tradotti in italiano:
1.  Précis de théologie morale catholique del P. Héribert JONE, tr. fr. dell’ Abbé Marcel Gautier, Éd. Salvator, Mulhouse, 1941;
2.  Précis de théologie dogmatique  di mons. Bernard BARTMANN, 2 voll., tr. fr. ugualmente dell’ Abbé Marcel Gautier, Éd. Salvator, Mulhouse, 1951.
3.    Précis de théologie dogmatique  del P. Louis OTT, tr. fr.  dell’ Abbé Marcel Grandclaudon, Éd. Salvator, Mulhouse, 1954.
Le traduzioni in italiano dei passi tratti da questi testi sono mie.  Tutti questi autori illustrano la dottrina sul Sacramento della Penitenza insegnata dal dogmatico Concilio di Trento nel Decreto sulla Penitenza e l’Estrema Unzione, Sess. XIV, 25 nov 1551; DS 893a-929/1667-1719.  Essa viene spiegata ampiamente nel Catechismo Tridentino, fatto pubblicare da S. Pio V nel 1566 ad uso dei parroci per decreto del Concilio di Trento, il cui nome ufficiale è Catechismo Romano ad uso dei parroci (vedi: Catechismo Tridentino, tr. it. del P. Tito S. Centi, O.P., ediz. Cantagalli, Siena, 1981, §§ 248-251).  
Per l’ attuale, nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, vedi CCC, artt. 1451-1454, riproponenti in modo sintetico la dottrina del Concilio di Trento sulla contrizione:  art. 1451 “Tra gli atti del penitente, la contrizione occupa il primo posto.  Essa è ‘il dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire’”;  art. 1452  “Quando proviene dall’ amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta “perfetta” (contrizione di carità).  Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, alla confessione sacramentale”.  Art. 1453  “La contrizione detta “imperfetta” (o “attrizione”) è, anch’ essa, un dono di Dio, un impulso dello Spirito Santo. Nasce dalla considerazione dalla bruttura del peccato o dal timore della dannazione eterna e delle altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore (contrizione da timore).  Quando la coscienza viene così scossa, può aver inizio un’evoluzione interiore che sarà portata a compimento, sotto l’azione della grazia, dall’assoluzione sacramentale.  Da sola, tuttavia, la contrizione imperfetta non ottiene il perdono dei peccati gravi, ma dispone a riceverlo nel sacramento della Penitenza.”  L’ art. 1451 riprone la definizione tridentina (Sess. XIV, cap. 4); l’ art. 1454 indica i testi più adatti a prepararsi degnamente alla contrizione:  la catechesi morale dei Vangeli e delle Lettere degli Apostoli, il Discorso della Montagna, gli insegnamenti apostolici.  Ad essi  possiamo aggiungere, senza pretesa di completezza: L’ imitazione di Cristo; L’ introduzione alla vita devota di S. Francesco di Sales, il Trattato sull’amore di Dio dello stesso autore; L’ apparecchio alla morte, meditazioni sulle massime eterne di S. Alfonso M. de Liguori.


Concetto della contrizione

 Nel § 559 del suo manuale, Jone, dopo aver ripetuto la nozione tridentina della contrizione (vedi supra , art. 1451 CCC), così spiega la differenza tra contrizione perfetta e imperfetta 
a)  La contrizione è perfetta (contrizione propriamente detta) quando il motivo del pentimento è costituito dall’ amore di Dio, con il quale amiamo Dio in quanto di per se stesso Sommo Bene.  In questo caso, rimpiangiamo il peccato mortale commesso poiché ha offeso il Sommo Bene, di per sé sommamente amabile.  Questa contrizione giustifica il peccatore anche al di fuori del Sacramento [della Confessione] purché essa ne contenga almeno implicitamente il desiderio (votum sacramenti).    
 b)  La contrizione è imperfetta (detta anche attrizione) quando consta del rimorso [per il peccato] non prodotto dal nostro amor di Dio ma da un altro motivo sovrannaturale non in relazione con Dio (p. es.: l’ orrore del peccato, le pene eterne e temporali con le quali Dio lo punisce).  Questa contrizione è sufficiente a giustificare il peccatore [ma solo] in unione con la confessione.” (op. cit., p. 288).
La migliore esposizione della nozione teologica della contrizione mi sembra quella fornita dall’illustre Bartmann.
“Il Concilio di Trento descrive la contrizione come “animi dolor ac detestatio de peccato comisso, cum proposito non peccandi de cetero” (D 897).   Da questa definizione risulta il fine della contrizione:  lo sradicamento del peccato dal cuore e dalla volontà.  Risulta anche la sua necessità:  in sua mancanza, è impossibile che Dio perdoni il peccato.
Il termine contrizione (da contèrere, tritare, sminuzzare, distruggere a poco a poco) comporta l’ idea del rompere sino a ridurre in frammenti, in polvere.  Si trova anche compunzione (da compungere), che indica il trafiggimento dell’uomo interiore.  Il termine si trova già presso Tertulliano.  Il Catechismo romano [più noto come Tridentino] spiega il significato di contrizione a simiglianza dell’azione di frantumazione di oggetti duri:  il pentimento frantuma [conteret] i cuori induriti [nel peccato]. Esso spiega anche l’ immagine del trafiggimento:  il cuore deve, per così dire, esser trapassato dal pentimento affinché il veleno del peccato possa esserne espulso [vedi Catechismo romano, § 248].
Il Concilio di Trento ha fissato i tre elementi della nozione di contrizione:  il dolore, la riprovazione, il proponimento [di non più peccare].  Il dolore è un dolore spirituale.  Nasce e cresce non nell’àmbito fisico ma in quello morale.  La sua fonte è nell’intelligenza e nella volontà.  Nell’ intelligenza, che conosce e individua il peccato come opposizione all’ ordinamento morale stabilito da Dio; nella volontà, che riprova e respinge il peccato riconosciuto e in tal modo lo rigetta.  La funzione dell’ intelligenza si sviluppa nel rimorso, nel senso di orrore, nella condanna del peccato,  causa della dannazione eterna.  La funzione della volontà è quella di provocare un sentimento di ripulsa e fuga dal peccato, sentito come cosa mostruosa e sventurata.   Queste due funzioni sono strettamente connesse e non devono esser separate.  Il dolore della contrizione ha la sua causa soprattutto nell’impressione penosa prodotta dal male che si è causato.
L’ avversione e la riprovazione costituiscono la natura propria della contrizione.  Ne consegue logicamente il dolore spirituale volontario (dolor in voluntate).  Avversione, riprovazione, dolore riguardano il passato. Per ciò che riguarda il futuro, la contrizione si trasforma essa stessa in buon proponimento.  In effetti, il medesimo giudizio e la medesima decisione sul peccato passato, si applicano anche al peccato che ci minaccia in futuro.
 Da quanto si è visto, la contrizione occupa tutto l’ uomo interiore; essa lo vuole trasformare  fin nell’intimo del suo spirito.  Si inizia dall’ intelligenza, ma non svolge il suo corso nella sola intelligenza, quale atto di pura riflessione personale (resipiscentia), come quando si nota un errore o lo si corregge – questa era la concezione degli Stoici, la cui metánoia voleva letteralmente dire mutamento d’opinione;  nel senso cristiano, quest’ atto contiene il riconoscimento di un errore morale che la volontà deve correggere sopprimendone la causa.  Pertanto,  perno ed esito della contrizione si trovano nella volontà.  Per questo, S. Tommaso definisce il dolore della contrizione un dolore volontario (dolor in voluntate :  Suppl. 1, q. 2 ad 1).
