La voce “modernismo” di C. Fabro – seguíta da un saggio di P. Pasqualucci
sull’ermeneutica di Schleiermacher
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M o d e r
n i s m o
Voce dell’VIII vol. della Enciclopedia Cattolica, dodici volumi tra il 1948 e
il 1954, regnante Pio XII.
Autore: P. Cornelio Fabro
A cura di Paolo Pasqualucci.
In Appendice un saggio di
Paolo Pasqualucci sul filosofo
tedesco Friedrich Schleiermacher, uno dei padri spirituali del modernismo,
pubblicato nel 2009 sul periodico sì
sì no no, col titolo: Per una critica dell’ermeneutica filosofica. Riflessioni su Schleiermacher.
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Nota previa
Non solo il termine ma il concetto stesso di
“modernismo” sembra scomparso dalla pubblicistica ufficiale cattolica. L’Enciclopedia Cattolica dell’era
Pacelli non è stata più ristampata. A
quanto ne so, è stata sostituita da un Nuovo Dizionario di Teologia di
sole 93 voci, di taglio soprattutto “ermeneutico” e “metodologico”, un’impostazione
che per l’appunto recepiva la prospettiva dei modernisti, mirante ad adeguare metodologicamente l’esegesi e la teologia cattoliche ai procedimenti razionalisti dei protestanti, con
tutte le conseguenze del caso. Nella
ristampa parziale su internet della Enciclopedia Cattolica ad opera di
it.Cathopedia.org, nel pur cospicuo indice generale, la voce Modernismo
non l’ho trovata. Forse non ho saputo
cercar bene. Sempre su internet,
ufficiosi Dizionari di teologia dedicano poche righe alla voce Modernismo,
in genere per deplorare le censure e sanzioni di San Pio X, il quale, a loro
dire, avrebbe fatto erroneamente di ogni erba un fascio, colpendo, oltre agli
eccessi interpretativi e dottrinali, anche tutto quello di buono che c’era
nell’indirizzo modernista. Che ci fossero validi e positivi spunti in quel moto ereticale, questa falsa opinione è oggi piuttosto diffusa, dopo il pastorale
Concilio Vaticano II, che ha per l’appunto segnato, per diversi aspetti, la rivincita del modernismo nella
sua più aggiornata versione, quella della nouvelle théologie dei vari
Rahner, de Lubac, Congar e compagnia, condivisa da un settore all’epoca
minoritario ma assai agguerrito dell’alta dirigenza cattolica.
Nel perdurare sempre più diffuso e sconcertante della
grave crisi di fede e morale che sta devastando la Chiesa, ritengo pertanto che
la rilettura della eccellente voce sul Modernismo stilata tanti anni fa da un autore
del calibro di Cornelio Fabro possa concorrere a chiarire almeno le origini
intellettuali, speculative della presente crisi. Non per nulla, il cardinale Walter Brandmüller,
nel condannare senza appello il 26 giugno scorso un documento pieno di eresie
ed apostatico come lo Instrumentum laboris per l’Amazzonia, ha affermato
che “stiamo assistendo a una nuova forma del Modernismo classico dell’inizio
del XX secolo”. Spero sia anche di
qualche utilità l’aver aggiunto un mio breve saggio sull’ermeneutica di
Schleiermacher, notoriamente considerato uno dei fondatori di quell’indirizzo
“ermeneutico” che ha trovato ampio seguito nei modernisti e ancor più nei
“nuovi teologi” loro eredi.
Dal testo di Fabro ho omesso la breve ma densa
bibliografia presente in appendice.
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M O D E R N I S M O . È
l’indirizzo eterodosso, delineatosi fra gli studiosi cattolici alla fine
del secolo scorso e nei primi anni del presente, che si proponeva di rinnovare
e interpretare la dottrina cristiana in armonia col pensiero moderno. Il termine m. ricorre ufficialmente la prima
volta nell’encicl. Pascendi dominici gregis del papa Pio X come comune
denominazione di un complesso di errori in tutti i campi della dottrina
cattolica (S. Scrittura, dogmi, culto, filosofia) per ridurlo al suo nucleo
originario.
Sommario : 1.
Genesi storica. 2. L’enciclica ‘Pascendi’. 3.
Indole dottrinale. 4. Errori
principali. 5. Critica.
1. GENESI STORICA.
L’origine remota del m. è da vedere nell’irrequietezza
e bramosia di novità che sino dai pontificati di Gregorio XVI e di Pio IX serpeggiavano in alcuni ambienti
cattolici, specialmente di Francia, insofferenti della teologia
scolastica: le condanne
dell’indifferentismo di Lamennais (1834), del tradizionalismo di Bautain (1840)
e del Bonetty (1855), del razionalismo di G. Hermes (1835), di Günther (1857),
dell’ontologismo (1861) e del Frohschammer (1862), il cumulo di errori raccolti
nel Sillabo di Pio IX (1864) sono le tappe dell’errore e i sintomi della
tempesta che si addensava per la Chiesa.
La celebrazione del Concilio Vaticano (1870) fu per un poco il provvidenziale
argine: la costituzione dogmatica De
fide catholica definiva i rapporti fra ragione e fede e stabiliva l’essenza
soprannaturale della fede e quindi della genuina nozione cattolica della
Rivelazione e dell’ispirazione biblica; la costit. I (l’unica portata a termine)
De ecclesia Christi affermava la divina autorità della Chiesa e il suo
infallibile magistero nella persona del successore del Principe degli Apostoli,
il Romano Pontefice. Le prime avvisaglie
della nuova eresia nel campo cattolico si maturano in Francia, dopo il Renan,
con l’opera di A. Loisy, e la tendenza di non pochi studiosi cattolici, che
intendevano adeguarsi ai risultati delle recenti indagini della storia
contemporanea delle religioni e dei dogmi, della filologia dei testi,
dell’archeologia biblica per fornire un’apologetica del cristianesimo conforme
ai bisogni dei tempi nuovi. La Chiesa
aveva già riconosciuto la necessità di un opportuno e urgente rinnovamento
degli studi sacri e biblici in particolare e ne è documento l’encicl. Providentissimus
Deus (1893) di Leone XIII che ne tracciava il senso, il programma e i
principi: l’enciclica lasciava allo studioso
privato ampio campo di ricerca per tutti quei punti “qui expositionem certam et
definitam adhuc desiderant”(cf. Denz.-U,
1942), mentre per i punti già definiti dalla Chiesa egli li poteva ancora approfondire,
adattare ai bisogni dei tempi e difenderli dagli attacchi degli avversari. All’uopo lo stesso Pontefice istituì la
Pontificia Commissione Biblica (1902) ma il Loisy procedette per la sua via e
il m. potè diffondersi e organizzarsi in Inghilterra col Tyrrell, in Italia col
Buonaiuti, Murri, Minocchi e in alcuni ambienti cattolici tedeschi, con
un’ampiezza e penetrazione sempre più preoccupanti.
Toccò a Pio X l’arduo compito di smascherare l’eresia;
e, fatto quasi unico nella storia della Chiesa, il m. sprofondò su se stesso
quasi immediatamente. Il primo intervento
di Pio X fu il decreto del S. Uffizio Lamentabili del 3 luglio 1907, che riassume in 65 articoli
i nuovi errori. Il decreto divenne
condanna solenne con l’encicl. Pascendi dell’8 sett. Dello stesso anno
1907; l’enciclica, con grande sorpresa degli stessi fautori del m., ha
condensata la sintesi logica dei loro principi con “una magistrale esposizione
e una critica magnifica” (G. Gentile).
