Mons.
Athanasius Schneider raccorda le profanazioni idolatriche avvenute di recente
in Vaticano alle “ambiguità dottrinali” del Vaticano II, condannate
energicamente anche da mons. Carlo Maria Viganò – Commento di Paolo
Pasqualucci.
Sommario : 1.
Il “relativismo dottrinale” imperversante frutto delle “ambiguità dottrinali” e
delle dottrine “panteistiche e agnostiche” penetrate nel Vaticano II. 2. L’antropocentrismo di ‘Gaudium et spes’,
già denunciato dai critici più autorevoli del Concilio. 3. Una
libertà religiosa che promuove l’indifferentismo e il relativismo, intesa
addirittura come diritto naturale della persona. 4. È grave peccato di “relativismo
dottrinale” affermare che l’islam adora lo stesso nostro Dio. 4.1 Nota. La corretta
interpretazione della Lettera di S. Gregorio VII all’Emiro della Mauritania.
1. Il “relativismo dottrinale” imperversante frutto delle “ambiguità
dottrinali” e delle dottrine “panteistiche e agnostiche” penetrate nel Vaticano
II.
Qualsiasi cosa abbia detto il Papa regnante in
proposito, non vi è alcun dubbio, ha sottolineato mons. Schneider, che
l’adorazione degli idoli lignei avvenuta recentemente con l’approvazione e la
parziale partecipazione del Papa nei Giardini Vaticani, in S. Pietro, nella
chiesa di S. Maria in Traspontina, ha rappresentato una “chiarissima forma di
culto religioso”. Infatti abbiamo dovuto
assistere a “inchini, riverenze e persino preghiere rivolte a una statua di
legno”. E questa mediocre statuetta,
raffigurante una donna nuda incinta, secondo quanto ha dovuto ammettere lo
stesso Bergoglio, rappresenta la Pachamama, simbolo, ci ricorda mons.
Schneider, di una “divinità femminile” presente “in tutta la cultura dei popoli
indigeni del Sud America.”[1]
Presente, aggiungo, con vari nomi, indicanti tuttavia
una medesima realtà: quella dei culti
della vegetazione e agrari all’insegna della fertilità, rappresentata per
l’appunto da una dea personificante le forze della natura, terremoti e uragani
compresi, cui si facevano offerte e sacrifici di ogni tipo, anche umani,
per ottenerne i favori ma anche per placarla.
Che nell’antico Perù inca, area dalla quale proviene il culto originario
della Pachamama, cioè della natura-dea-madre intesa con quel nome, si facessero
sacrifici umani, in special modo di bambini, ragazzi e ragazze, documentati
anche di recente in modo inequivocabile dai ritrovamente archeologici -- questa
sgradevole realtà viene ovviamente taciuta dai neopagani attuali e dai
cosiddetti “teologi indigenisti” o “indi”, protagonisti del Sinodo per
l’Amazzonia.[2]
Ma torniamo all’analisi di mons. Schneider. Dov’è il nesso tra le sacrileghe
rappresentazioni idolatriche autorizzate da Bergoglio e il pastorale Concilio
Vaticano II?
Il nesso è costituito dal “relativismo
dottrinale” penetrato da decenni nella
Chiesa cattolica, implicante l’evidente scomparsa della fede in un una “verità
assoluta”, sulla fede e sui costumi, come è quella divinamente rivelata a noi
da Gesù Cristo Nostro Signore e dagli Apostoli da Lui istruiti e guidati dallo
Spirito Santo.
Questo “relativismo” ha creato, sostiene mons.
Schneider, un clima di “ambiguità dottrinale”.
E questa “ambiguità” è per l’appunto “riscontrabile parzialmente in
alcune espressioni del Concilio Vaticano II”.[3]
L’origine dell’odierno “relativismo dottrinale” è
dunque in certe “ambiguità dottrinali” presenti nel Concilio. Così si
spiegherebbe – bisogna aggiungere - la
scomparsa dalla pastorale del Post-Concilio del dogma fondamentale del
Cristianesimo, secondo il quale al di fuori della Chiesa fondata da Cristo non
si dà salvezza (tranne che nei casi individuali di “battesimo di desiderio”,
implicito o esplicito).
Dal Concilio in poi si è affermata tra i cattolici la
convinzione che tutte le religioni salvino i loro adepti – e in ciò
consiste appunto il “relativismo dottrinale”: in questo mettere di fatto la
nostra religione rivelata (unica vera) sullo stesso piano di tutte le altre,
per cui la salvezza diventerebbe qualcosa di relativo alla religione di
appartenenza, quale essa sia, cessando di essere quel valore assoluto che
solo la conversione a Cristo, in fede e opere, può realizzare. In tal modo, tutte le religioni sono sentite
come uguali, quanto alla possibilità della salvezza, e scompare l’unicità del
cattolicesimo ai fini della salvezza.
Quest’impropria equiparazione – eretica, poiché
contraddice il Primo Comandamento – è a fondamento della pratica della
collaborazione e dei riti in comune con eretici e scismatici e con le altre
religioni. È altresì alla base di dichiarazioni dal significato apostatico come
quella di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, fatta mesi fa da Papa Francesco
assieme al Grande Imam Achmed Al-Tayeb, massima autorità dell’islam sunnita,
nella quale, in nome della costruenda fratellanza universale, di un “nuovo
umanesimo”, si afferma (sempre contro il Primo Comandamento) che Dio ha voluto
le differenze di religione come cosa positiva, da mantenere e tutelare nella
reciproca tolleranza. Ed è quindi alla
base dell’adesione dell’attuale Pontefice al progetto della Abrahamic Family
House, sempre ad Abu Dhabi: una moschea, una chiesa, una sinagoga
stilizzate con un ampio parco-giardino comune, simboleggianti l’unità delle tre
cosiddette “religioni abramitiche”; centro di meditazione, raccoglimento e
studi dedicato alla ricerca “di ciò che ci unisce”, avendo di mira la pace e l’unità
del genere umano.
Con la
complicità della Gerarchia neo-modernista partorita dal Vaticano II, una
concezione deistica e sincretistica della religione (“neo-religione mondiale”
l’ha definita di recente mons. Viganò) sta ora apertamente sostituendo quella
rivelata dal Verbo Incarnato. Sembra che si voglia attuare l’utopia di una religione
universale pensata dall’uomo, apparentemente ragionevole e umanitaria, simile
(osservo) a quella propagandata dal Venerabile Fratello Gotthold Efraim Lessing
(1729-1781), poeta, drammaturgo e saggista, il teorico dell’ “educazione del
genere umano” secondo i dettami di quell’Illuminismo del quale fu in Germania
uno dei più autorevoli esponenti.[4] Sembra che proprio questo stia accadendo,
come ha sottolineato con chiarezza mons. Carlo Maria
Viganò, riconducendo giustamente agli errori del Vaticano II le attuali
aberrazioni, deistiche oltre che idolatriche.
“Il progetto di sir David Adjaye Obe prevede che i tre
diversi luoghi di culto siano uniti tra loro da fondamenta uniche e inseriti
all’interno di un giardino, evocatore di un Nuovo Eden, riedizione in chiave
gnostica e massonica del paradiso della Prima Creazione […] L’edificazione
della Casa della Famiglia Abramitica appare come un’impresa babelica,
architettata dai nemici di Dio, della Chiea cattolica e dell’unica vera
religione capace di salvare l’uomo […] Papa Bergoglio procede così ad
un’ulteriore attuazione dell’apostasia di Abu Dhabi, frutto del neo-modernismo
panteista e agnostico che tiranneggia la Chiesa Romana, germinato dal documento
conciliare Nostra Aetate. Siamo
costretti a riconoscerlo: i frutti avvelenati della “primavera conciliare”sono
sotto gli occhi di chiunque non si lasci più accecare dalla Menzogna imperante. Pio XI ci aveva ammonito e messo in
guardia. Ma gli insegnamenti che hanno
preceduto il Vaticano II sono stati gettati alle ortiche, come intolleranti e
obsoleti. Il confronto tra il Magistero
preconciliare e i nuovi insegnamenti di Nostra Aetate e Dignitatis
humanae – per citare solo quelli – manifesta una terribile discontinuità,
di cui bisogna prendere atto e che urge quanto prima emendare. Deo adiuvante”.
[5]
Giudizio pesantissimo, che accusa di “terribile discontinuità”
non solo i documenti citati ma in sostanza l’intero Concilio, invitando ad una
generale ed urgente emendatio, compito tremendo, per il quale come non mai è
indispensabile l’aiuto di Dio. In effetti, se guardiamo alle condizioni nelle
quali è ridotta oggi la Chiesa riformata in base alla indicazioni del Concilio,
è impossibile non riconoscere una “terribile discontinuità” nella dottrina,
nella pastorale, persino nel modo di parlare, di fare, nello stile: la discontinuità
di un’istituzione che appare in termini umani morente, afflitta dalla
desertificazione delle vocazioni, dalla corruzione dei costumi e dall’apostasia
dilaganti tra il clero e tra i fedeli, mentre a centinaia le chiese e i
seminari ormai vuoti vengono messi in vendita o demoliti o vandalizzati…”Li
riconoscerete dai loro frutti, i falsi profeti. Si coglie forse dell’uva sui
pruni, o fichi sui rovi?” (Mt 7, 16).