Il “dolore” dell’ anima è necessariamente legato, nel peccatore, alla “riprovazione” poiché, nel peccato, egli vede la sua stessa opera.  Tuttavia la riprovazione e il dolore non sono sempre uniti.  Dio e i santi detestano il peccato ma non ne provano dolore e quindi non conoscono la contrizione.  Il buon proponimento è sempre incluso nella vera contrizione.  Perché la contrizione sia salvifica occorre che sia unita alla speranza di perdono.  Infine, come risulta dal Nuovo Testamento, occorre che la contrizione contenga la volontà di confessarsi e di dare soddisfazione [con le opere di penitenza] dal momento che Dio vuole accordare il suo perdono con questi mezzi sacramentali. 
La concezione posttridentina della contrizione è identica, oggettivamente se non formalmente, alla concezione della contrizione e della confessione così come sono esistite nella Chiesa sin dai primi tempi.” (Bartmann, op. cit., II, pp. 415-416, § 194).    
La contrizione deve avere determinate caratteristiche o qualità.  Deve essere:
“1. Interiore, in quanto atto della volontà e dell’ intelligenza. Gioele, 2, 13 : “Stracciate i vostri cuori, non le vostre vesti!”.  In quanto elemento del segno sacramentale, deve anche manifestarsi all’esterno, nell’accusare se stessi in confessione.
2. Sovrannaturale , se si produce sotto l’ influenza della grazia attuale e nasce da un motivo moralmente buono mirante alla riconciliazione con Dio.  Una contrizione puramente naturale non ha alcun valore per la salvezza (D 813, 1207). [Una contrizione solo naturale sarebbe quella di pentirsi pensando alla perdita di reputazione o di guadagno o di affetti provocata dal nostro peccato].
3. Universale quando si estende a tutti i peccati gravi commessi.  È impossibile che un peccato grave sia perdonato e gli altri no [perché non sono stati accusati – bisogna accusare tutti i peccati dei quali ci ricordiamo, dopo un onesto esame di coscienza].
4.  Sovrana (appretiative summa), quando il peccatore detesta il peccato come il male più grande ed è pronto a sopportare un male anche grande piuttosto che offendere nuovamente Dio con un peccato grave.  Tuttavia, non occorre che la contrizione sia sovrana anche nel dolore (intensive summa)”(Ott, op. cit., p. 587).  Non occorre, cioè, che la contrizione, per esser valida, debba raggiungere necessariamente il più alto grado di dolore, impossibile a determinarsi a priori, e che in definitiva “non è in nostro potere realizzare” (Jone, cit., p. 289).    

Il profilo dogmatico

Si può dunque esser giustificati e morire in grazia di Dio anche se non ci si è alla fine potuti confessare con il sacerdote;  ciò è particolarmente importante nella situazione attuale, a causa di questa pandemìa inaudita che ha messo “in quarantena” intere nazioni ed anzi tutto il mondo, portando ad abolire la libertà di riunione e movimento delle persone, ecclesiastici inclusi, e di fatto ad ostacolare fortemente se non ad impedire del tutto il culto pubblico.
Dal punto di vista dogmatico la dottrina della capacità salvifica della contrizione perfetta, viene spiegata nel seguente modo:
“La contrizione perfetta, unita al desiderio del Sacramento, giustifica il peccatore reo di un peccato mortale, anteriormente alla recezione stessa del Sacramento” ossia ancor prima di confessarsi.  Questa tesi non è di fede ma fidei proxima, prossima alla fede. (Bartmann, cit., p. 421).
Questa dottrina è “prossima alla fede” perché  “non è definita formalmente ma è espressa incidentalmente dal Concilio di Trento, insegnata universalmente dai teologi e attestata con certezza dalla Scrittura.”  (op. cit., ivi).  Il desiderio del Sacramento, ossia di confessarsi, è indispensabile dal punto di vista salvifico.  Lo ribadisce a ragione il Concilio di Trento.  Altrimenti, non rischieremmo di diventare giudici di noi stessi, di cadere nel soggettivismo?  “Insegna, inoltre, il Concilio che, se anche avviene che questa contrizione talvolta possa esser perfetta nell’amore, e riconcilia l’ uomo con Dio, già prima che questo sacramento realmente sia ricevuto, tuttavia questa riconciliazione non è da attribuirsi alla contrizione in sé senza il proposito di ricevere il sacramento incluso in essa” (D 898; Concilio Tridentino, sess. XIV, cap. 4, in Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di Rodomonte Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 597).
Questa pronuncia così netta del dogmatico Tridentino ha il significato di una vera e propria verità di fede, come rileva Ott :  “La giustificazione extra-sacramentale risulta dalla contrizione perfetta solo se quest’ultima si accoppia al desiderio del sacramento (votum sacramenti).  De fide.  Mediante il votum sacramenti il fattore soggettivo e il fattore oggettivo della remissione dei peccati, l’ atto di contrizione del penitente e il potere delle sante chiavi della Chiesa entrano in vicendevole relazione.  Il desiderio del sacramento è virtualmente contenuto nella contrizione perfetta” (Ott, op. cit., p. 589). 
Nell’ Antico Testamento la contrizione perfetta era per gli adulti l’unico modo di remissione dei peccati, dal momento che non esisteva confessione sacramentale, istituita dal Verbo Incarnato.  Si citano sempre due famosi passi dal libro di Ezechiele:  “l’ empio non perirà per la sua iniquità, qualora se ne ritragga” (Ez 33, 12); “tuttavia, se l’ iniquo si ritrae dai peccati che ha commesso, osserva tutti i miei precetti, e fa ciò che è giusto e retto, egli avrà la vita [eterna], non perirà”.  E in aggiunta, il Salmo 32 (31), 5:  “Dolente  io m’ avvolgea tra acute spine/ ma or confesso e non nego il mio peccato./ A te dissi: mi confesso in colpa./ E tu gl’empi miei falli perdonasti”. (La Sacra Bibbia, ed. Paoline, 1963)   
La legge del timore consentiva questa grande possibilità di perdono, tanto più la consente il Nuovo Testamento, “legge di misericordia e di grazia”. (Bartmann, op. cit., p. 422).    L’ episodio neotestamentario classico della contrizione perfetta è quello della remissione dei peccati della peccatrice notoria,  identificata dalla tradizione cristiana con Maria Maddalena:  “I suoi numerosi peccati  sono stati perdonati perché essa ha molto amato” (Lc 7, 47).  Si intende: ha molto amato Me e per amor mio si è umiliata in questo pubblico pentimento, risultante dall’ omaggio a Me, fatto versando amare lacrime prostrata ai miei piedi, che ha cosparso di un prezioso unguento.  Vi sono poi i noti testi di S. Giovanni e della Prima Lettera di S. Pietro.  Ricordo solo: “Chi ama Dio è nato da Dio” (1 Gv 4, 7); “L’amore [verso Dio] copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4, 8).
