P. Pasqualucci : Politica
e Religione. saggio di teologia della storia - I.
Nota Previa
Ripubblico qui in quattro puntate, con diversi
ritocchi e un’aggiunta, un libretto da me scritto nel lontano 2001, intitolato:
“Politica e religione. Saggio di teologia della storia”, Antonio
Pellicani Editore, Roma, pp. 94. La piccola casa editrice si è
estinta con l’improvvisa morte per arresto cardiaco del povero
Pellicani, nel marzo del 2003. Ultimai il manoscritto del saggio il
25 febbraio del 2001, quasi sette mesi prima del terribile attentato
terroristico di New York. Nonostante il tempo trascorso da allora, mi sembra
che le tesi e le argomentazioni da me sostenute in questo lavoro siano ancora
perfettamente attuali, non indegne di suscitare l’interesse degli amanti della
filosofia della storia e della politica. Il saggio mira anche a ridefinire
l’analogia tra politica e religione o meglio il concetto di “teologia
politica”, come impostato inizialmente da Carl Schmitt.
L’opera è divisa in dieci capitoletti seguiti da
una bibliografia, indispensabile per la lettura delle note. Inizio
con i primi quattro
(I-IV) facendoli precedere dall’Indice e seguire dalla Bibliografia. Del
lavoro esiste una traduzione francese: Paolo Pasqualucci, “Politique et Religion. Essai
de théologie de l’histoire”, Courrier de Rome,Versailles, 2003, pp.
108. Nel cap. I c’è l’aggiunta, dedicata a
Spinoza. Anch’egli è stato uno dei profeti di quella
deistica “religione civile” imposta dallo Stato pensato secondo i criteri della
ragione résasi autonoma da Dio, intollerante di ogni altro culto, in
particolare di quello cattolico.
Indice dei capp. I - IV
I.
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Incompatibilità
della Politique illuminista, utopistica e rivoluzionaria,
con il Cristianesimo. Essa vuole “render l’uomo uno” con la volontà generale,
eliminando ogni dimensione trascendente. La religione deve
pertanto diventare “civile”, esser cioè posta dallo Stato come culto pubblico
senza misteri e dogmi, ragionevole e socialmente utile. Nel Contrat
Social ou Principes du Droit Politique (1762) Jean-Jacques Rousseau
teorizza questo culto come “religione civile”, che si sostituisce a quella
rivelata. Baruch Spinoza ha elaborato nel Trattato
teologico-politico (1670) una “religione civile” come
“culto divino rivelato” posto dallo Stato, obbligatoria per tutti mentre la
religione rivelata è lasciata solo alle inclinazioni personali e private
della coscienza individuale. Il culto pubblico del nuovo Stato,
teorizzato nel Contratto Sociale, è dichiarato incompatibile con
il Cattolicesimo (o “religione del prete”). L’invito di Rousseau
alla vera e propria persecuzione dei cattolici, fu raccolto con entusiasmo
dalla Rivoluzione Francese.
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II.
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Fondamento
deistico della Politique. La “Professione di fede del Vicario
Savoiardo” nello Émile ou de l’Éducation, di Rousseau
(1762) il testo da lui dedicato alla pedagogia dell’uomo nuovo. Religione
“dell’uomo” e “civile” o del cittadino. Religione senza misteri,
dogmi, semplice, di poche proposizioni, tollerante, imposta dallo
Stato nuovo, nella quale la buona fede e la fedeltà alla costituzione
sostituiscono la fede nel Dio vivente.
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III.
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Elementi
decadenti nel deismo di Rousseau che deforma l’autentica esperienza religiosa
insegnataci dal Cristianesimo in una dolciastra religiosità a sfondo
naturalistico ed umanitario. La Politique in quanto
“teologia politica” estrapola la metafisica del deismo, non la teologia
cattolica, della quale nega tutte le verità. Critica del deismo e della
nozione stessa di “teologia politica”. La nozione deistica di Dio appare
indeterminata e contraddittoria. L’assenza di imprestiti teologici autentici
in Rousseau. La sua concezione unitaria del rapporto tra Stato e
individuo lascia al fondo irrisolto il dualismo di Stato e Nazione, tipico
del contrattualismo mirante ad uno Stato interamente nuovo.
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IV.
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Il
Cattolicesimo è tollerato nello Stato laico creato dalla Politique solo
a condizione di snaturarsi. Il discorso di Robespierre dell’8 Fiorile
dell’anno II (1793). La contraddizione insita nel principio di tolleranza
applicato dai rivoluzionari: ammette la libertà di opinione in
religione ma solo come opinione privata mentre impone l’obbedienza ad un
culto pubblico di Stato, del tutto ostile alla vera religione, degradata ad
opinione privata limitatamente tollerata dalle leggi.
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I
Il motto illuministico, “la politique c’est
tout”, è ancora la divisa del nostro tempo. Tutto viene ancora oggi
interpretato secondo categorie politiche, dalla cultura al costume alla morale
alla religione all’economia. Anche l’economia, poiché l’idea di sviluppo in
essa oggi dominante, è in realtà nozione della Politique, una
variante dell’idea di progresso. La Politique nel senso di un Rousseau non
è però quella di un Machiavelli, la cui dottrina mira a cogliere le
leggi obiettive ed eterne dell’azione politica concreta, senza
curarsi né dell’etica né della religione, per condensarle poi in massime utili
all’arte di governo (dell’etica, poiché egli condiziona il rispetto dei
patti alla effettiva reciprocità nella loro esecuzione e giustifica la loro
non-osservanza se l’osservanza comporta la rovina certa dello Stato; giustifica
altresì la dissimulazione in politica – a seconda delle circostanze –
nonché la messa tra parentesi delle regole della morale ordinaria in
situazioni eccezionali, p.e. quando sarebbe necessario sterminare fazioni che
stiano distruggendo la società e lo Stato con le loro lotte spietate).
La politica utopistica degli
intellettuali settecenteschi, dei Philosophes, possiede
al contrario un taglio moralistico: essa vuole costruire
un uomo nuovo all’insegna della virtù, civica e patriottica,
pertanto mediante istituzioni che lo plasmino secondo l’idea che la stessa filosofia
dei Lumi si fa della natura dell’uomo, concepito ora innanzitutto come
“cittadino” di uno Stato ideale, che deve realizzarsi contro le
istituzioni vigenti, condannate in blocco perché prodotto di una tradizione e
di costumi non ancora “illuminati” dalla “ragione”. Ora, la si ritiene per
definizione buona, la natura umana, perché monda della
macchia del peccato originale, nel quale non si vuol più credere; razionale,
autosufficiente, capace di costruire esclusivamente con la propria volontà
diretta dalla ragione la società e le istituzioni nonché di un infinito
perfezionamento verso il meglio e il bene, per realizzare la propria felicità
terrena, elevata ad unico ed autentico scopo dell’esistenza. Il significato
della vita non è più sovrannaturale, non lo si vuol più vedere nella salvezza
eterna e nel godimento senza fine della Visione Beatifica per chi avrà seguìto,
in questo mondo, i comandamenti di Cristo, in fede ed in opere. Per la Politique,
non vale più il principio proclamato dalla Verità Rivelata, secondo il quale
“ogni potere viene da Dio” (Rm, 13, 1-2: “Non est enim potestas nisi a Deo,
quae autem sunt, a Deo ordinatae sunt”). La sovranità ed ogni rapporto di
potere, ogni autorità, devono essere ora fondati esclusivamente sulla volontà
razionale dell’uomo, che deve poter attuare se stessa in modo libero ed uguale,
per tutti. La differenza fra le diverse sétte illuministiche, tra i
materialisti che concepiscono l’uomo come una macchina guidata dagli istinti ed
inclinano all’ateismo e coloro, ad esempio Rousseau, che lasciano ampio spazio
alla sensibilità, al sentimento, al cuore (a tutta la paccottiglia della conscience preromantica)
e credono nell’anima e in Dio, ma nel Dio dei deisti e dei Liberomuratori;
queste differenze sono irrilevanti per la Politique, intesa nei
suoi elementi portanti e nei suoi fini.
a. L’ambizione, la direttiva di
questa “politica” è identica per tutti: “rendez l’homme un, vous le rendrez
heureux autant qu’il peut l’être”[1]. L’uomo deve
essere reso “uno” con se stesso. Può identificarsi con lo Stato od esser solo
se stesso, tout entier à lui-même[2]:
l’essenziale è che non vi siano né dualismi né scissioni. Perciò il
trascendente deve restar fuori dalla sfera politica, che ora ricomprende
l’intero modo di essere dell’uomo nel mondo. Il trascendente deve anzi esser
ricompreso e addomesticato nel dominio della Città terrena. La religione
cristiana deve esser sostituita nella società da una “religione civile” o “del
cittadino” e rinchiusa protestanticamente nel limbo della coscienza
individuale, che può così costruirsela come vuole, senza dogmi e conforme al
sentimento di sé dell’io, al cuore, a ogni sorta di narcisismo: a misura d’uomo
e non più di Dio, che l’ha rivelata.
Il famoso capitolo VIII del libro IV del Contrat
Social sulla “religione civile” codifica e radicalizza la rottura con
il trascendente e sovrannaturale – con la Rivelazione in senso proprio – già
iniziatasi con la Riforma protestante. La Riforma, infatti, ha sostituito
l’autorità della coscienza individuale, autorità intramondana, immanente, a
quella della Chiesa fondata da Cristo, il cui Magistero è assistito nei secoli
dallo Spirito Santo e si fonda sulla Tradizione e la S. Scrittura. Nella
visione protestante, la coscienza individuale finisce col diventare arbitra del
bene e del male poiché, interpretando liberamente la Scrittura, diventa essa
sola l’interprete della verità salvifica, della morale e dei costumi – in
sostanza, la loro fonte.
Ciò risulta dal principio del libero esame,
proclamato in maniera assoluta nelle Resolutiones lutherianae super
propositionibus suis Lipsiae disputatis (1519) e condannato al n. 29
dell’elenco degli errori di Lutero riportati nella bolla Exsurge Domine di
Leone X, del 15 giugno 1520: “Ci è dato un mezzo [via] per snervare
l’autorità dei Concili e contraddire liberamente ai loro atti e giudicare i
loro decreti, e per proclamare liberamente [confidenter confitendi]
tutto quello che ci sembra vero, sia stato approvato o riprovato da un
qualsiasi Concilio”. La “via” è quella della coscienza individuale con tutti i
suoi mutevoli corollari. “Qui appare la radice più profonda dell’eresia e
il criterio oltre il quale non è dato di andare: lo spirito privato che dà
forza a tutto quello che sembra. Dei due lati che ha l’atto della
mente che apprende l’essere oggettivo con un proprio atto soggettivo, non è più
l’essere oggettivo appreso, ma l’apprendere stesso quello che sovrasta. Per
esprimermi coi termini della Scuola è id quo intelligitur che
sovrasta id quod intelligitur [ciò con cui si
apprende prevale su ciò che si
apprende]. Se poi nell’articolo 27 [degli errori condannati] Lutero leva dalle
mani della Chiesa lo stabilire gli articoli di fede e le leggi morali, questo
non è che la traslazione dell’articolo 29 dall’ambito individuale all’ordine
sociale della religione” [3].