Ma vediamo gli esempi di “relativismo dottrinale” che
mons. Schneider apporta dai testi del Concilio.
Sono t r e , trattati ora per esteso ora riassuntivamente:
1. L’affermazione che noi adoriamo lo stesso Dio dei
mussulmani (Lumen Gentium 16).
2. La tesi che l’uomo è il centro e il culmine di tutto
quanto esiste sulla terra (una prospettiva antropocentrica sorregge in realtà
il “relativismo dottrinale”). Mons. Schneider si riferisce qui con ogni
evidenza a Gaudium et spes 12.1:
“Per consenso generale di credenti e non credenti tutte le cose del
mondo si devono ordinare all’uomo come alla loro cima e al loro centro”. Nonché all’art. 24.4 della stessa costituzione: “L’uomo è nel mondo la sola creatura che Dio
abbia voluta per sé stessa”.
3. Una nozione di “libertà religiosa” che arriva ad
affermare l’esistenza di un “diritto naturale” a scegliere la propria
religione, diritto “impiantato nella natura umana da Dio. Anche se è vero che
nessuno deve esser forzato, questo nuovo insegnamento si spinge fino al punto
di affermare che ognuno è libero di scegliere la propria religione”.
[6]
Tratterò per ultimo e in modo più esteso il punto n.
1.
2. L’antropocentrismo di ‘Gaudium et spes’, già denunciato dai critici più
autorevoli del Concilio.
Sul punto n. 2 mi sembra giusto ricordare che esso è
stato oggetto di un’accurata analisi da parte di Romano Amerio nel cap. XXX di Iota
Unum, §§ 205-209. Il
capitolo si intitola: L’autonomia dei valori. Amerio vi dimostra come
tale autonomia a tinta antropocentrica sia incompatibile con il cattolicesimo, per il quale il centro
di tutto è Dio non l’uomo; come essa sia falsa nel suo riferirsi all’opinione dei non
credenti (è contrata da tutte le filosofie pessimitiche, da Lucrezio a
Schopenhauer, e da quelle meccanicistiche); come tale “centralità finalistica
dell’uomo” rifletta in realtà “lo spirito dell’uomo contemporaneo e non abbia fondamento alcuno nella religione, la quale
ordina tutto a Dio e non all’uomo.
L’uomo non è un fine in sé ma un fine secondario e ad aliud, che
sottostà alla signoria di Dio, fine universale della creazione”(§ 207). Inoltre, il Concilio contraddice apertamente la Scrittura
nell’affermare che l’uomo “in terris sola creatura est quam Deus propter
seipsam voluerit”, dal momento che la Scrittura ci rivela, all’opposto: “universa propter semetipsum operatus est
Dominus” (Prov 16, 4), “il Signore ha fatto tutte le cose per se
stesso”. Affermare in modo così radicale
l’autonomia dei valori umani apre la strada (aggiungo) al “relativismo
dottrinale” perché, come ha sottolineato Amerio, “dall’autonomia dell’ordine creato si viene
direttamente all’idea dell’uomo degno per sé medesimo di amore”(§ 208). Da simile “dignità” inerente all’uomo per natura scaturisce anche
il “diritto” alla libertà religiosa. Ma
fondare la dignità della persona in se stessa non si accorda affatto con la
dottrina cattolica, “la quale insegna che l’amor del prossimo ha il proprio
motivo nell’amor di Dio. Tutte le
formule dell’atto di carità, frequentato dal popolo cristiano fino al
Vaticano II, portano che Dio si ha da amare per sé stesso e sommamente e
il prossimo per amor di Dio.
Questo motivo dell’ amor del prossimo è invece taciuto nei documenti del
Concilio”.[7]
Mons. Brunero Gherardini ha criticato aspramente, ma
sempre con la precisione nei concetti che gli era propria, l’antropocentrismo della Gaudium et spes.
“Pescando quasi a caso nei documenti conciliari, è
facile imbattersi in reiterate dichiarazioni di sfrenato antropocentrismo:
evidentemente la lezione razionalista e modernista è stata recepita e
rigorosamente applicata, con buona pace di quelle encicliche che, come la Pascendi
e la Humani generis – ed anche la Mystici corporis –, non
solo distinguono tra ordine naturale e soprannaturale, ma rifiutan la
concentrazione della realtà nei soli limiti del naturale, condannan il
naturalismo e, pur riconoscendo l’altissima dignità dell’uomo rispetto ad ogni
altra creatura, evitan di farne il centro assoluto del tutto. Non altrettanto si rileva nel Vaticano
II. E men ancora in Gaudium et spes,
il suo documento più antropocentrico. GS
12/a dichiara: “tutto quel che esiste
sulla terra dev’esser riferito all’uomo come al suo centro e vertice”. GS 24/c
rincara la dose: “L’uomo, sulla
terra, è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”. La frase, che si fa risalire addirittura a
san Tommaso, è passata di bocca in bocca fin a diventar un luogo comune. Ma non è altro che un non-senso, e se un
senso c’è, è blasfemo: Dio finalizzato
all’uomo. Che le creature inferiori sian
finalizzate alla creatura razionale e trovino in essa la voce per lodar
anch’esse il Creatore e Signore dell’universo, è plausibile. Che Dio diventi il caudatario della sua
creatura, sia pur la più nobile, è assurdo e blasfemo. Quale continuità colleghi tutto questo
con la dottrina di sempre e specialmente con quella dell’encicliche poco sopra
ricordate, è con ogni evidenza o un mistero o una fallace utopia.”[8]
3. Una libertà religiosa che promuove l’indifferentismo e il relativismo,
intesa addirittura come diritto naturale della persona.
Sul tema della “libertà religiosa” mons. Schneider si
sofferma più ampiamente mettendo in evidenza una patente contraddizione nella
Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae che la promuove. Da un lato il testo afferma che “tutti hanno
il dovere di cercare la verità, e quest’ultima è [coincide con] l’insegnamento
della Chiesa cattolica”. Dall’altro,
“che la libertà di religione è radicata nella natura umana”. Si tratta di un insegnamento “ambiguo”, ha
spiegato il prelato, “e la conseguenza che esso ha provocato dopo il Concilio è
che quasi tutti i seminari e le facoltà teologiche cattoliche, l’episcopato e
persino la Santa Sede hanno promosso il diritto di ciascuno a scegliere la
propria religione”.[9]
Il Concilio, sottolinea mons. Schneider, all’art. 1.2
di DH, “professa la sua fede nel fatto che Dio Stesso ha reso noto all’umanità
in che modo essa deve servirlo, affinché possa esser salvata in Cristo e
raggiungere la salvezza eterna.” Infatti, specifica l’articolo: “crediamo che
quest’unica vera religione sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, a cui
il Signore Gesù ha affidato il compito di diffondere la verità tra tutti gli
uomini”. Ma in seguito nell’art. 2 DH,
si dichiara che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Tale
libertà consiste nel fatto che tutti gli uomini devono essere immuni alla
coercizione da parte di individui o gruppi sociali o poteri umani, dimodoché
nessuno possa essere costretto ad agire in maniera contraria alla propria fede
[…].” Giustissimo, osservo. Si tratta
allora del diritto a praticare liberamente il proprio culto, “consueta ritus
sui cultura”, diritto che la Chiesa e gli Stati cattolici, pur nell’ambito
di limitazioni attinenti all’ordine
pubblico e alla morale, hanno quasi sempre riconosciuto?[10] No. Si
tratta del riconoscimento di un diritto naturale a praticare la religione di
propria scelta, quale essa sia, come pura scelta individuale, fondata
sulla supposta dignità della persona, concezione che appare simile a
quella della laica, liberale, democratica, agnostica libertà di coscienza propugnata
dai figli del Secolo, costruita sul presupposto dell’inesistenza di una Verità
Rivelata per ciò che riguarda la religione e i costumi.
Difatti, continua mons. Schneider, “il Concilio
dichiara inoltre [sempre all’art. 2 di DH]
che il diritto alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità stessa
della persona umana così come essa è espressa dalla parola rivelata di Dio e
dalla ragione stessa […]. Pertanto, il diritto alla libertà religiosa ha il suo
fondamento non nella disposizione soggettiva della persona ma nella natura
stessa di quest’ultima. Di conseguenza,
il diritto a questa immunità continua a esistere anche in quanti non compiono
il loro dovere di cercare la verità e di aderire ad essa, e l’esercizio di
questo diritto non deve esser impedito, sempre e quando ciò non ostacoli il
mantenimento dell’ordine pubblico”.[11]
Concludendo il suo intervento, mons. Schneider in
parte riassume con parole sue il concetto espresso dal testo conciliare. Il riassunto è tuttavia fedele. Il testo conciliare recita: “Inoltre, dichiara [il Concilio] che il
diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della
persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la
stessa ragione. Questo diritto della
persona umana alla libertà religiosa deve esser riconosciuto e sancito come
diritto civile nell’ordinamento giuridico della società”(DH 2.1). I limiti alla libertà religiosa, concernenti
unicamente l’ordine pubblico, sono richiamati all’art. 7 di DH.