Non bisogna però credere che la nostra contrizione, per ottenerci il perdono, debba sempre esser perfetta.  Per una “ricezione degna” del Sacramento della Penitenza la contrizione perfetta non è obbligatoria; basta la contrizione imperfetta, purché contenga “un inizio di amore per Dio.”  Questa è almeno l’opinione teologica piú ampiamente diffusa (Bartmann, cit., pp. 422-424).  Anch’ essa si fonda sul dettato del Tridentino.
“Il Concilio dichiara anche che quella contrizione imperfetta, che vien detta ‘attrizione’ perché prodotta comunemente o dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore dell’ inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare con la speranza del perdono, non solo non rende l’ uomo ipocrita e maggiormente peccatore [come riteneva erroneamene Lutero, seguíto poi dai Giansenisti – Bartmann], ma è addirittura un dono di Dio ed un impulso dello Spirito Santo – che non abita ancora nell’anima ma soltanto la sprona – da cui il penitente viene stimolato e con cui si prepara la via alla giustizia.  E quantunque per sé, senza il sacramento della penitenza, sia impotente a condurre il peccatore alla giustificazione, tuttavia lo dispone ad impetrare la grazia di Dio nel sacramento della penitenza.  Scossi, infatti, salutarmente da questo timore, gli abitanti di Ninive fecero penitenza alla predicazione di Giona, piena di minacce.  Ed ottennero misericordia da Dio [Gn 3, 5]”.  (Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., ivi).

Contrizione e attrizione

Perché la contrizione imperfetta si chiama tecnicamente attrizione, attritio?  Ai nostri giorni il termine può apparire astruso, se non incomprensibile.  Ma è facilmente spiegabile.
La parola “attritio”, sottolinea  Ott, “è in uso dalla seconda metà del XII secolo (presso Simon de Tournai prima del 1175).  Il suo significato è variato nella teologia scolastica.  Molti teologi vi hanno visto una contrizione che non racchiude la volontà di confessarsi e di dare soddisfazione o il fermo proposito di correggersi.  Pertanto è spesso considerata come insufficiente per la remissione dei peccati” (Ott, cit., ivi). 
 Il termine deriva dal latino, ovviamente: è un composto del verbo tero (trivi, tritum, tèrere) : sfrego, liscio; batto, calco; rendo trito, logoro; trituro, calpesto;  consumo.  La “attritio” dei teologi è in sostanza la stessa parola di “attrito”, in italiano.  Contrizione e attrizione sono dunque due composti di tero : con-tero; ad-tero.  Nel latino classico, la “con-tritio”  era, ci informa sempre il Georges-Calonghi, lo schiacciamento, il tritare, il pestare – nei testi religiosi cristiani, e quindi nel tardo latino, in senso traslato: rovina, miseria, abbattimento dell’ animo, pentimento, contrizione – l’ animo, o meglio il nostro orgoglio, che viene come ad esser schiacciato, tritato dal senso di colpa per il peccato. La “ad-tritio”, invece, uno sfregamento, sminuzzamento, con l’ idea di scorticature, escoriazioni, cose risultanti appunto da un contatto per attrito che non frantumi; in senso traslato: esposizione debole, fiacca, p.e. di un oratore (sempre Georges-Calonghi).  Si capisce, allora, che i teologi medievali abbiano voluto usare il termine “attritio” per indicare la contrizione meno perfetta in quanto scortichi per così dire il peccatore ma senza arrivare a quella “demissio animi”, a quell’abbattimento, a quel pentimento che è proprio della contrizione perfetta.   Senza cioè arrivare ancora a quel dolore per aver offeso Dio con il nostro peccato, quel dolore che è espressione dell’amor di Dio che noi dobbiamo pur giungere a provare verso Dio  nostro Padre .
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto:  la contrizione, per esser gradita a Dio, e in sostanza valida, dovrebbe esser sempre perfetta?  Questa sembra esser stata l’opinione di molti scolastici, ci spiega Bartmann, tra i quali anche S. Bonaventura, detti appunto contrizionisti.  Ma dopo il Concilio di Trento tale opinione non è più sostenibile, avendo il Concilio definito l’ assoluzione del penitente un atto consacratorio oltre che una vera e propria sentenza di assoluzione, grazie alla quale l’ assoluzione “è effettivamente operata dal sacerdote”, anche in presenza di una contrizione imperfetta; la quale, come si è visto, non giustifica ancora il peccatore ma lo dispone ad impetrare la grazia di Dio nel sacramento della Penitenza.  I teologi posttridentini sono praticamente tutti attrizionisti.  Essi, tuttavia, discutono sull’essenza dell’attrizione, basandosi sempre sul dettato conciliare.  Si è visto, prosegue Bartmann, che il Concilio fa scaturire l’ attrizione dalla percezione della “bruttezza del peccato” e/o dal timore dell’ inferno e delle pene.  “La prima forma d’ attrizione si fonda su un motivo più nobile, dal momento che il giudizio su questa bruttezza risulta dall’ opposizione tra il peccato e Dio o persino fra il peccato e la virtù.  A questa considerazione è sempre connesso un tratto d’amore [per Dio], anche solo come amore-speranza [vedi infra].  Ma la questione nasce dal motivo del timore […] Il Tridentino insegna che il timore è un dono di Dio (e quindi una grazia) ed un impulso dello Spirito Santo, per quanto lo Spirito non dimori ancora nell’ anima ma si limiti ad agitarla:  con l’aiuto dello Spirito Santo il peccatore prepara la via che lo conduce alla giustificazione.  Insegna, difatti, il Concilio che l’attrizione in sé e per sé, senza il Sacramento della Penitenza non può condurre il peccatore alla giustificazione e tuttavia lo dispone ad ottenere la grazia del Sacramento della Penitenza (disponit, recita, in sostituzione di un iniziale sufficit, Sess. 14, cap. 4, D 898, can. 5)” (Bartmann, p. 423).
Possiamo dunque esser certi, noi fedeli, che la contrizione dovuta al timore non risulta esser da sola “disposizione sufficiente” alla giustificazione ma ne costituisce un valido presupposto, per la maggior parte di noi probabilmente indispensabile.  Il timor di Dio (che non vuol esser un terrore di Dio) deve dunque esser un timor servilis che non si esaurisce nella paura del castigo ma teme sinceramente anche di perdere Dio, di trovarsi per sempre separato da Lui, avendolo offeso con il proprio peccato.  Il timore servile limitato alla paura o al terrore del castigo, anzi, “è immorale” perché non si accompagna ad una nitida ripulsa del peccato e non esclude affatto la volontà di (tornare a) peccare, dal momento che “fa astrazione da Dio”.
Deve trattarsi, spiegano i teologi, nel loro linguaggio, di  un timor simpliciter servilis:  votato per sua natura al dolore provocato dalla perdita di Dio.  Quest’ultimo timore “è un atto moralmente valido ed è raccomandato nei due Testamenti (Prov 1, 7; 9. 10 – Is  11, 3 -  Mt 10, 28 – Luc 12, 5  - Phil  2, 12).”  In questo “timore”  appare un inizio di amor di Dio e ciò è sufficiente per la “contrizione sacramentale”. (Bartmann, op.cit., ivi).
