Paolo
Pasqualucci :
Caporetto mito perverso dell'Antinazione
A proposito di due recenti saggi
L’editore Gangemi ha recentemente pubblicato
due densi e articolati saggi, risultanti da interventi a un Convegno su Caporetto tenutosi nel 2017, anno
centenario della battaglia, introdotti da una Prefazione di Francesco
Mercadante.[1]
Il primo è in realtà dedicato al posto occupato nell’ opera di Malaparte dal
mito di Caporetto, quale simbolo del supposto inveterato antipatriottismo
italiano e addirittura imago perennis dello spirito di rivolta che
afferra i popoli quando ridotti a plebe sacrificata in sanguinose e
inconcludenti battaglie[2]. Il suo celebre e provocatorio Viva
Caporetto! La rivolta dei Santi maledetti, edito inizialmente nel 1921 come
Viva Caporetto!, non viene “rivisitato” in relazione alla realtà
effettiva della Battaglia e alla conseguente rotta e ritirata, oggetto entrambe
di morboso e politicamente correttissimo culto da parte dei pontefici della
“cultura della sconfitta” e dell’antinazione.
Malaparte, scrittore nervoso,
rapido, incisivo, tuttavia sempre pervaso da un immenso narcisismo e pertanto afflitto da mania
di originalità e da un amor di tesi che lo portavano a lavorare di fantasia sui
fatti storici che gli cadevano nella penna, con sgradevole tendenza
all’onirico, al macabro, al deforme - a fare, insomma, della parte torbida e
crudele, sempre presente nelle umane vicende, il segno distintivo del Tutto.
Oggi che finalmente disponiamo di una storiografia che, con il dovuto rigore, ha
ribaltato gli stereotipi falsi e bugiardi imposti ormai da troppo tempo sul
nostro contributo alla vittoria dell’Intesa nella Grande Guerra, del saggio
allucinato di Malaparte su Caporetto bisognerebbe, io credo, occuparsene
soprattutto per dimostrarne il carattere paradossale, tendenzioso e datato, senza lasciarsi
fuorviare dal talento letterario e dalle poche verità che vi si mostrano.
Ma il compito di Barberi, ben consapevole ovviamente
delle esagerazioni ed invenzioni malapartiane, era quello di far vedere a noi
come “Caporetto”, quale “fenomeno storico”, anzi “fase dell’evoluzione
dell’umanità” e addirittura supposta
categoria dello spirito italiano, radicalmente votato secondo Malaparte
all’antieroismo e all’antinazione,
costituisca la linfa torbida che rocciosamente scorre nella multifaria “filosofia”
della vita e della storia dello scrittore.[3] Compito
non facile, svolto con grande finezza di analisi, in particolare nei ripetuti
collegamenti con le riflessioni storico-esistenziali di un Carl Schmitt, in
specie dello Schmitt che si rapportava simbolicamente al Benito Cereno del
celebre racconto. Un paragone che a
prima vista può sorprendere, data la differenza di levatura e di interessi tra
i due personaggi, accostati quali interpreti originali e pessimistici della
nostra tragica epoca, ma che appare del
tutto giustificato grazie alle molteplici sfumature messe in rilievo da
un’analisi che richiederebbe un discorso
a sé, qui impossibile.
Ma ristabiliamo il vero su Caporetto.
Fu soprattutto un grave, ma non decisivo, “rovescio militare”, simile a quelli
patiti da altri eserciti nella I gm (dai russi, dagli stessi austriaci per mano
dei russi ma anche dai francesi, nell’iniziale, travolgente avanzata tedesca
dal Nordovest della Francia, fermata poi con la Battaglia della Marna,
fiume poco a nord di Parigi, nel settembre del ‘14). Lo dimostrò già nel 1928 Gioacchino Volpe, in
un equilibrato suo scritto, ancor oggi perfettamente leggibile, nel quale pur
metteva nel dovuto rilievo gli errori e le carenze dei nostri Comandi, della
società civile, degli stessi soldati, peraltro più vittime che colpevoli; insomma i molteplici fattori che contribuirono
a quella pesante sconfitta.[4] Fu lo
sciagurato Bollettino emesso da Cadorna
il 28 ottobre, trovandosi il Comando supremo in stato confusionale, al pari di
quasi tutti i comandanti in loco, poco o punto informati dell’effettiva
situazione sul terreno, avendo l’artiglieria nemica fatto saltare tutti i
collegamenti --- fu quel Bollettino, che accusava ingiustamente dello
sfondamento alcuni reparti della II Armata, “vilmente ritiratisi senza
combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”, a far di Caporetto un
rovescio in primo luogo morale: in un certo senso, a creare la
leggenda perversa di Caporetto, diventata per noi italiani immagine emblematica
della disfatta, della fuga, della viltà nazionale.
Come spiega Giuseppe Fornari nel secondo saggio del volume,[5] v’erano deficienze
organizzative e culturali presso tutti gli Stati Maggiori dell’epoca; quelle specifiche del nostro concernevano “il
coordinamento logistico e informativo, una burocrazia soffocante e inerziale, e
la specifica difficoltà a passare dall’assetto offensivo, che Cadorna aveva
stabilito sin dal 1915, all’assetto difensivo da lui deciso dopo il
dissanguamento dell’XI battaglia dell’Isonzo”, avutasi nell’estate del 1917.
Cadorna era stato progressivamente informato da disertori austroungarici
dell’imminente attacco ma solo negli ultimi
giorni ne aveva individuato la direttrice, la zona tra Plezzo e Tolmino
sull’alto Isonzo, per il 24 ottobre. Dal
10 ottobre aveva tuttavia inutilmente esortato il generale
Capello, comandante della II armata, responsabile del settore, a mettere le
proprie truppe sulla difensiva, nel senso di non lasciarle nella scomoda e mal
coperta posizione (ammassate in avanti, a cavallo di un’ansa dell’Isonzo, con la
propria artiglieria su posizioni avanzate) raggiunta con la grande e sanguinosa
offensiva dell’agosto precedente, XI battaglia dell’Isonzo, che aveva portato
alla conquista di parte consistente dell’altopiano carsico della Bainsizza,
mettendo alle corde l’esercito nemico (rivoltosi appunto subito dopo e con
urgenza ai tedeschi per un’offensiva “di alleggerimento”, quella che poi
avrebbe sfondato a Caporetto).