Il diritto alla libertà religiosa non viene qui inteso
come un diritto concesso dal potere civile in base ai criteri che in genere
guidano il potere civile nei suoi rapporti con la religione, criteri che
possono variare ma che quasi sempre sono di tipo politico e comunque non
presuppongono in alcun modo un obbligo dello Stato a concedere la
libertà religiosa. Al contrario, per il Concilio, lo Stato questo diritto deve riconoscerlo
come diritto inerente alla persona in quanto tale: il suo fondamento non
si trova pertanto nel diritto positivo ma nella natura stessa dell’uomo, come
intesa dal Concilio. Ha perciò ragione
mons. Schneider a spiegare che il “diritto alla libertà religiosa” ha per il
Concilio il suo fondamento non nella “disposizione soggettiva della persona”
ovvero in quella sfera del nostro Io sempre influenzata da passioni,
abitudini, pregiudizi e situazioni di fatto, pertanto mutevole e indeterminata,
ora in accordo ora in lotta con l’intelletto di quello stesso Io, bensì, al
contrario, “nella natura stessa” della persona ovvero del nostro Io profondo. Ha
perfettamente ragione, mons. Schneider, nel dirci che tale diritto ha quindi
per il Concilio (contrariamente a tutta la tradizione della Chiesa) significato
ontologico, che risulta proprio dal riferimento conciliare alla “dignità
della persona umana come fatta conoscere
dalla parola di Dio rivelata [nei Vangeli] e dalla stessa ragione”. Una libertà così fondata, lo è (come appunto sottolinea
mons. Schneider) sulla natura stessa dell’uomo, dell’individuo,
ed è da considerarsi alla stregua di un vero e proprio diritto naturale.
Che il Verbo Incarnato si sia preoccupato in primo
luogo di fondare o restaurare la “dignità della persona umana” è assai dubbio, ed
anzi non è da credere, dato che Egli è venuto in questo mondo per convertire i
peccatori; per strapparci a Satana e mostrarci la via della salvezza eterna
della nostra anima: “paenitemini et credite Evangelio” (Mc 1, 15). Ciò
comporta che l’unica vera dignità cui noi dobbiamo aspirare è
quella del cristiano ovvero del peccatore pentito e convertito a Cristo,
il Divino Maestro ora modello della nostra vita: peccatore che ora rinasce moralmente in
Cristo, diventando, con il suo imprescindibile aiuto, un uomo nuovo.
Ulteriore
considerazione: in che senso si contraddicono qui il diritto e il dovere? In
questo senso: se in ognuno di noi è ontologicamente radicato il diritto
alla libertà di religione, non si può poi pretendere che ciascuno di noi abbia
nello stesso tempo il dovere di cercare quella verità che lo conduca al
cristianesimo, dal momento che (si è pur costretti a dire) “la verità” in
religione è solo quella insegnata dalla Chiesa cattolica. Questo dovere e
questo supposto diritto naturale si contraddicono a vicenda. La libertà
implica un potere di scelta che possa manifestarsi senza coazione da parte di
terzi. Libertà di religione implicherà allora libertà di scegliere la religione
che il soggetto trovi più valida per lui. Tale libertà non può pertanto
ammettere l’esistenza di un dovere a trovare nella religione cristiana
l’unica valida perché in sé l’unica vera.
Un dovere, inoltre, che sarebbe a sua volta fondato sulla natura umana; che
inerirebbe ontologicamente all'uomo, in quanto dotato di ragione. Insomma:
se per natura ho il diritto a credere nella religione che più mi
aggrada, non posso nello stesso tempo vedermi imporre (sempre dalla mia stessa
natura) il dovere di arrivare a credere in una determinata religione,
che nel caso di specie altri non può essere che quella cristiana.
Ma questa contraddizione si spiega, a mio avviso, con il
fatto che il volutamente pastorale Concilio, nel quale era prevalsa sin dal suo
tumultuoso e rivoluzionario inizio, infiorato di illegalità, una agguerrita
fazione neomodernista, si contorceva nello sforzo di infilare concetti eterodossi
in testi che dovevano, ratione officii, presentare sempre in qualche
modo tradizionali contenuti ortodossi.
Alla fine del suo intervento mons. Schneider ribadisce,
quindi, contro l’assurda dottrina di Dignitatis humanae, che “nessuno ha
il diritto di scegliere l’idolatria, nessuno ha il diritto di offendere Dio per
mezzo dell’idolatria o della blasfemia”. [12] Ma che
oggi si creda di “avere per natura il diritto dato da Dio di poter scegliere
atti di idolatria – come quelli rivolti con l’approvazione e la partecipazione
papale alla Pachamama – e che persino la scelta della religione della Pachamama
sia radicata nella dignità umana è l’ultima conseguenza di questo modo di esprimersi
del testo conciliare”; modo intrinsecamente “ambiguo, che avrebbe dovuto esser
formulato in maniera diversa”, per evitare, continua mons. Schneider, che
accadessero cose come l’incontro religioso di Assisi voluto da Papa Giovanni
Paolo II nel 1986 ed altri consimili incontri, “in cui persino religioni
idolatriche sono state invitate a pregare nella loro guisa – ossia nel loro
modo idolatrico – per la pace”. [13]
Secondo mons. Schneider, quindi, un filo diretto lega
le ambiguità conciliari sulle religioni acattoliche e la libertà di coscienza
alla partecipazione ai culti pagani sviluppatasi durante il successivo
“dialogo” interreligioso, sino agli eccessi idolatrici odierni. Diagnosi sulla
quale chi ha occhi per vedere e orecchie per intendere non può che esser
d’accordo.
4. È grave peccato di “relativismo dottrinale” affermare che l’islam adora
lo stesso nostro Dio.
Ci ricorda
infatti mons. Schneider, quale esempio patente di questo “relativismo”:
“Nella Costituzione Dogmatica Lumen Gentium (16),
i Padri del Concilio dichiarano: “Ma il
disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra
questi in particolare [in primis] i musulmani, i quali, professando di
avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che
giudicherà gli uomini nel giorno finale [qui fidem Abrahae se tenere
profitentes, nobiscum Deum adorant unicum, misericordem, homines die novissimo
iudicaturum]”.[14]
Dal riassunto della sua intervista non sembra che
mons. Schneider abbia detto altro sul rapporto tra cristianesimo ed islam. All’interprete, dunque, il compito di
spiegare per qual motivo una simile dichiarazione dimostri la presenza di un
chiaro “relativismo dottrinale” e sia eretica o prossima all’eresia, nell’equiparare,
come fa, la fede mussulmana nel Dio unico a quella nostra nella divina
Monotriade.
Il testo conciliare attribuisce ai mussulmani
l’adorazione del nostro stesso Dio e li include in quanto tali
nel disegno della salvezza: affermazione
contraria al dogma della fede, poiché non può essere incluso nel piano della
salvezza chi non adora il vero Dio.[15] Ed i musulmani non adorano il vero Dio, dal
momento che, pur riconoscendo a Dio (Allah : “il Dio”) la creazione del “mondo”
e dell’”uomo” dal nulla e gli attributi tradizionali dell’onnipotenza,
dell’onniscienza, dell’essere Egli il giudice del genere umano alla fine dei
tempi, tuttavia né lo concepiscono come Dio Padre , che ha creato nella
sua bontà l’uomo a sua “immagine e somiglianza”(Gen 1, 26; Dt 32, 6 etc) e ha
stabilito un patto con l’uomo, nella persona di Abramo, né credono nella SS.
Trinità, che aborrono ripetendo l’errore dei Giudei, e perciò negano la Grazia,
la divinità di Nostro Signore, l’Incarnazione, la Redenzione, la morte in croce
(inflitta secondo loro a un sosia, come
nell’eresia docetista), la Resurrezione.
Essi negano tutti i nostri dogmi e si rifiutano di leggere il Vecchio e
il Nuovo Testamento poiché li considerano testi falsificati, non essendoci in
essi ovviamente menzione alcuna di Maometto, da loro ritenuto “il Sigillo dei
Profeti”. Falsificati, e in ogni caso abrogati
dal Corano. Secondo le loro esegesi, Cristo avrebbe preannunciato Maometto (per
esempio in Gv 14, 6; 16, 7 ss., quando promise l’invio dello Spirito Santo, ma
anche in altri passi evangelici, i più citati tra i quali, ci informa Bausani,
troviamo: Mt 13, 31; Mt 21, 33-44; Mc 12, 1-11; Lc 20, 9-18, Gv 1, 22). Ma i
discepoli avrebbero cancellato (non si
sa perché) ogni riferimento al futuro fondatore dell’islam[16].
Siffatta straordinaria imputazione di falso dei
musulmani non può che lasciar sbalorditi i fedeli cattolici. Come sarebbe avvenuto il fatto? Questo il
passo coranico più usato contro i cristiani:
“Ricorda, inoltre, quando Gesù, figlio di Maria, disse: ‘o figli d’Israele, io, certo, sono
l’apostolo di Dio, inviato a voi, per confermare il Pentateuco che vi
è stato dato prima di me, e per annunciare un apostolo che verrà dopo di
me, e il cui nome sarà Achmad; ma quando questi venne ad essi, colle
prove evidenti, quelli dissero: - Questo è un sortilegio manifesto” (61
: 6).