Ma è bene tener presente che il Tridentino non si limita a pretendere che “l’attrizione escluda la volontà di peccare”.  Vuole anche, come si è visto, “che essa sia unita alla speranza del perdono e pertanto del conseguimento del bene dell’ eterna beatitudine.  Una speranza di vita eterna, che per la nostra fede è per definizione possesso di Dio, è impossibile senza l’amore per questa vita:  senza quest’amore, non sarebbe una speranza cristiana” (op. cit., p. 424).  Ciò risulta esplicitamente dalla dottrina tridentina sulla giustificazione (Sess. VI, cap. 6, D 798 e c. 14).
Il fatto è, conclude Bartmann, che l’autentico timor simpliciter servilis è in realtà espressione del vero timor filialis con il quale amiamo Dio nostro Padre che è nei Cieli.  Questo lo si vede chiaramente nella Parabola del Figliuol Prodigo.  Qui il Signore ci ha voluto dare l’ esempio “tipico” del penitente.
“Senza dubbio, la fame è il castigo che lo fa di colpo rinsavire.  Ma, sia da solo (Lc 15, 19)  che in presenza del padre (Lc 15, 21) non si duole per la punizione – accetta volentieri di esser retrocesso a salariato di suo padre – ma del fatto di aver peccato contro il Cielo (Dio) e contro suo padre e di essersi pertanto reso indegno di esser chiamato figlio.  Lamenta il suo errore perché l’ha separato dal padre” (Bartmann, p. 424).
Possiamo dire che la figura del penitente esemplare sia testimoniata piú volte nei Vangeli. Nel  caso della Peccatrice notoria abbiamo una contrizione giunta alla perfezione:  il dolore per i propri gravi peccati (maturato, possiamo immaginare, quale disperata risposta interiore a molteplici situazioni umilianti e vergognose, imputabili soprattutto a lei stessa), si manifesta apertamente alla fine come dolore non solo per aver vissuto una vita immorale, in violazione dei comandamenti divini, ma anche come sofferenza acuta per esser venuta meno nell’amor di Dio, la caritas unica fonte della nostra salvezza, cui la sventurata donna rende omaggio di fronte a tutti, umiliandosi di fronte alla divinità di Gesù. 
Nella figura del Figliuol Prodigo, creata come tipo dal Signore stesso nella celebre parabola, abbiamo una contrizione imperfetta, in quanto causata da motivi contingenti quali la miseria, le umiliazioni e il conseguente abbattimento morale, nella quale comincia ad apparire tuttavia  la contrizione perfetta, nel rendersi conto di aver peccato, per ingratitudine e superbia, contro il proprio padre e contro Dio nostro Sommo Bene.  In questa presa di coscienza del peccatore emerge la connessione fra il giusto timor di Dio e l’amor di Dio:  timore per i suoi giusti castighi, che vengono accettati; amore per la bontà che manifesta nei nostri confronti, amandoci in quanto sue creature e concedendoci il perdono quando ci pentiamo dei nostri peccati. 
 Nell’ episodio della conversione di Zaccheo, si vede come questo pubblicano, disprezzato da tutti come peccatore perché col suo mestiere si “contaminava” con i Romani pagani, di fronte alla bontà con la quale Gesù inaspettatamente lo tratta, si penta immediatamente della sua vita di arcigno esattore di balzelli, impegnandosi a dare ai poveri la metà dei suoi beni e a restituire il quadruplo di ciò che avesse eventualmente maltolto (Lc 19, 1-10).  Ciò che lo spinge al pentimento e a cambiar vita non è la paura del castigo ma la bontà del Signore, l’ amor di Dio che improvvisamente si manifesta verso la creatura, la quale, illuminata dalla grazia, risponde slanciandosi a sua volta con generosità in questo Amore di origine sovrannaturale, rispondendo con la carità alla carità che in modo sovrannaturale l’ha investita e come travolta, ampliando a dismisura l’ impulso che l’aveva spinta a salire su un albero per riuscire a veder passare Gesù tra la folla.
L’ Adultera colta sul fatto (Gv 8, 1-11), che Gesù sottrae all’esecuzione con lo smascherare l’ipocrisia di chi vi si apprestava (“Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”), manifesta il suo pentimento con il suo stesso atteggiamento di umile gratitudine al Signore che l’aveva salvata da una morte crudele ed ignominiosa.  Ma il significato profondo dell’episodio sembra essere quello di voler rivelare, ancora una volta, la grande misericordia di Dio nei confronti dei peccatori, che possono essere assolti dai peccati piú gravi, a patto che il loro pentimento (ancora imperfetto o in nuce) si traduca in un radicale mutamento di vita, nel modo desiderato da Dio (“Va’, e non piú peccare!”).
E infine, nella conversione del Buon Ladrone sulla croce, accanto a Cristo (Lc 23, 39-43), non c’è da restar ancora una volta stupiti dalla generosità senza fine della divina misericordia?   Uno dei due criminali messigli accanto forse per sfregio, lo insulta; l’ altro invece, riesce a dire, rimproverando il primo:  “Non temi Iddio, tu che soffri la stessa condanna?  Per noi, è giustizia, perché riceviamo degna pena dei nostri delitti, ma lui non ha fatto niente di male”.  Poi soggiunse:  “Gesù, ricordati di me, quando ritornerai nel tuo regno!”.  E Gesù gli rispose: “In verità ti dico: oggi sarai in Paradiso con me”.   Nel cuore di quell’uomo non si era evidentemente spento il senso della giustizia, risvegliato dalle offese profferte dal suo ex-compare.  Di fronte all’ evidente innocenza di Gesù, riconosce la propria colpa e la giustizia della condanna inflittagli.  Che Gesù fosse esposto alla folla come Re illegittimo, risultava dal cartiglio trilingue infisso in alto sulla sua croce, ma risultava anche dai dileggi che egli aveva subìto durante l’ ascesa al Calvario: i due criminali dovevano averli sentiti, visto che erano stati condotti al supplizio assieme a lui (Lc 23, 32: “Ducebantur enim et alii duo nequam cum eo, ut interficerentur”- Conducevano infatti con lui due altri criminali, per giustiziarli).  E subito dopo, riconoscendo in tal modo la natura divina di Cristo, gli chiese umilmente di “ricordarsi di lui” una volta “tornato nel suo Regno”, che non era evidentemente di questo mondo.  Abbiamo qui:  la confessione delle proprie colpe, implicita ma evidente nel riconoscimento della giustizia della condanna ricevuta.  E subito dopo, la richiesta di esser perdonato dal Figlio di Dio,  che appena morto sulla croce sarebbe tornato nel suo Regno celeste: “ricordati di me”, vile uomo peccatore, che sconta giustamente ora le sue gravi colpe, morendo nell’ infamia.  L’ assoluzione immediata con addirittura il premio del Paradiso, può forse sembrare eccessiva?  Sicuramente no.   Non sta certamente a noi sindacare la vastità e la profondità della divina Misericordia, in quale misura essa voglia assolvere un peccatore sinceramente pentito delle sue gravi colpe, che in punto di morte si rimetta all’Amor di Dio per esser da Lui “ricordato” nella vita eterna.  Nell’assolvere dalla Croce il Buon Ladrone, il Signore si comportò esattamente come il “il Padrone della Vigna” della sua parabola sugli “operai della Vigna”, il quale per bontà volle dare agli operai dell’ undicesima ora la stessa ricompensa di quelli che avevano lavorato tutto il giorno (Mt 20, 1-16; spec.: 15-16). 