“Per capire la rotta di Caporetto occorre analizzare adeguatamente la
consistenza e la capacità di penetrazione dell’offensiva austro-tedesca, su cui
anche si cade in ricorrenti luoghi comuni.
Essa è stata senz’altro coadiuvata dall’idea, non conosciuta sul fronte dell’Isonzo,
della cosiddetta infiltrazione, cioè della penetrazione non più mediante
attacchi alle cime fortificate [portati con assalti frontali alla baionetta, a
ondate], bensì lungo il fondovalle, elementi cui si sono aggiunte le condizioni
metereologiche [fitte nebbie] che hanno grandemente ridotto la visibilità e le
possibilità di intervento delle batterie italiane […] Il fattore decisivo del successo
nemico è stato [oltre alla sorpresa] la formidabile cooperazione, introdotta
dai tedeschi, fra l’artiglieria, ammassata in una concentrazione imprevista, e
le tattiche di assalto ad essa coordinate con estrema precisione e rese
micidiali con l’impiego di innovative mitragliatrici leggere [portatili]. Questa combinazione, che anticipa le tecniche
di combattimento e gli armamenti della Seconda guerra mondiale, ha colto alla
sprovvista l’esercito italiano, provocando il disorientamento e il rapido
sgretolamento di un fronte organizzato secondo tutt’altri criteri”.
Anche la fortuna aiutò gli
austrotedeschi, precisa Fornari: la nebbia persistente per giorni impedì alla
nostra ricognizione aerea di accorgersi del formidabile schieramento di truppe
e artiglierie che si stava raccogliendo nella zona d’attacco e favorì le prime,
delicate fasi dell’assalto delle fanterie, non viste dalle nostre batterie
superstiti, dopo l’apocalittico bombardamento nemico iniziale.[6]
Ma la crisi morale, che pur serpeggiava e in modo
serio, non fu affatto la causa del cedimento di Caporetto. Tutti gli
eserciti erano moralmente in crisi dopo tre anni di quella
tremenda e inconcludente guerra: mentre quello russo, duramente battuto, era in
stato di collasso pre-rivoluzionario dall’autunno del ’16, nella tarda
primavera del ’17 l’esercito francese, dopo il fallimento dell’ennesima sanguinosa
offensiva, fu scosso da massicci ammutinamenti, tenuti accuratamente nascosti
per anni, che costrinsero a riorganizzarlo in profondità e a sospendere ogni
suo impiego offensivo per circa un anno. Da noi, fu lo sfondamento a farla
esplodere, la crisi, in parte delle truppe, durante la ritirata, visto
che circa 350.000 sbandati (poi in gran parte recuperati ai ranghi) si
diressero verso l’interno pensando soprattutto a mettere la massima distanza
tra loro stessi e il nemico – disertori in gran parte di retrovia e seconda
linea (nota bene), non addestrati al combattimento, che gli “orrori della
guerra di trincea e degli assalti frontali” li conoscevano più che altro per sentito dire. La causa della sconfitta fu
però strettamente militare, dovuta alla classica combinazione di limiti,
errori, insufficienze tecniche dello sconfitto; meriti e superiorità dell’attaccante
nel punto decisivo; fortuna.
Fornari giustamente batte in breccia la vulgata che
ancor oggi (e anzi ancor più oggi nel clima di torbido e dissennato “pacifismo”
imperante) fa della crisi morale una “concausa” o addirittura una persino
esaltata “causa” della rotta (in quest’ultimo caso, riprendendo per l’appunto
tematiche di tipo malapartiano).
“A venir presentata come concausa è infatti la
spossatezza fisica e psicologica delle truppe, trattate per due anni e mezzo
come “carne da cannone” e mandate regolarmente al massacro, in una guerra che
non era stata decisa dalla maggior parte di quelli che la combattevano, e che a
non pochi di loro rimaneva estranea”.
Pur cogliendo questa prospettiva una scomoda verità, resta il fatto che
il soldato italiano, coscritto per servire la nuova Patria unitaria in un
esercito finalmente nazionale, qual fosse il grado della sua consapevolezza
patriottica, il suo dovere l’ha sempre fatto, anche nelle condizioni più
difficili.
“La rotta di Caporetto non è stata provocata dai
reparti al fronte ma preparata e propiziata da disfunzioni sistemiche comuni a
tutti gli eserciti in guerra, e da noi declinate secondo le modalità
oligarchiche e autoritarie tipiche della società italiana. L’ampia indagine di Paolo Gaspari dimostra al
di là di ogni dubbio che i soldati italiani, nei settori coinvolti, hanno
combattuto con abnegazione, e in più casi sono stati abbandonati dai loro
ufficiali. Le truppe di Caporetto si
sono sbandate per il fondamentale motivo che non erano guidate da uno Stato
Maggiore del tutto all’altezza della situazione, non perché non volessero
battersi, tant’è vero che le stesse identiche truppe, una volta guidate, si
sono sapute velocemente riorganizzare sul Piave appena una decina di giorni
dopo, malgrado l’avvilimento e le ingenti perdite di uomini e materiali. È su
questo passaggio essenziale che si fa ancor oggi troppa confusione logica e interpretativa. Caporetto non è stata provocata dal
morale basso di fanti ed alpini, bensì dalla limitatezza mentale e morale di
una casta militare spesso e volentieri incapace di rendersi conto dei sacrifici
spaventosi che stava imponendo ai suoi soldati…”.[7] Giuste parole, che richiamano le celebri righe
del cap. XXVI de Il Principe: “..
Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi
[combattimenti] de’ pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con
la destrezza, con lo ingegno. Ma, come
si viene alli eserciti, non compariscono.
E tutto procede dalla debolezza de’ capi…”.