I commentatori islamici affermano che il testo
coranico alluderebbe qui alla promessa del Paracleto (parákletos), fatta
da Gesù ai discepoli. Poiché il greco períklytos,
vocabolo solo esteriormente affine, significa “il molto eccellente”, e in arabo
si potrebbe tradurre con Achmad, “ il lodato, il famoso, il glorioso”,
quasi identico per senso a Muhammad, Maometto, costoro hanno sostenuto
che il Paracleto sarebbe una falsificazione cristiana di periklytos = Achmad = Muhammad/Maometto. Tesi veramente straordinaria, non più
sostenuta, affermava Bausani quasi quarant’anni fa, “dai musulmani più seri”.[17]
Tesi, tuttavia, non scomparsa. Ma come è possibile sostenere una tesi del genere? Innanzitutto, manca del tutto il movente
della supposta falsificazione: perché i discepoli avrebbero dovuto alterare un
discorso nel quale il Maestro tanto amato profetizzava un evento futuro, e
abbastanza vicino, il cui protagonista era chiaramente di natura
sovrannaturale? E a chi si dovrebbe attribuire il falso, a S. Giovanni
evangelista in persona o ai cristiani contemporanei di Maometto, quando (sempre
secondo il Corano) si sarebbero rifiutati di prendere in considerazione le
“prove” fornite dallo stesso Maometto?
Ma i papiri in nostro possesso con il testo del Quarto Evangelio,
dall’AD 200 circa in poi, mostrano sempre la dizione parákletos.[18]
Inoltre, se l’originale, per mera ipotesi, fosse stato
periklytos bisogna dire che questo vocabolo significa in greco “eccellentissimo,
famosissimo”, forma superlativa di klytos, eccellente, famoso (parallelo,
ci spiega il Gemoll, al latino ínclitus, trapassato poi nell’italiano ínclito). Ora, se nel Vangelo di Giovanni noi mettiamo
“eccellentissimo” al posto di Paracleto, cioè del soprannaturale
Consolatore e Avvocato di noi peccatori presso Dio Padre e nostra Guida
spirituale, noi stravolgiamo del tutto il significato dei relativi passi di
Giovanni. Il Signore promette ai discepoli che, dopo la sua dipartita, avrebbe
mandato soprannaturalmente lo “Spirito di verità”, “guida alla verità tutta
intera” e patrocinatore nostro presso Dio, come lo stesso Cristo, che
attribuisce il carattere di “paracleto” anche a se stesso, cosa questa
che già dimostra l’assurdità della supposta falsificazione, visto che non
avrebbe avuto alcun senso per il Signore vantarsi di essere “l’eccellentissimo”
o “il lodato” nel discorso che stava facendo ai suoi discepoli. Tra l’altro,
non era questo il suo stile.
“Il greco parákletos significa “colui che viene chiamato in aiuto”(parakaléo
: chiamo vicino), soprattutto in giudizio: perciò avvocato, difensore,
patrocinatore; in senso derivato “consolatore” […] e difatti l’antica versione
latina lo rende con “advocatus”[…] Gesù, nel promettere e preannunciare lo
Spirito Santo, lo chiama a più riprese P., pur attribuendo tal titolo anche a
se stesso: “Pregherò il Padre e vi darà un altro P., perché rimanga con voi in
eterno, lo Spirito di verità”(Gv 14, 16).
Il P. avrà il compito di richiamare alla mente degli Apostoli quanto
Gesù ha loro insegnato (Gv 14, 16), di rendere testimonianza a Cristo (Gv 15,
26) e di convincere il mondo di peccato (Gv 16, 8-14), dopo che Gesù se ne sarà
andato (Gv 16, 7). S. Giovanni chiama
anche Gesù P. (1 Gv 2, 1), tradotto dalla Volgata con “advocatus” e sembra
rettamente: Egli è infatti il
patrocinatore dei nostri peccati”.[19]
I mussulmani, inoltre, negano il libero arbitrio,
difeso solo da alcune esegesi minoritarie considerate eretiche, professando un determinismo
assoluto, che non lascia spazio nel mondo ad autentici rapporti di causa ed
effetto, dal momento che tutte le nostre azioni, buone o cattive, sono state
già “create” dal decreto imperscrutabile di Allah (Corano 54: 52-53).
Il determinismo mussulmano è in un certo senso l’altra faccia del volontarismo
che domina nella loro idea di Dio, che nel Corano appare improntata
fermamente al principio stat pro ratione voluntas.
Dai concetti fondamentali della teologia mussulmana si
capisce subito che l’idea di Dio che si ricava dal Corano, nonostante certe
assonanze esteriori con il Dio del Vecchio e Nuovo Testamento, è in realtà
notevolmente diversa. E non solo
perché essa rigetta come blasfemo il dogma della Santissima Trinità, percepito
peraltro in modo del tutto distorto.
Anche perché l’essere di Dio è concepito in modo tale, in relazione al
creato e all’uomo, da non potersi applicare ad esso la categoria della razionalità. Se tutto ha la sua causa unicamente e
continuamente nella volontà insondabile e onnipotente di Dio, senza alcuno
spazio per le cause secundae, la creazione si trova sottoposta ad un
libito divino indeterminato, perché potrebbe rivolgersi sempre contro se
stesso, rovesciando senza motivo nel suo opposto l’ordine da esso stesso
costituito. Quanti versetti coranici non
si concludono con una frase del genere:
“invero, il tuo Signore, mette in opera ciò che vuole” ossia fa ciò che
vuole, e quindi anche il contrario di ciò che ha appena fatto, se lo vuole? Come è stato più volte notato dagli
interpreti occidentali, i rapporti di Allah con le sue creature sembrano quelli
di un padrone verso i suoi schiavi, anche quando si parla di clemenza e perdono. E in effetti, se non è concepito come Padre,
come può essere veramente “clemente” e “misericordioso”? Questo Dio che non
fa patti con l’uomo è soprattutto “l’Eccelso”, “il Padrone”, “il Dominatore”(49
: 23), del quale l’uomo è il servo (abd). “Il concetto cristiano della posizione
paterna di Dio, condivisa in parte dal Giudaismo, è percepito dai
mussulmani come un assurdo blasfemo, e
tale rifiuto sembra essersi esteso all’immagine del sovrano visto come padre”.[20] Pensare Dio come “Padre” significherebbe per
i maomettani incrinarne l’unicità assoluta.
E pensare (aggiungo) che l’uomo possa esser stato creato a sua “immagine
e somiglianza” significherebbe evidentemente offendere anche da questo lato
l’unicità abissale ed impenetrabile di Allah e divinizzare l’uomo.
L’incredibile
riconoscimento di LG 16 viene ripetuto nella Dichiarazione Nostra Aetate sulle
religioni non cristiane, in modo più dettagliato e per certi aspetti più grave.
“La Chiesa guarda anche con stima i musulmani, che
adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente,
creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini [qui unicum
Deum adorant, viventem et subsistentem, misericordem et omnipotentem, Creatorem
caeli et terrae, homines allocutum].
Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche
nascosti [cuius occultis etiam decretis toto animo se submittere student],
come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si
riferisce [sicut Deo se submisit Abraham ad quem fides islamica libenter
sese refert].”(Naet 3.1).
Qui si afferma addirittura che il Dio nel quale
credono i mussulmani “ha parlato agli uomini”. Per i mussulmani “gli uomini” ai
quali avrebbe parlato il Dio nel quale essi credono, si riducono al solo
Maometto. Dobbiamo allora ritenere che
il Concilio ritiene autentica la “rivelazione” trasmessa da Maometto nel
Corano? Questa è l’inevitabile
impressione suscitata da una frase del genere, che implica di nuovo la
violazione del Primo Comandamento (“Non avrai altro Dio al di fuori di Me”),
dal momento che non possiamo noi cattolici riconoscere legittime le rivelazioni
diverse da quella cristiana (e che per di più contraddicono praticamente tutte
le verità fondamentali della nostra fede).
In aggiunta, il testo conciliare sembra rappresentare
il modo di credere dei mussulmani così come essi stessi lo intendono, quasi lo
si approvasse. Infatti, si usa
l’immagine della “sottomissione a Dio”, che è per l’appunto il significato del
termine arabo “islam”(sottomissione totale), il cui aggettivo
sostantivato è muslim, mussulmano = sottomesso (a Dio), chiamato da
sempre in Occidente anche “maomettano”, in quanto seguace di Maometto. L’intera frase sembra riflettere Corano 4:
124: “E chi ha una religione migliore di
colui che si rimette interamente ad Allah, faccia il bene e segua la credenza
di Abramo, come un puro monoteista [hanif]?”. Infine, l’accenno all’obbedienza ai decreti
di Allah “anche nascosti” ha un sapore fortemente islamico, poiché ci ricorda
che nel Corano Allah è definito come “il visibile e l’occulto”( 57:3), visibile
nelle sue opere e occulto nei suoi decreti:
come se il Concilio avesse voluto far capire che la sua “stima” non
arretrava di fronte al carattere occulto, inaccessibile, impenetrabile
dello “spirito” notturno che parlava nel Corano.