La “tristezza che viene da Dio” ci porta al pentimento  per Amor di Dio

La recita dell’Atto di Dolore perfetto è un grande strumento di salvezza messo a nostra disposizione dalla divina Misericordia.  Strumento ordinario, dal momento che possiamo ed anzi dovremmo utilizzarlo ogni giorno, nella recita delle nostre devozioni private, al mattino e alla sera, se lo recitiamo con il giusto spirito.  Per la mentalità del nostro tempo, tuttavia, non potrebbe esso sembrare qualcosa di astratto o addirittura di mistico, poco alla portata del comune fedele?   Viviamo immersi in un mondo completamente secolarizzato, sempre piú ostile alla vera religione, votato ad un carpe diem vorticoso, al quale idee che sono nello stesso tempo ideali, come quello della perfezione, poco o nulla dicono.  Il nostro è anzi il mondo dell’ imperfezione sistematica, perché in balía del movimento continuo e disordinatissimo delle passioni, degli istinti, dei desideri - un formicolio febbrile, chiuso in un universo senza luce.  Sappiamo bene che questa mentalità ha infestato anche la Chiesa visibile e molti cattolici hanno perso memoria delle devozioni quotidiane, a cominciare dall’Atto di Dolore.  Come potranno, ora, atterriti dalla paura della morte che dilaga nelle nostre città e lasciati soli, senza poter ricorrere alla confessione sacramentale, elevarsi di colpo, senza preparazione, alla dimensione spirituale richiesta da un Atto di Dolore che si definisce perfetto?
L’ attuale Gerarchia cattolica ci ha abituato a tanti compromessi con la mentalità, gli pseudo-valori, i costumi profani, anche i peggiori, ed ora ci viene a dire che per salvarsi in tempo di pestilenza, rimasti  s o l i , dobbiamo saper recitar bene l’ Atto di Dolore perfetto? Ma non si è sempre detto che “la perfezione non è di questo mondo”?  Perché allora all’improvviso i preti ci caricano di questo peso, dopo averci lasciato credere che alla morte andremo in pratica tutti “alla Casa del Padre”, buttandoci tra i piedi quest’idea del pentimento per  Amor di Dio indispensabile alla nostra salvezza, come se fosse un’idea semplice da capire e mettere in pratica per noi:  per NOI, generazione allevata (complici gli stessi preti) nel culto della Dignità dell’ Uomo e dei diritti umani, su di essa costruiti?
Ma non dobbiamo scoraggiarci.  Considerando attentamente l’ insegnamento tradizionale della Chiesa vi troveremo la guida sicura per utilizzare gli strumenti della salvezza offerti dalla Chiesa stessa, e proprio muovendo dall’ esperienza nostra quotidiana di uomini peccatori.  Ovviamente, purché da parte nostra ci sia il desiderio sincero di andare incontro al Signore che ci parla, di non chiudersi alla sua Grazia, di pentirsi, di ottenere l’assoluzione per i nostri peccati, di non piú peccare, di voler entrare nella vita eterna.  
* *
Come ridorda Ott, “la paura del castigo è senza dubbio il motivo più frequente della contrizione imperfetta, anche se non l’unico” (Ott, p. 590).  E che tale contrizione imperfetta sia anch’essa raccomandata da Nostro Signore risulta dalla sua severa esortazione alla penitenza in generale, ossia a pentirsi e a cambiar vita, anche solo per paura della morte, se non si vuole appunto subire il castigo della dannazione, perire cioè di fronte a Dio così come perirono certi Galilei (ribelli) sterminati all’ improvviso da Pilato o i diciotto poveretti schiacciati all’ improvviso da una torre che era rovinata loro addosso (Lc 13, 1-5).  Bisogna dunque esser preparati alla morte improvvisa, anche crudele; e si può esserlo solo preparandosi  p r i m a ,  appunto con gli strumenti della preghiera, della contrizione, del mutamento di vita, sorretti dalla ragione e dalla volontà; in una parola, dal nostro libero arbitrio.  Con il nostro libero arbitrio facciamo l’ esame di coscienza, che dovrebbe essere giornaliero, poiché non sappiamo “né il giorno né l’ ora della nostra morte” e ogni giorno potrebbe essere l’ ultimo della nostra vita.   
Ora, accanto alla p a u r a  della morte (e quindi del giudizio e del castigo eterno), tra i motivi autentici della nostra contrizione, quelli sui quali ci possiamo esercitare con il nostro libero arbitrio, un posto di rilievo occupa certamente la percezione della “bruttezza del peccato”.  Questo è un passaggio essenziale.  Ci rendiamo conto, ad un certo punto, dapprima oscuramente poi in modo sempre piú nitido, di quanto fosse orribile ciò che sventatamente ci ha attratto al punto da farci cadere in tentazione.  E non mi riferiscro solo alle tentazioni carnali bensí a tutti quegli impulsi che ci hanno consegnato all’ira, all’odio, alla menzogna, all’avidità, all’ egoismo, sia nell’azione che nei desideri…La percezione della vera natura del peccato da noi commesso ci provoca un salutare senso di umiliazione interiore (“come ho potuto far questo, o solo pensarlo?”), abbassando il nostro orgoglio, nutrendo il nostro giusto rimorso.  Ci sentiamo in colpa verso coloro che abbiamo offeso o desiderato di offendere ma ci sentiamo anche pieni di disprezzo per noi stessi, per la nostra debolezza, la mancanza di forza di volontà, il cedimento completo agli istinti.  E ci rendiamo conto che anche i peccati di desiderio (IX e X Comandamento), spesso mortali (pensiamo solo all’ orrida concupiscentia oculorum suscitata da erotismo e pornografia dilaganti su internet), pur non offendendo nessuno al di fuori di noi stessi, offendono grandemente Iddio, che non può accogliere nel suo Regno un cuore impuro, perché sempre dominato dai desideri piú torbidi.   
L’interiore pentimento, che ci devasta l’anima, si rivolge inizialmente a fatti e significati solo umani e tuttavia non può avere un’origine solamente umana:  in esso è già all’opera lo Spirito Santo, come giustamente ci insegna il Tridentino.  Il rimorso e la riprovazione per il male compiuto, il disprezzo di se stessi, ci provocano una tristezza profonda, un dolore che non ha come tale a che vedere con la paura della dannazione.  È quella “tristezza salutare” della quale parla San Paolo nella Seconda Lettera ai Corinti:  “salutare” perché induce al pentimento, primo passo verso la salvezza, e induce al pentimento perché viene da Dio.
“Pur avendovi rattristati con la mia Lettera, non me ne pento:  e anche se già me ne doleva, poiché vedo che quella vi ha rattristati per breve tempo, ora ne godo, non per il fatto che siete stati rattristati, ma perché quella vostra tristezza vi ha condotto al pentimento.  Vi siete infatti rattristati secondo Dio, sì da non ricevere alcun danno da parte nostra.  Or, la tristezza che è secondo Dio [secundum Deum tristitia], produce un pentimento salutare, che non si rimpiange, perché conduce a salvezza; mentre la tristezza del mondo procura la morte”(2 Cr 7, 8-10).