Il nostro problema è stato ed è quello della classe
dirigente, sia civile che militare, assai più che del popolo. Nello specifico, la casta dirigente militare,
la quale aveva approfondito il solco tra sé e il soldato, anche per colpa
dell’incredibile insensibilità di Cadorna in proposito, comandante per altri
versi non privo di qualità, tant’è vero che gli austriaci furono contenti di
non trovarselo più di fronte, dopo Caporetto, come disse a guerra finita uno
dei loro migliori comandanti.[8] Vi si
pose rimedio, all’insensibilità iniziale, solo dopo Caporetto, col napoletano
Armando Diaz nuovo Comandante in Capo. Lo Stato Maggiore entrò in guerra senza
preoccuparsi troppo del lato umano del combattente, con le sue giuste e in
genere modeste necessità, soddisfacendo le quali in modo ragionevole si
ottengono, tra l’altro, anche migliori risultati sul piano strettamente
bellico. Questa insensibilità e durezza
(comuni in parte anche ad altri eserciti) non erano tuttavia, per fortuna, assolute;
in parte (non piccola) venivano “riparate dall’umanità di alcuni alti ufficiali
e di molti ufficiali intermedi”[9], quelli
più a contatto con i soldati.
La rotta, dunque. Le immense retrovie della II armata
(un’unità monstre lasciata crescere sino a 670.000 uomini – una trentina
di divisioni più i servizi logistici, e quindi con meno della metà composta da
combattenti di prima linea), vedendosi arrivare addosso all’improvviso e nel silenzio
delle nostre accecate o distrutte artiglierie gli austrotedeschi infiltratisi e
lanciatisi giù per i fondovalle nebbiosi e poco difesi, cominciarono a fuggire
in massa verso Ovest gridando al tradimento – a decine e poi a centinaia di
migliaia, diffondendo un panico che coinvolse immediatamente anche la
popolazione. La massa militarcivile si
impastò sulle poche strade e ponti rendendo quasi impossibile il traffico
militare nella zona alle spalle dello sfondamento. Ma la parte effettivamente combattente
dell’esercito, cioè tutto l’esercito di prima linea, tranne le circa 10 divisioni
dell’ala sinistra della II Armata perdute nell’alto Isonzo, pur dovendo
lasciare indietro l’armamento pesante e molto materiale, si ritirò ancor
inquadrata, armata e sufficientemente coesa, sostenendo combattimenti di
retroguardia. Diversi reparti resistettero sino alla cattura per accerchiamento
o all’annientamento fra Isonzo e Tagliamento; per esempio, unità della stessa
II Armata, la brigata Bologna e le formazioni di cavalleria, consentendo
così la ritirata del grosso. Ci furono
sei brevi ma aspre e disperate battaglie contro forze nettamente superiori, tra
i due fiumi, dal 26 al 30 ottobre.[10] Fondamentale
fu l’aver potuto portare in ordine sul Piave la III armata, schierata dalla
Bainsizza al mare, con 300.000 uomini, almeno 100.000 dei quali in pieno
assetto di guerra. Su 65 divisioni costituenti l’esercito, ne schierammo dallo Stelvio alla foce del Piave 33 di pronto
impiego, compresi resti della II Armata, cui si aggiungevano altri resti, della
stessa II armata e del gruppo Carnia, circa 10 divisioni in fase di riorganizzazione. Queste unità erano tutte truppe di prima
linea, dislocate su un fronte ora per natura più solido (con il Grappa fatto
parzialmente fortificare in precedenza da Cadorna), e raccorciato di ben 244 km
rispetto a quello complicato dell’Isonzo. Di contro, circa 40 complessive
divisioni nemiche, la cui artiglieria pesante era rimasta inizialmente indietro. I tedeschi ritirarono presto la loro, occorrendo
essa nelle Fiandre.
Col centenario della Grande Guerra, accanto a qualche
pubblicazione più seria e obiettiva, è stata riproposta anche all’estero, per
esempio dagli epigoni di Denis Mack Smith
e A. J. P. Taylor, la vulgata secondo la quale l’esercito italiano è
stato praticamente distrutto a Caporetto, in sostanza dissolvendosi, mentre al
Piave e sul Grappa sarebbero stati i franco-inglesi a fermare il nemico e poi,
si capisce, a vincere la grande battaglia difensiva del giugno del ’18 (o del
Solstizio) e a dare il colpo di grazia al morente impero a Vittorio Veneto,
con i rimasugli degli italiani sempre ben nascosti dietro di loro, pronti però
i loro politici codardi a lucrare sulle vittorie altrui! Si tratta ovviamente di falsità e calunnie colossali, che riprendono
quelle diffuse al tempo di Versailles da certa pubblicistica, soprattutto
francese, per negare in malafede il pur fondamentale contributo dell’Italia
alla vittoria comune.[11] Dovevano allora soffrire di allucinazioni gli
estensori negli anni Trenta della Relazione ufficiale austriaca, quando
scrissero che il medesimo Regio Esercito, “presunto in dissoluzione”
dopo la batosta di Caporetto, dopo soli quindici giorni era di colpo risorto
sul Grappa e sul Piave, bloccando definitivamente e da solo, in due settimane
di sanguinosi e feroci combattimenti novembrini, l’avanzata nemica, con gli
Alleati schierati alle spalle quale fondamentale riserva strategica, ma senza
intervenire direttamente nella battaglia, in quella delicata fase, fatta eccezione
per preziose aliquote di artiglieria. Non dovettero accorrere a tappare alcuna
falla, l’assottigliata e ancor precaria linea italiana tenne fermo da sola,
grazie soprattutto al valore dei suoi soldati.[12]
La Battaglia d’arresto contro gli
austro-tedeschi si sviluppò in due fasi: dal 10 al 26 novembre si ebbe quella
più difficile. Ci fu una breve pausa e la nostra linea si rinforzò con i
complementi della classe del 1899 e con gli altri reparti superstiti della II
Armata nel frattempo ricostituitisi. Sul
Grappa si combatté per quasi un mese e mezzo, con pochissime pause. Gli Alleati entrarono in linea solo il 4
dicembre, quando iniziò la seconda fase, che ebbe di nuovo momenti durissimi e
si prolungò sino al 25 del mese, coinvolgendo in prevalenza le truppe italiane, obiettivo
principale degli attacchi nemici. Nel
Paese l’improvvisa rotta provocò una ventata di patriottismo, grazie anche alla
capillare e spontanea mobilitazione nazionale di mutilati, invalidi,
feriti, organizzazioni di ogni tipo: non
volevamo evidentemente esser di nuovo ridotti ad “appendice austriaca”, come
era accaduto – dopo esser stati appendice ispanica (asburgico-borbonica)
e napoleonica – dal 1815 in poi con le decisioni del Congresso di Vienna (per
gli smemorati, numerosi fra gli odierni antiunitari, sciolti e a pacchetti,
nonché fra i cattolici c.d. “tradizionalisti”: il Lombardo-Veneto provincia
imperiale asburgica, il Granducato di Toscana “seconda progenitura asburgica”,
il Ducato di Modena “terza progenitura asburgica”; le ricorrenti guarnigioni
austriache in Toscana e nelle città del Papa, incapace da più di tre secoli di
difendere il suo Stato da solo; il Regno delle Due Sicilie nella sfera
d’influenza asburgo-bavarese, e protettorato economico inglese…).