L’elogio del Vaticano II alla “fede” di Abramo
professata dai mussulmani, come se essa costituisse una caratteristica che li
avvicina a noi, nasconde la verità poiché è noto che l’Abramo dei
mussulmani, intriso di elementi leggendari e apocrifi, non coincide affatto con
il vero Abramo, che è ovviamente quello della Bibbia: il Corano attribuisce ad
Abramo un cosiddetto “monoteismo puro” o antitrinitario, anteriore a quello
giudaico e cristiano, che Maometto, in quanto “profeta” arabo, discendente da
Abramo grazie ad Ismaele, considerato il progenitore degli arabi, nato da Agar l’egiziana,
schiava di Abramo e sua concubina, sarebbe stato inviato da Allah a restaurare,
liberandolo dalle supposte falsificazioni di ebrei e cristiani!
La fede mussulmana in Abramo (Ibrahim) viene
presentata dal Concilio come quell’elemento comune tra noi cristiani,
mussulmani ed ebrei che permetterebbe il dialogo al fine di una certa convergenza
e persino di un’alleanza (vedi Documento di Abu Dhabi) fra le tre
religioni monoteistiche, in quanto “abramitiche”, su importanti temi etici e
politici. La fede in Abramo ci unirebbe. Ma valga il vero: mai argomento fu più falso di questo! Proprio il modo di intendere la fede di
Abramo costituisce una barriera insuperabile tra noi e loro! Infatti, le “rivelazioni” trasmesse da
Maometto costruiscono la figura di Abramo quale prototipo del mussulmano e
quindi in modo tale da escludere Antico e Nuovo Testamento dalla vera
Rivelazione. Recita infatti il
Corano: “O gente del Libro [ebrei e
cristiani], perché disputate riguardo ad Abramo, mentre il Pentateuco [Torah] e
il Vangelo non sono stati fatti scendere se non dopo di lui? Non comprenderete
dunque mai la verità? Abramo non era giudeo né cristiano: era bensì hanif
e muslim e non era politeista”(3 : 60-61). Abramo non era “giudeo”? Non ha fatto Dio, nella sua bontà, un patto
con lui (Gen 15, 18) e non gli ha fatto le ben note Promesse di salvezza e
redenzione (Gen 12, 1-7)? Non è stato egli il progenitore della fede degli
ebrei, e considerato “padre nella fede” anche dai cristiani (Ebr 11, 8)? Quando
mai. È Stato, invece, il progenitore della fede dei mussulmani: di quelli che, come lui, Maometto, avrebbero
professato un culto “puro e sincero”(hanif) di perfetta e totale
“sottomissione”(islam) al Dio unico (6 : 79). E questo perché il
monoteismo “puro” (“monolatrico”, ha detto qualcuno) che Maometto attribuisce
ad Abramo, uguale al suo, ebrei e cristiani l’avrebbero corrotto, divinizzando
Esdra e “Gesù figlio di Maria”, nonché occultando i preannunci della venuta di
Maometto contenuti nei due Testamenti !!! Della colpa di aver ritenuto Gesù figlio di
Dio i cristiani saranno giudicati nel Giudizio finale (4 : 157), e proprio
dallo stesso Gesù, uomo dotato da Allah di poteri straordinari, non morto
in croce ma elevato presso Allah, da dove riapparirà per questa bisogna “su un
minareto della grande moschea di Damasco: ucciderà l’Anticristo, darà pace al
mondo, lo convertirà tutto all’islamismo e infine morirà”.[21]
Ma Nostra Aetate mostra di prendere in seria
considerazione anche la venerazione che i mussulmani professano per Gesù e la
Santa Vergine: “Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia
come profeta; onorano la sua Madre Vergine, Maria, e talvolta pure la invocano
con devozione”( Naet 3, cit.).
È noto però che la “cristologia” del Corano si basa
sul Gesù distorto e deformato dei Vangeli apocrifi e delle sette cristiane
eretiche e gnostiche di vario tipo diffuse nell’Arabia al tempo di Maometto. Su tutto ciò il Concilio glissa elegantemente.
Tale “cristologia” ci mostra un Gesù (Isà) nato da una vergine, per
intervento divino (dell’angelo Gabriele), profeta particolarmente gradito ad
Allah; ma è un semplice mortale cui Allah ha concesso di fare molti miracoli;
profeta quindi che ha predicato lo stesso monoteismo attribuito ad Abramo
(57: 26-27), la cui formula recita: “non havvi alcun dio se non Dio, l’unico, il
dominatore” (38: 65). Perciò Gesù per i
musulmani è stato un “servo di Dio” (19: 31), un sottomesso ad Allah
ossia un muslim, un mussulmano, come Abramo, tanto da aver
preannunciato, come Abramo, la venuta di Maometto (51: 6)! Quando i mussulmani venerano Gesù come profeta,
lo intendono pertanto come profeta dell’islam, nient’altro che un precursore
di Maometto del tutto privo di un insegnamento indipendente, che non sia
cioè superato da quello del Corano e comunque documentato dai cristiani in Testi
(i Vangeli) che i seguaci di Maometto considerano falsificati e si rifiutano di leggere.
Il Gesù “mussulmano” del Corano non è pertanto il vero
Gesù, che è solo quello dei Vangeli. Invece di ribadire le differenze e
prendere le distanze, Nostra Aetate intorbida le acque cercando di
presentarci come accettabile l’immagine del Gesù “semplice profeta”
propagandata dall’islam, quasi essa potesse costituire un terreno di incontro
comune, tacendo ovviamente il significato autentico che quest’immagine ha per i
musulmani, del tutto anticristiano.
In questo modo Nostra Aetate ha ingannato i fedeli.[22] Ma, come ha detto mons. Viganò, non bisogna
più “lasciarsi accecare dalla Menzogna imperante”. Bisogna reagire e pretendere che venga
ristabilita la verità, in tutti i suoi aspetti.
Per ciò che costituisce la venerazione mussulmana
nei confronti della Santa Vergine, talvolta da loro “invocata con
devozione”, bisogna precisare che si tratta di un “culto” praticamente
irrilevante, a sfondo superstizioso; un
“culto”, comunque, offerto a Maria in quanto madre di un “profeta dell’Islam”,
non in quanto Madre di Dio; un “culto”,
quindi, addirittura offensivo per orecchie cattoliche.
Bisogna inoltre sapere che anche la “mariologia” del
Corano è del tutto inattendibile, venendo da un miscuglio di fonti apocrife ed
eretiche. L’esistenza di San Giuseppe e
dello Spirito Santo è ignorata. Inoltre,
Maria viene chiamata “sorella di Aronne”, fratello di Mosè, e “figlia di Imram”
(ebr. Amram), che era il loro padre (Num 26, 59); confusa quindi con la
profetessa Maria (Es 15, 21), vissuta circa dodici secoli prima di Cristo! E come se non bastasse, inserita nella
aborrita Trinità dei cristiani, che viene rifiutata con acredine perché consiste,
secondo il Corano, di Dio (Padre), Maria (Madre), Gesù (Figlio): “Gesù non
disse mai: prendete me e mia madre come due divinità, accanto a Dio”(5:116). Di certo, osservo, non lo disse mai; questo
invece rivelò: che Lui e il Padre “sono uno” (Gv 10, 10).[23]
Ma come ha potuto Maometto “trasmettere” l’idea a dir
poco singolare che i cristiani credono esser la S.ma Trinità composta da tre
divinità, che sarebbero Dio, Gesù e
Maria? Gli studiosi occidentali hanno
ricostruito in modo attendibile la possibile origine di questo grave
fraintendimento. In Arabia, al tempo di Maometto, esisteva un setta cristiana
eretica “che professava una forma di triteismo.
Tale era la dottrina di Giovanni di Apamea, che faceva capo alla scuola
teologica di Edessa [di tendenza nestoriana], la quale sosteneva che vi sono
tre nature divine, tre sostanze divine, tre divinità. Anche la sconcertante dottrina secondo cui
Maria sarebbbe una delle persone della Trinità (o, se si preferisce, di una
Triade divina) aveva trovato aderenti in certe sette cristiane [gnostiche e quindi
cristiane per modo di dire]. Sin dal II
secolo gli Ofiti identificavano lo Spirito Santo con la Donna primordiale, la
Madre dei viventi, che avrebbe generato il Messia. Il cosiddetto Vangelo degli Ebioniti,
noto negli ambienti degli Ebioniti – cristiani giudaizzanti influenzati dallo
gnosticismo – vedeva nella madre di Gesù lo Spirito Santo. L’accostamento era favorito, se non causato,
dal fatto che in aramaico la parola ruha, spirito, è femminile. Scrive
del resto Sant’Afraate: - L’uomo pio ama e serve Dio, suo padre, e lo Spirito
Santo, sua madre”.[24]
Infine Nostra Aetate sembra lodare i mussulmani
ed additarli ad esempio ai cattolici perché “attendono il giorno del giudizio,
quando Dio retribuirà tutti gli uomini resuscitati” e perché “hanno pure in
stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le
elemosine, il digiuno”; ragion per cui, conclude l’articolo, dimenticati “i non
pochi dissensi ed inimicizie” che hanno caratterizzato il passato, “il sacro
Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la
mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli
uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà”(Naet, 3.2).