La coscienza individuale, divinizzata ed elevata
a raison legislatrice, diventa poi l’unico artefice
possibile di una Politique tutta misurata sull’uomo, dalla
quale il sovrannaturale è stato bandito poiché non si vuole più ammettere,
essendo venuta meno la fede, che il potere civile debba concorrere, nella sua
sfera propria (quella del bene comune), al raggiungimento del bene sommo
rappresentato dalla salvezza delle anime, affidato da Cristo alla Chiesa da lui
fondata. Con Rousseau, si giunge a proclamare apertamente che il Cristianesimo
deve farsi da parte, e lasciare il posto ad una religione sociale, politica,
del citoyen. Infatti, la “religione civile”, l’unica ammessa dal
visionario di Ginevra come culto pubblico nel suo Stato ideale nato dal Patto
Sociale, non è il Cristianesimo, del quale conserva solo una pallida ombra. Si
tratta, invece, di un deismo concepito quale instrumentum regni. I
suoi dogmi, enunciati ed imposti dal Potere Sovrano, devono essere “semplici,
pochi di numero, precisi e dati senza spiegazioni o commento: l’esistenza della
Divinità onnipotente, intelligente, benevola, preveggente e provvida, la vita
futura, la felicità dei giusti, la punizione dei malvagi, la santità del Contratto
Sociale e delle Leggi […] la tolleranza”[4]. Si tratta
di pura moralità laica, “civile” per l’appunto, che vuole elevare a dogma
“religioso” i principi della Politique, racchiusi nel Contratto
Sociale e nelle Leggi, espressione della volontà generale. Tra questi principi,
la tolleranza verso i culti che non contraddicano la professione di fede
“civile”[5]. Perciò il Cattolicesimo (Christianisme
romain), definito sprezzantemente religion du Prêtre, deve
esser bandito: il cattolico deve esser “chassé de l’Etat” [6]. Infatti, il Cattolicesimo “divide gli uomini tra due
legislazioni, due capi, due patrie, li sottomette a doveri contraddittori e
impedisce loro di poter essere contemporaneamente devoti e
Cittadini” [7]. Inoltre, è intollerante, avendo
osato dichiarare come dogma di fede il principio “fuori della Chiesa non c’è
salvezza” [8].
Lo Stato, il nuovo Stato, che si propone di
plasmare un uomo nuovo, non più cristiano ma laico, deve constare di
istituzioni che non tollerano dualismi o divisioni: né tra individuo e società,
né tra società e Stato, tra individuo e Stato, tra Stato e Chiesa, cielo e
terra. Non può accettare l’esistenza di un ordinamento ad esso superiore, quale
la Chiesa cattolica, corpo mistico di Cristo, e quindi ad un tempo visibile e invisibile,
ad un tempo terrena e celeste, naturale e sovrannaturale, istituita da Cristo
per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. La città terrena si è
resa autonoma, non vuole più cooperare con la Chiesa per
l’attuazione dei disegni della Provvidenza ed anzi pretende che sia la Chiesa a
cooperare con essa, in posizione subordinata, al fine del perfezionamento
terreno dell’umanità.
b. Un’anticipazione della
“religione civile” del Ginevrino la ritroviamo nel Trattato
teologico-politico di Baruch Spinoza,
pubblicato anonimo nel 1670, opera avversata ugualmente da cattolici e
protestanti in quanto pervasa da un radicale ateismo e animata da una profonda
ostilità sia per l’Antico che per il Nuovo
Testamento. L’esegesi di Spinoza cerca di sottrarre ai Sacri
Testi ogni elemento e significato sovrannaturale, in tal mondo snaturandoli
completamente. Sulla base di un’interpretazione di questo tipo ,
Spinoza può poi procedere alla parte “politica” del suo Tractatus,
nella quale viene teorizzato il concetto della libertà religiosa come
espressione della libertà di coscienza (capp. XVI-XX). Ma la libertà
religiosa quale espressione della libertà della coscienza individuale,
presuppone a sua volta il prevalere di una credenza di tipo deistico-razionalistico,
quella che postula l’eliminazione delle religioni rivelate e la loro
sostituzione con una religione “civile”; una religione, cioè, i cui articoli di
fede si ritengano stabiliti dalla ragione come i più adatti alla convivenza
pacifica tra i cittadini e sanzionata dallo Stato come obbligatoria per tutti.
Lo Stato “ben ordinato” perché costruito
interamente secondo ragione, nasce per Spinoza (alla maniera di Hobbes) dal
patto sociale con il quale gli individui rinunciano in favore del potere
sovrano (istituito da questo stesso patto) al loro supposto diritto
ad ogni cosa, tipico della loro condizione naturale, regno della “forza” e
della “cupidigia”. Nello “stato di natura” (come tale,
un’evidente astrazione, una fictio) non ci sono pertanto né
giustizia né ingiustizia né religione né idea del peccato. La
ragione ci impone di uscire da una natura concepita in questo modo e
di sottometterci allo Stato, per il nostro vantaggio ed utilità non per attuare
la giustizia. Solo vivendo secondo i dettami della ragione si
è liberi[9]. E la ragione spinge l’uomo ad
accettare la Rivelazione “perché ciò gli è utile, oltre che necessario per la
salvezza”[10]. Ma la Rivelazione può valere
per l’uomo in società unicamente come “diritto divino rivelato” che si accetta
con un patto esplicito, mediante il quale gli uomini “promettono di obbedire a
Dio in ogni cosa”[11].
Questo “diritto divino” è posto dallo
Stato. La “suprema autorità” dello Stato mantiene e garantisce il
“diritto divino rivelato” senza esser vincolata dall’opinione dei singoli in
materia e nemmeno da quella di un ceto sacerdotale. Lo Stato
spinoziano, come quello teorizzato da Hobbes, gode di una sovranità assoluta,
che gli deriva dal modo nel quale è concepito il patto sociale. Il
potere sovrano ha pertanto il diritto di imporre un culto pubblico cui tutti
devono obbedire, religione senza dogmi di origine sovrannaturale, costruita
dalla ragione per realizzare la pace sociale ed evitare la guerra
civile. Religione non rivelata, dunque, ma i suoi princìpi o
articoli di fede o “nozioni di Dio” tutti li devono rispettare perché
coincidono con la vera “fede cattolica” o “religione universale” che Spinoza
distilla dalla religione rivelata. Essi sono:
1. Esiste Dio, “un ente supremo sommamente giusto e
misericordioso esemplare della vera vita”. 2. È un
Dio unico. 3. È presente
ovunque. 4. Ha “diritto di dominio supremo su ogni
cosa”. 5. “ Il culto di Dio e l’obbedienza a lui
consistono nella sola giustizia e nella carità, ossia nell’amore verso il
prossimo”. 6. Sono “salvi” unicamente coloro che seguono
la “regola di vita” del punto n. 5 ; gli altri, sono
“perduti”. 7. Dio perdona i peccati a coloro che ne sono
pentiti[12].
Questa, dunque, la vera “religione cattolica”, nel
senso letterale di “universale”, che tutti, secondo Spinoza, possono accettare
perché conforme a ragione e che tutti dovranno accettare come unico culto
pubblico, quando sarà imposto da uno Stato creato ex novo, secondo
il principio del patto sociale. Si tratta, come ognun può vedere, di
un eptalogo deista, ancorché venato di reminiscenze
giudaiche. Sono i sette “dogmi” di una vera e propria religione
civile, laica, che lo Stato deve sostituire a quella
rivelata. Una “religione” di questo tipo, fatte le opportune differenze,
ritroveremo circa un secolo dopo per l’appunto nel penultimo capitolo del Contrat
Social.
Non mi sembra anacronistico designare il “culto”
civile elaborato da Spinoza con il posteriore appellativo di “religione
civile”: essa è già adombrata in quel culto, per quanto la cosa sia negata da
chi si ostina a vedere in Spinoza un sincero difensore della libertà di
coscienza nelle cose della religione e un campione della
tolleranza. La “religione civile” o “diritto divino” imposto dallo
Stato ha in Spinoza una maggior coloritura religiosa rispetto alle proposizioni
di un Rousseau, essendo inquadrato tutto il discorso nella sua esegesi biblica
e in apparenza derivato da una sua personale ma ferrata interpretazione dei
Testi Sacri. In realtà, Spinoza è ancor più “laico” di
Rousseau. Nemmeno per lui la Scrittura, che fraintende
ripetutamente, è verità rivelata, né lo è la morale cristiana, ma
egli contrappone loro la sua “etica”, fondata su di una concezione
nettamente utilitaristica della morale e del diritto. Per lui, il
bene e il male in senso assoluto non esistono, mostrando egli un relativismo
etico non meno radicale di quello del nominalista Hobbes. Scrive,
infatti, che “la conoscenza del bene e del male non è altro che il risultato
dell’esser affetti dalla gioia o dalla tristezza, per quanto se ne sia
coscienti “(Ethica, IV, Propositio VIII).
Ma perché un culto imposto dallo
Stato? Per evitare le discordie e le guerre civili, scrive, “nulla
di più sicuro si può escogitare per lo Stato che riporre la pietà e il culto
religioso nelle sole opere, e cioè nell’esclusivo esercizio della
carità e della giustizia, lasciando a ciascuno la libertà di giudizio su tutto
il resto”[13]. La “carità” verso il prossimo
e la “giustizia” sono per Spinoza l’unico vero contenuto della Rivelazione,
deducibile dal Discorso della Montagna e in definitiva dall’intera
Bibbia. Sono gli unici due precetti che la ragione crede di poter
legittimamente ricavare dalla Rivelazione, in tal modo immiserita da esser
ridotta alle sole opere, intese per di più in senso
prevalentemente sociale e politico, dal momento che vengono a dipendere dalla
legge del Sovrano e si esercitano “soprattutto in vista della pace e della
tranquillità dello Stato”[14].