Infine, per evitare ogni compromesso e ambiguità nella sfera
dell’insegnamento e della disciplina ecclesiastica, Pio X, col motu proprio Sacrorum
Antistitum del I sett. 1910, richiamandosi espressamente ai due documenti
precedenti, pubblicava la formola del “giuramento antimodernista”che presenta a
un tempo i caposaldi della dottrina cattolica e i principali errori del m., che
la volevano scalzare. Si può dire che
così finisce la storia del m. , il cui doloroso ma ormai necessario epilogo
furono le condanne pontificie dei capi dimostratisi ribelli o ricalcitranti. Invano alcuni fautori del m. (Programma
dei modernisti, 2a ed., Torino, 1911, p. 97 ss.) si sono richiamati alle
dottrine del Newman, sul “senso illativo”della fede e sull’evoluzione dei dogmi
da lui difesa, perché egli ha sempre mantenuta la necessità della guida del
magistero ecclesiastico (cfr. J. Guitton, La philosophie de Newman. Essai sur l’idée de développement, Parigi
1933, p. 166 ss.). In particolare,
l’idea centrale del m. di un antagonismo insanabile fra la tradizione della
Chiesa e il pensiero contemporaneo da risolvere a discrezione completa di
quest’ultimo, è in aperto contrasto con la formola dello sviluppo del dogma del
Newman secondo il quale “i vecchi principi ritornano sotto nuove forme e l’idea
cambia con essi per poter rimanere identica”, principio che doveva impedire piuttosto
che favorire il m. (Essay on the development of christian doctrine,
Londra, 1878, p. 40). Del resto
l’ortodossia del Newman è stata difesa da Pio X nella lettera al vescovo di
Limerick del 10 marzo 1908: “Profecto in
tanta lucubrationum eius copia, quidpiam reperiri potest, quod ab usitata
theologorum ratione videatur, nihil potest quod de ipsius fide suspicionem afferat”(Acta
S. Sedis, 41 [1908] p. 201).
In senso analogo, non vanno espressamente compresi nel
m. condannato dall’enciclica (e furono la maggior parte) quegli studiosi che,
pur simpatizzando per le nuove idee, hanno accettato la decisione pontificia
protestando di voler rimanere fedeli all’autorità della Chiesa. Fra questi va forse compreso anche il barone
von Hügel (1852-1925) che subì profondamente l’influenza del Newman (cfr. M.
Schülter-Hermkes, Friedrich von Hügel, Religion als Ganzheit, Düsseldorf
1948, p. 441 sgg.): approfittando del
favore che godeva presso i modernisti, egli tentò, quanto era in suo potere, di
riportare il Loisy e il Tyrrell
all’obbedienza alla Chiesa (op. cit., p. 467 sgg. dove l’autore
conchiude: “Hügels Religionsphilosophie ist also unzweideutig
antimodernistisch”; tuttavia, a p. 480 n. 180 è riportata la lettera del 4
maggio 1907 del card. Steinhuber, prefetto dell’Indice, al card. Ferrari nella
quale si deploravano gli scritti del v. Hügel insieme con quelli del Tyrrell,
Fogazzaro e Murri. Ma è ancora prima di
ogni condanna formale; difende l’ortodossia del v. Hügel anche M. Nédoncelle, La
pensée religieuse de Fr. von Hügel, Parigi 1935, pp. 15-40).
2. L’ENCICLICA “PASCENDI”.
Considerata nel
suo contenuto, nel procedere ed anche nello stile del tutto inconfondibile, è
un documento fra i più decisivi del supremo magistero, e fra tutti gli atti di
Pio X resta il monumento più insigne del suo pontificato, documento delle sue
più accorate preoccupazioni e come completamento definitivo di quella diga alla
marea dei moderni errori, che da un secolo ormai teneva impegnata l’opera del
pontificato romano per la salvezza della fede.
La sua caratteristica è nella struttura fortemente teoretica che le
conferisce una singolare trasparenza, attraverso la quale le molteplici
aberrazioni del m. si dissolvono rivelando la loro stortura e l’evidente
dissonanza col sacro deposito della fede.
Gli errori del m. erano stati accuratamente raccolti e denunziati dal
decreto Lamentabili con formole risolute e perspicue (Denz-U,
2001-2065); l’enciclica li riprende e li presenta nella loro genesi e li
concatena strappandoli a quell’alone d’indeterminatezza in cui erano
volutamente lasciati dai loro propugnatori:
in questo senso si può dire che, pur a così breve distanza dal decreto,
l’enciclica dà una esposizione originale e nuova dei medesimi con un dominio
della terminologia e della tecnica avversaria, unica forse in un documento del
genere e che per questo doveva attirare sulla retta via quanti militavano in
buona fede nelle file dell’errore. A
questa prima parte, la più vasta ed elaborata, seguono le istruzioni disciplinari
che i vescovi devono attuare nella scelta dei professori nei seminari e per
l’incremento degli studi filosofici, teologici e delle materie profane
ausiliari. La parte dottrinale è divisa
in tre punti nei quali vengono analizzate le tre principali tappe o fasi
dell’errore o meglio, come si esprime profondamente l’enciclica, le diverse personalità
che si fondono e s’intersecano nei fautori del m.: il filosofo, il credente, il teologo, lo
storico, il critico, l’apologeta, il riformatore.
Il nerbo dell’esposizione è nella dimostrazione della
solidarietà e continuità dei tre momenti nella demolizione della fede, in
quanto il filosofo inizia con l’affermazione di soggettivismo e relativismo
individuale assoluto, proclamando l’unico criterio del sentimento privato di
ciascuno in cui si risolve non solo la convinzione sull’Essere Supremo ma il contenuto
e il senso degli stessi dogmi.
L’enciclica ammonisce contro la doppia esasperazione a cui va soggetta
la dottrina cattolica con il nuovo criterio:
la “trasfigurazione” in quanto la verità divina è costretta ad assumere
un’esaltazione soggettiva per muovere il soggetto, e la “deformazione”(defiguratio)
in quanto arbitrariamente si crea alla fede una situazione diversa dalla sua
realtà, in contrasto con le dichiarazioni del Concilio Vaticano (Denz-U,
1808). La conseguenza più deleteria è la
professione dell’evoluzione intrinseca e illimitata dei dogmi il cui significato
e valore non proviene dall’immutabile contenuto ma dall’emozione soggettiva che
può suscitare nel credente: cecità nata
da prurito di novità e da superba presunzione, come già aveva denunziato Gregorio
XVI (Denz-U, 2072-2080).
Si comprende come il “credente” si trovi svincolato da
ogni criterio di soggettività e autorità estrinseco, dalla divina tradizione,
così da abbracciare l’assurdità di affermare che da una parte, ad es., la
storia nulla può dire sulla divinità di Gesù Cristo e che questa è unicamente
presente alla coscienza del credente:
separazione violenta già condannata da Pio IX (Denz-U, 1636) e prima da
Gregorio IX nel 1228, al primo comparire del razionalismo teologico (Denz-U,
442 sg.). Sotto l’apparente fideismo i
fautori del m. intendono mettere la fede a discrezione della coscienza umana
(Denz-U 2081-86). L’immanenza,
proclamata dal filosofo e vissuta dal credente, viene applicata dal “teologo”
alle formole e verità di fede con la conclusione che “le rappresentazioni”
della realtà divina si riducono a “simboli”, che si rapportano a particolari
situazioni di coscienza del credente e che mutano con essa: ciò vale anche dei Sacramenti e della divina
ispirazione. La stessa Chiesa è un
frutto di esperienza collettiva e deve adattarsi al suo ritmo senza coercizione
o imposizione alcuna di autorità esteriore.
Su questa linea i fautori del m. trapassano anche a definire i rapporti
della Chiesa con il potere politico affermando la separazione assoluta fra
Chiesa e Stato, contro la determinazione fatta da Pio VI nella costit. Auctorem
fidei, che condannava l’errore del Concilio di Pistoia (Denz-U, 1502
sgg.). A questo modo viene demolita ogni
consistenza e autorità del magistero ecclesiastico e ogni sua esterna
manifestazione o apparato gerarchico:
non c’è campo che il m. non abbia invaso e scardinato dalla sua base per
sostituirvi l’arbitrio. La conclusione
finale è già implicita nel primo passo del soggettivismo filosofico: la proclamazione dell’ateismo e l’abolizione
di ogni religione (Denz-U, 2087-2109).
Strano miscuglio di torbide aspirazioni, le quali con il pretesto di una
vernice pseudomistica e col richiamo ad un’interiorità più teoretica che
intimamente pratica, pretendeva di patrocinare la politica della nuova
democrazia (come in Italia fece il Murri) da sovrapporre e sostituire
all’azione della Chiesa.
Di lì a poco, con il motu proprio Praestantia
Scripturae (18 nov 1907), il Papa insorgeva contro le deformazioni tentate
nei riguardi del decreto Lamentabili e dell’encicl. Pascendi, comminando
la scomunica contro i contraddittori e dichiarando che i contumaci negli errori
ivi condannati erano colpevoli di eresia, perché nella maggior parte di quelle
proposizioni si attenta ai fondamenti della fede (Denz-U, 2114). Il Papa non solo seguì personalmente
l’esecuzione delle disposizioni dell’enciclica e quelle relative al giuramento
antimodernista, ma intensificò l’attività della Pontificia Commissione Biblica
che si pronunciò “con autorità” sui principali problemi della teologia e
dell’esegesi biblica; parimenti fondò il Pontificio Istituto Biblico in Roma,
perché raccogliesse i più esperti studiosi cattolici del S. Testo e vi si
preparassero i nuovi professori di S. Scrittura nei seminari.