Malaparte, impregnato dell’atmosfera
palingenetico-rivoluzionaria del Primo Dopoguerra, ha voluto sostenere che la
stanchezza morale e lo scontento, anzi l’odio, serpeggianti tra le
truppe furono la causa di Caporetto.
Il fante, il “cristianissimo fante”, per lui analfabeta sempre lacero e
sporco e pidocchioso ma sempre “eroico”, si sarebbe reso conto a un certo punto di
essere vile carne da cannone e avrebbe accumulato un rancore e un odio fortissimi
contro la Nazione, esplosi infine a Caporetto:
“Allora il fante, solo, disperato, invelenito d’odio, si buttò contro la
legge. Cioè contro la nazione.
Caporetto”. Dunque la sconfitta sarebbe
stata provocata dalla rivolta dei fanti, santi nelle loro
sofferenze ma maledetti in quanto plebe e ribelli, che avrebbero abbandonato in massa le trincee,
in una sorta di sciopero militare a sfondo rivoluzionario; fanti antieroi o
anzi veri eroi, se il vero eroe è il fante “senza-fucile”, l’inverso
dell’autentico eroe.[13]
Ma valga il vero:
le abbandonarono sì in massa le trincee e le retrovie, ma per sfuggire
al nemico che, dopo lo sfondamento, cercava di scendere rapidamente da Nord
lungo il Tagliamento, alle spalle dell’intero nostro esercito
schierato sull’Isonzo e al di là di esso, per prendere tutti prigionieri in
una gigantesca sacca, nonché a estendersi verso Ovest ai piedi delle montagne
per sigillare in Cadore la IV e più piccola armata. Bisognava ritirarsi tutti
alla svelta, non c’era scelta. Le masse delle retrovie volevano ovviamente
salvare la pelle ed evitare la prigionia, per questo se la squagliavano alla
grande, altro che rivolta e rivoluzione!
Secondo Malaparte, invece, la massa invelenita, vociante e terrosa, si
sarebbe diretta verso l’interno saccheggiando e rubando, uccidendo carabinieri
e ufficiali, violentando crocerossine e dame dei Comitati di Assistenza ai
soldati, venendo a sua volta decimata in veri e propri massacri di “santi
maledetti” ordinati ai carabinieri…E chi ne ha più ne metta, in concorrenza con
Addio alle Armi di Hemingway, eccellente scrittore anche lui ma non meno
del pratese “pallonaro”, come dicono a Roma di chi ama spararle grosse.
Stragi
di ufficiali e carabinieri, massacri di disertori in fuga, obbrobriosi dileggi
e stupri di crocerossine e dame: tutte cose mai avvenute (caso mai
avvenute, le violenze contro le donne, per mano nemica), tranne ruberie
occasionali di soldati affamati, sbandatisi nella ritirata, che visse i suoi
momenti di grave caos solo nella prima settimana e nella zona tra l’alto Isonzo
e l’alto Tagliamento, dove si stavano ritirando i resti della II armata, però combattendo assieme ai pochi rincalzi
che erano riusciti a risalire la corrente. [14]
Del pari falso è il quadretto dell’esaltato di Prato
contemplante il povero fante pidocchioso al quale, nei brevi periodi di riposo,
gli ottusi regolamenti vietavano di entrare nei paesi delle retrovie per ripulirsi,
cambiarsi, fraternizzare…Basta rileggere Un anno sull’altipiano, di
Emilio Lussu: i suoi sardi della famosa e gloriosa Brigata Sassari,
fanti tra i fanti, erano sempre ben accolti dalla popolazione locale, potevano
rimettersi bene in sesto nei brevi periodi di riposo e c’erano anche feste
sulle aie durante le quali fraternizzavano con tutti i civili, donne comprese. Malaparte, equiparando nel clima stralunato di
allora l’Italia alla Russia, così concludeva il suo scritto:
“La rivoluzione, iniziatasi in Europa nell’anno 1917, non è ancora
giunta al suo termine logico. I due
avvenimenti iniziali – facce diverse di uno stesso fenomeno – la rivoluzione
russa e la rivolta di Caporetto, hanno dato origine a due movimenti paralleli,
tesi ad un unico termine, ma l’uno e l’altro da un diverso spirito animati. In
quello russo domina il senso della collettività, in quello italiano il senso
dell’individuo…”.[15]
Il paragone è chiaramente insostenibile. La ritirata della prima linea e la fuga delle disarmate e foltissime retrovie seguíta allo sfondamento
sull’Alto Isonzo rientrano nella dinamica di una battaglia persa, come potevano
perderla gli eserciti di allora, con una prima linea estremamente rigida
addensata nelle trincee, sostenuta da molteplici e nutrite linee di
sussistenza, magazzinaggio, sanità, depositi di munizioni, etc., una volta
sfondata la prima linea: con decine se non centinaia di migliaia di
prigionieri. La rivolta di Pietrogrado
fu una rivoluzione in piena regola. Motivata dalla disfatta militare e dai
fortissimi disagi che la popolazione stava subendo, essa mirava non solo alla
pace ma anche all’abdicazione dello zar e non fu riscattata da nessuna Battaglia
d’arresto sul Grappa e sul Piave.