La libertà di coscienza nelle cose della religione
è ricompresa nell’inciso: “lasciando a ciascuno libertà di giudizio
su tutto il resto”. Secondo Spinoza, con il patto sociale fondante
la vita in comune nessuno può tuttavia alienare questa “libertà di giudizio”,
che è e rimane puramente interiore. Ma come si estende tale libertà
alla religione? Sul presupposto del carattere totalmente individuale
e soggettivo della religione, intesa soprattutto come esperienza
religiosa del soggetto. Infatti, nel cap. VII del Trattato,
dedicato alla Interpretazione delle Scritture, egli spiega
che “consistendo la religione non tanto negli atti esterni, quanto
nella semplicità e nella sincerità dell’animo, non è di competenza di alcun
diritto pubblico né di alcuna pubblica autorità. La semplicità e la
sincerità dell’animo infatti non si infondono negli uomini con l’imperio delle
leggi e con la forza della pubblica autorità, e nessuno può esser costretto con
la forza o con le leggi a raggiungere la beatitudine”[15].
Giuste parole. Tuttavia Spinoza sembra rifiutare
ogni forma di religione positiva, ogni religione storica. Per lui,
la religione sembra ridursi unicamente alla “semplicità e sincerità
dell’animo”, alla nostra buona disposizione interiore. Quest’ultima è
indubbiamente un requisito indispensabile per la vera fede ma identificarla con
l’essenza stessa della religione significa ridurre quest’ultima all’esperienza
religiosa del soggetto, facendo scadere la religione a semplice religiosità. Il
concetto spinoziano di religione, funzionale al principio della libertà di
coscienza, è un concetto incompleto, parziale perché interamente soggettivo,
simile a quello dei Protestanti ma anche caratteristico di chi non ammette
l’esistenza di un Dio vivente, creatore, personale, che si sia rivelato con
l’Incarnazione del Verbo e con la proclamazione di verità alle quali il nostro
intelletto d e v e prestare l’assenso. La
“semplicità” e la “sincerità” evocata molte volte nella Bibbia riguarda sempre
il modo corretto con il quale si deve assentire alla verità rivelata,
mettendone poi in pratica ogni giorno gli insegnamenti, ribaditi ripetutamente
da Profeti ed Apostoli. Invece in Spinoza “semplicità e
sincerità interiore” sono disposizioni che legittimano il nostro diritto
a “pensare liberamente”: non sono concepite in funzione
della verità proclamata da Dio ma di una libertà interiore fondata in modo
assoluto sull’io stesso, per il fatto stesso di esistere.
“Godendo ognuno del pieno
diritto [naturale] di pensare liberamente, anche in materia di religione, e non
potendosi concepire che alcuno possa perdere questo diritto, ognuno avrà anche
il pieno diritto e la piena autorità di giudicare liberamente in materia
religiosa e, per conseguenza, di spiegarla e interpretarla a se stesso”[16]. Il “libero esame” dei Protestanti, che
qui risuona, fu inizialmente concepito come indagine affidata espressamente dal
singolo credente alla guida dello Spirito Santo. Ma ogni connessione
con il sovrannaturale scompare nel libertinismo teologico del
filosofo di Amsterdam. Per lui, le verità della religione
appartengono solo al singolo e al suo diritto, sono un puro fatto di coscienza,
privato, senza intromissioni sovrannaturali qualsivoglia e tanto meno ad opera
di autorità umane, civili o religiose che siano. Né i teologi, né i
Papi, né i rabbini possono pretendere di interpretare per noi le
Scritture: “la norma di interpretazione non può essere che quella
del lume naturale che è comune a tutti, e non un lume sovrannaturale né
un’autorità esterna”, sia essa della Chiesa, del Concistoro calvinista o della
Sinagoga[17]. Ma nemmeno, osservo,
l’autorità delle Scritture come tale, còlta nel loro significato
intrinseco, che spesso (anche se non sempre) risulta chiaramente dal testo, se
il “lume naturale” può giungere ad elaborare l’eptalogo di cui
sopra o comunque ad aderirvi. Il “lume naturale” può evidentemente
fabbricarsi o comunque scegliersi la religione che vuole, purchè la ritenga
conforme ai criteri stabiliti da una ragione résasi del tutto autonoma rispetto
al trascendente.
Ma il “lume naturale” è tuttavia obbligato a
riconoscere ed osservare il “culto pubblico” razional-ragionevole, dalla tinta
umanitaria e tollerante, imposto dal Sovrano civile. Ciò significa
che l’esercizio del suo “diritto di pensare liberamente” deve poter esser limitato dal
potere civile. In effetti, se tale “diritto” si potesse esercitare
indiscriminatamente, non si ricomincerebbe con le dispute, le controversie, le
violenze, le lotte di fazioni, la guerra civile a sfondo religioso che aveva
piagato l’Europa per quasi due secoli? Dal modo nel quale è
concepito l’inevitabile limite da porsi all’esercizio del nostro “diritto di
pensare liberamente” risulta il discrimine cui viene di fatto sottoposta una
determinata religione. Infatti, i limiti da porsi all’esercizio delle
professioni delle varie fedi religiose per forza di cose vengono ad
incidere nel merito di queste professioni. Se il
“lume naturale” mi convince della necessità di rifiutare i sette comandamenti
della spinoziana religione civile imposta dallo Stato, del tutto inaccettabili
per un Cattolico, non essendo il Dio proposto dallo Stato laico il vero Dio,
quali le conseguenze? Che il Cattolico verrà considerato un
“sovversivo”(seditiosus) e sottoposto a giudizio[18].
L’esercizio della libertà di opinione non può
“arrecar pregiudizio al diritto della suprema potestà”, derivante ad essa dal
patto sociale. Questo “diritto” si manifesta nello “ius circa sacra”
dello Stato: diritto di regolare tutti gli affari ecclesiastici, in
sostanza il rapporto dello Stato con la religione, in
generale. Mediante esso, lo Stato regola “l’esercizio esterno del
culto religioso” in modo da mantenere “la pace nella Res Publica”, la pace
sociale. E l’esercizio della suddetta libertà si rivela sedizioso allorché
si manifesano opinioni che contraddicono il patto sociale sino ad “annullarlo”,
per esempio negando la legittimità del potere sovrano, negando l’obbligo di
mantenere le promesse o sostenendo il diritto di ciascuno a vivere “a proprio
arbitrio” come se fosse ancora nello stato di natura. E quando si
manifestano opinioni che incitano “alla vendetta, all’odio, etc.”[19].
Come non vedere che chi non si riconosce nei sette
comandamenti della “religione civile” spinoziana può facilmente essere accusato
di incitamento all’odio e di esser un “sovversivo”? Il Dio
professato dalla Res Publica spinoziana non è il Dio vivente, che si è rivelato
e ha parlato tramite i Profeti e gli Apostoli; non è la Santissima
Monotriade; è un’idea della ragione che viene onorata non con un
vero culto religioso, in pratica impossibile, ma unicamente con un
comportamento conforme ad un’idea laica ed umanitaria (solidale, si
direbbe oggi) di giustizia e carità, idea socialmente utile e imposta dallo
Stato. Le verità rivelate sulla salvezza e la dannazione eterna sono
ridotte a burletta al punto n. 6, visto che sarebbero salvi o dannati
unicamente coloro che si dimostrassero o non caritatevoli nel senso laico del
termine, gradito allo Stato. Di sacerdozio, liturgia, Sacramenti, Sacra
Scrittura, nessuna traccia, ovviamente: tabula rasa.
Non potendo in coscienza accettare una simile
caricatura della vera religione, un Cattolico non negherebbe con ciò, anche
solo implicitamente, la legittimità dello “ius circa sacra” dello Stato che se
lo fosse attribuito? E non potrebbe venir pertanto considerato alla
stregua di un “sedizioso” che incita, anche indirettamente, i suoi compatrioti
alla disubbidienza, foriera di discordia civile? I limiti
posti necessariamente da Spinoza all’esercizio della libertà di coscienza, sono
dunque tali da impedire di fatto ai Cattolici di professare
pubblicamente la loro religione. Di professarla pubblicamente – si
intende – sempre come opinione privata, personale. Come culto
pubblico, essa si troverebbe già sostituita dalla religione civile imposta
dallo Stato o comunque ad essa adattata. Spinoza non fa cenno della
permanenza e liceità di un culto pubblico diverso da quello teistico voluto
dalla Res Publica e configurato nella “religione civile”. Diverso,
perché non conforme ai suoi articoli di fede.
La verità è che la religione rivelata, nell’ottica
di Spinoza, non ha il diritto ad esser riconosciuta come tale dallo
Stato. Ce l’ha solo l’opinione privata dell’individuo purché
non attenti al diritto dello Stato per ciò che riguarda le cose della
religione. E questo è perfettamente logico, trattandosi di uno Stato
che riconosce solo il culto della religione che esso stesso si
dà. Pertanto, la religione acquista “forza giuridica” (vis iuris)
nello Stato “soltanto in seguito al decreto di coloro che hanno il diritto di
imperio”, che cioè detengono il potere sovrano. Le “somme
potestà”hanno quindi in esclusiva il diritto di stabilire e regolare “il
culto religioso e l’esercizio della pietà”, dato che entrambi “devono
conformarsi alla pace e all’interesse dello Stato”. Le “somme
potestà devono essere anche le interpreti “ del culto[20]. Se
ne deduce, perciò, che, se un culto pubblico cattolico fosse ammesso, lo
sarebbe solamente dopo esser stato “interpretato”dal potere sovrano
ovvero reinterpretato e modificato da quest’ultimo secondo i
dogmi della sua “religione”, quella “civile”[21].
c. Ventisette anni dopo la
pubblicazione del Contrat, l’invito all’istituzione di un culto
“civile” e alla contestuale persecuzione dei cattolici, per “render uno” l’uomo
mediante le nuove istituzioni sociali, fu accolto dai rivoluzionari francesi.
Come è noto, le ostilità contro la religione e la Chiesa raggiunsero il loro
culmine, dopo la votazione della “costituzione civile del clero”, con i
giacobini al potere: aperta persecuzione di sacerdoti, suore e credenti rimasti
fedeli al dogma e al Papa: chiese sbarrate, distrutte, arresti, massacri e
deportazioni. Persecuzione sistematica e capillare che giunse al punto di distruggere,
oltre alle chiese, tutte o quasi le cappelle isolate nelle campagne della
Francia [22].
Nel giugno e nel novembre del 1789, l’Assemblea
costituente soppresse il clero come ceto politico e incamerò i suoi beni.