Qui si stravolge il significato anche dei fatti
storici poiché le lotte sanguinose, lunghe e crudeli, fede contro fede, che
abbiamo dovuto sostenere nei secoli per respingere l’assalto dell’islam, prima
arabo e africano poi turco, vengono artatamente ridimensionate a semplici “dissensiones
et inimicitiae”. Inoltre, si passano
sotto silenzio le abissali differenze che intercorrono tra l’escatologia
cattolica e quella mussulmana: la
mancanza di una vera Visione Beatifica, solo accennata; la carnalità del
paradiso, prodigo di splendide raffinatezze e, per i maschi, di ripetuti amplessi con eternamente vergini femmine, le Huri (le
Bianche) “dai grandi occhi” e “dai
seni pieni” (78, 33);[25] l’eternità delle pene infernali solo per gli
infedeli: “Nella loro discesa
all’Inferno i dannati si dividono in sette schiere, a ciascuna delle quali è
assegnata una delle porte dell’Inferno.
Queste porte, tra lor sovrapposte, non assomigliano affatto alle
nostre. Lo strato superiore, assegnato
ai peccatori della Umma mussulmana, un giorno sarà completamente vuoto. I tormenti vi sono meno crudeli.”[26]
E si glissa sulle grandi differenze tra la loro
concezione della “vita morale” e del “culto” e la nostra. L’islam è una
religione che, oltre ad ammettere istituzioni moralmente inaccettabili, come la
poligamia, il ripudio, il divorzio, il matrimonio temporaneo, il concubinaggio,
la schiavitù; ad incitare all’uccisione e alla mutilazione degli infedeli che
non riconoscano Maometto quale profeta (5 : 37). Pretende di garantire la salvezza ai suoi adepti
già con le semplici pratiche legali del culto:
religione soprattutto esteriore e legalitaria, dunque, ancor più
del fariseismo, condannato senza mezzi termini da Nostro Signore (Mt 6,
5). I mussulmani ammettono anche la
pratica della taqiyya, ovvero della dissimulazione della natura
della propria fede a scopo difensivo, se si è perseguitati, cosa che consente
tuttavia di usare senza problemi di coscienza della doppiezza contro i non-musulmani,
contro i quali ritengono di trovarsi sempre in guerra. Mentire ad un infedele non sarebbe allora
peccato.
Tutto ciò si passa sotto silenzio per esortarci ad una
collaborazione inevitabilmente falsa,
foriera dei peggiori disastri per il cattolicesimo, come ha poi dimostrato
l’esperienza. Falsa e menzognera anche perché i mussulmani danno alle
nozioni di “giustizia sociale”, “pace”, “guerra”, “popolo o nazione”,
“comunità”, “libertà” e insommma a tutta la panoplia dei concetti della
nostra filosofia politica e giuridica, solo il significato che se ne può
ricavare dal Corano o da ciò che ha detto e fatto Maometto, come intesi
dall’interpretazione ortodossa nei secoli:
un significato islamico, del tutto diverso dal nostro.
I musulmani non intendono la pace, tanto per
fare un esempio, per nulla nel modo utopistico in cui la intendono i Papi del
post-concilio, quale risultato della collaborazione pacifica da
instaurare fra tutti i popoli e tutte le religioni, per costituire l’unità del
genere umano nella reciproca tolleranza ed uguaglianza. Non ammettendo che i mussulmani possano vivere
sotto gli infedeli, il mondo viene dai loro giuristi notoriamente diviso in due
parti contrapposte: la parte dove domina l’islam (casa dell’islam o
Dar-al-Islam) e tutto il resto, necessariamente nemico, finché non sarà
stato convertito o sottomesso, con le buone o le cattive (casa della guerra
o Dar-al-Hard). Con questo resto del
mondo la comunità mussulmana si considera sempre in guerra, la pace si
ha per essa solo dove domina l’islam, tant’è vero che, nell’uso tradizionale,
il saluto con l’augurio reciproco della pace (“la pace sia con voi”, salam
‘alaykum) dovrebbe scambiarsi solo tra mussulmani. Quindi la pace
non è per loro un fine in sé, che permetta di far convivere Stati e religioni
tra loro diverse, per il bene dell’umanità:
è solo un mezzo, imposto dalle circostanze, che obbligano a degli armistizi
con gli infedeli. Essa dovrebbe avere
una durata limitata: non dovrebbe
superare mai i dieci anni, alla scadenza dei quali la guerra dovrebbe esser
ripresa, per quanto possibile. La guerra
difensiva e per estendere l’islam (jihad: sforzo, lotta; in senso
militare: “ sforzo sul cammino di Allah” – jihad fi sabili ‘llah)
è un obbligo morale, religioso e giuridico per il mussulmano: se non può
parteciparvi, deve aiutare chi la fa.
Essa deve esser perseguita sino all’immancabile vittoria finale cioè
sino all’instaurazione del dominio dell’islam su tutto il mondo.[27]
Anche quando usano il concetto di popolo o nazione,
comunità, i musulmani lo intendono in senso diverso dal nostro: “L’Islam non ha mai superato questo concetto
puramente religioso di “popolo” come comunità, umma, oggetto di un piano
divino con a capo Dio, che parla attraverso il suo Profeta.”[28] E anche la nozione di “profeta” che Maometto
attribuì a se stesso, dopo la sua “migrazione” a Yatrib poi Medina, non
coincide con quella del profetismo biblico, unica valida per noi cattolici: per
Maometto i profeti sono capi nazionali incaricati da Allah di predicare e
imporre, come legislatori e capi militari, il monotesimo assoluto da lui attribuito
ad Abramo. “Il concetto di Profeta è nell’Islam strettamente legato a quello di
‘legislatore’. Il Profeta non è tanto
chi fa conoscere dei “misteri” divini o istituisce sacramenti redentivi, quanto
piuttosto colui che promulga le leggi che Dio ritiene adatte per l’umanità per
un determinato periodo. Ogni profeta
abroga la parte da Dio ritenuta non più necessaria delle leggi del profeta
precedente, senza abrogarne, è ovvio, le dottrine essenziali”.[29]
4.1 Nota. La corretta interpretazione della Lettera di S. Gregorio VII
all’Emiro della Mauritania.
L’affermazione secondo la quale “i musulmani adorano
con noi un Dio unico” sembra esser giustificata dal Concilio con la citazione
in nota della lettera personale di ringraziamento che S. Gregorio VII,
Papa dal 1073 al 1085, scrisse nel 1076 ad Anazir, emiro della Mauritania, che
si era mostrato ben disposto verso certe richieste del Papa e generoso nei
confronti di alcuni prigionieri cristiani, che aveva restituito; lettera nella quale il Papa affermò che tale
“atto di bontà” era stato “ispirato da Dio”, che esige l’amore per il prossimo
e lo pretende in special modo “da noi e da voi […] che crediamo e confessiamo
lo stesso Dio, anche se in modo diverso [licet diverso modo], che
lodiamo e veneriamo ogni giorno il Creatore dei secoli e reggitore di questo
mondo”(PL 148, 451 A). Come spiegare simili affermazioni? Con l’ignoranza di allora nei confronti
della religione fondata da Maometto.
Al tempo di san Gregorio VII, il Corano non era stato
ancora tradotto in latino, ragion per cui sfuggivano aspetti fondamentali del
suo “credo”. Si sapeva che i mussulmani,
questi accaniti nemici del nome cristiano usciti all’improvviso dai deserti
dell’Arabia nel 633 con impeto conquistatore, mostravano tuttavia un certo
rispetto per Gesù, come profeta solamente, e la Santa Vergine; che credevano in
un Dio unico, nel carattere ispirato delle Sacre Scritture (almeno così
sembrava), nel Giudizio e in una vita futura.
Potevano perciò apparire come una setta cristiana eretica (“la setta
maomettana”), equivoco che si mantenne a lungo, se, ancora all’inizio del
Trecento, Dante collocava Maometto all’Inferno tra gli eretici e gli scismatici
(Inf. XXVII, v. 31 ss.).
Su questo sfondo va inquadrato l’elogio privato rivolto
da Gregorio VII all’emiro: ad un
supposto “eretico” che, nell’occasione, si era comportato caritatevolmente
verso un gruppo di cristiani, come se il vero Dio, nel quale si riteneva
credesse, gli avesse toccato il cuore.
Di un eretico si può dire, infatti, che crede e confessa il nostro
stesso Dio, ma “in modo diverso”.
L’elogio non impedì, tuttavia, a san Gregorio VII di propugnare, con
perfetta coerenza, l’idea di una spedizione di tutti i Paesi cristiani contro i
mussulmani, per soccorrere la cristianità orientale minacciata di
annientamento, idea attuata poco dopo la sua morte con la 1a
Crociata, bandita da Urbano II.