3. INDOLE DOTTRINALE .
La gravità dell’errore dogmatico del m. è tutta nel
suo principio fondamentale. Il m. non
consiste tanto nell’opposizione all’una o all’altra delle verità rivelate, ma
nel cambiamento radicale della nozione stessa di “verità”, di “religione”, di
“rivelazione”: l’essenza di questo cambiamento
è nell’accettazione incondizionata del “principio dell’immanenza” che sta a
fondamento del pensiero moderno. È vero
che tale principio teoretico è espresso raramente dai fautori del m. in modo
sistematico, perché essi si applicano di preferenza alla ricerca positiva della
storia della Chiesa, dei dogmi e della Bibbia:
tuttavia l’indirizzo critico da loro seguito nelle ricerche è dominato
da quel principio, che abbandona senza residui la verità cristiana alla
contingenza della cultura umana e dell’esperienza soggettiva. Il m. deriva in
questo per tramite anche storicamente evidente dal movimento stesso della riforma
luterana, come l’enclica stessa ammonisce (Denz-U, 2086), in quanto la “Riforma”staccò
la fede del singolo dall’ossequio all’autorità gerarchica stabilita nella
Chiesa visibile. Il principio
protestante ebbe la sua versione laica nel soggettivismo gnoseologico kantiano
e di qui nel doppio indirizzo dell’idealismo trascendentale di
Fichte-Schelling-Hegel che subordinava la religione alla filosofia e
dell’irrazionalismo fideistico (più vicino a Kant) di
Jacobi-Fries-Schleiermacher, che poneva l’essenza della religione nel “sentimento”
individuale del divino.
Frutto inevitabile di questa invasione della
soggettività nel campo della fede fu la disgregazione della dottrina
tradizionale della verità operata dalla “teologia liberale” tedesca della
seconda metà del XIX secolo, la quale, dopo gli hegeliani Feuerbach, Strauss e
Bauer, negatori non solo della Rivelazione ma di ogni religione naturale e
positiva, trattò le verità del cristianesimo, e della religione rivelata in
genere, come prodotto storico e culturale dell’epoca che le vide nascere
(Ritschl, Vatke, Troeltsch, Hermann). Il
concetto poi di “sviluppo”o “divenire”(Werden) della coscienza, elaborato
da Hegel dal punto di vista della dialettica astratta, veniva proposto dal
Darwin come la legge unica e fondamentale per la comprensione dell’origine
della vita e della stessa coscienza.
Spencer, nell’àmbito della filosofia, esponeva nei suoi Primi principi
la “teoria dell’inconoscibile” che, come già Kant un secolo prima, dichiarava impossibile
ogni via razionale per attingere l’Assoluto. Inoltre la nuova via per accedere
alla realtà spirituale veniva indicata nell’analisi psicologica dell’esperienza
intima contemporaneamente nell’opera di H. Bergson in Francia e di W. James in
America. Ma la fonte più diretta e
completa a cui attinsero i fautori del m. è la teoria del “fideismo simbolico”che
A. Sabatier ha esposto con grande fascino in Esquisse d’une philosophie de
la religion (Parigi 1879, specialmente p. 390 sgg.). In essa si fa un’applicazione radicale del
principio dell’immanenza vitale a tutti i fondamenti della fede cristiana e si
mostra insieme, con perfetta padronanza della teologia protestante, che la
riduzione della fede a “istinto”soggettivo è l’unico logico risultato del principio
della “Riforma” (cfr. Fr. Heiler, A. Loisy, der Vater des katholischen
Modernismus, Monaco 1947, p. 46).
Contemporaneamente i risultati della moderna filologia applicati al
Testo Sacro ponevano problemi nuovi su l’autenticità, la struttura e
l’interpretazione dei libri ispirati, che la teologia patristica e la
scolastica non potevano sospettare nella composizione del Nuovo Testamento; le
esplorazioni delle civiltà antiche del mondo biblico in Medio Oriente e lo
studio delle religioni estrabibliche mettevano di fronte ad analogie e
somiglianze che non potevano essere casuali e che esigevano perciò
un’interpretazione complessiva secondo un principio unitario. Il m. ne ha approfittato per riprendere il
tentativo dello “gnosticismo” di abbracciare tutte le istanze della verità con
un principio unico, la soggettività della verità e la relatività di tutte le
sue formole e quindi la relatività del dogma.
Il pericolo del m. è nella sua estrema duttilità che
vuol schivare ogni qualificazione determinata e precisa sia in filosofia come
in teologia: infatti i fautori del m.
sfuggono dall’accettare l’uno e l’altro sistema filosofico in forma integrale,
pretenderebbero di aver colto il principio unitario che caratterizza l’uomo
moderno al di là e al di sopra delle opposizioni dei sistemi. Questo principio, che forma l’essenza del m.,
è indicato nell’immanenza vitale intesa come “esperienza privata”. Il suo significato per la conoscenza
cristiana è nella “mediazione”che il principio dell’immanenza opera di ogni
dato reale, storico e filosofico rispetto ai prolegomeni della fede: l’esistenza di Dio, l’immortalità e la vita
futura nel campo strettamente teoretico, e rispetto al valore oggettivo
probante dei miracoli e delle profezie nel campo dell’apologetica. Poi nell’àmbito stesso delle verità di fede
il m. opera tale “mediazione” nel modo più radicale eliminando qualsiasi
distinzione effettiva di valore fra le varie religioni e fra gli stessi
atteggiamenti più opposti che può prendere il singolo dentro la sua religione. Si può oggi dire che il m. ha unificato, in
questo principio dell’immanenza, gli indirizzi opposti del fenomenismo, dello
storicismo idealista e del fideismo di Kant-Schleiermacher, vale a dire: 1) la “realtà” è l’impressione di coscienza
(Hume, James, Bergson); 2) la verità si
risolve nel destino o sviluppo della coscienza umana (Hegel); 3) tale coscienza si manifesta e si attesta
nell’impressione o percezione intima (“sensus”dell’encicl. Pascendi,
“Gefühl” di Schleiermacher), quale si dà al singolo volta per volta. Così i fautori del m. hanno potuto protestare
di accettare tutta la dottrina della Chiesa, ma in realtà essi respingevano ad
un tempo: 1) il concetto di
“trascendenza ontologica” di Dio rispetto al creato e alla mente finita così
che Dio è sostituito col “divino”; 2) il
concetto stesso di soprannaturale così che i dogmi sono ridotti a “simboli”e ad
“approssimazioni”; 3) il concetto infine di “magistero
ecclesiastico” la cui autorità impegna per quel tanto in cui la coscienza
privata del singolo si trova in accordo con l’autorità esterna. Il m. quindi ha capovolto il metodo
tradizionale dell’apologetica cristiana nel rapporto fra “scienza e fede”,
rinnovando l’errore averroista della dissociazione nella coscienza stessa del
cristiano, come avverte il Giuramento (Denz-U, 2146), fra l’ossequio
esterno del credente all’autorità della Chiesa che propone la verità da credere
e la convinzione interiore dello studioso.
Così il contenuto e il valore stesso delle medesime verità venivano
sottratti al magistero ecclesiastico e riservati ad una forma di
“supercomprensione” in virtù dell’emozione religiosa del soggetto. Allora, in ultima istanza, l’unica formola
valida della verità religiosa si risolveva nella struttura che la coscienza dà
a se stessa di fronte ai singoli problemi della fede. Giustamente perciò l’enciclica qualifica il
m. non tanto di eresia quanto di “compendio di tutte le eresie”; si potrebbe
quasi chiamare “l’eresia essenziale” in quanto capovolge e nega la garanzia
stessa dell’ortodossia, cioè il supremo magistero, che mediante l’assitenza
dello Spirito Santo continua nella Chiesa secondo la promessa di Gesù Cristo.
4. ERRORI PRINCIPALI .
L’encicl. Pascendi dichiara nel modo più
perentorio che il m., a causa della sua professione di soggettivismo radicale,
trapassa al di là di ogni religione
nell’agnosticismo assoluto e quindi di necessità finisce nell’ateismo. Il Programma dei modernisti,
pubblicato nel nov. 1907 come risposta all’enciclica, lungi dallo scagionarlo,
risulta una conferma punto per punto della opportunità e fondatezza della
condanna papale.