Nell’aprile del 1790 dichiarò che la religione cattolica non era più l’unica
religione dello Stato ma un culto ammesso, a fianco del Protestantesimo e del
Giudaismo. La Costituzione civile del clero fu votata il 12
luglio 1790. Con essa si tentava di “nazionalizzare” la religione cattolica [23], di renderla un’espressione della Nazione e della
Volontà Generale, della democrazia emergente, del popolo. Infatti, si
stabiliva, tra le altre cose, che vescovi e sacerdoti dovessero essere eletti
dal basso, dai fedeli, da elettori individuati secondo le circoscrizioni
politico-amministrative; si abolivano tutti i capitoli, sostituiti da “consigli
episcopali” composti da sacerdoti detti “vicari episcopali”, che erano
contemporaneamente “vicari della cattedrale”, trasformata in una parrocchia,
della quale il vescovo era il parroco; si imponeva al clero il famoso
giuramento di fedeltà al nuovo ordine: “Giuro di vegliare con cura sui
fedeli che mi sono stati affidati, di esser fedele alla nazione, alla legge e
al re, e di mantenere con tutte le mie forze la Costituzione decretata
dall’Assemblea e accettata dal re”. I sacerdoti “costituzionali” (così
erano chiamati quelli che avevano giurato) venivano stipendiati dallo Stato.
Chi non giurava (i “refrattari”) veniva bandito e perseguitato [24].
Il carattere rousseauiano della
costituzione civile del clero e del giuramento, è evidente: i sacerdoti e i
vescovi sono separati dal Papa e dalla Gerarchia, vengono nominati dal popolo,
dalla Nazione, diventano delegati della Volontà Generale, impiegati dello
Stato. La gerarchia ecclesiastica è distrutta, al posto del Cattolicesimo si
instaura una religione nazionale, totalmente subordinata al potere
civile (come nell’Anglicanesimo, anche se in modo più democratico). Il compito
essenziale dei preti è ora quello di essere fedeli alla Nazione e di difendere
la Costituzione ovvero di improntare la cura d’anime ai principi della nuova
moralità laica e politica, propugnati dalla Rivoluzione. La Nazione e la
Costituzione prendono di fatto il posto dei dogmi della fede, nel culto
pubblico ammesso. È aperta la strada al culto pubblico dell’essere supremo, che
Robespierre, ammiratore fanatico di Rousseau, tentò di instaurare, poco prima
di essere abbattuto: “C’est surtout Jean-Jacques qui a été le maître de morale
de la Révolution française. Le religion du Vicaire savoyard a
donné à Robespierre l’idée du culte de l’Être suprême, dogmes et
cérémonies” [25].
II
Il Cristianesimo, arbitrariamente separato dal
Cattolicesimo, è svilito dalla Politique rivoluzionaria a mero
fatto privato, della coscienza. Rousseau, nato calvinista, convertitosi al
Cattolicesimo, ritornato infine formalmente protestante, del tipo più
razionalista, votato al deismo e alla religione naturale, apostata per i suoi
stessi correligionari, riduce il Cristianesimo ad una “religione dell’uomo […]
senza templi, senza altari, senza riti, limitata al culto puramente interiore
del Dio Supremo e ai doveri eterni della morale”. Questa sarebbe, a suo dire,
“la semplice religione del Vangelo, il vero teismo” [26].
Rousseau ci ha lasciato una rappresentazione
classica di questo credo, nella celebre “professione di fede del Vicario
Savoiardo”, nel libro IV dell’Émile ou de l’Éducation, che è del 1762,
lo stesso anno del Contrat. Si tratta di un autentico manifesto
deista, messo in bocca ad un prete cattolico senza fede, che non approva il
celibato ecclesiastico, contesta tutti i dogmi (o negandoli o dichiarandosi
scettico su di essi) e afferma che solo la coscienza e la ragione ci permettono
di giungere alla vera nozione della Divinità. Non è più questione di
Rivelazione ma solo di “lume interiore”: bisogna affidarsi contemporaneamente
alla religione e al sentimento interiore, che ci conducono alla “religione
naturale”. Naturale, perché inscritta nella natura ossia conforme a ciò che
l’individuo crede di trovare nell’indagare (nel “sentire”) la natura e la
propria natura con la ragione e la coscienza: crede di trovarvi, come unica
valida, la nozione deistica della divinità.
I dogmi di questa religione sono pochi, chiari e semplici:
1. una volontà muove l’universo e anima la natura; 2. questa volontà non è
cieca ma intelligente; 3. l’uomo è libero nelle sue azioni e quindi animato da
una sostanza immateriale, ragion per cui è responsabile del male che compie; 4.
Dio è buono e giusto e non è il giudice tremendo del Vecchio e del Nuovo
Testamento[27]. Segue una serie di corollari. L’anima
individuale è immortale. È però anche eterna?
Il Vicario non lo sa. Egli non
comprende appieno nemmeno il dogma della Visione Beatifica, nelle sue parole
“la contemplazione dell’Essere supremo” dopo la morte. Si limita a dire che ci
sarà “un sistema in cui tutto è bene” [28]. Nega
poi che i malvagi possano venir puniti in eterno, perché ciò sarebbe contro la
bontà divina: l’inferno è già qui, in terra, nel cuore dei malvagi, torturati
(egli crede) dai rimorsi. Che Dio abbia creato il mondo non lo si può affermare
né negare. Il Vicario tende però a respingere l’idea di una creazione dal
nulla [29]. È scettico sulla Rivelazione (mostra
un “dubbio rispettoso”), non crede ai miracoli, alle profezie, all’autorità
della Chiesa; rifiuta di pregare Dio, dichiara incomprensibile la nozione
stessa del sovrannaturale[30].
A questa tabula rasa Rousseau, nelle vesti di prete
incredulo, giunge con metodo cartesiano, dopo aver sviluppato una serie di
ragionamenti la cui validità è confermata, per lui, dal sentimento interiore,
dalla coscienza che li approva. Ne consegue che “la moralità
delle nostre azioni” non dipende da un criterio oggettivo, dalla conformità loro
con la legge stabilita da Dio con la Rivelazione, ma da uno soggettivo, dal
“giudizio che noi stessi diamo di esse”; dal giudizio della coscienza poiché
essa “ne trompe jamais, elle est le vrai guide de l’homme; elle est à l’ame ce
que l’instinct est au corps; qui la suit obéit à la nature et ne craint point
de s’égarer” [31]. La nostra coscienza è dunque
una sorta di “istinto divino, che contiene un principio innato di giustizia e
di virtù”. Ma non si tratta di un semplice ricettacolo della morale naturale,
quella messa da Dio nei nostri cuori, poiché Rousseau afferma che essa è
addirittura un “juge infaillible du bien e du mal, qui rends l’homme semblable
à Dieu” [32]. Basta seguirla, la coscienza di
quest’essere autodivinizzatosi, per giungere alla verità: seguirla, senza farsi
ingannare, né dalla Philosophie, che inclina al meccanicismo, al
materialismo e all’ateismo, né dal Cattolicesimo, che ci vuole dividere fra
cielo e terra e schiacciare con l’autorità dei preti e di dogmi “oscuri ed
incomprensibili”. I due nemici capitali della conscience autoliberatasi
nel delirio della contemplazione di sé, sono dunque la Philosophie (all’atto
pratico gli altri settàri illuministi) e la Religion du Prêtre.
Bisogna dunque “rientrare in noi stessi”,
immergersi nella propria coscienza, impadronirsi del suo modo di essere, che è
sentimentale e razionale ad un tempo[33]. Infatti,
dobbiamo renderci conto del fatto che gli atti della coscienza sono
“sentimenti”, che “exister, pour nous, c’est sentir” [34],
e che la ragione coopera con il nostro sentire per farci trovare noi stessi.
Dio ci ha dato “la conscience pour aimer le bien, la raison pour le connoitre,
la liberté pour le choisir” [35]. In questa
indagine, il criterio fondamentale per valutarne l’autenticità, è offerto dalla
“buona fede” e dalla sincerità[36], un criterio del
tutto soggettivo. Per giungere alla vera idea di Dio e alla vera
idea della morale basta perciò impiegare la ragione in modo da non contraddire
la coscienza, in modo cioè da trovare le verità cui aspira il nostro
sentimento, che è l’atto della coscienza: “les plus grandes idées
de la divinité nous viennent par la raison seule. Voyez le spectacle de la
nature, écoutez la voix intérieure” [37]. Lo
“spettacolo della natura”, l’ordine del Tutto, ci mostrano che Dio è buono e
che ha creato l’uomo come un essere per natura buono. Il deista è ottimista e
nega risolutamente il dogma del peccato originale. L’uomo, creato buono, simile
a Dio, è rimasto buono anche dopo il peccato di Adamo. Bisogna perciò riscoprire
la “voce interiore”, nella quale abita la bontà originaria e incontaminata
della natura umana. Il male viene dai rapporti sociali ingiusti, irrazionali,
che hanno deformato la natura dell’uomo, scatenando le passioni[38].
Il vero culto rivolto all’unico Dio che la ragione
e la “voce interiore” possono ammettere, sarà perciò quello spontaneo della
vera natura umana, “celui du coeur”. Questo “culto del cuore”, quando è
sincero, è da ritenersi “uniforme”, cioè identicamente valido per tutte le religioni
storiche o positive. Questo culto “interno” è quello vero, mentre il culto
“esterno”, le “cerimonie” et similia, è “un affaire de police”, riguarda solo
l’ordine pubblico ed i pubblici poteri[39]. “Dio vuole
essere adorato in spirito e verità [Gv 4, 24]” continua Rousseau, “da tutte le
religioni, tutti i paesi, tutti gli uomini”[40]. Ma
l’adorazione “in spirito e verità” è quella “del cuore”, non quella esteriore
delle “religioni particolari”, anche se questa adorazione “del cuore” si può
naturalmente trovare presso tutte le religioni particolari, quando è fatta con
“sincerità” e “buona fede”. Dio non la rigetta affatto, quando è sincera,
“quale che sia la forma nella quale gli è offerta”[41].
Per questo il Vicario, dopo aver deformato il senso di Gv 4, 24, afferma
addirittura, verso la fine della sua “professione”, che non bisogna spingere
nessuno a lasciare la religione nella quale è nato, in sostanza che non è
necessario convertire nessuno a quella che per lui deve essere la vera fede, al
Cattolicesimo[42].