Saeculi autem tristitia mortem operatur : parola di San Paolo cioè del Signore, che lo ispirava.  Ma perché la precedente Lettera dell’ Apostolo aveva contristato i fedeli di Corinto?   Gravi erano stati i loro scandali:  avevano tollerato tra loro la presenza di un uomo che conviveva con la propria matrigna, cosa illecita anche per i pagani; tolleravano i cattivi cristiani senza riprenderli; erano solcati da liti reciproche, anche con risvolti giudiziari; si lasciavano andare alla fornicazione (1 Cr 5-6). Oltre ai severi rimproveri, S. Paolo comminava sanzioni, ordinando di cacciare l’ incestuoso, con l’obiettivo di farlo ravvedere, e i falsi fratelli.  Ma il dolore e la tristezza causati dalle rampogne e dalle censure di San Paolo avevano prodotto buoni frutti di pentimento in convertiti abitanti in un città all’epoca famosa per i suoi costumi lascivi:  essi erano ora afflitti dal dolore per aver offeso Dio con i loro peccati, stato d’animo che veniva stimolato di nascosto da Dio stesso per ricondurli a Lui.  La “tristezza del mondo”  è invece quella che “procura la morte” ossia la dannazione dell’anima, essendo quella torva dei nostri desideri che mai ci soddisfano e ci rendono sempre piú infelici, spingendoci sulle vie dell’avidità, della lussuria, della superbia, insomma nel mare magnum delle passioni di questo mondo, regno del “Principe di questo mondo”.   

La “contrizione perfetta” secondo San Francesco di Sales

La tristezza, il dolore “secondo Dio” segna dunque quel faticoso cammino interiore che, dalla percezione degli elementi intrinseci al peccato in tutta la sua bruttezza, ci conduce progressivamente a coglierne il significato sovrannaturale, costituito dall’ offesa a Dio, che noi sentiamo ora amaramente, avendo compreso, con l’ aiuto della Grazia ossia dello Spirito Santo, che è l’ amor di Dio per noi quell’unico e vero bene, il Bene Sommo, che abbiamo rifiutato e calpestato.  È questa “tristezza che vien da Dio” a condurci al pentimento per amor di Dio.  Questo itinerario spirituale muove da ciò che è inizialmente oscuro a ciò che ci appare via via piú chiaro.  Egregiamente lo descrive, con sottili e profonde analisi, San Francesco di Sales, vescovo e dottore della Chiesa, nel suo famoso Traité de l’Amour de Dieu, del 1616, nei cap. XIV-XX  del Libro II (Saint François de Sales, Oeuvres, a cura di André Ravier e Roger Devos, gallimard, nfr, 1969, 1992, pp. 319-972 – Pubblicato in italiano il Trattato dalle Ediz. Paoline, 1983 e 2001 – Traduzioni mie dal testo francese).  
Dio entra gradualmente nella nostra anima, “non point par manière de discours, mais par manière d’inspiration” (op. cit., p. 450).  Le verità della fede sono inizialmente ascose in “oscurità e tenebre”, sí che noi le “intravediamo” solamente, in un certo senso “le vediamo senza vederle”; tuttavia, con la sola “soavità della loro presenza, si fanno credere ed obbedire dal nostro intelletto”.  Questo ispirato “intravedere” è il primo germoglio della nostra fede e del nostro “amore per le cose divine” (op. cit., p. 453).  Esso nasce dalla nostra “inclinazione naturale al sommo bene, a causa della quale il nostro cuore si sente come interamente gravato e continuamente inquieto, senza potersi mai appagare”(pp. 453-454).     
L’amore per le cose divine, oscuramente agitantesi in noi, prende ad un certo punto la forma della speranza (amour-espérance).  Ciò accade quando la nostra volontà all’improvviso “prova un estremo compiacimento nel sovrano bene divino suo oggetto, il quale, a causa della sua assenza, fa nascere un desiderio ardente della sua presenza” (p. 456).  Qui è la radice della virtú della  s p e r a n z a.  La volontà, “grazie alla fede certa di poter godere del sovrano bene servendosi dei mezzi a ciò destinati, compie due grandi atti virtuosi:  da un lato, si aspetta da Dio di beneficiare della sua sovrana bontà; dall’altro, aspira essa stessa a questo santo beneficio” (p. 457).   L’ aspirazione ad ottenere ciò in cui speriamo, la vita eterna, caratterizza il nostro amore per Dio come “amour d’espérance”.  Quest’amore “est fort bon quoique imperfect”  perché non ama Dio per se stesso ma in quanto “Egli è supremamente buono nei nostri confronti”.  È quindi un amore interessato anche se vero  e sincero, “amour d’ une sainte et bien ordonnée convoitise” poiché con esso miriamo pur sempre ad “unirci a Lui come alla nostra ultima felicità” (p. 460).
 Perché ancora imperfetto?  Riflettiamo.  Dio vuole da noi la perfezione morale (Gen 17, 1; Mt 5, 48; Rm 12, 1-2; 1 Cr 6, 15-20).  Ciò significa che la nostra vita deve essere una battaglia continua contro noi stessi per vincere le forze del male con il suo imprescindibile aiuto: ma i frutti della vittoria (per chi li coglierà) si godranno nell’altra vita, non in questa.   Che noi si debba lottare per il nostro perfezionamento spirituale e morale non risulta proprio dall’inquietudine che sempre ci assale, come se ci mancasse sempre qualcosa per esser spiritualmente appagati?  E questo non dimostra che il vero bene cui aspiriamo non può essere di questo mondo?   Il nostro desiderio di felicità si indirizza verso il suo fine sovrannaturale non tanto ad opera della nostra ragione o della nostra volontà, che pur cooperano al processo, quanto ad opera dell’ Amor di Dio per la creatura che noi siamo; è quest’amore che “converte il desiderio in speranza”, speranza di un bene trascendente, imperituro, al di là della caducità di questo mondo, suscitando in noi stessi l’Amor di Dio, il cui fine ultimo è l’unione con Dio in eterno, nella Visione Beatifica della Santissima Monotriade.
Ora, come avviene il superamento dell’imperfezione nella quale si trova l’inizio del nostro Amor di Dio?  Mediante la penitenza e quindi mediante la contrizione.  Per la nostra mentalità di Moderni questa connessione dell’Amor di Dio con la penitenza e la contrizione è forse un concetto difficile.  Ma cosa ci insegna la Scrittura? 
“Voi non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato e vi siete dimenticati dell’esortazione diretta a voi, come a dei figli:  Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore e non ti scoraggiare quand’Egli ti riprende; perché il Signore corregge colui che Egli ama, percuote di verga chiunque riceve per figlio. Sopportate di essere corretti: Dio vi tratta come figli.  Qual è mai il padre che non corregga il figlio?”  (Ebr 12, 4-7).
Con questo spirito dobbiamo dunque rivolgerci a Dio, nel chiedere perdono per i nostri peccati: sapendo che la correzione è frutto dell’ Amor di Dio verso di noi e non della sua ira, a meno che noi non si perseveri nel peccato, sfidando Iddio. Ragion per cui, l’accettazione nostra della correzione che viene da Dio deve a sua volta scaturire dal nostro Amore per Dio che ci ama come un padre e per questo ci corregge.  Il Verbo Incarnato ha ribadito il Comandamento di Deuteronomio, 6, 5 : “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutte la tua mente e il tuo prossimo come te stesso” (Lc 10, 27).  Noi, allora, dovremmo far tutto per amor di Dio: amare il prossimo come noi stessi per Amor di Dio, pentirci per Amor di Dio poiché Dio è il nostro unico vero e sommo Bene e Lui abbiamo in primo luogo offeso con i nostri peccati.