1. M. biblico. Alla dottrina (il Programma dice “opinione”) tradizionale che nella Bibbia si possiede il processo genuino della Rivelazione sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento, perché garantita dall’autorità di Dio che l’ha ispirata in ogni sua parte e per l’autorità degli scrittori secondari (ad es., Mosè, Giosuè, gli Evangelisti), che furono testimoni immediati o mediati di ciò che narrano, si oppongono, a sentire i modernisti, i recenti risultati della critica biblica secondo i quali i libri storici del Vecchio Testamento sono semplici raccolte di materiali che “non mostrano alcuna pretesa di provare la verità, ma semplicemente di purificare il sentimento religioso del lettore” e che perciò non possono aver Dio come autore principale. In questo senso si può ben ammettere che la Bibbia “non contiene alcun errore propriamente detto e molto meno le bugie sia pur officiose”, in quanto che il racconto biblico si rapporta “a quelle forme e alle esigenze di vita dei lettori per i quali ciscun libro è stato scritto“(Il programma dei modernisti, 2a ediz., Torino 1911, p. 40). Parimenti l’ispirazione biblica non è più da concepire come una meccanica trasmissione delle parole o dell’idea da Dio all’uomo, ma in una vitale concezione della parola insieme e dell’idea per opera dell’uomo unito a Dio in una maniera speciale e soprannaturale (ivi, p. 41), che però il Programma non precisa. Va notato infine che, secondo il m., lo scopo e il contenuto della divina Rivelazione non ha tanto carattere ddottrinale riguardante la conoscenza astratta della divinità, quanto l’istruzione pratica del come venerare Dio e conformare la vita alla norma suprema della sua volontà (ibid.,, p. 45). La negazione dell’ispirazione come carisma, della storicità e del contenuto di verità assoluta del libro sacro è ripetuta e analizzata a riguardo del Nuovo Testamento nella composizione dei Vangeli e dei rapporti fra loro, dove si fa distinzione fra l’elemento storico e l’elemento soprannaturale della fede, per passare alla distinzione nominata dalla stessa enciclica (Denz-U, 2076) fra “il Cristo della storia e il Cristo della fede ( Programma, pp. 66 sgg., 115) : all’una appartiene di conoscere che Cristo è uomo, all’altra che Cristo è Dio e tocca al fedele vedere dappertutto il Cristo secondo lo spirito”(ibid., p. 75). Importa poco alla fede di accertare la nascita verginale, i miracoli clamorosi e infine la resurrezione del Redentore e se è possibile o no attriubire a Cristo l’annuncio di alcuni dogmi e la fondazione della Chiesa: questi fatti sfuggono alla storia e non hanno realtà che per la fede (ibid., p. 111). Il principale rappresentante del m. biblico fu A. Loisy.
2. M. teologico. Al principio del cristianesimo non c’era che la fede intensamente vissuta, senza dottrine definite o dogmi : questi sono “incrostazioni depositate dalla riflessione di coscienze esaltate, specialmente di s. Paolo, ma estranee al contenuto primitivo del Vangelo di Gesù ch’era un caldo e appassionato annuncio del regno imminente e un vinito alla purificazione interiore “(ibid., pp. 74, 88). Altrettanto dicasi della dottrina dei primi Padri, dai quali esula ogni tendenza dogmatica così che è “arbitrario e aprioristico” far risalire all’insegnamento primitivo di Gesù e dei suoi primitivi seguaci i dogmi dei concili e specialmente la fede del Concilio di Trento nella loro espressione. La “evoluzione dei dogmi” è stata, secondo il m., l’effetto dell’adattamento vitale “indispensabile al cristianesimo per sopravvivere nell’ ambiente ellenistico in cui venne a trovarsi fuori della Palestina, e ciò vale specialmente per i dogmi fondamentali trinitario e cristologico e per l’organizzazione della Chiesa”(ibid., p. 81 sgg.). Così che “tutto è cambiato nella storia del cristianesimo, pensiero, gerarchia e culto : l’elemento costante di verità ai primi tempi della Chiesa, nei secoli seguenti, compresa la scolastica e il Concilio di Trento che la canonizzò, come ai nostri giorni, è l’esperienza religiosa ch’è sempre identica negli uni e negli altri”(ibid., p. 92). In tutta la storia del Vecchio e del Nuovo Testamento si attua “la continuità di una Rivelazione che nella coscienza umana il divino fa di se stesso sempre più intensamente”(ibid., p. 111) : dogmi, organizzazione ecclesiastica, Sacramenti…non sono che mezzi per realizzare quell’esperienza più profonda del divino: e i fautori del m. auspicano di poter in futuro farne a meno (ibid., p. 112).
3. M. filosofico. Il Programma rigetta categoricamente l’accusa di “agnosticismo” e – pur riconoscendo di accettare la critica negativa fatta alla ragione da Kant e Spencer (ibid., p. 28) – dichiara di professare un atteggiamento radicalmente diverso, quello cioè di spiegare ogni tipo di conoscenza (fenomenica, scientifica, filosofica, religiosa) in funzione dell’’azione’ e quindi dell’esperienza che è propria ad ognuno in quei campi. In particolare nella sfera religiosa, sia per provare l’esistenza di Dio come per accertarsi della divina Rivelazione, non importano più le dimostrazioni della metafisica medievale e la testimonianza del miracolo e della profezia : oggi sono invece “le esigenze della nostra vita morale e l’esperienza del divino che si compie nelle profondità più oscure della nostra coscienza, che conducono ad un senso speciale delle realtà soprasensibili”(ibid., p. 97). Quanto all’accusa di immanentismo, il Programma, pur riconoscendo che l’enciclica ha visto bene, si affanna a dimostrare che il “principio d’immanenza” non è affatto in contrasto con la tradizione cattolica in quanto anche per questo il giudizio “Dio esiste”, ammesso come la stessa teologia scolastica ammette che non è giudizio né analitico a priori né sintetico a priori, resta che sia sintetico a posteriori, cioè dimostrabile con l’esperienza, “la quale non può essere altro che quella che si compie dalla e nella coscienza dell’uomo”(ibid., p. 100). Anche i Padri e lo stesso s. Tommaso non hanno voluto dire altro, e l’immanentismo non è quel grosso errore che l’enciclica ha voluto far credere ( ibid., pp. 191 ss., 120 sgg., 138 sgg.). Quanto ai rapporti fra scienza e fede, il Programma professa di ammettere la distinzione più netta nel senso che la fede religiosa è il “bisogno istintivo…che nasce spontaneamente e si svolge indipendentemente da ogni tirocinio di preparazione scientifica”(ibid., p. 123). Il Programma come conclusione dichiara che il m. non avversa né la Scrittura e neppure la tradizione ma soltanto l’interpretazione scolastica delle medesime perché ormai sorpassata dal metodo critico della coscienza moderna (ibid., p. 127).
5. CRITICA. Il Programma ha confermato pertanto tutti i principali capi d’accusa dell’encicl. Pascendi e quale principio ispiratore nella concezione della fede, della storia, delle formole dogmatiche, della gerarchia, del culto : l’esperienza privata soggettiva. Tale criterio dell’esperienza privata è presentato come il risultato indiscusso e definitivo del pensiero moderno che dovrebbe costituire la formola unica della possibilità della verità religiosa per la coscienza umana in generale. Il m., sfruttando ed esasperando l’insufficienza cirtica di alcune posizioni tradizionali nel campo dell’esegesi e della storia della Chiesa, ha cambiato sostanzialmente l’interpretazione dei dati e del significato stesso della fede, della religione naturale e della funzione della ragione umana. È stato così rigettato in blocco il realismo greco-cristiano che aveva per fondamento la distinzione dell’uomo dal mondo e da Dio e la distinzione dell’ordine naturale dall’ordine soprannaturale; con ciò si aboliva ogni vestigio di trascendenza. Viene eliminato di conseguenza ogni valore assoluto e trascendente dei primi principi della ragione e con essi è tolta la possibilità della struttura logica del discorso e la validità di ogni posizione metafisica. A nulla valgono le proteste di alcuni modernisti di accettare integralmente la dottrina cattolica, perché il m. ha nel “principio d’immanenza vitale” il veleno corrosivo non solo dell’essenza e delle verità di fede ma del valore oggettivo di qualsiasi verità assoluta di fatto e di ragione e ritorna al principio di Protagora che “l’uomo è misura di tutte le cose”(Theaet., 152, fram. B I ). Il m., ancora pur derivando per canali molteplici dal soggettivismo del pensiero moderno, non presenta alcuna consistenza teoretica perché non s’impegna a fondo con nessun sistema di filosofia determinata, così che si risolve in un fenomeno di “contaminazione teoretica”e di superficiale concordismo. La contaminazione però più essenziale è stata il tentativo d’interpretare l’esperienza intima del soggetto (autocoscienza) in diretta continuità e come espressione unica autentica della vita religiosa e di prendere la coscienza religiosa comune o naturale come l’essenza o il comune denominatore della stessa divina Rivelazione e della vita della Grazia. La realtà è che ogni esperienza religiosa, nell’ambito della vita della Grazia e della fede, può avere soltanto un valore secondario e in dipendenza della Rivelazione e del magistero ecclesiastico.