La prima traduzione latina del Corano ebbe luogo solo
nel 1143, cinquantotto anni dopo la morte di san Gregorio VII, ad opera
dell’inglese Roberto di Chester per l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, il
quale vi aggiunse una decisa confutazione del credo islamico. Si trattava in realtà di un riassunto del
Corano, che rimase come unica traduzione per secoli, sino alla grande versione
critica e completa del Padre Marracci, molto più tardi, addirittura nel
1698. Il Cardinale di Cusa si servì di
quella prima traduzione per scrivere la sua celebre Cribratio Alcorani (vaglio
critico del Corano) nella prima metà del Quattrocento, precedendo di poco la
Bolla emanata da Pio II (Enea Silvio Piccolomini) per indire una Crociata (mai
realizzatasi) contro i turchi che da tempo stavano avanzando minacciosamente
nei Balcani e avevano espugnato Costantinopoli il 29 maggio 1453.[30] In
questa Bolla, il Papa si riferì ai turchi come “orde del drago velenoso”, seguaci
del “falso profeta Maometto”. Riprese il concetto il 12 settembre 1459, in un
notevole discorso tenuto nel Duomo di Mantova, dove era stata convocata la
Dieta incaricata di approvare la crociata che mai si fece; discorso nel quale
egli si riferì di nuovo a Maometto come ad un impostore, dicendo che, se
non si fosse fermato il sultano Mehmed, costui, assoggettatisi tutti i prìncipi
dell’Occidente, avrebbe “abbattuto il Vangelo di Cristo e imposto a tutto il
mondo la legge del suo falso profeta”.[31]
Questa, dunque, l’alta e chiara condanna dell’islam e
del suo profeta da parte del Magistero pontificio, una volta tolto di mezzo
l’equivoco che esso fosse una “eresia” cristiana.
Paolo
Pasqualucci - 26 novembre 2019
[1] Il vescovo Schneider
afferma che l’adorazione idolatrica della Pachamama durante il Sinodo
dell’Amazzonia affonda le sue radici nel Concilio Vaticano II, articolo di
sei pagine apparso il 10 nov 2019 sul blog Chiesa e Postconcilio, tr.it.
parziale di un’intervista a mons. Schneider apparsa su LifeSiteNews qualche giorno prima.
[2] L’ultimo sinistro ritrovamento
si è avuto l’estate scorsa. Durante una
campagna di scavi archeologici in una cittadina turistica a nord di Lima,
capitale del Perù, sono state trovate casualmente “le mummie di 227 bambini e
ragazzi fra i 4 e I 14 anni quasi sicuramente sacrificati nell’ambito di un
rituale inteso ad onorare gli dèi della civiltà Chimu, chiamati in causa nel
tentativo di fermare gli effetti nefasti del maltempo procurati dall’ormai
conosciuto fenomento di El Niño”.(Quotidiano
on-line IlSussidiario.net, 28 agosto 2019, articolo di 5 pagine). Sul
significato sicuramente religioso in senso pagano del simbolo e delle cerimonie
svoltesi nei Giardini Vaticani, vedi le dichiarazioni di due esponenti indigeni
attivamente presenti alle stesse, riportate da Diane Montagna su LifeSiteNews
l’8 nov 2019.
[4] Nel suo lavoro teatrale Nathan
il saggio, del 1779, Lessing
rielaborò L’Apologo dei tre anelli,
raccontato dal Boccaccio nella terza novella della Giornata Prima del Decamerone,
facendone un manifesto del deismo e della tolleranza contro “la religiosa
follia di possedere ciascuno il migliore Iddio e di volerlo imporre a tutti gli
altri” (Lessing, Teatro, a cura di Barbara Allason, Nuova ediz., UTET,
Torino, 1964, p. 189.) Il Saladino aveva
posto al ricco ebreo Melchisedech, “valente uomo e savissimo”, questo
pericoloso quesito, con l’idea recondita di impadronirsi dei suoi beni o di
farlo giustiziare, a seconda della risposta: “io saprei volentieri da te, quale
delle tre Leggi tu reputi la verace: o la giudaica o la saracina o la
cristiana”. Per cavarsi d’impaccio
Melchisedech narrò l’apologo dei tre anelli, guadagnandosi la stima e la
fiducia del sultano: un uomo molto ricco, giusto e potente aveva lasciato in
eredità uno splendido anello, da portarsi come segno di supremazia da quello
tra i suoi figli che lo avesse ricevuto da lui nel testamento. Così l’anello
passò di erede in erede finché si giunse ad un discendente che aveva tre figli i quali volevano tutti e tre
l’anello, ritenendosi ognuno migliore degli altri due. Ma il padre, che aveva promesso in segreto
l’anello a ciascuno di loro, fece fare due copie dell’originale, così perfette
da non distinguersene. Alla fine, i tre
figli si ritrovarono tutti e tre con un anello che sembrava perfettamente
uguale. Rimase quindi aperta la questione: “qual fosse il vero erede del padre”
(Giovanni Boccaccio, Il Decamerone, 10a ediz. integra,
prefaz. e glossario di Angelo Ottolini, Hoepli, Milano, ristampa 1983, pp.
38-40: Melchisedech giudeo con una
novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladin apparecchiatogli).
[5] C.M. Viganò, Così la Neo-Religione mondiale
avrà il suo tempio. Con l’approvazione
del papa, articolo apparso sul blog di Aldo Maria Valli, Duc in altum,
il 19 novembre 2019, di due pagine nello stampato a parte; pubblicato anche da Chiesa
e Postconcilio il 21 successivo; p. 2.
Il riferimento a Pio XI concerne la sua Enciclica Mortalium animos sulla
vera unità religiosa, del 1928, nella quale si condanna il falso ecumenismo,
chiamato all’epoca pancristianesimo, auspicante una sorta di unione non
solo di tutti i cristiani ma anche di tutte le religioni del mondo, unione
fòmite di una nuova religione mondiale,
su base c.d. umanitaria.
[6]
Op. cit., ivi. Sottolineatura mia.
[7] Romano Amerio, Iota
Unum. Studio delle variazioni della
Chiesa cattolica nel secolo XX, Milano -
Napoli, Ricciardi Editore, 19862, § 208. Sottolineature nel testo. Per la
traduzione italiana del Concilio ho utilizzato:
I documenti del Concilio Vaticano II.
Costituzioni-Decreti-Dichiarazioni, Edizioni Paoline, 1980, che riproduce
le traduzioni apparse su L’Osservatore Romano. Per il Corano la
versione di Luigi Bonelli, Hoepli, Milano, 19833, che si segnala
anche per un eccezionale Indice analitico; nonché quella di Alessandro
Bausani, Il Corano, Sansoni, Firenze, 1978, dotata di un eruditissimo e
illuminante Commento, sura per sura.
Nelle citazioni coraniche le parole in corsivo sono del traduttore.
[8] Brunero Gherardini, “Quod et tradidi vobis.
La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, numero speciale della rivista
Divinitas, LIII, Nuova Serie, N. 1-3, 2010, pp. 375-376. Sul maldestro
tentativo di trovare in S. Tommaso una pezza d’appoggio a GS 24.4, l’illustre
teologo specificava, in nota: “A certi
affrettati e poco accorti interpreti dell’Aquinate, bisognerebbe consigliare la
lettura dell’opusc. teolog. N. 2 dalle “Collationes super Credo”,
Torino, 1954, p. 216-217: una stupenda
meditazione su Dio, fine ultimo di ogni creatura.” (op. cit., p. 375, nota n.
63).
[10] L’espressione latina riportata proviene dall’Epistola
Qui sincera indirizzata nel novembre del 602 dal Papa S. Gregorio I
Magno al vescovo di Napoli, Pascasio, ordinandogli di consentire agli ebrei
della città la celebrazione del loro culto, che il suddetto vescovo voleva
invece impedire. Vedi D/Sch 480.
[13]
Op. cit., ivi.
[14] Op. cit., ivi. È da tenere a mente che la Costituzione
dogmatica Lumen Gentium sulla Chiesa non definisce alcun dogma né
condanna solennemente alcun errore. Idem
per l’altra costituzione dogmatica del Conclio, la Dei Verbum sulla
divina rivelazione. L’uso di questo
aggettivo “dogmatico” è uno dei misteri di un Concilio, durante il quale si
mise a verbale che la Sacra Assise aveva unicamente “un fine pastorale”(Nota
esplicativa aggiunta alla Lumen Gentium il 16 novembre 1964). Indice
della confusione che vi ha sempre regnato o tentativo assurdo di instaurare una
nozione per così dire implicita o surrettizia della dogmaticità di un
Concilio Ecumenico; una dogmaticità senza dogmi, da ritenersi solo per via della
apposizione di un aggettivo, cui non corrisponde contenuto alcuno?
[15] Come ha sottolineato Heinz-Lothar Barth,
professore di filologia classica all’Università di Bonn, la struttura
sintattica della frase latina – nobiscum Deum adorant unicum - non lascia
alcun dubbio sull’affermata identità di Allah con il nostro Dio: “l’espressione “nobiscum” usata come
preposizione in connessione con l’attributo “unicum” e con il concetto “Deum”
scritto in maiuscolo, che si applica solo al Dio cristiano, non lasciano altra
interpretazione se non quella di aver qui postulato un’identità di Allah con il
vero Dio”(H.-L. Barth, Christus und Mohammed. Interview zum neuen Buch von Dr. H.-L. Barth,
‘Kirchliche Umschau. Die ewige Stadt und der Katholische Erdkreis’, Okt.
2018, pp. 24-32; pp. 27-28).