Il saggio di Fornari, molto opportunamente, si
sofferma sulle pesanti conseguenze che ebbe Caporetto per i civili ossia sulla
durissima occupazione austro-tedesca-ungherese-croato-slovena-bosniaca del
Friuli e Veneto invasi, durata un anno, come essa risulta dal Diario di
don Pietro Sartor, parroco di Salgareda, comune rivierasco sulla sponda sinistra
del Piave. Il Diario del sacerdote
testimonia come, nonostante i rescritti imperiali ordinassero il massimo
rispetto per la popolazione e in particolare per le donne, la truppa (tranne
ovviamente le eccezioni individuali) rubasse e violentasse a man bassa,
giustificando le sue male azioni con l’odio per gli “italiani traditori”.[16]
E a questa testimonianza aggiunge quella delle memorie
di guerra del tenente austriaco Fritz Weber. Già note nelle traduzioni
(parziali) pubblicate anni fa da Mursia, Fornari le utilizza servendosi degli
originali tedeschi, degli anni Trenta, che ampliano la visuale offerta dalle
traduzioni italiane. Scritta da un avversario
abbastanza cavalleresco verso di noi – un’eccezione nella storiografia
austro-tedesca sulla I gm, del tempo ma anche odierna – l’’opera di Weber offre
lo spunto per ampie riflessioni sul tramonto e la fine dello Stato asburgico,
vicenda che Fornari inquadra nella visuale più ampia della Finis Europae. Soprattutto in questa prospettiva si dovrebbe
intendere il significato “storico-filosofico”
della Grande Guerra.
Ma, mi chiedo, non bisogna stabilire o ristabilire
prima di tutto il “significato” che la Grande Guerra ha avuto per noi
italiani, per la nostra “identità”, come si dice oggi? Le riflessioni di Fornari su questo
essenziale aspetto mi sembrano in sostanziale controtendenza a quelle di
Mercadante, nella citata Prefazione, succosa per varietà di temi che l’Autore
intreccia con la maestrìa e lo stile pungente suoi propri, da quel grande
polemista che egli è; tuttavia, a mio avviso, dissolvente nel discorso di
fondo, perché caratterizzato da una visione sostanzialmente individualistica e anarchica,
e quindi antistorica, utopistica. Fornari ha il grande merito di contraddire validamente
lo stereotipo negativo e fuorviante oggi imposto alla nostra partecipazione
alla Grande Guerra. Non si ripete
sempre: “inutile strage, finita per noi
malamente a Caporetto, falsa vittoria che per di più ha dato origine al
fascismo, della quale bisogna celebrare solo il dolore per le vittime e in essa
condannare ogni guerra…”?
Contro la pappa del cuore del dolore delle e
per le vittime della guerra e della storia fatta trangugiare coi mestoli dal
politicamente corretto alle masse, per eliminare la storia e gli ideali scomodi
ma autentici dal loro orizzonte materiale e spirituale, bisogna dire che la I gm
è stata sì, purtroppo, una grande “strage” ma affatto “inutile”, per noi
italiani.
C’era un modo diverso dalla guerra – imposta da un
nemico del nome italiano plurisecolare e
implacabile, che nulla concedeva e nulla avrebbe mai concesso – per realizzare
finalmente la nostra completa unità nazionale, il cui interrotto processo ci
aveva lasciato con l’intera valle dell’Adige e metà dell’arco alpino in mano al
nemico sin al di qua della foce dell’Isonzo: i confini del 1866, indifendibili;
per vivere finalmente in un solo e compiuto Stato dopo secoli di dominio
straniero, diretto e indiretto, tenacissimo sempre nel tenerci deboli e divisi,
avverso anche ad una qualsiasi asfittica confederazione italiana; in uno Stato nostro,
riscattando così un passato di tragedie e infinite umiliazioni e sudditanze,
anche economiche, iniziatesi con le Guerre d’Italia (1494-1559),
allorché “Italia è suta corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando
e vituperata da’ Svizzeri”(Il Principe, cap. XII), quando le monarchie
nazionali europee e i Confederati, combattendo tra di loro e contro di noi, si spartirono l’Italia militarmente debole e
divisa (si salvò solo Venezia, lottando disperatamente) --- l’Italia
rinascimentale, superiore agli invasori per cultura, civiltà e ricchezza ma
incapace di riunire le modeste forze individuali dei singoli Stati per una
difesa comune? Naturalmente, la domanda
vale se si considerano l’unità e l’indipendenza dell’Italia, come nazione e
come Stato degni di questo nome, valori irrinunciabili, assoluti, per
realizzare o mantenere i quali è legittima anche la guerra. Vale, quindi, se ci
si considera ancora italiani e non “volgo disperso che nome non ha”,
prono ad ogni sudditanza e servitù.
La Patria fondata sullo Stato unitario monarchico
costituzionale dei Savoia costituiva,
all’epoca della Grande Guerra, un valore effettivamente sentito, nonostante le
contestazioni socialistiche e di parte dei cattolici. Il Regno d’Italia aveva un suo spessore nella
classe dirigente sia civile che militare, una sua indubbia forza e vitalità,
anche popolare, senza la quale non avrebbe superato la prova terribile di
quella guerra. Fornari mette giustamente
in rilievo questo importante aspetto[17].