Il Vicario giustifica quindi il pluralismo
religioso, ponendo tutte le religioni positive e particolari
sullo stesso piano. Se la vera religione è solo quella “del cuore”, è
inevitabile che la dottrina, il culto, le tradizioni ed i riti delle singole
religioni positive siano intesi come un vuoto orpello, tollerato per esigenze
di ordine pubblico e per rispetto verso le consuetudini nazionali (come amava
dire con aperto cinismo Voltaire: “per tenere a freno la canaglia”). Per il
Vicario Savoiardo la dottrina e la fede non contano nulla, conta solo fare del
bene nella prassi. Nel tratteggiare la figura del parroco ideale (del bon
Curé), che egli definisce “ministro di bontà così come un buon magistrato è
ministro di giustizia”, afferma che esso deve adoperarsi a “fare il bene”, che
consiste essenzialmente nel far sì che i parrocchiani amino “la concorde et
l’égalité”. Per riuscire in ciò, dovrà ispirare la propria azione allo
“spirito” del Vangelo più che a quello “della Chiesa”, dal momento che solo nel
Vangelo il dogma sarebbe “semplice” e la morale “sublime” e vi si vedrebbero
“poche pratiche religiose” accanto a “molte opere di carità”, le uniche che
contino[43].
Veramente, annoto, i Vangeli ci testimoniano che
Gesù pregava ininterrottamente il Padre e digiunava spesso, attuando
sistematicamente determinate pratiche di devozione già ordinate da Dio agli
ebrei e da non confondersi con l’ossessivo legalismo dei Farisei, pratiche che
gli eretici come Rousseau respingono quasi d’istinto, perché il loro spirito
ribelle le considera offensive per l’alta e vana stima che hanno di se stessi[44]. E ciò è tanto più vero per protestanti che, come
Rousseau, siano sconfinati nel deismo il quale, più che un’eresia del
Cristianesimo, costituisce una religione del tutto indipendente, rivelatrice
dei pesanti limiti della mente umana che l’ha elaborata, risultanti sia dal suo
contraddittorio concetto della divinità (un ente di ragione che regna e non
governa, non dirige e non giudica, però è “buono”, di una bontà sostanzialmente
astratta e impotente, puramente accademica, che presenta però il
vantaggio per chi ci crede di non giudicare mai nessuno, né in questa né
nell’altra vita); sia da quello sentimentale, caramelloso, mille volte negato
dall’esperienza, dell’uomo “buono” per natura, cioè del tutto privo di
inclinazioni al male, che verrebbero causate solo da stimoli esterni, dalla
società e non sarebbero invece il retaggio del peccato originale, che ci ha
corrotti, anche se non integralmente, perché è rimasta in noi una parte buona e
positiva, capace di rispondere alle sollecitazioni della Grazia.
Il Deismo inoculato nel Cattolicesimo, non può che
intossicarlo e ridurlo in fin di vita, disseccandolo e dissolvendolo in una
dolciastra religione dell’Umanità, che propugna il dialogo e la
pace di questo mondo; “religione” profana e caduca, come tutte le cose di
questo mondo. Ciò risulta abbastanza chiaramente dalle parole che il Vicario
dedica al rapporto del parroco ideale con i Protestanti. Tenterà di
convertirli, di farli tornare all’ovile, per la salvezza delle loro anime e la
gloria di Dio? Giammai. “Se avessi dei Protestanti nel mio vicinato o nella mia
parrocchia non li distinguerei affatto dai miei veri parrocchiani, per tutto
ciò che riguarda la carità cristiana; indurrei gli uni e gli altri ad amarsi, a
considerarsi come fratelli, a rispettare tutte le Religioni ed a vivere in
pace, ciascuno nella sua” [45]. Suona
familiare, pur essendo noi nell’AD 2018?
Il parroco auspicato dal Vicario è un parroco che
ha smarrito il senso stesso del sovrannaturale, del dogma, della missione che
spetta alla Chiesa in questo mondo. È cattolico solo di nome. Ha sostituito
l’Umanità alla Rivelazione. Non c’è da stupirsi che l’Émile sia
stato immediatamente condannato dall’autorità civile e da quella ecclesiastica
del tempo, sia cattolica che protestante. Alla lettera pastorale di condanna
dell’Arcivescovo di Parigi (1762), costretto a prendere posizione dopo che
l’autorità civile francese aveva (secondo l’uso) fatto bruciare l’opera sulla
pubblica piazza anche a causa dei suoi attacchi al Cattolicesimo, Rousseau
replicò con una articolata epistola nella quale ribatteva punto per punto alle
accuse, con rabbia e con superbia, lasciandosi anche andare a notazioni
grossolanamente anticlericali e persino blasfeme[46].
In questo testo, il Nostro precisò ulteriormente i fondamenti della religione
del Vicario: “l’essenciel de la Religion consiste en pratique”, consiste
nell’azione pratica, non nella fede e nei dogmi; basta essere “homme de bien, miséricordieux,
humain, charitable”: ciò è di per sé già sufficiente alla salvezza perché
“quiconque est vraiment tel en croit assez pour être sauvé” [47]. Propugnare un simile credo, significa sostenere “la
causa di Dio e dell’umanità” [48].
I sostenitori del deismo avevano preso spunto dalle
guerre di religione per costruirsi un alibi ovvero per condannare
indiscriminatamente ed unilateralmente il Cristianesimo quale fonte di
“superstizione” e di “fanatismo”, di guerra civile e per di più in nome di verità
ritenute ora oscure, incomprensibili e persino nocive da parte di un ceto
colto sempre più incline allo scetticismo, all’irreligiosità,
all’ateismo vero e proprio. Per evitare il “fanatismo”, secondo i deisti,
bisognava ricorrere alla ragione la quale, prescindendo da miracoli e dogmi e
da ogni principio d’autorità, ci avrebbe illuminato (con la filosofia)
sulla vera idea del divino. Essa ci avrebbe illuminato anche sulla natura
umana. Dimostrando, sempre secondo i deisti, che l’uomo è “buono” e “razionale”
per natura, essa avrebbe fondato un culto razionale, approvato dalla
“coscienza”, indipendentemente da ogni verità rivelata e da ogni religione
positiva[49]. Era questo il culto che l’Umanità ormai
esigeva e che Rousseau aveva delineato nella professione di fede del Vicario.
Perciò, il Ginevrino oppose orgogliosamente all’Arcivescovo di Parigi che “il
vero credente”, quale lui Rousseau era convinto di essere, “sente che l’uomo è
un essere intelligente per il quale occorre un culto ragionevole, è un essere
sociale al quale occorre una morale fatta per l’umanità” [50]. Il culto e la morale devono essere conformi alle
esigenze dell’uomo. Questa impostazione scarta a priori ogni Rivelazione.
Bisogna dunque trovare “questo culto e questa morale”, validi per tutti gli
uomini, avendo come guida “le nozioni che la ragione ci dà dell’Essere supremo
e del culto che egli vuole da noi” [51]. Questo
culto non può che essere quello di un Essere supremo che non è il Dio
vivente ma un ente di ragione, un’idea della divinità elaborata dalla ragione,
in funzione delle supposte esigenze dell’uomo. Perciò, sempre la ragione ci
condurrà ad affermare che “se l’uomo è fatto per la società, la Religione più
vera è anche la più sociale e la più umana” [52]. Di
nuovo, non suona tutto ciò familiare anche nell’AD 2018?
Il contenuto di “socialità” e di “umanità” dovrà
perciò costituire d’ora in poi il criterio di misura della verità della
religione. Una volta determinata nei suoi dogmi, questa religione sociale ed umana la
si adatterà alle varie situazioni nazionali, cosa della quale si occuperanno le
autorità civili, bandendone i pochi e semplici principi nella “religione
civile” [53]. La “religione civile” descritta
nel Contrat sarà perciò “nazionale” e nello stesso tempo
“universale” perché conterrà solamente quelle poche e chiare nozioni che la
ragione e la coscienza ci dettano intorno ad una divinità “buona” e ad un culto
“ragionevole”, senza misteri, semplice, patriottico, alla portata di tutti gli
uomini[54]. Questa religione universale è la “Religione
umana e sociale” che l’uomo in società sarà “obbligato a riconoscere” [55] nello Stato secondo ragione, nato dal patto
sociale. Ma sin da ora si può affermare che i culti storicamente esistenti,
quelli delle religioni particolari, “sono tutti buoni, se sono ammessi dalle
leggi, e se vi si trova la Religione essenziale; sono cattivi quando
quest’ultima vi manca” [56]. Tutte le religioni
esistenti sono dunque “buone”, se vi si trova la “religione essenziale” (il
“perfetto teismo”), che è quella stabilita dalla Ragione, non dalla Rivelazione
e che costituirà il contenuto della “religione civile” nello Stato futuro.
Devono essere poi culti riconosciuti dal potere civile, dalle leggi. Perciò,
per salvarsi, basta che il loro culto sia osservato con il “cuore”, con “buona
fede”: “je crois qu’un homme de bien, dans quelque religion qu’il vive de bonne
foi, peut être sauvé” [57]. Abbiamo visto che per
il Vicario, il concetto della salvezza non sembra del tutto chiaro, dato che
egli afferma di non capire bene che cosa significhi il dogma della Visione
Beatifica che premierà in eterno i giusti. Tuttavia, replicando all’arcivescovo
di Parigi ed in generale ai devoti, Rousseau non può non servirsene ed
ammettere formalmente l’esistenza di un giudizio finale dopo la morte. Affermò
quindi, in modo ancora più netto, nella lettera ad un certo M. de Franquières,
gentiluomo francese, “credo che ciascuno sarà giudicato non per ciò che ha
creduto ma per ciò che ha fatto e non credo affatto che alle opere occorra un
sistema di dottrine, dal momento che la coscienza ha il suo” [58].
Come ognuno può vedere, il “sistema di dottrine”
della coscienza è in sostanza il medesimo per la “religione dell’uomo”, per il
culto interiore offerto all’ente di ragione che è il Dio dei filosofi,
e per quella del “cittadino”, religione di Stato, culto esteriore imposto dalle
leggi e in apparenza così benevolo, ragionevole e tollerante.
III
La professione di fede del Vicario
Savoiardo è uno di quei testi che giustificano l’antipatia di
Nietzsche per Rousseau, che egli considerava uno spirito malato. Essa è in
effetti pervasa da un’atmosfera torbida, in bilico tra un’inclinazione al
naturalismo ed una sorta di misticismo profano, del sentimento e della
sensibilità. Il Vicario ci viene presentato come un sacerdote
che considera la propria alta missione un semplice “mestiere” e che ha peccato,
senza provare pentimento alcuno, contro il voto di castità; quindi, come
vittima perseguitata e punita a causa del celibato ecclesiastico, secondo il
Nostro istituzione estremamente ingiusta[59]. La
religione fondata esclusivamente sulla “ragione” e approvata dalla “coscienza”,
fa largo spazio, come si è visto, al “sentimento” e al “cuore”, che ci invitano
a seguire gli impulsi della natura, con l’unico limite (teorico) di non recar
danno agli altri. Il Vicario afferma, infatti, con un certo orgoglio, di aver
rispettato “le lit d’autrui” (le donne sposate) nei suoi errori di gioventù, e
di essere stato scoperto proprio per questa ragione[60].