L’errore del m. ha però giovato indirettamente alla
vita della Chiesa, chiamando a raccolta le sue forze migliori per fronteggiare
l’attacco più subdolo e vasto alla sua missione spirituale : gli studi superiori delle università
cattoliche, stimolati dal m., si sono in questa prima metà del secolo
completamente rinnovati, specialmente nel campo delle scienze bibliche e della
storia dei dogmi, dove il m. teneva l’arsenale delle sue armi. Tuttavia il pericolo del m. non è mai completamente
debellato perché è insita nella ragione umana, corrotta dal peccato, la
tendenza a erigersi a criterio assoluto di verità per assoggettare a sé la
fede. Un tentativo affine al m.
teologico è la cosiddetta “théologie nouvelle” comparsa in Francia dopo la II
guerra mondiale ed energicamente denunziata dall’encicl. Humani generis (12
ag. 1950) di Pio XII.
A
P P E N D I C E
PAOLO PASQUALUCCI
Per
una critica dell’ermeneutica filosofica
Il termine “ermeneutica” è usato spesso
come equivalente erudito di “interpretazione”: l’ermeneutica di un testo altro
non sarebbe che l’interpretazione dello stesso, giusta il significato di hermeneúo, che in greco antico voleva
dire: dichiaro, espongo, interpreto. Il
termine deriverebbe da una radice ser
o Fer, dalla quale il latino sermo, discorso. Nella mitologia greca,
il quasi omonimo Ermes (Mercurio per i Latini) era, tra molte altre cose, il
dio dell’eloquenza. Così inteso, il
termine è puramente descrittivo, non rivelando ancora di che tipo di
interpretazione si tratti, a quali criteri essa si ispiri.
Ma nel pensiero contemporaneo si è
fortemente sviluppata la tendenza a concepire la filosofia in quanto tale come ermeneutica,
intendendosi perciò quest’ultima in un senso ben più ampio rispetto alla
semplice “interpretazione”. Muovendo
inizialmente dalla teoria dell’interpretazione dei testi, la concezione della
filosofia come “ermeneutica” ha elaborato un
concetto soggettivistico del comprendere
in generale e quindi del modo stesso di concepire il concetto della verità.
E sappiamo che questa ermeneutica
filosofica esercita ancor oggi un’ampia influenza.
Quando, nell’odierna disputa
sull’esatto significato del Vaticano II, autorevoli fonti ecclesiastiche ci
invitano (senza specificare) ad interpretarlo alla luce di un’ermeneutica della continuità e non della rottura con l’insegnamento
tradizionale della Chiesa, che significato dobbiamo conferire al termine “ermeneutica”?
Semplice, neutro equivalente di
“interpretazione”? Le fonti ecclesiastiche
che lo impiegano, dovrebbero chiarire. A mio avviso, mancando tale chiarimento,
applicare questo termine alla comprensione della dottrina della Chiesa può
rivelarsi fuorviante. Infatti, molti potranno ricondurlo a quello di
interpretazione della dottrina della Chiesa secondo i criteri tradizionali.
Altri, invece, intenderlo nel senso della contemporanea ermeneutica filosofica,
che ha la sua origine in Schleiermacher e il suo pieno sviluppo in Heidegger
ossia nell’antimetafisica
dell’Esistenzialismo.
Lo scopo del mio breve intervento è
quello di proporre alcune riflessioni proprio su Schleiermacher, seguite da un
cenno finale su Heidegger.
L’ermeneutica
come intuizione divinatoria in Schleiermacher
Ciò premesso, soffermiamoci dunque
sulla celebre Hermeneutik di Friedrich
Schleiermacher (m. nel 1834), pastore e teologo luterano, filosofo e “mistico”,
uno dei padri fondatori del Romanticismo e del protestantesimo liberale, al quale
ultimo i modernisti si sono ampiamente
ispirati[1].
È un saggio di circa settanta pagine, tratto dai suoi manoscritti e dagli
appunti presi alle sue lezioni accademiche.
I concetti generali sono esposti in una Introduzione, seguìta da un lungo discorso sulla “ermeneutica psicologica”[2].
[L’ermeneutica
deve comprendere la vita come totalità] L’ermeneutica è
“l’arte del comprendere” e consta di diverse “ermeneutiche speciali”. Poiché il discorso è solo “il lato esteriore
del pensiero”, l’ermeneutica, oltre che all’arte, si rapporta alla
filosofia. Ma poiché il pensiero ha
“natura comunitaria”, va posta in relazione anche con la retorica e la
dialettica, grazie alle quali i nostri concetti entrano in relazione con il
pensiero degli altri. Il “discorso altro
non è che il pensiero stesso nel suo divenire [lett., nel suo esser
divenuto]”. Pensiero e discorso si
comprendono solo nella “comune vita storica” e comunque nello sviluppo storico
che riguarda il “discorso”. La giusta
comprensione del “discorso” si fonda dunque su quella del linguaggio e del
pensiero del suo autore. Anche il
linguaggio va compreso alla luce di una totalità, quella della “lingua”. Il pensiero è un “interiore discorrere”.
L’impostazione di Schleiermacher sembra
evidente: egli tende a risolvere i
singoli fenomeni nella totalità ossia a spiegare le singole manifestazioni dello
spirito (discorso, linguaggio, pensiero) alla luce di un tutto che deve
ricomprenderle. Questo “tutto” è visto
nella storia ma soprattutto nel concetto di “vita”, un concetto che avrà
fortuna nella filosofia tedesca posteriore.
“Ogni discorso deve sempre esser
compreso nella totalità della vita cui appartiene poiché ogni discorso è
riconoscibile come momento vitale (Lebensmoment)
di colui che parla, nella realtà conchiusa di tutte le sue componenti vitali e
tenendo in considerazione nient’altro che la totalità dei fattori ambientali
che ha condizionato il suo sviluppo e progresso. Ciò significa che ogni autore va compreso
solo attraverso la nazionalità [cui appartiene] e l’epoca [cui appartiene]”[3].
Che nella comprensione dell’autore e
quindi del testo (o dell’opera, in
generale) si debba tener conto anche del condizionamento storico rappresentato
dallo spirito del tempo e dalla nazionalità di appartenenza, non lo si può
certo negare. Ma non si può attribuire a
questo criterio un valore assoluto,
come fa Schleiermacher, in tal modo storicizzando completamente il significato
di un testo. Tanto per fare un esempio,
se noi storicizziamo del tutto il significato dei Vangeli, allora essi scadono
a documento che si limita a riflettere la situazione storica ed ambientale
dell’Israele del tempo, venendo in tal modo a perdere il loro significato
universale perché spogliati di quel carattere sovrannaturale e quindi immutabile
che appartiene loro, in quanto documenti ispirati da Dio, che ne è il vero
autore[4].
[L’interpretazione
psicologica] Che cos’è allora il
comprendere (Verstehen)? È
“l’integrarsi dell’interpretazione grammaticale con quella psicologica”. Ma
perché l’interpretazione è ”arte”?
Innanzitutto, perché essa deve armonizzare abilmente l’elemento
grammaticale con quello psicologico, accentuando l’uno o l’altro a seconda del
tipo di opera con cui si ha a che fare.
Per Schleiermacher, la più importante è l’interpretazione psicologica, che costituisce il suo
contributo più originale, come sottolinea Gadamer. È essa che ci consente di
penetrare lo spirito dell’autore, situandolo nello stesso tempo nella giusta
dimensione storica. Tale
interpretazione, infatti, evita veramente il “fraintendimento” (Missverstehen) solo quando assume carattere
“storico” e nello stesso tempo “divinatorio” o “profetico”. Solo questi caratteri permettono una
“ricostruzione oggettiva e soggettiva del discorso” oggetto dell’interpretazione. Storica
in senso “oggettivo” è quell’interpretazione che vuol vedere come il discorso
si rapporti alla totalità della lingua e al sapere racchiuso in quest’ultima
come un suo germoglio. Divinatoria in senso oggettivo, è quella
che presagisce in che modo il discorso stesso diventerà un punto di sviluppo
per la lingua. Storica in senso
“soggettivo” è quella che mira a cogliere il discorso come fatto del sentimento
(Tatsache im Gemüt), mentre divinatoria
in senso “soggettivo” è quella che indovina in qual modo i pensieri racchiusi
nell’animo dell’autore si sviluppano ulteriormente in lui e da lui[5].