[16] Vedi il citato Commento di Alessandro
Bausani al Corano da lui tradotto, op. cit., pp. 552-553, per i passi
riportati. Esiste tutta una controversistica mussulmana
intenta da sempre a “decostruire” i
Vangeli con le interpretazioni più singolari, nel vano tentativo di dimostrare
che essi dovevano contenere il preannuncio di Maometto. La letteratura prodotta in Medio Oriente dalla
polemica islamo-cristiana è immensa. Per
una efficace anche se parziale sintesi:
Armand Abel, Masques et visages dans la polémique islamo-chrétienne,
in ‘Cristianesimo e islamismo’, tavola rotonda sul tema, Roma, 17-18 aprile
1972, Roma, Accademia Naz. dei Lincei, 1974, pp. 85-128.
[17]
Bausani, Commento,
cit., p. 553. I commentatori musulmani cercano
di trovare un annunzio di Maometto anche nell’Antico Testamento, p.e. in Dt 18,
15-18; Dt 33, e in vari altri passi (op. cit., p. 552).
[18] Vedi sul punto: La prophétie du “Paraclet” s’applique-t-elle
à Muhammad? www.jesusmarie.free.fr/islam_issa_et_
jesus_ le _paraclet_ et_ muhammad, pp. 1-5, a cura del P. Daniel Foucher e del
Pastore William Campbell.
[19] Dizionario Biblico, diretto da Francesco Spadafora, Ordinario di
Esegesi nella Pontificia Università del Laterano, Editr. Studium, Roma, 1963,
voce: Paraclito. Il passo di 1 Gv
2, 1 recita: “Figlioli miei, vi scrivo
queste cose affinché non pecchiate. Ma
se qualcuno avesse peccato, noi abbiamo presso il Padre un avvocato, Gesù
Cristo il Giusto”: “..sed et si quis
peccaverit, advocatus habemus apud Patrem [ parákleton échomen pròs tòn
patéra]”.
[20]
Bernard Lewis, Il
linguaggio politico dell’Islam, tr. it. di Biancamaria Amoretti Scarcia,
Laterza, Bari, 1991, p. 21.
[21] Carlo Alfonso Nallino, Islamismo, voce
della Enciclopedia Italiana, vol. XIX, 1933, pp. 603-614, ora in ID., Raccolta
di scritti editi ed inediti, vol. II, L’Islam.
Dogmatica-Sufismo-Confraternite, a cura di Maria Nallino, Roma, Istituto
per l’Oriente, 1940, pp. 1-44; p. 24. È quasi
superfluo rilevare che nessuna fonte ebraica, ortodossa o eterodossa, ha mai
proceduto alla “divinizzazione” di Esdra, grande figura sacerdotale, uno dei
protagonisti della ricostruzione di Israele dopo il ritorno dall’esilio in
Babilonia (vedi il Libro di Esdra e Neemia, nell’Antico Testamento). I versetti coranici che condannano questa
supposta “divinizzazione” sono tra quelli che incitano alla violenza contro
ebrei e cristiani: “I giudei dicono: Uzair [Esdra] è figlio di Dio, e i
cristiani dicono: il Messia è figlio di Dio;
questo è ciò che dicono con le loro bocche, imitando i detti di coloro
che, prima di loro, non credettero; Dio li combatta! Quanto vanno
errati!” (9 : 30). “Allah li combatta!”
è una formula di maledizione (Bonelli).
[22] Sulla figura del Cristo del Corano, vedi: Roger Arnaldez, Jésus fils de Marie,
Prophète de l’Islam, Paris, 1980, pp. 11-22; 129-141 et passim. Un testo fondamentale. Il Concilio crea anche la falsa impressione
che Gesù sia tuttora un “profeta” il cui insegnamento è vivo e attuale per i
musulmani. Ma questo non è vero. Egli,
come semplice “precursore”, è per loro sovrastato da Maometto cioè dal Corano e
dai detti e fatti di Maometto o a lui attribuiti. Nell’esegesi, nel “pensiero” musulmano, la
figura di Gesù ha un “ruolo minimo”, tranne, forse, che per la polemica contro
i cristiani, sempre attiva e pugnace presso gli studiosi. Sul punto, essenziale per valutare nel giusto
modo il nostro rapporto con l’islam, vedi un altro studio essenziale
dell’illustre Roger Arnaldez, Gesù nel pensiero musulmano, 1988, tr. it.
di Francesco Caponi, Edizioni Paoline, 1990.
[23]
Sulla figura della Maria del
Corano, vedi, per una completa visione d’insieme, Arnaldez, op. cit., capp. I –
V.
[24] Italo Sordi, Che cosa ha veramente detto
Maometto, Ubaldini, Roma, 1970, p. 133.
Il carattere “materno” dello Spirito Santo, il Consolatore, nostro
“advocatus” presso Dio, Sant’Afraate lo intendeva certamente in senso
simbolico, metaforico.
[25] Per una visione sistematica complessiva della
concezione musulmana dell’aldilà, con una ottima analisi delle varie scuole
interpretative, vedi: Soubhi El-Saleh, La
vie future selon le Coran, Vrin, Paris, 1986. I tentativi di intendere in senso solo
allegorico le immagini più grossolane del Paradiso musulmano sembrano rimanere
confinati ad una minoranza, considerata eretica, che non può imporsi sulla
visione tradizionale, dogma di fede e preferita dalle masse. I fedeli “si
chiedono piuttosto quante huri ogni credente potrà onorare dei suoi favori ogni
notte [della vita eterna]; quale gioia proverà nell’abbracciarsi alla sua huri
su letti sopraelevati e cose simili” (op. cit., p. 39; 131). Solamente vago l’accenno alla Visione
Beatifica in 9 : 73; 75 : 22-23.
Basandosi sui detti di Maometto (hadith), i commentatori hanno costruito l’immagine di
Allah che apparirà “come la luna piena” agli eletti riuniti a modo di simposio
davanti a lui (op. cit., p. 43; 78). Per
noi cattolici tutto ciò rappresenta la negazione stessa della vera Visione
Beatifica: come ci rivela S. Paolo, Dio “abita in una luce inaccessibile” (1 Tm
6, 16) nella quale saranno ammessi gli Eletti,
poiché “nella resurresione né gli uomini avranno moglie né le donne
marito, ma saranno come gli angeli di Dio in cielo”( Mt 22, 30) . La luce della luna piena è notturna luce
riflessa che risplende nelle tenebre, senza però vincerle – una luce fredda e
malinconica. L’edonistica raffinatezza e
la ripugnante carnalità coniugate nelle “visioni” del “paradiso” mussulmano, hanno
sempre rappresentato per noi cattolici uno degli indizi più sicuri della natura
tenebrosa dello “spirito” dal quale Maometto afferma di aver ricevuto la sua
“rivelazione”.
[26] Soubhi El-Saleh, op.cit., p. 46. L’escatologia mussulmana risente, per diversi
aspetti, dell’influenza di elementi disparati, prevalentemente di origine
ebraica e cristiana (Nallino, op. cit., pp. 23-24).
[27] Sui concetti politici dell’islam, vedi il già
citato, fondamentale saggio di Bernard Lewis, Il linguaggio politico
dell’Islam, 1988, tr. it. di Biancamaria Amoretti Scarcia, Laterza, Bari,
1991, in particolare il cap IV, Guerra e pace, pp 83-104.
[28]
Alessandro Bausani, L’Islam,
Garzanti, Milano, 1980, p. 156.
[29] Op. cit., p. 27. I profeti ammessi dall’islam
sono quasi tutti quelli della Bibbia, da Adamo in poi, con l’aggiunta di alcuni
sconosciuti profeti arabi e di Davide, che nella Bibbia non ha rango profetico,
nonché di un gran numero di profeti inviati da Allah all’umanità in tempi
remoti e ora sconosciuti (op. cit., ivi).
[30] Carlo De Frede, La prima traduzione italiana
del Corano, sullo sfondo dei rapporti tra Cristianità e Islam nel
Cinquecento, Napoli, 1967, pp. 1-13.
[31] Franz Babinger, Maometto il conquistatore,
1947, tr. it. Torino, 1967, pp. 180-183.
“Non i nostri padri ma noi abbiamo lasciato conquistare Costantinopoli,
la capitale dell’Oriente, dai Turchi. E mentre noi ce ne stiamo a casa nostra
in oziosa tranquillità, le armi di questi barbari penetrano fino al Danubio e
alla Sava […] Tutto ciò è accaduto sotto i nostri occhi ma noi siamo in preda a
sonno profondo. Ma no, fra di noi siamo capaci di combattere, soltanto ai
Turchi lasciamo fare ciò che vogliono […]
Si ritiene forse che si tratti di cose passate che non si possono piú
mutare e che d’ora in poi si avrà quiete.
Come se da un popolo assetato del nostro sangue, che, dopo aver
abbattuto la Grecia, ha già conficcato la spada nel fianco dell’Ungheria, ci
fosse da sperare quiete, come se da un avversario come il sultano Mehmed ci
fosse da aspettare pace! Rinunciate a
questa convinzione, perché Mehmed non deporrà mai le armi se non in qualità di
vincitore o di totalmente sconfitto!
Ogni vittoria sarà per lui lo sgabello per una seconda vittoria finché,
dopo avere assoggettato tutti i principi dell’Occidente, egli non avrà
abbattuto il Vangelo di Cristo e imposto a tutto il mondo la legge del suo
falso profeta”.(op. cit., p. 183).