Ma come vengono ad integrarsi, se cosí posso dire, due realtà cosí diverse come la  penitenza e l’ Amor di Dio?   Riprendiamo San Francesco di Sales.
 “La penitenza, in generale, è un pentimento con il quale si rigetta e detesta il peccato commesso, con l’ intenzione di riparare, per quanto possibile, l’ offesa e l’ ingiuria fatte a colui contro il quale si è peccato.  Includo nella penitenza il proponimento di riparare l’ offesa poiché il pentimento non detesta in modo sufficiente il male se ne lascia volontariamente sussistere l’effetto principale, costituito dall’ offesa e dall’ingiuria: e  lo lascia sussitere allorché, potendo porvi riparo in qualche modo, non lo fa”. (p. 462). 
Rispetto alla definizione del Concilio di Trento, possiamo dire che il proponimento di non piú peccare sia qui assorbito in quello di riparare l’ offesa fatta con il peccato.  Questa definizione non è ancora quella specificamente cristiana della penitenza, potendo applicarsi anche ad una sua nozione “puramente morale ed umana”, quale ritroviamo, ad esempio, nel pensiero classico e in particolare presso gli Stoici: riconducibile alla “raison naturelle” e alla religiosità “naturale” o “morale” diffusa tra gli uomini (p. 464).  Tra i classici richiamati sinteticamente dal nostro Autore, spicca però  Aristotele, il quale, nel libro VII, cap. VII dell’ Etica Nicomachea, 1150 a, scrive, a proposito dell’intemperante, cioè di colui che si dà senza misura   ai piaceri “per se stessi e non in vista di qualcos’altro”, che “costui non è capace di pentimento, cosicché è incorreggibile, poiché chi è incapace di pentimento è incorreggibile [aníatos]”.(Arist., Etica Nicomachea, testo greco a fronte, intr., traduz., note e apparati di Claudio Mazzarelli, Rusconi Libri, Milano, 1993, p. 277).
L’ importanza del pentimento, come fatto morale, era evidente ad alcuni grandi rappresentanti del pensiero antico, quale momento non eliminabile dall’ideale di vita improntato all’etica della virtú.  Ma la penitenza in quanto “virtú del tutto cristiana” va ben oltre questa dimensione:  essa acquista un connotato sovrannaturale, venendo a collocarsi in un processo spirituale che viene ispirato da Dio e il cui compimento è costituito dal pentirsi per Amor di Dio (Traité de l’Amour de Dieu, pp.  464 e ss.).  
Dopo aver ricordato che siamo tutti sempre peccatori, tant’è vero che “l’esortazione delle esortazioni di Nostro Signore è –Fate penitenza!,” cosí il Nostro autore descrive “il progresso di questa virtù”. (op. cit., p. 465).
Esso si inizia con il timor servilis (vedi supra), la paura del castigo divino.  Noi abbiamo tutti una certa “comprensione”, per quanto sta a noi e quindi anche solo intuitivamente, del fatto che i nostri peccati offendono non solo gli uomini ma anche Dio. Essi, infatti, dimostrano in chi li commette “disprezzo e disobbedienza” nei confronti di Dio, pur sapendo che Egli “rifiuta e ha in abominio l’iniquità” (op. cit, ivi).   Questa “comprensione” si arricchisce “a volte” di ulteriori approndimenti, per quanto intuitivi, per ciò che riguarda la divina Maestà.
Ci rendiamo infatti conto che possiamo esser privati del Paradiso e mandati all’Inferno, per sempre.  Ci investe pertanto un doppio, grave timore:  quello del castigo eterno e quello della perdita del bene rappresentato dal Paradiso, sicuramente un bene sommo, non paragonabile ad alcun bene terreno.  Questa “double crainte” ci spinge “con gran forza” al penitmento, ed è un timore positivo, tant’è vero che “la Parola Sacra ce l’ordina cento e piú volte” (p. 465).  Ci rendiamo poi conto, usando il nostro intelletto, della “bruttezza e malizia del peccato, come del resto ce le insegna la fede”.  Esse sono tali da sfigurare la nostra somiglianza con Dio, da disonorare la nostra dignità rendendoci simili “aux bêtes insensées”, da farci violare i nostri doveri verso il Creatore e farci perdere il bene della società con gli Angeli, essendoci noi col peccato per l’appunto associati al diavolo e sottomessi a lui.  Tutte queste caratteristiche e conseguenze del peccato ci spingono dunque a penitenza, unitamente, per contrappasso, agli esempi di virtù provenienti dai Santi (op. cit., pp. 465-466).
I “motivi di penitenza” sono dunque molteplici.  Si fondano sulla fede già all’ opera in noi e sono anzi apertamente “insegnati dalla fede e religione cristiana”, nonché sull’ uso corretto del nostro libero arbitrio.  Tuttavia questa penitenza, già articolata in tanti motivi, “è ancora imperfetta”.  Imperfetta, “nella misura in cui l’ Amore divino non vi rientra affatto” (p. 466).  Vi predomina ancora “l’amore per noi stessi” anche se “legittimo, giusto, ben regolato”.  L’ amor di Dio “non è rifiutato ma non è incluso”.  In questa fase, i penitenti non sono contro l’ Amor di Dio bensì “ancora senza di esso” (op. cit., ivi).  Il perfezionamento interiore apportato dalla nostra contrizione è solo all’inizio, esso non può arrestarsi a questo stadio:  Ciò costituirebbe un atteggiamento irrazionale e potrebbe portarci anche al peccato.  “Il timore e gli altri motivi di pentimento, anteriormente ricordati, vanno bene per l’ inizio della saggezza cristiana, che consiste nella penitenza.  Ma chi vorrebbe scientemente non giungere mai all’ Amore, che realizza la perfezione della penitenza, offende grandemente Iddio, il quale ha destinato tutto al suo Amore, quale fine di tutte le cose.  Conclusione: il pentimento che esclude l’ Amor di Dio è infernale, assomiglia a quello dei dannati.” (op. cit., p. 467).
In effetti, i dannati si pentono amaramente dei loro peccati, ma troppo tardi, quando sono ben dentro l’ Inferno: li maledicono così come maledicono Iddio che li ha condannati.  Il loro pentimento è fondato sull’odio per Dio e per se stessi, l’unico sentimento che possono ormai provare.  Invece il pentimento che non rigetta l’Amor di Dio pur senza ancora accoglierlo, è “buono e desiderabile”.  Però ancora imperfetto: “non può condurci alla salvezza fintantoché non abbia raggiunto l’ Amore e non si sia mescolato ad esso”.   L’ essenza di quest’Amore è poi la  c a r i t à , come risulta dalle celebri parole di san Paolo,  quando scrisse che “se anche distribuissi tutti i miei beni ai poveri e dessi il mio corpo ad esser bruciato, se non ho la carità, tutto questo non mi giova a nulla” (1 Cr 13, 3). Analogicamente, potremmo dire:  “se la nostra penitenza fosse cosí grande da farci sciogliere in lacrime e spaccarci il cuore dal rimorso, se non abbiamo il santo amore di Dio, tutto ciò non ci sarebbe di alcuna utilità per la vita eterna.” (op. cit., pp. 467-468). 