Questi criteri, pervasi da uno spirito
visionario, si chiarificano nel famoso e discusso principio secondo il quale
l’interprete può (anzi deve) giungere ad interpretare l’autore meglio di quanto
quest’ultimo abbia compreso se stesso.
“Il compito [dell’interprete] consiste anche nel comprendere il senso
dell’opera non solo bene come l’autore, ma persino meglio”. Ciò significa che dobbiamo render esplicito anche
ciò che può esserci di inconsapevole in quest’ultimo. In tal modo, il compito dell’ermeneutica
diventa in sostanza “infinito”, perché si estende “all’infinito del passato e
del futuro” (racchiusi nella sfera insondabile dell’interiorità) e richiede un
“entusiasmo” quasi divino[6].
Sembra
gran cosa quest’idea di cogliere la personalità dell’autore, in tutti i
suoi risvolti, anche quelli a lui ignoti, al fine di poter comprendere l’opera
nel migliore dei modi ed anzi meglio dell’autore stesso! In realtà, questo principio sembra frutto di
intellettualistica pedanteria. Può esser
interessante, certamente, conoscere la personalità, la “vita”,
dell’autore. Ma si tratta pur sempre di
una conoscenza utile ai fini di una storia
minore, che riguarda la biografia personale dell’autore, il sottofondo
della sua creazione. Della vita di
Shakespeare non conosciamo praticamente nulla:
forse questo ci impedisce di capire il significato delle sue
tragedie? Direi di no. E cosa conosciamo della vita dei tragici greci?
O forse possiamo dire che la vita di Dante, che ci è abbastanza nota, possa
spiegare un poema del calibro della Divina
Commedia? Può aver influito, la sua vita di esiliato,
su alcuni aspetti delle sue concezioni politiche. Ma in ogni caso si è trattato di un’influenza
secondaria. In realtà, la tesi di
Schleiermacher andrebbe rovesciata, dal punto di vista della sana ermeneutica.
È forse la vita di Balzac a farci comprendere la Comédie humaine? No. È la Comédie humaine, la sua opera, a dare un
senso alla vita di Balzac, ad essa dedicata. Hanno ragione, a mio avviso,
coloro i quali sostengono che l’individualità dell’autore, la sua esperienza individuale, racchiusa nella
sua “vita”, scompare di fronte all’opera.
La “vita” dell’autore è nella sua opera, la quale vive di vita propria
ed indipendente. Noi conosciamo l’autore per la sua opera non per
ciò che è stato in quanto individuo privato.
Tanto più l’opera dimostra di essere universale, tanto meno pesa in essa
l’esperienza personale dell’autore, la sua “vita vissuta”, ivi compresi i suoi
inespressi sentimenti e pensieri. L’una
e gli altri in sostanza privi di interesse, di fronte alla sua opera, ed
ininfluenti quanto alla sua autentica comprensione.
Con esaltazione tipicamente romantica,
l’interprete viene da Schleiermacher elevato al rango di un vate e l’ermeneutica al rango di un
sapere profetico. L’interprete è colui che, penetrando anche
le intenzioni più riposte dell’autore, svela l’appartenenza dell’opera al
Tutto, meglio di quanto possa fare l’autore stesso. In questa appartenenza, si svela il Zirkel im Verstehen o “circolo ermeneutico”. Il “circolo ermeneutico”, già noto alla
retorica antica, viene reinterpretato una prima volta in modo peculiare allo
spirito moderno proprio da Schleiermacher.
Una seconda, da Heidegger[7].
[Il
circolo ermeneutico] Come intende
Schleiermacher questo “circolo”? Egli
ribadisce che l’interprete deve impadronirsi della lingua usata dall’autore e
conoscere la sua vita esteriore ed interiore, vita che dipende dal carattere e
dalle circostanze. Queste conoscenze
possono esser fornite dall’interpretazione in senso stretto (Auslegung) con i suoi ponderosi
studi. Ma il linguaggio tipico di un
autore e la storia della sua epoca “si rapportano [tra di loro] come il tutto
dal quale bisogna comprendere i suoi scritti nella loro individualità e
viceversa [perché sono i suoi scritti che, a loro volta, ci permettono di
comprendere il Tutto rappresentato dal linguaggio e dalla storia
dell’epoca]”. Questo è dunque il circolo vizioso dell’ermeneutica: “ogni particolare può esser compreso solo a
partire dal tutto del quale è parte e viceversa”[8]. Comprendere a partire dal tutto, significa
intuire il Tutto come “schema, scheletro, compendio soggiacente” all’opera[9].
Il “circolo ermeneutico”, come inteso
da Schleiermacher, non è concetto puramente descrittivo, che si limiti a farci
prender coscienza di un circolo vizioso al fine di poterlo superare. Esso si inquadra nella concezione divinatoria
dell’ermeneutica, tipica del nostro autore, i cui connotati panteistici sono stati messi bene in
rilievo da Gadamer. L’interpretazione
deve cogliere il senso dell’opera impossessandosi alla fine dell’individualità
del suo autore grazie ad un’intuizione di tipo divinatorio? Ne consegue che: “la base ultima di ogni comprensione sarà
sempre un atto divinatorio di congenialità, la cui possibilità si fonda su un
precedente legame che unisce tutte le individualità. In effetti il presupposto
di Schleiermacher è che ogni individualità è una manifestazione della vita del
tutto e perciò ‘ognuno porta in sé un minimo di tutti gli altri, e la
divinazione è in lui stimolata dal confronto con sé stesso’. Così egli può dire che l’individualità
dell’autore va colta immediatamente, ‘con il trasformare in certo modo sé
stesso nell’altro’. In quanto per lui il
problema della comprensione sbocca così in quello dell’individualità, il compito
dell’ermeneutica gli si presenta come universale”[10].
Universale, come quello
dell’individualità, dell’io, del quale si deve fondare il “comprendere” in
maniera autonoma. Poiché il Tutto della
“vita”, storica, collettiva e universale, ricomprende sia l’interprete che
l’autore, l’individualità dell’autore andrà colta nella sua appartenenza al
Tutto e come manifestazione di esso. Andrà
colta, in definitiva, nell’ambito del rapporto circolare fra il tutto e la
parte, che si illustra nel circolo ermeneutico.
In tal modo, per tornare a Gadamer, il principio del circolo ermeneutico
della tradizione ermeneutico-retorica, mantenuto dalla filologia contemporanea
a Schleiermacher, non è più limitato da lui “all’intelligenza grammaticale del
testo” e al suo inserimento nella totalità dell’opera, o “di una letteratura o
di un certo genere letterario”.
Schleiermacher lo applica, questa è la novità, all’interpretazione
psicologica, la quale “deve comprendere ogni struttura di pensiero come un
momento inserito nel contesto della totalità esistenziale della persona
dell’autore”[11].
Allora non si tratta più di eliminare
dal comprendere “l’andare e venire dalle parti al tutto e dal tutto alle
parti”, superando per quanto possibile (aggiungo) i condizionamenti soggettivi
che ostacolano la nostra comprensione della cosa in sé, grazie all’uso corretto
delle categorie della logica. Il circolo ermeneutico viene invece di fatto
accettato quale momento costitutivo dell’interpretazione stessa. Per Schleiermacher non è uno scandalo che
esso “si allarghi continuamente, giacché il concetto del tutto è relativo, e
l’inserimento in contesti sempre più vasti influisce continuamente sulla
comprensione del particolare”[12]. Non è uno scandalo, dal momento che –
prosegue Gadamer - egli pensa sia possibile dominare questo “tutto” multiforme
e magmatico grazie ad una “trasposizione divinatoria”, mediante la quale, di
colpo, “ogni particolare acquista la sua piena luce “ e l’interprete coglie
intuitivamente l’opera come un tutto e nel Tutto.
Questa è l’ermeneutica. Il suo organo
non è la ragione ma il sentimento, grazie al quale l’individualità supera i
limiti che la ragione ed il concetto incontrano di fronte all’infinito del
Tutto. Questo limite “deve essere oltrepassato
con il sentimento, cioè attraverso
una immediata comprensione simpatetica e congeniale: per questo l’ermeneutica è appunto arte, e non un’ operazione
meccanica. Essa porta a compimento il
suo compito, la comprensione, come un’opera d’arte”[13].
[La
religione panteistica di Schleiermacher]
Va
ricordato che l’intuizione ed il sentimento costituiscono per Schleiermacher
l’unica e vera fonte anche della religione.