Si nota nel suo dire il rammarico per esser stato scoperto, non il senso di
colpa per aver violato il voto di castità in modo grave. Il Vicario mostra la
psicologia ipocrita di un opportunista, quale ritroveremo in un altro tipo
letterario famoso, quello di Julien Sorel, seminarista senza
vocazione e arrampicatore sociale, in Le rouge et le noir di
Stendhal.
Siamo messi qui di fronte ad una “religione”
pervasa dagli slanci di una spiritualità narcisisticamente ripiegata su se
stessa, tutta tesa ad ascoltarsi e a giustificarsi, ad inventarsi un Dio
secondo la propria sensibilità, secondo i propri bisogni ed impulsi, per
l’appunto naturali o ritenuti tali. Nietzsche preferiva
l’esaltazione aperta degli impulsi, degli istinti, in nome di un naturalismo
senza maschera. Ci troviamo qui, con Rousseau, esattamente agli antipodi del
vero sentimento religioso. Sembra addirittura di assistere ad una sua parodia.
Il vero sentimento religioso, quale ce l’hanno mostrato secoli di
Cristianesimo, è tutto teso all’adorazione di Dio e a fare in tutto
esclusivamente la volontà del Dio vivente, sino al sacrificio di sé, per la
gloria di Dio, che ci ricompenserà nell’al di là, con la Visione Beatifica, che
dura in eterno. Esso è animato dallo zelo per Dio e per la salvezza eterna
delle anime, non da quello per l’uomo; è volto al sovrannaturale, non alla
natura.
Ma la “fede” del Vicario non esprime solo una Stimmung deistica
e preromantica limitata a Rousseau. In essa troviamo già quel connubio
ripugnante di pretesa alta spiritualità e inclinazione alla sensualità, appena
velato dalla retorica del “sentimento” e del “cuore”, che caratterizzò poi un
certo tipo di romantico e di liberale cattolici e soprattutto di modernista:
basti pensare a certe pagine di Chateaubriand e di Fogazzaro. Il Vicario è
inoltre rappresentativo di un tipo concreto di prete senza fede.
Com’è noto, già dalla seconda metà del Seicento, il deismo e l’incredulità si
erano infiltrati nel clero, soprattutto in Francia e soprattutto, ma non
esclusivamente, nell’alto clero. Unitamente al Giansenismo, che
pretendeva un culto semplificato e ammodernato, che tendeva a contestare
l’autorità del Papa e si mostrava incline al conciliarismo e alla democrazia,
queste correnti di pensiero produssero guasti la cui profondità si sarebbe
rivelata appieno solo con la Rivoluzione, allorquando una parte consistente di
vescovi e sacerdoti tradì, aderendo al nuovo ordine, spretandosi (nel numero di
ben ventiquattromila in Francia), a volte ingrossando perfino le schiere dei
persecutori più accaniti.
Nell’ambito protestante, la professione del Vicario
ebbe notevole influenza. Karl Barth, il famoso teologo,
trovava giustificata la convinzione di Russeau, secondo la quale “la teologia
del suo Vicario savoiardo avrebbe avuto un grande avvenire”. Barth la
considerava precorritrice del “razionalismo teologico” protestante, a causa
dell’identità che essa stabilisce in generale tra “ciò che è cristiano” e ciò
che è “veramente umano”, sottoponendo in questo modo la fede alle esigenze
della ragione. Inoltre, essa avrebbe anche avuto il merito di “rompere
integralmente” con il dogma del peccato originale, già attaccato da più parti,
e di considerare la Rivelazione come “uno sviluppo immanente all’umanità”, non
come fatto storico[61].
Ma ciò che più conta ai fini dello sviluppo storico
successivo è secondo noi il fatto che la religione propugnata da Rousseau è una
religione nella sua essenza politica, che vuole sostituirsi al
Cristianesimo e ad ogni altro culto. Conseguentemente, esso vuole dettare al
Cristianesimo le condizioni alle quali può essere ancora accettato nel nuovo
Stato auspicato dalla Politique rivoluzionaria, che si sente
già padrona dell’avvenire. Assistiamo qui ad una consapevole riduzione
della religione alla sfera della politica. È vero che concetti politici
fondamentali, quali la sovranità, la legge, il legislatore, e proprio in un
pensatore come Rousseau, sembrano mostrare una “politicizzazione di concetti
teologici”, onde i critici hanno potuto affermare che egli “applica al sovrano
[che è il “corpo del popolo” o meglio la “volontà generale”] l’idea che i
filosofi si fanno di Dio: egli può tutto ciò che vuole, ma non può volere il
male”, mentre il “legislatore” è inteso come autentico “creatore” dello Stato[62]. Infatti Rousseau scrive che “le Souverain, par
cela seul qu’il est, est toujours tout ce qu’il doit être” [63], cosa che si può dire con certezza, a ben vedere,
solo della Divinità, non certo di un’istituzione umana, quale che sia.
Tuttavia, non per questo la Politique deve
considerarsi “teologia” profana, capace di aver inglobato il momento religioso
nel proprio universo, sia pure deformandolo. Bisogna innanzitutto chiedersi di
quale teologia si tratti qui. Ce lo spiega lo stesso Schmitt: “l’idea del
moderno Stato di diritto si realizza con il deismo, con una teologia e una
metafisica che esclude il miracolo dal mondo e che elimina la violazione delle
leggi di natura, contenuta nel concetto di miracolo e produttiva, attraverso un
intervento diretto, di una eccezione, allo stesso modo in cui esclude
l’intervento diretto del sovrano sull’ordinamento giuridico vigente. Il
razionalismo dell’illuminismo ripudiò il caso di eccezione in ogni sua
forma” [64]. La “teologia” che la concezione dello
Stato e del diritto dell’Illuminismo secolarizza non è dunque quella cattolica,
dato che quest’ultima non esclude affatto il miracolo dal mondo. È invece
quella del “Dio dei filosofi”, di Cartesio, di Locke, dei deisti, che finisce,
come si è visto, con il divinizzare l’uomo[65]. La
teologia cattolica ha poi sempre distinto tra l’onnipotenza del legislatore
divino e le limitazioni di quello umano o civile che dir si voglia, il cui
potere deriva dal primo, ragion per cui è costretto ad osservare le norme della
legge divina e di quella naturale – delle quali è garante il Magistero della
Chiesa – sino al punto che la legge positiva che le violi deve esser
considerata “corruptio legis” e le si deve rifiutare l’obbedienza[66].
L’analogia tra teologia e politica,
implicita nella nozione di teologia politica, deve quindi esser
intesa nel suo esatto significato; in ogni caso, in modo da non occultare il
fatto essenziale: che la Politique rivoluzionaria non è
incosciente trasposizione di concetti teologici del Cattolicesimo, ma è invece
cosciente e radicale opposizione a tutta la teologia del
Cattolicesimo. A tutti i dogmi, a cominciare da quello del peccato originale;
alla sua etica, basata sull’imitazione di Cristo ovvero sull’idea del dovere e
del sacrificio, per la redenzione propria e altrui; alla sua
concezione della società, dello Stato, del diritto, della politica, fondata sul
principio di autorità e sull’idea del bene comune, concezione della quale si
nega espressamente il fondamento teologico, rappresentato dal dogma
dell’origine divina di ogni potestas terrena (Rm 13, 1–2,
cit.).
L’attacco della Politique non
investe perciò solo la teologia in senso proprio, cioè la nozione della
divinità con i suoi dogmi ma l’intera religione cattolica, alla quale viene
opposta, prima ancora che una nuova “teologia” (nuova, perché politica),
una nuova religione, quella dell’Umanità, con i suoi
dogmi, stabiliti dalla ragione. Se la teologia costituisce la struttura
dottrinale della religione rivelata, poiché il suo compito è “Dei cognitionem
tradere” [67], tuttavia la religione è ex sese
qualcosa di più ampio. E soprattutto nel Cattolicesimo, i cui dogmi e le cui
regole di condotta sono determinati dal Magistero della Chiesa non dai teologi
in quanto tali; dal Papa e dai vescovi (sulla base della Tradizione e della S.
Scrittura), i quali sono anche teologi e si servono dei teologi, ma sono più
che teologi, costituendo essi una Gerarchia che gode di quell’assistenza
dello Spirito Santo, ordinaria e straordinaria, garantita dal suo divino
fondatore al corpo mistico che è la Chiesa e in
particolare ai suoi sacerdoti.
Né a quanto detto si può opporre, crediamo,
l’osservazione che la nozione della divinità propugnata dai deisti rappresenti
una secolarizzazione della nozione della divinità elaborata dalla teologia
cattolica, onde il supposto contenuto teologico dei concetti della Politique deriverebbe
mediatamente anche da quest’ultima. Il Dio dei deisti mostra
ascendenze che rinviano ad Epicuro e agli Stoici più che a S. Tommaso. I suoi
tratti si intersecano con rimasugli della nozione cristiana della Provvidenza
ma in modo confuso perché i deisti, come si è visto, parlano di un ordine
dell’universo senza chiarire se Dio abbia effettivamente creato il mondo dal
nulla e di premi e castighi ultraterreni senza chiarire se debbano ritenersi
eterni e se ci sia un giudizio finale individuale. Inoltre, il loro Dio regna
e non governa, concetto assurdo per una divinità della quale si deve
ammettere l’onnipotenza, unitamente alla bontà. Ma tutto ciò non deve stupire.