Ma come può effettivamente realizzarsi questa “mescolanza [mélange] di amore e dolore nella contrizione”?   Dalle “tribolazioni e dai rimorsi di un vivo pentimento”, come può scaturire l’ Amore di Dio? Può, perché Dio “nel profondo del nostro cuore mette spesso il sacro fuoco del suo amore” (p. 468).  Convivono dunque in noi due elementi intrinsecamente diversi e tuttavia passibili di integrazione, anche se uno di essi è di origine sovrannaturrale.  “La penitenza altro non è che un vero dispiacersi, un dolore e un pentimento reali; ma essa è tuttavia piena d’ardore poiché [già] contiene la virtù e la proprietà dell’ amore, come se provenisse da un movente amoroso, e grazie a questa proprietà essa si apre alla grazia” (p. 469).
Pertanto, la “penitenza perfetta”  provoca  d u e  differenti, fondamentali effetti:  “con il dolore e la ripulsa ci separa dal peccato e dalla creatura alla quale la passione [délectation] ci aveva avvinto; ma grazie all’impulso [motif] dell’amore, dal quale si origina, ci riconcilia e riunisce al nostro Dio, dal quale ci eravamo separati con il disprezzo [della sua volontà].  Per cui, quanto piú, in quanto pentimento, ci allontana dal peccato, tanto piú, in quanto amore, ci riunisce a Dio“ (op. cit., ivi).  Questo doppio e intrecciato movimento della nostra anima appare armonioso e del tutto conforme alla nostra natura.  Nella pratica, tuttavia, non si saprebbe dire quale dei due movimenti sia effettivamente la causa prima dell’intero processo. Dove, l’inizio? Né sembra facile distinguerli.  San Francesco di Sales, dotato di un’eccellente cultura filosofica, giuridica, teologica, non si esprimeva mai da erudito o teologo stricto sensu ma da direttore spirituale e pastore d’anime egregio, quale effettivamente era, istruito da una lunga esperienza sacerdotale.  Ma l’indeterminatezza (per noi)  dell’inizio del processo di santificazione del penitente e la difficoltà di scinderne gli elementi costitutivi, non incidono affatto sulla validità e l’efficacia del processo stesso.
Continua infatti il Nostro:  “Tuttavia non voglio dire che l’amore perfetto di Dio, con il quale lo si ama al di sopra di ogni cosa, preceda sempre questo nostro pentimento, né che il pentimento preceda sempre quest’amore.  Per quanto questo succeda sovente, altre volte, non appena l’amore divino nasce nei nostri cuori, la penitenza nasce dentro l’amore stesso.  Ma accade di frequente che il sopravvenire della penitenza nel nostro animo, vi porti dentro l’amore.”  La penitenza e l’amor di Dio ora si succedono ora sembrano nascere contemporaneamente o quasi, dentro di noi.  Per spiegarsi al meglio, l’Autore ricorre ad una similitudine, prendendo spunto dalla nascita dei due gemelli biblici, Esaù e Giacobbe. 
“E come allorché Esaù uscì dal ventre di sua madre Giacobbe suo gemello gli teneva il piede [Gen 25, 25-26] in modo che le loro nascite non solo si susseguissero ma anche si intrecciassero e si legassero strettamente l’ una all’ altra, allo stesso modo il pentimento, rude ed aspro per il dolore che comporta, nasce per primo, al modo di Esaù, mentre l’amore, dolce e grazioso come Giacobbe, lo tiene per il calcagno e vi si attacca talmente che entrambi hanno un’unica nascita, risultando il termine della nascita del pentimento nell’inizio di quella del perfetto amore.  Ora, come Esaù nacque per primo così il pentimento compare normalmente prima dell’ amor di Dio; ma l’amore, come un altro Giacobbe, nonostante sia il minore, si assoggetta poi il pentimento, convertendolo in consolazione” (pp. 469-470). 
La commistione o mescolanza di pentimento e amor di Dio non deve stupire, bisogna invece saperla intendere e dirigere secondo il suo verso, quello voluto da Dio.
“Non bisogna stupirsi del fatto che la forza dell’ amor di Dio nasca all’interno del pentimento prima che l’amore vi si sia formato:  pur vediamo che, in séguito ai riflessi dei raggi solari concentrati sul vetro di uno specchio, il calore, che è la virtù e qualità propria del fuoco, cresce poco a poco così fortemente da cominciare a bruciare prima di aver effettivamente prodotto il fuoco, o, per lo meno, prima che noi lo possiamo scorgere.”  Fuor di metafora:  “lo Spirito Santo fa irrompere nella nostra mente la considerazione dei nostri peccati come peccati che hanno offeso una così eminente bontà; la nostra volontà riceve il riflesso di questa conoscenza; pertanto, il pentimento cresce a poco a poco, diventando così forte, con un sicuro ardore d’affetti e desiderio di ritornare in grazia di Dio, che alla fine tutto questo movimento spirituale giunge al punto di ardere e unire [spiritualmente noi a Dio], ancor prima che l’amor di Dio sia del tutto formato [in noi]”.(p. 472)
Come Giacobbe si teneva alla nascita attaccato al calcagno del gemello Esaù, così “l’inizio dell’ amor perfetto non solamente consegue alla penitenza ma vi si attacca, vi si lega:  in una parola, quest’inizio dell’amor di Dio si mescola con il fine della penitenza e in questo momento della commistione [en ce moment du mélange], la penitenza e la contrizione meritano la vita eterna” (p. 472).  Il che significa, dal punto di vista concreto degli atti penitenziali, che “l’orazione penitenziale o il pentimento supplichevole, elevando l’anima a Dio e riunendola alla sua bontà, ottengono senza dubbio il perdono in virtù del santo amore ricevuto dal movimento sacro” (op. cit., ivi). 
In tutto questo processo o “movimento sacro” il penitente è ovviamente impegnato al massimo con la sua volontà e ragione, oltre che con il sentimento, a co-operare con l’azione divina, anche se solo progressivamente ne prende coscienza.  Egli agisce sempre in piena libertà, come ribadisce il Tridentino (sess. VI, can. 4) esplicitamente richiamato dal Salesio (p. 474).  Tant’è vero che molti, purtroppo, anche tra i cattolici, si rifiutano alla grazia (Filip 3, 18-19) e non ammettono di dover confessare i propri peccati, che persino giungono a negare in quanto tali.  L’ idea stessa della contrizione e della confessione dei peccati la respingono, ritenendola un limite insopportabile alla propria libertà e alla dignità che, in quanto uomini e donne, credono di possedere.  Ma non si rendono conto che nessuno ci obbliga a pentirci.  Restiamo sempre liberi:  si tratta solo di saper indirizzare la nostra libertà nel modo giusto, ossia di non resistere all’impulso della grazia che si manifesta già, per quanto nascosto, nell’ apparire della nostra contrizione.  Quell’impulso ci mette contro la parte peggiore di noi stessi e, maturando, ci fa muovere con passo sempre piú veloce verso Dio, come appunto il Figliol Prodigo verso il padre, il quale, vistolo da lontano, già gli correva incontro per abbracciarlo.

Paolo   Pasqualucci

9 aprile 2020