Il Regio Esercito era diventato nel 1917 un coriaceo e potente
strumento di guerra. Per sfondare l’individuato
punto debole del suo schieramento, il nemico dovette impiegare numeri e mezzi imponenti (superiorità di 3 a 1
nei cannoni e 5 a 1 nelle mitragliatrici leggere) e gran numero delle sue
truppe e ufficiali migliori, in quel momento addirittura il Gotha della
fanteria mondiale, possiamo dire: le 7
divisioni scelte d’assalto tedesche (su 11 esistenti) e le 7 divisioni scelte
austro-ungariche, organizzate in un’armata apposita, la leggendaria XIV Armata
austro-tedesca del generale (tedesco) Otto von Below.[18] Ma la 12a Battaglia dell’Isonzo,
che si iniziò a Caporetto in modo così disastroso per noi, finì per l’appunto con
la Battaglia d’Arresto sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave, vinta da noi, con l’aiuto importante ma
indiretto degli Alleati: battaglia che fu la nostra Marna, poiché salvò noi
e anche l’Intesa. Un crollo dell’Italia sul Piave e la conseguente, sicura
occupazione del resto dell’Italia settentrionale (con le sue ricche risorse
agricole e industriali) avrebbero messo in seria difficoltà i franco-britannici.
Essendo ancora poche ed inesperte le pur potenti divisioni americane e
l’esercito francese non ancora riavutosi dalla grave crisi dell’estate,
l’apertura di un nuovo ed impegnativo fronte sulle Alpi per fronteggiare i
ringalluzziti austro-ungarici avrebbe potuto avere un effetto letale sulla loro
capacità di resistere alle grandi offensive tedesche, incombenti dopo il crollo
della Russia.[19]
Giustamente Fornari rigetta la tesi di chi vuol
collegare con un filo rosso Caporetto a Cassibile, borgo siculo ove fu firmata
il 3 settembre 1943 la nostra resa incondizionata dell’8. Tra i due avvenimenti, come ha notato
Pieropan, si può parlare di un “nesso culturale”, nel senso che vi appaiono
confermate certe ancestrali incapacità
delle nostre classi dirigenti e in misura minore del popolo, quando ristretti
in situazioni veramente difficili. Ma il
paragone finisce lì. Caporetto scatenò uno “psicodramma collettivo” che ancor
oggi si vuol continuare a recitare, cosa che rivela il permanere di una
fragilità caratteriale di fondo, come sottolinea Fornari. Ma la sconfitta fu emendata poco dopo dagli stessi
protagonisti con le vittoriose battaglie difensive di cui sopra e riscattata
infine a Vittorio Veneto, sia pure contro un nemico ormai prossimo al collasso,
che tuttavia contro di noi combatté sino all’ultimo. A Caporetto perdemmo una battaglia vincendo
poi la guerra sul nostro fronte, con l’aiuto degli Alleati ma anche e
soprattutto per merito nostro: una
verità che, forse troppo esaltata in passato, si vuole oggi pervicacemente occultare,
in spregio ai fatti. A Cassibile, invece, perdemmo la guerra, incondizionatamente
e senza scampo. Fu una resa totale,
imposta in modo anche disonesto e umiliante, visto che a Cassibile firmammo un
testo più corto e assai meno duro di quello (detto Armistizio lungo) che fummo costretti poco dopo ad accettare a Malta, dove i resti della nostra flotta erano
andati ad arrendersi, per espressa richiesta inglese nelle clausole
d’armistizio.
L’ultimo paragrafo della Prefazione di Mercadante titola: La storia scritta dai vinti: da Caporetto
a Cassibile. I “vinti”che scrivono
la storia a Caporetto sarebbero “i santi
maledetti” di Malaparte. Ma può un’invenzione
letteraria “scrivere la storia”? L’8
settembre ’43 avevamo forze armate stremate da tre anni e tre mesi di durissima
ed impari ma dignitosa e valorosa guerra contro le tre principali potenze
mondiali e i loro alleati; forze che si disintegrarono, unitamente all’apparato
statale, perché lasciate senza ordini da
capi arresisi all’improvviso e fuggiaschi, di fronte al già pianificato,
militarmente comprensibile ma proditorio attacco (perché senza dichiarazione di
guerra) della formidabile Wehrmacht (piano Achse). Questi “vinti” la loro misconosciuta “storia”
l’avevano caso mai scritta prima, in una guerra tragicamente sbagliata,
nella quale il soldato italiano si era battuto come aveva potuto, sempre fedele
al senso del dovere. Protagonista,
“agente” della storia è per Mercadante “l’uomo comune”, pur nella sua oscurità:
“ogni uomo e ogni donna, senza nome, con il loro comportamento privato: i piccoli, i mancini, gli zoppi”.[20]
Sarebbero costoro i “vinti” che invece vincono,
come le donne di Pietrogrado che, gridando per le strade “pace, pane, libertà”
fecero cadere l’8 marzo 1917 l’autocrazia, secondo Mercadante[21]. Crollò
invece a causa del disastro militare (come il fascismo) e questa fu la causa
principale, nonché per colpa della paralisi produttiva provocata dall’esorbitante
impegno bellico e da un inverno eccezionalmente rigido, con temperature medie
sui 12 C° sottozero. Le donne elevate a protagoniste anonime della
storia non ebbero poi dai bolscevichi otto mesi dopo al potere né il pane né la
pace né la libertà ma una ferrea e sanguinaria dittatura comunista, la guerra
civile, la carestia endemica, il Terrore. Ne Il dottor Živago, non ci imbattiamo proprio nel dramma angoscioso dei
“piccoli” travolti e dispersi senza speranza nella tragedia apocalittica di un
intero popolo? “Un giorno Larisa Fëdorovna
uscì di casa per non ritornarvi più.
Forse fu arrestata per istrada.
Morì, o scomparve chissà dove, un numero qualunque di un elenco andato
smarrito in uno degli innumerevoli campi di concentramento femminili…”. Di sicuro nessuno dei “piccoli” rimasti
fedeli sarà dimenticato dal Signore (Apoc
21, 4), ma questo avverrà nel Giorno del Giudizio.[22]
In questo basso mondo, le forze agenti nella storia
sono costituite da minoranze agguerrite e motivate, che ora guidano ora
trascinano individui e popoli, se ordinate in modo “che quando non credono più
si possa far credere loro per forza” (Il Principe, cap. VI). Possiamo dimenticare questa sgradevole
verità? Doveroso riconoscere il giusto
valore dei “piccoli” anche nella grande storia.