Infatti, come potrebbe la mente umana spiegare in modo soddisfacente questi
grandi misteri con le sue sole forze, senza affidarsi alla Rivelazione? Poiché
di questo si tratta: che il Dio dei deisti è una semplice costruzione
della raison, un ente di ragione appunto, che non mostra alcuna
autentica analogia con il vero Dio (il Dio vivente, rivelatosi nel Vecchio e
nel Nuovo testamento), se non in modo accidentale, per quei tratti somiglianti
(per esempio la bontà, l’onnipotenza) che la ragione è costretta a conferirgli
e dalla natura della cosa (non si può pensare un Dio che non sia buono e che
non sia onnipotente) e dal fine che la ragione si propone, nel costruirsi
l’immagine di Dio che più le aggrada. Questi tratti, perciò, non sono desunti
dalla teologia del Dio vivente, che si fonda sulla Rivelazione, ma risultano
dallo sforzo speculativo autonomo della ragione, condotto guardando soprattutto
a se stessa, onde ciò che ne risulta è in sostanza un’immagine della divinità
che è in gran parte proiezione della raison e della coscienza
si sé dell’uomo, con tutta l’indeterminatezza che ciò implica per
l’immagine stessa. Chi può sopportare l’idea della dannazione eterna? Né la
“ragione” né il “cuore”: e difatti la elidono dalla nozione della divinità a
loro confacente, quando invece la dannazione eterna è una pena la cui esistenza
è stata dichiarata più volte da Nostro Signore Gesù Cristo, ragion per cui
appartiene alla Rivelazione e bisogna accettarla con la fede, quale infallibile
manifestazione della giustizia divina, i cui canoni eccedono in parte la nostra
facoltà di comprensione. Ma non si tratta solo di
fede. Ragionando lucidamente, si dovrà convenire che una pena eterna
è la giusta punizione per il peccatore impenitente, per coloro che
sono vissuti coscientemente nel peccato, sfidando Dio, sino alla fine dei loro
giorni.
Può stupire l’accusa di indeterminatezza
concettuale rivolta al deismo. Ma se consideriamo il pensiero di uno dei suoi
padri, John Locke, notiamo che egli sostiene solo la possibilità
(“it is not impossible”) dell’idea di una creazione dal nulla, poiché tale atto
rientrerebbe nei poteri di “an infinite being” [68].
Però il concetto dell’infinito (infinity) deriva per Locke
dall’esperienza di una realtà finita[69], ragion per
cui (ci sembra) non si sa che valore attribuirgli nel riferirlo all’idea di
Dio, del quale non possiamo avere esperienza, come quella che ci offre una
quantità misurabile. Il Dio dello Essay è un’esistenza
possibile, secondo la ragione che costruisce questa possibilità, quale ente perfettissimo
(most perfect), creatore, onnisciente, onnipotente, etc. Sono gli
attributi tradizionali di Dio, che risultano, oltre che dal sentimento
religioso, dalla dimostrazione razionale della sua esistenza, la quale fa
vedere sino a dove la ragione possa spingersi con le sue forze, per ammettere
come necessaria l’esistenza di Dio. Ma Locke non ricerca le prove
dell’esistenza di Dio bensì quelle della sua ammissibilità in quanto ente di
ragione[70]; ricerca le prove dell’idea di
Dio che si accordino con la ragione, non quelle della sua esistenza. E difatti,
afferma che la rivelazione deve esser sottoposta alla ragione, per esser
creduta: ciò che si oppone alla ragione va scartato[71].
Ma proprio per questo l’idea di Dio diventa indeterminata o indefinita, poiché
la ragione, a causa dei suoi limiti, dovrà lasciare diverse cose nel vago, a
cominciare dall’esatta nozione della creazione per finire all’ammissibilità
stessa della nozione del sovrannaturale.
Un soggetto che sostituisce alla teologia del Dio
vivente quella del Dio creato dalla propria ragione, è un soggetto che si
divinizza e si vuole mettere al posto di Dio, come legislatore del mondo umano
e come intelligenza che vuole penetrare nell’ordine della natura, nel “sistema
del mondo”, sino a carpirne i segreti. Ma in ciò non abbiamo alcuna
trasposizione di nozioni teologiche in senso proprio in quelle della nuova
visione del mondo, bensì contrapposizione frontale dell’uomo a
Dio e quindi (se vogliamo usare questo termine) di una nuova “teologia”
alla teologia in senso proprio, di S. Tommaso e della Chiesa; una “teologia”
che è politica non a causa di analogie apparenti ed esteriori con la vera
teologia, ma perché è scientemente intesa a costruire una religione fondata sul
dio dei filosofi e perciò a suo dire del tutto ragionevole, umana, sociale,
sentimentale e socievole, politica come si conviene ad un puro instrumentum
regni del secolo dei Lumi. Il dio dei filosofi, il parto del “teismo
speculativo”, che cosa ha in comune con il Dio vivente? Nulla. Non
è il Dio della Bibbia, depurato della teologia che ne ha trasmesso l’immagine
sino a noi. È invece una divinità del tutto diversa perché le
sue caratteristiche sono quelle della ragione e quindi dell’uomo, non quelle di
Dio. Perciò, la nozione della “teologia politica” va, a nostro avviso,
precisata, chiarendo innanzitutto di quale “teologia” si stia parlando. E forse
ridimensionata, a causa dell’aura di indeterminatezza che la pervade,
nonostante i molteplici spunti che essa ancora offre alla riflessione. Essa
può, tra l’altro, ingenerare l’equivoco che sia necessario applicarsi a
depurare le dottrine della politica dalla teologia che vi aliterebbe dentro per
giungere ad una loro nozione vera o autentica. Ma la Weltanschauung politicizzata
dell’uomo moderno e contemporaneo si è già depurata da se stessa poiché
è in sé radicalmente e consapevolmente avversa all’autentica teologia.
Per ciò che riguarda la nozione del diritto e dello
Stato della Politique, va poi ricordato, da ultimo, che il
mito dell’onnipotenza del legislatore, più che da un’intrusione di
categorie “teologiche”, scaturisce dalla logica interna della nuova concezione
dello Stato e del diritto (imposta anche da esigenze obiettive di carattere
politico, economico, giuridico, militare, che avevano già orientato da molto
tempo l’opera della Monarchia francese nella direzione accentratrice assunta
subito dalla Rivoluzione); Stato che si vuole costruire integralmente sulla
ragione, senza curarsi della storia e quindi della forma storicamente concreta
della società. Scaturisce tale “mito” anche dalla nozione della volontà
generale, concepita quale fondamento unitario dello Stato. L’uomo – si
ricorderà – deve essere “reso uno” con le istituzioni, con lo Stato. Questa
unità è già data dalla sua appartenenza al “corpo del popolo”, sovrano, la cui
volontà, coincidendo per definizione la sua scelta con il bene comune, è una
volontà che vuole sempre se stessa, in tutto ciò che delibera. Una simile
volontà, che non può errare, si manifesta necessariamente in una norma, la
legge, che mostra gli attributi dell’onniscienza e dell’onnipotenza[72].
Ma l’unità dell’io individuale nel tutto dello
Stato, è affermata da Rousseau anche in altro modo, mediante il concetto della
n a z i o n e, nella quale l’individuo è assorbito come nel suo tutto organico
ed originario. Anche della nazione, con le sue istituzioni, i suoi usi e
costumi, le sue tradizioni, il suo carattere, la sua sopravvivenza
all’individuo, si può dire, in un certo senso, che, per il solo fatto
di essere, sia sempre ciò che deve essere. Essa contiene la norma,
allo stesso modo della volontà generale, norma non scritta. L’idea di nazione
che Rousseau elabora, e in parte rielabora, è quella di “un essere morale
superindividuale con volontà propria, coscienza propria, vita propria […] una
personalità collettiva di natura morale e superiore […] sovrana” cioè soggetta
“esclusivamente alla propria volontà, che è poi ancora la volonté
générale” [73]. La nazione, così intesa, non è
meno onnipotente del “sovrano”, del soggetto (il “corpo del popolo”) che pone
le norme secondo le quali la repubblica vive: essa si confonde con il Sovrano,
le cui pronunce devono riflettere la personalità collettiva della nazione.
Nemmeno qui ci troviamo di fronte ad imprestiti
dalla teologia. I tratti unitari ed eterni della nazione non sono desunti dalla
teologia ma dall’esperienza e dalla storia. Vengono rielaborati nel
conceetto della Patria, cioè dal senso di appartenenza ad un
popolo, una cultura, una mentalità, ad una storia comune che si perde nelle
generazioni. Non è possibile, infatti, negare la realtà della
nazione, in quanto individualità storica concreta, e pretendere che non
esista. Questa realtà tende a sua volta a porsi come un valore
assoluto che lo Stato secondo ragione, concepito in base al principio del
contratto sociale, deve a sua volta riconoscere. Rousseau, in questo
voce isolata nella cultura progressista del suo tempo, si rendeva conto
dei mali del progresso, di come cioè lo sviluppo delle scienze e
delle arti, del benessere e del lusso, della cultura profana in generale e di
un modo di vivere raffinato, tendesse ad incidere negativamente sui costumi dei
popoli, elidendo a poco a poco le loro virtù civili e
militari. La riaffermazione o riscoperta della nazione,
della patria come valore fondante del vivere civile, con i
suoi costumi tradizionali e virtuosi, anche in antitesi al progresso
vantato dai Lumi, voleva integrare il dato storico della Patria
nella concezione interamente razionale, e in sostanza astratta del nuovo Stato
costruito sul principio contrattuale. Che l’incontro tra idea di
nazione e di Stato sia riuscito, creando un patriottismo capace di porsi in
continuità con gli usi e costumi, con la realtà anche passata del soggetto
storico popolo, ciò è comunque assai dubbio[74].
La mistica della nazione, che comincia
qui ad apparire, oltre che con l’idea dello Stato nuovo, pone il problema del
rapporto dell’idea di nazione con quelle dell’umanità, tendenti entrambe a
divergere e a negarsi. In Rousseau vi è la lotta tra la componente
illuministica del suo pensiero e quella già romantica; tra l’esigenza
rivoluzionaria della Politique di costruire uno Stato fondato
esclusivamente sulla ragione e sulla volontà, indipendente dalla religione
rivelata e dalla storia e quindi valido (si ritiene) come modello per tutta
l’umanità e quella di mantenere il carattere di ogni nazione anche nel nuovo
Stato, la tradizione specifica di ciascun popolo, che di per sé lo separa dal
tutto dell’umanità e si accorda solo in parte o assai poco con la nuova
formazione politica che si vuole imporre.