La religione, scrive, non va colta attraverso la metafisica o la morale,
all’arida maniera dei kantiani. “La sua
essenza non è costituita né dal pensiero né dall’azione ma dall’intuizione e
dal sentimento (Gefühl)”[14].
Sentimento, intuizione di Dio?
No. Panteisticamente, sentimento del
Tutto al quale l’individualità
appartiene per natura e nel quale deve immergersi di slancio, sulla spinta
della “nostalgia dell’infinito”, che ricomprende (nel Tutto) anche l’umanità[15].
“La religione – scrive Schleiermacher -
vuole intuire l’universo, nelle sue rappresentazioni ed azioni vuole porsi
piamente in ascolto di esso, vuole lasciarsi possedere e riempire dai suoi
influssi immediati, in infantile passività.
In tutto ciò che ne costituisce l’essenza e negli effetti che provoca,
la religione si oppone ad entrambe [la metafisica e la morale kantiane]. Esse vedono nell’intero universo solo l’uomo
come punto centrale di ogni rapporto, come condizione di ogni essere e causa di
ogni divenire; la religione vuole invece vedere nell’uomo non meno che in tutte
le altre entità finite, l’infinito, la sua impronta, la sua immagine”. La metafisica considera l’uomo anche come
essere naturale, finito rispetto alla natura, che cerca di comprendere per
rapportarla all’uomo, alle sue necessità.
“Anche la religione vive l’intera sua vita nella natura, ma
nell’infinita natura del Tutto, dell’uno e di tutti”. La morale (kantiana) muove dalla coscienza
della libertà dell’uomo per estenderla all’infinito e sottometterle tutto. “La religione respira là ove la libertà
stessa è già diventata di nuovo natura...”[16].
Una religione così concepita non ha
naturalmente nulla a che vedere con l’autentica religione, fondata sulla Verità
Rivelata. Anzi, i concetti stessi di
rivelazione e di sovrannaturale le sono estranei e li sente come ostili. Il racconto biblico di Adamo ed Eva altro non
è che una “saga sacra”[17].
I dogmi sono solo “astratte espressioni di intuizioni religiose” oppure “libere
riflessioni sulle necessità originarie del sentimento religioso, risultanti
dalla comparazione del punto di vista religioso con quello comune”. Essi sono inutili, “come i miracoli, le
ispirazioni, le rivelazioni, le percezioni sovrannaturali – si può essere
estremamente religiosi senza esser disturbati da alcuno dei concetti di queste
cose...”[18].
Nemmeno serve a qualcosa la Sacra Scrittura.
Essa è un che di morto, “un mausoleo della religione, un monumento nel
quale abitava uno Spirito grande, che oggi non vi abita più [...] Non è religioso chi crede in una Sacra
Scrittura bensì chi non ne ha bisogno ed anzi sarebbe persino in grado di
produrne una lui”[19]. È ovvio, a questo punto, che non c’è nemmeno
bisogno di ipotizzare l’esistenza di un Dio creatore dell’universo[20]. Il grado, l’intensità della religiosità di
ciascuno dipende esclusivamente dalla forza del suo “sentimento dell’Universo”,
che è sentimento di appartenenza al Tutto (non dipende, annoto, dalla fede e
dalla condotta di vita, fondate sull’osservanza intellettualmente consapevole di
una Verità rivelata)[21].
[La
negazione del concetto stesso della tradizione]
Alla
luce di simili irrazionali prospettive il paradosso dell’interprete che può e
deve comprendere l’opera meglio del suo autore, e quindi l’autore meglio di
quanto egli stesso si comprenda, svela (secondo Gadamer) il suo significato
profondo, distruttivo di ogni tradizione.
Distruttivo per il semplice motivo
che esso “suppone una netta superiorità dell’interprete sul suo oggetto”,
facendo dell’interpretazione “un metodo generale indipendente da ogni
contenuto”, e quindi un’ermeneutica che si applica indifferentemente ai più
diversi testi, dalla Bibbia alla poesia all’opera d’arte, “lasciando
indeterminato il problema della verità del loro contenuto”[22].
Il principio che l’interprete possa
cogliere il senso dell’opera meglio del suo autore non è per la verità
un’invenzione di Schleiermacher, anche se appare essere la sua proposizione più
nota. Se vogliamo, sottolinea Gadamer,
lo possiamo ritrovare già in Kant e in Fichte, in armonia con il loro razionalismo,
che li spinge a “voler arrivare, unicamente mediante il pensiero e lo sviluppo
delle conseguenze implicite nei concetti di un autore, a posizioni che
corrispondono alla vera intenzione dell’autore stesso, e che egli stesso non avrebbe
potuto non condividere se avesse saputo pensare in maniera sufficientemente chiara e precisa”[23]. Siffatto canone interpretativo sembra in
realtà “antico quanto la critica scientifica stessa” e di fatto compare quasi
sempre nelle polemiche filologiche[24].
Ma non è in questo modo che il
romantico Schleiermacher lo intende. “La
formula di Schleiermacher non tiene più conto dell’oggetto stesso di cui il
discorso parla, ma vede il testo in modo indipendente dal suo contenuto di
conoscenza, come una produzione assolutamente libera”. Una produzione nella quale, oltre alla libertà espressiva del linguaggio, si manifesta
il Lebensmoment, l’esperienza vitale
dell’autore (quell’esperienza che poi Dilthey definirà, in modo più articolato,
come Erlebnis, esperienza vissuta)[25]. Poiché l’interprete può cogliere
quest’esperienza meglio dell’autore stesso, ciò significa conferire
all’interprete non solo una posizione di superiorità nei confronti del discorso
o dell’opera ma anche una libertà
sostanzialmente illimitata.
L’interprete non è più vincolato alla regola fondamentale della concordanza
dell’intelletto con la cosa al fine di stabilire il significato esatto di ciò
che analizza, innanzitutto in relazione alle intenzioni manifeste
dell’autore. Lo si ritiene, invece,
libero di affidarsi al proprio sentimento, che gli consentirà di cogliere intuitivamente
il significato dell’opera, in quanto espressione del rapporto circolare
(all’infinito) fra il Tutto e le parti.
Ma in tal modo, osservo, l’interpretare perde
ogni punto di riferimento oggettivo. L’unico vero punto di riferimento è
costituito dall’individualità dell’interprete stesso, il quale comprende il
proprio oggetto esclusivamente alla luce della propria intuizione, con la quale
egli crede di illuminare il rapporto circolare esistente fra le parti e il
tutto. La comprensione si fonda in
definitiva sulla coscienza di sé del soggetto-interprete e tende a diventare autocomprensione poiché, nel comprendere
l’altro (l’autore) come momento del Tutto, l’individualità dell’interprete
emerge consapevolmente a sua volta come
momento del Tutto e quindi si comprende alla luce di questa esperienza.
È chiaro che l’applicazione di una
simile ermeneutica, se può illuminare aspetti di contorno, riferibili alla
personalità dell’autore e alla situazione storica, comporta conseguenze devastanti
per qualsiasi testo, lasciato alla discrezione dei vaticini dell’ermeneuta.
Devastanti, in particolare, per i Testi Sacri, rifiutando l’ermeneutica di
Schleiermacher a priori il significato loro attribuito e mantenuto dalla
tradizione (che per i Cattolici è stabilito e difeso dalla Chiesa nel depositum
fidei) per opporvi la ricostruzione individuale dell’interprete, convinto
di poter “indovinare” o “vaticinare” liberamente il senso delle Scritture. Così
si spiega, a mio avviso, l’atteggiamento da “vati” assunto da molti nouveaux théologiens, ai quali non era
certamente ignota la teoria ermeneutica di Schleiermacher. Del resto, anche Heidegger si è rivestito dei
panni di “vate” dell’Essere.
È ovvio che un’ermeneutica del genere
di quella elaborata da Schleiermacher rappresenta la negazione di ogni
tradizione interpretativa. Se con tradizione intendiamo qui un significato
riconosciuto e consolidatosi nel tempo, come significato che corrisponde alla
natura della cosa che in esso si esprime, siffatta tradizione non può avere
alcun valore dal punto di vista di Schleiermacher. Quel significato scompare di fronte al libero
gioco dell’intuizione vaticinatoria dell’interprete, intuizione che nessuna
opinione consolidata può evidentemente
pretendere di controllare, anche parzialmente.
Ma ciò significa privare l’interpretazione del suo necessario rigore e
consegnarla all’anarchia delle intuizioni
dell’interprete.