Ma esistono “piccoli” che non appartengano inseparabilmente ad un
popolo, ad uno Stato, ad una cultura comune? Esistono forse come atomi senza
patria e senza storia, così come sembra presentarceli Mercadante? O come particulae
capaci di aggregarsi in modo assolutamente spontaneo? In ogni caso, il salto logico
da Caporetto a Cassibile può avvenire solo tramutando arbitrariamente la nostra
vittoria nella Grande Guerra in una sconfitta (il fermo immagine alla
falsa Caporetto di Malaparte!) e il fascismo (caduto prima di Cassibile)
quale Male Assoluto, avente nell’istrionico e sempre malfacente Mussolini il
suo sgangherato agente, negativo anche quando risolve (e bene) la Questione Romana
--- per Mercadante, inspiegabilmente, “in pura perdita per l’autorità
ecclesiastica”.[23]
[1] Maria Stella Barberi, Giuseppe Fornari, Il
riscatto dei fanti. Caporetto tra
letteratura, storia e memorialistica, con una prefazione di Francesco
Mercadante, Gangemi Editore-International, Roma, s.d. (ma 2019) pp. 159.
[2]
Maria Stella Barberi, Caporetto
proibita. Fanti e santi nell’opera di
Curzio Malaparte, op. cit., pp. 23-70.
[3]
Vedi Il riscatto dei fanti,
cit., spec., pp. 26-32.
[4]
Gioacchino Volpe, Caporetto,
rist. di Gherardo Casini Editore, Roma, 1966, pp. 191.
[5]
Giuseppe Fornari, Caporetto e il significato storico-filosofico della Grande
Guerra: le testimonianze di don Pietro
Sartor e Fritz Weber, pp. 71-159.
[6] Per i passi citati, vedi: Il riscatto dei
fanti, cit., pp. 71-72; 77-79.
[7] Op. cit., p. 82. L’autore citato nel testo è: P. Gaspari, Le
bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata, Gaspari, Udine,
2017 (I ed. 2011). Opera fondamentale,
che ha compulsato i 16.000 memoriali degli ufficiali italiani fatti prigionieri
in tutta la guerra, richiesti dalle Autorità al loro rientro, archivio unico ed
immenso, ignorato finora.
[8] “L’uomo che ci aveva
martellato con undici battaglie offensive e che, metodico com’era, avrebbe
continuato a martellarci dopo Caporetto, era eliminato. E ciò costituiva per noi un notevole
vantaggio”, così il generale Krauss in una lettera a un professore italiano
dopo la guerra. Opinione simile espresse il generale austriaco Conrad von Hoetzendorff in
una lettera alla moglie del 3 gennaio 1918. Vedi: Emilio Faldella, La Grande Guerra.
Vol. II: Da Caporetto al Piave. 1917-1918, Longanesi, Milano, 1965, p. 277.
[9] Fornari, op. cit., p. 83. Scrisse il generale Faldella: “Era inevitabile che nel mondo delle trincee
covasse il risentimento verso gli ‘imboscati’, tanto più che erano noti casi di
favoritismi e di esoneri ingiustificati.
Questo risentimento era più forte dell’avversione alla guerra; infatti,
in generale, il soldato considerava di dover fare la guerra come ci si adatta a
una fatalità alla quale non ci si può sottrarre; avrebbe soltanto voluto che
fosse instaurata una soddisfacente giustizia nella ripartizione del peso. Sia ben chiaro che, nonostante tutto, il
sentimento del dovere e lo spirito di sacrificio erano elevati e saldi; non si
ammirerà mai abbastanza il soldato della guerra 1915-18. Noi, allora giovani ufficiali, che vivemmo la
sua vita, ci domandiamo, con un senso di colpa: abbiamo abbastanza apprezzato
la sua abnegazione, misurato la gravità dei sacrifici serenamente sopportati?”. Emilio Faldella, op. cit., pp. 290-291).
[10] La documentazione in Gaspari, op. cit., che ha
dedicato anche studi monografici a queste battaglie, finora quasi ignorate,
avvenute a Passo Resia, Cividale, Codroipo, Pozzuolo del Friuli…
[11] Si veda per esempio Graham Darby, The
Unification of Italy, 2nd ed., 2013, CPSIA, USA, un sunto della
storia d’Italia dal 1814 a oggi, per i corsi del Junior College, ove Caporetto
viene così descritta: “L’attacco,
guidato dai tedeschi, penetrò per 140 km in Italia in tre settimane, distrusse
gran parte dell’esercito italiano e minacciò di buttar il paese fuori dalla
guerra. Divisioni britanniche e francesi
dovettero esser inviate in tutta fretta per stabilizzare il fronte”(pp. 114-5). Mostra invece rispetto per il soldato
italiano e riconosce il valido contributo dato da noi alla vittoria comune,
Peter Hart, Oral Historian at the Imperial War Museum, in: The Great War,
Profile Books, Londra, 2013, pp. 522, pp. 378-392.
[12] E di allucinazioni
avrebbe dovuto soffrire anche il generale austriaco Konopicky, capo di stato
maggiore del fronte del sud-ovest (Arciduca Eugenio), vale a dire del nostro
fronte, e quindi buon testimone, dopo la battaglia d’arresto sul Piave e sul
Grappa: “Sarebbe sembrato incredibile
che un Esercito, il quale usciva da una così immane catastrofe, potesse tanto
rapidamente risollevarsi.” (Faldella, op. cit., p. 391). L’alto numero di prigionieri, molti dei quali
seconde linee (280.000); l’alto numero
dei caduti e dei feriti, sicuramente superiore ai 40.000 accreditati; i 350.000
e forse più sbandati in gran parte poi recuperati; l’enorme perdita di
materiali di ogni tipo; gli oltre 400.000 civili mescolatisi nella fuga; tutto
ciò non deve occultare il fatto che, su un fronte assai più ridotto e meglio
difendibile, riuscimmo a portare in buon ordine, in grado di sostenere una
valida battaglia difensiva, dalle 33 alle 38 divisioni circa. Scosse nel morale ma nello stesso tempo decise
a vender cara la pelle. La II Armata non fu completamente distrutta: ne fu
annientata appunto l’ala sinistra, dieci divisioni, mentre parte delle altre circa
venti divisioni di prima linea, schierate dalla Bainsizza a Gorizia, poterono
ritirarsi in discreta efficienza sino al Piave. Il fatto che la riserva fosse inizialmente costituita dai franco-britannici,
ci permise di schierare tutto il disponibile
in prima linea. Vedi: Piero Pieri, L’Italia nella Prima Guerra Mondiale, Einaudi,
Torino, 1965, pp. 162-163; Mario
Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, il Mulino,
Bologna, 2008, pp. 389-392). Il Regio
Esercito risorse sul Grappa e sul Piave perché in realtà non era mai morto.
[13]
Vedi: Il riscatto dei fanti, cit., pp.
65-68.
[14] “Sul comportamento delle masse di sbandati nei
lunghi giorni di marcia verso il Piave abbiamo più interpretazioni che notizie
precise. Ci limitiamo a due
osservazioni. In primo luogo, fra queste
centinaia di migliaia di uomini che per più giorni ripiegano senza ordine e
senza viveri non si verificano manifestazioni di violenza. Le autovetture di
ufficiali dirette a Ovest sono seguite da urla e invettive, ma non risultano
casi di ufficiali malmenati o uccisi. I
rapporti con la popolazione sono buoni, i contadini offrono viveri e sopportano
i furti inevitabili, senza che si arrivi a episodi di rapina o di saccheggio
(ci saranno stati, pare inevitabile, ma non hanno inciso nella memoria
collettiva). In secondo luogo [conclude
l’Autore] i casi di fucilazioni sommarie sicuramente accertate sono 34 o 36
ordinate dal generale Andrea Graziani, alle quali vanno aggiunte meno di una
decina ordinate da altri”(Mario Isnenghi, Giorgio Rochat, op. cit., pp. 391-392).
[15] Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta
dei santi maledetti, Introduzione di Mario Isnenghi, Oscar Mondadori, 1981,
p. 135. Gli altri riferimenti a
quest’opera vengono tutti da questa edizione.
[16] Il riscatto dei fanti, cit., pp. 114-134. Il Veneto occupato subì tutti i flagelli di
una vendicativa invasione straniera: saccheggi, ruberie, requisizioni,
uccisioni isolate, fame, miseria, malattie, violenze carnali, prostituzione. Il chinino, pur disponibile anche per loro in
base alla scorte d’anteguerra, fu rifiutato ai civili nelle zone del delta del
Piave, infestate cronicamente dalla malaria. Venticinque anni dopo,
l’esperienza si sarebbe ripetuta al cubo per tutta l’italia, con la doppia
occupazione straniera del biennio atroce 1943-45; una catastrofe, come ha
notato uno storico, paragonabile solo a quella della tremenda Guerra Gotica del 533-554, che fece del
Paese terra bruciata e influì negativmaente su tutto il successivo sviluppo
della storia italiana (Alberto Leoni, Il paradiso devastato.Storia militare
della Campagna d’Italia.1943-1945, Edizioni Ares, Milano, 2012, pp. 495)..
[17]
Vedi, Fornari, op. cit., pp.
83-110.
[18]
Vedi, Fornari passim e
Gaspari, op. cit. L’Armata fu sciolta
dopo la partenza dei tedeschi dal nostro
fronte.
[19] Sull’importanza per la vittoria finale
dell’Intesa della nostra tenuta dopo Caporetto (ma anche durante le grandi
battaglie dell’estate del ’18) nel quadro generale del conflitto, vedi: Giacomo
Properzj, Breve storia di Caporetto, Mursia, Milano, 2017, p. 28; 83-87. Vedi anche:
Faldella, op. cit., p. 336.
[20]
Il riscatto dei fanti, cit., pp. 17-22; p. 13, riferendosi ad un autore
francese contemporaneo.
[21]
Op. cit., p. 21.
[22] Irène Némirovsky, ebrea
russa di cultura francese e grande scrittrice, tragicamente scomparsa ad
Auschwitz nel 1942-43, così ricordava l’8 marzo del 1917, vissuto da lei ancor
giovane fanciulla direttamente sulla via dove passava il lungo corteo delle
donne: “Ces femmes ne chantaient pas, ne
criaient pas. Elles poussaient devant
elles les enfants accrochés à leurs jupes, les grondaient ou riaient avec
eux. Quelques-unes bavardaient entre
elles. Puis, tout à coup, elles s’arrêtaient: leurs rangs
semblaient frémir, et, comme un choeur sur une scène obéit à un mot d’ordre,
qui n’à pas été perçu
dans la salle, elles faisaient jaillir de leurs bouches ouvertes une clameur,
une plainte sauvage et sourde qui montait, montait, puis retombait et s’arrêtait, brisée net. Je demandais en vain aux grandes personnes qui
m’accompagnaient: - Que veulent-elles? Que disent-elles? . Enfin, je crus comprendre qu’elles
demandaient du pain. Ce qui était
effrayant, c’était leur nombre…”(I. Némirovsky, Naissance d’une révolution.
Scènes vues par une petite fille, in ID., Les mouches d’automne, précédé
de La Niaia et suivi de Naissance d’une révolution, Grasset, Paris, 2009,
pp. 97-103; p. 98). Da questa
testimonianza visiva, si potrebbe dire che la marcia del corteo era
organizzata e diretta da una mano assai esperta nel manovrare le folle, nel servirsi dei "piccoli" per i propri fini rivoluzionari.
[23] Op. cit., p. 16. Il perimetro della Città del Vaticano sarebbe
solo “simbolico” (ivi). Non erano però
“simbolici” i due soldati tedeschi sempre di guardia su quel perimetro-confine
di Stato all’ inizio di Piazza S. Pietro, durante l’occupazione hitleriana di
Roma.