Soggettivismo
integrale, da Schleiermacher a Heidegger
Soggettivismo
integrale,
dunque, l’ermeneutica di Schleiermacher, nella quale appare una “metafisica
panteistica dell’individualità”, tipica del resto del Romanticismo[26]. Compare qui il concetto del comprendere come
possibilità libera ed infinita di interpretazioni ad opera dell’individualità;
un concetto del comprendere non vincolato alla natura della cosa che si vuole
comprendere e pertanto sciolto dal concetto della verità come concordanza
dell’intelletto con la cosa (con l’oggetto della comprensione). Insomma, appare già in Schleiermacher quel concetto
soggettivo di ermeneutica e della verità che troverà la sua consacrazione
finale in Heidegger, attraverso la mediazione della scuola storica tedesca e
soprattutto di Dilthey (m. nel 1911), il quale ha voluto applicare
l’ermeneutica alla comprensione della storia universale, cercando di costruire
una “critica della ragione storica” sulla base appunto dell’ermeneutica[27].
Si è detto prima che Heidegger
reinterpreta in modo caratteristico e definitivo, per quanto riguarda lo
sviluppo dell’ermeneutica filosofica, il concetto del “circolo ermeneutico”.
Heidegger sostituisce al rapporto
circolare della parte con il tutto (che contiene una petitio principii
perché il tutto vi spiega la parte e la parte il tutto) il rapporto circolare
fra precomprensione e comprensione. Nel
soggetto che comprende ci sarebbe sempre una pre-comprensione in azione, costituita da una complessa struttura
preliminare del comprendere. Essa ci impedirebbe di conoscere l’oggetto in modo
neutrale, dando vita, invece, ad un inevitabile circolo ermeneutico. Secondo Heidegger, l’asserzione mediante la
quale esplichiamo o interpretiamo qualcosa, anche un testo, non può più esser
presa in considerazione (alla maniera di Aristotele) come giudizio del quale dobbiamo accertare la verità intrinseca. E perché?
Perché in quello che chiamiamo “giudizio” opererebbe una struttura
preliminare composta dal “proposito” e dall’”orientamento” o “previsione”, i
quali costituiscono una sorta di “pre-concezione” (Vorgriff), come se si sapesse già che cosa si vuole trovare, onde
il comprendere (in generale) non sarebbe mai un afferrare senza presupposti
qualcosa di già dato[28].
Questa struttura preliminare anziché
essere dissolta da una presa di coscienza critica da parte dell’interprete,
deve invece esser consapevolmente utilizzata nel comprendere stesso. In tal modo “l’impianto stesso dell’analisi
heideggeriana della comprensione è determinato sin da principio dalla
prestrutturazione [Vorstruktur]
attribuita a un comprendere che sempre preinstaura
se stesso. Ma la necessità di questa
pre-posizione non è una premessa del comprendere che vada poi eliminata nel suo
svolgimento [questo è il punto], ma resta insita in esso e lo orienta. Ogni esplicazione deve aver in qualche modo
già inteso preliminarmente quel che va esplicato, e tenersi in questa
comprensione preliminare. La [vera]
dimostrazione scientifica non può presupporre quel che deve dimostrare: la “prestrutturazione” significa quindi che
il comprendere, contro ogni istanza scientifica, si muoverà in un circolo, e
precisamente, secondo le regole della logica scientifica, in quel circulus vitiosus che si dovrebbe
evitare [...] Ma per Heidegger, ciò che
conta, non è uscire dal circolo del comprendere ma precisamente entrarvi, e nel
modo giusto, cioè “garantirsi” l’oggetto scientifico del comprendere non lasciandosi
precostituire il proprio preconcepimento da ciò che l’anonimità del “si” [risultante
dal predominio impersonale delle idee ed opinioni dominanti] comunemente
presuppone senza saperlo, ma facendo proprie con un atto esplicito le
presupposizioni del comprendere e rendendole, così, trasparenti. Il circolo del comprendere, così garantito,
non è poi la mera circolarità in cui si muoverebbe un particolare tipo di
conoscenza, ma esprime la stessa prestrutturazione esistenziale del [nostro]
essere”[29].
La menzionata trasparenza, non ci fa dunque superare la “precomprensione” per
giungere ad una conoscenza veramente obiettiva.
Il fatto è che la questione non esiste, dal punto di vista di Heidegger,
perché nella nostra “pre-concezione” o “pre-strutturazione” (la si chiami come
si vuole) è secondo lui sempre all’opera la nostra libertà, intesa come
“possibilità di essere” (cioè di “progettarsi”)
non sottoposta in realtà ad alcun effettivo limite (allo stesso modo dell’intuizione e del sentimento vagheggiati da Schleiermacher). Il comprendere, ossia la possibilità di conoscere
dell’uomo in generale, resta quindi fondato solamente sul soggetto e per ciò
stesso ne dimostrerebbe la libertà.
Il comprendere diviene così la
comprensione di sé, l’autocomprensione
del soggetto, che si progetta secondo
possibilità ritenute infinite. Ma in tal
modo si preclude del tutto al soggetto la possibilità di giungere all’oggetto,
di poterlo effettivamente comprendere. A
tal punto, che ogni conoscenza si riduce di fatto alla “precomprensione”,
altrui e propria, in definitiva alla ricerca del modo nel quale ognuno
comprende se stesso. Questa maniera
distorta di concepire la conoscenza è penetrata, come è noto, anche nella
teologia cattolica. I Vorgriffe di Karl Rahner s.j. derivano infatti dai Vorgriffe, dalle “pre-concezioni” di Heidegger.
Paolo Pasqualucci
* Nei numeri 16 e
18 della scorsa annata [2008], sì sì no no
ha pubblicato in due puntate un articolo dal titolo Ermeneutica vuol dire “rottura”, a firma B.B. Data l’attualità e l’importanza
dell’argomento, ci sembra opportuno pubblicare a breve intervallo di tempo la
relazione, che si sofferma sull’origine del concetto di “ermeneutica” nella
filosofia moderna, inviata dal prof. Paolo Pasqualucci all’VIII Convegno
teologico di sì sì no no,
recentemente tenutosi a Parigi, nei giorni 2-4 gennaio del corrente anno 2009.
[1] Sul
punto, vedi: Cornelio Fabro, voce Modernismo dell’Enciclopedia Cattolica, vol. VIII, coll.
1188-1196; col. 1191-1192.
[2] Friedrich
Schleiermacher, Hermeneutik, in Werke, a cura di O. Braun e J. Bauer,
con saggio introduttivo di A. Dorner, 2a
ed. Leipzig 1927-28, rist. anast. Scientia, Aalen, 1981, vol. 4, pp. 135-206.
L’Introduzione è alle pp. 137-154. Sulla
posizione di Schleiermacher nello sviluppo dell’ermeneutica filosofica, vedi la
sezione intitolata Preparazione storica
nella Parte Seconda di H.G. Gadamer, Verità
e metodo, tr. it. della seconda edizione (1965), a cura di G. Vattimo,
Fabbri, Milano, 1972, pp. 211-311; pp. 223-238.
Hans Georg Gadamer, morto nel 2002 all’età di 102 anni, è stato l’ultimo
autorevole esponente dell’ermeneutica filosofica, della quale ha cercato di
superare il soggettivismo, concependola in modo dialogico.
[3] Herm., p. 140. Questo e gli altri passi sono tratti dalla
citata Introduzione dell’opera (cfr.
pp. 137-140).
[4] Ciò
si nota, ad esempio, nell’interpretazione puramente “psicologica” che
Schleiermacher cerca di dare delle Lettere di S. Paolo (Herm., pp. 203-204).
[6] Ivi. Sulla comprensione (più che mai divinatoria)
dei pensieri dell’autore, vedi, nella parte dedicata all’interpretazione
psicologica, le pp. 184-204 dell’edizione della Hermeneutik citata.
[15] Ivi, p. 242. Per l’identificazione dell’umanità “eterna”
al Tutto, mediatrice tra l’io e il Tutto, che nello stesso tempo diventa essa
stessa “l’Universo”: ivi, pp. 262-279. Questi Discorsi
sulla religione furono scritti quando
si era ancora nel pieno dello sconvolgimento spirituale provocato dalla
Rivoluzione Francese, la quale professava e diffondeva l’atea religione
dell’Umanità.
[28] Sul
punto: Karl Löwith, Interpretazione di ciò che rimane taciuto nel detto ‘Dio è morto’,
in ID., Saggi su Heidegger, 1960, tr.
it. di C. Cases e A. Mazzone, Einaudi, Torino, 1966, pp. 83-123; pp. 88-89.
Corsivi miei.
[29] Löwith,
op. cit., p. 90. Vedi anche Gadamer, Verità e metodo, cit.,
pp. 312-319. Inoltre, Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1963, 10 ed., par. 63
(pp. 314-316).