Sia il fondatore di uno Stato che il governante
devono sapere che “Il n’y a point d’etat bien constitué où l’on ne trouve des
usages qui tiennent à la forme du gouvernement et servent à la maintenir” [75]. Ma la conciliazione fra la tradizione nazionale e le
esigenze del nuovo Stato è, alla fine, attuata da Rousseau sempre in modo da
far prevalere la componente rivoluzionaria su quella legata alla tradizione. I
suoi progetti (restati manoscritti) di costituzione per la Corsica e la Polonia
mostrano chiaramente che, nelle vesti del fondatore di Stati, Rousseau muove sì
realisticamente dai costumi e dalle istituzioni vigenti, ma per indirizzarli
verso la forma statale che sia la più vicina possibile a quella delineata
nel Contrat Social. E in questi scritti mostra una
notevole sensibilità per i problemi costituzionali e di governo, da lui
impostati secondo le esigenze dello Stato moderno (rapporto tra sovranità e
governo, teoria del governo, dipendenza di governanti e funzionari unicamente
dalla volontà generale ossia dalla legge, eliminazione del carattere privato
delle cariche pubbliche, residuo dell’antica costituzione
feudale...). Ma la nazione è costituita per lui dagli usi e
costumi e soprattutto dall’opinion, dal sentimento della Patria che
tutto deve pervadere, assai più che dalla realtà c.d. “organica”,
caratteristica dell’Europa cristiana, rappresentata dai ceti e dai corpi
intermedi, dalle “società parziali” (come le chiamava), storicamente connesse
alla Chiesa-istituzione; realtà che egli cerca, per quanto possibile, o di
eliminare o di ridurre al minimo perché sentite come un grave impaccio per la
nuova forma politica, richiedente l’assenza di effettive realtà intermedie tra l’individuo
e la volontà generale[76]: uno spazio vuoto,
che l’homo oeconomicus della borghesia in ascesa stava però già
riempiendo
IV
Bisogna quindi guardarsi, in generale,
dall’equivoco di ritener possibile, a causa della supposta derivazione di concetti
da essa, un accordo tra i concetti della Politique rivoluzionaria
– tuttora per molti aspetti dominanti – e la religione cattolica. Questi sono
stati e sono l’illusione e l’equivoco di liberali, modernisti e neo-modernisti.
Sia la “religione dell’uomo” che quella “del cittadino”, imposta dallo Stato,
negano a priori la Rivelazione e le si contrappongono in nome del deismo e dei
diritti dell’uomo. Ci troviamo di fronte ad una antitesi senza sfumature, volta
al dissolvimento e alla distruzione dell’avversario. A noi sembra erronea
l’opinione ricorrente fra i cattolici, secondo la quale i principi della
Rivoluzione Francese sarebbero stati l’”esplicamento di idee del Cristianesimo
che aspettavano l’esplicamento e che non furono subito riconosciute come tali
all’atto dell’esplicamento” [77]. Le parole
d’ordine della triade “libertà, fraternità, uguaglianza”, così care alla
Liberomuratoria, se fossero cristiane, si dovrebbero poter ridurre al principio
che ci comanda di amare il prossimo come noi stessi. Ma l’imperativo evangelico
ci ordina di amare il prossimo p e r a m o r di Dio perché il
prossimo è come noi vulnerato ed indebolito dal peccato originale e non può
meritare di essere amato di per sé. Noi lo amiamo perché Dio lo
vuole, perché siamo tutti peccatori e bisognosi di misericordia. Invece l’amore
del prossimo che si ricava dai canoni della Politique, è fondato
sull’idea della dignità dell’uomo, che si ritiene buono per natura,
mondo dall’eredità del peccato originale. Questa dignità sarebbe tale da
esigere il nostro amore fraterno e quindi il riconoscimento dei principi
racchiusi nella suddetta triade quali diritti innati all’uomo, diritti umani.
L’amor del prossimo laico è solo una forma del culto dell’Uomo celebrato ora al
posto di quello dovuto al vero Dio ed è nella sua essenza anticristiano.
Il Cristianesimo, nel sistema della Politique,
può sopravvivere solo nella forma di un culto interno, privato,
del tipo di quello praticato dai Protestanti ma interpretato deisticamente e
quindi razionalisticamente, in sostanza stravolto. Si tratta di un culto
puramente intellettuale, ammorbato dalla mistica della sensibilità. Spiega
infatti il Vicario: “mi esercito nelle speculazioni più sublimi. Medito
sull’ordine dell’universo, non per spiegarlo con dei sistemi vani, ma per
ammirarlo senza posa, per adorare il saggio artefice (auteur) che vi si
fa sentire. Parlo con lui, compenetro tutte le mie facoltà della sua divina
essenza; mi intenerisco di fronte alle sue opere buone, lo benedico per i suoi
doni, ma non lo prego. Che cosa dovrei chiedergli? Che cambiasse per me il
corso degli eventi, che facesse dei miracoli in mio favore? […] dovrei volere
che l’ordine fosse stravolto per me?” [78].
Il rifiuto (quasi blasfemo) della preghiera, delle
pratiche plurisecolari della devozione privata tipiche del Cattolicesimo,
spontaneo prodotto della fede e fondate sulla Tradizione della Chiesa,
dimostra ad abundantiam la ripulsa del Cattolicesimo, la sua
esclusione anche dalla “religione dell’uomo”. La religione deistica e politica
“del cittadino” non conserva in realtà nulla del Cristianesimo, se non, come si
è detto, la vaga assonanza con l’idea dell’esistenza di una divinità provvida e
benefica. Troppo poco, in verità, per vedervi una qualsiasi trasposizione di
concetti della vera teologia.
Quanto diciamo, è comprovato dallo svolgimento
della Rivoluzione Francese. Sappiamo che Robespierre detestava gli atei
(“l’ateismo – disse – è dell’aristocrazia”), rappresentati alla Convenzione
soprattutto da Hébert e dai suoi seguaci. Costoro incrudelivano come potevano
contro il Cattolicesimo superstite e imbastardito, quello “costituzionale”,
incorporato alla “religione civile”. Robespierre intervenne più volte per
mitigare o annullare certe misure, per difendere le manifestazioni religiose
ammesse, per impedire che si smettesse di pagare lo stipendio ai preti
costituzionali e si separassero Chiesa e Stato, felicemente uniti dalla
Rivoluzione. Secondo Aulard egli fu durante il Terrore “le
patron et le défenseur des catholiques”. Affermazione sbalorditiva ma vera e
che si spiega facilmente. Egli difese dagli attacchi degli estremisti (i cui
capi fece in tempo a far ghigliottinare) solo i cattolici “costituzionali” cioè
il cattolicesimo trasformato in “religione civile” grazie alla “costituzione
civile del clero”. E difatti, nel discorso del 18 Fiorile dell’anno II (1793),
nel quale chiedeva l’istituzione del culto ufficiale dell’Essere Supremo, ebbe
solo parole di scherno e di disprezzo per il vero Cattolicesimo; in termini
rousseauiani, per la “religione dei preti”, che così apostrofò: “Fanatici, non
sperate nulla da noi […] preti ambiziosi, non aspettatevi che si lavori a
ristabilire il vostro dominio” [79].
La terminologia usata dai giacobini nel riferirsi
al Cattolicesimo era quella resa popolare in Francia dalla propaganda
illuminista e protestante contro di esso. Come si ricorderà, Voltaire si era
ascritto la missione di “schiacciare l’infame” (écrasez l’infâme!) ove
“l’infame” era la religione cattolica. I due sostantivi all’epoca normalmente
usati per designarla erano “superstizione” e “fanatismo”. Con il primo si
intendeva in genere riferirsi sprezzantemente all’insieme dei dogmi e delle
pratiche del culto; con il secondo, alla pretesa della religione cattolica di
essere l’unica vera, perché l’unica che si fosse mantenuta fedele alla Verità
rivelata da Cristo, difesa nei secoli nel deposito della fede, contro eretici e
scismatici, contro nemici esterni ed interni di ogni tipo. L’intolleranza della
Chiesa verso l’errore (che corrompe le anime e le manda alla dannazione eterna)
non veniva più accettata, dal momento che, avendo rinnegato il sovrannaturale,
non si voleva più credere all’esistenza dell’errore.
Ma la volontà dei giacobini, che furono i
rivoluzionari più fanatici perché più coerenti con i principi della Politique,
tesa ad estinguere la vera religione cattolica, a farla morire, mostra, tra le
altre cose, una contraddizione caratteristica della nuova visione del mondo.
Quella volontà viene giustificata in base al principio della tolleranza: la
pretesa del Cattolicesimo all’esclusività (unica vera religione rivelata da Dio
e perciò unica che salvi) non può più esser accettata, innanzitutto in
relazione agli altri culti, che devono essere a loro volta ammessi su di un
piano di parità. Durante il Terrore, a dei cattolici che erano venuti alla
Convenzione per lamentare violenze commesse contro il culto “costituzionale”,
il presidente Voulland (lo stesso che, secondo alcuni, avrebbe continuato ad
andare in segreto alla Messa per tutto il periodo del Terrore) rispose
condannando le violenze ma affermando nel contempo che, nel permettere il culto
cattolico, nella forma ammessa dalle leggi del tempo, la Convenzione non
intendeva affatto far rivivere la religione cattolica del passato. “Nel
mantenere la libertà delle coscienze […] la Convenzione impedirà che una
religione imperiosa ed esclusiva si levi ancora sulle rovine delle religioni
rivali” [80].
Qui si nota per l’appunto la contraddizione:
si proclama la “libertà delle coscienze” e nello stesso tempo la si nega perché
si impone ad esse un culto “cattolico” di gradimento (non delle coscienze, ma)
del potere civile. Inoltre, in nome della “tolleranza” verso tutti i culti si
vuole distruggere il Cattolicesimo, perché non si può tollerare la sua pretesa
di essere l’unica vera religione, pretesa che è del resto comune a tutte le
religioni. L’affermata neutralità del potere rivoluzionario
nei confronti delle religioni, che già anticipa l’atteggiamento dello Stato
liberale, non è in realtà affatto tale, dal momento che le religioni
particolari, positive sono in quanto tali considerate tutte incompatibili con
il deismo che informa i principi della Politique. Tutte le
religioni storiche non sono considerate altro che “superstizione” e “fanatismo”
e vengono tollerate per criteri di opportunità politica in senso stretto e
nella misura in cui si vuol credere a una finzione, e cioè che esse si adeguino
in qualche modo ai principi del deismo, secondo i criteri stabiliti da Rousseau
(vedi supra). Si tratta quindi di una neutralità temporanea ed
apparente, strumentale, derivante in parte dall’ideologia in parte dal realismo
politico, che consente alla religione rivelata, in particolare al
Cattolicesimo, di sopravvivere solo a patto di rinunciare ad esser se
stessa, di rinunciare a quella pretesa di esclusività che le inerisce per
natura e senza la quale scomparirebbe. E che la neutralità e la
tolleranza fossero apparenti è dimostrato, inoltre, dal fatto che la Politique si
è imposta, sin dall’inizio, con un fanatismo ben maggiore di quello da essa
rimproverato alla “religione del prete”, opponendo frontalmente il suo proprio
messianesimo politico all’attesa messianica ultraterrena di salvezza, vissuta e
predicata dalla Chiesa[81].
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[3] Amerio 1986,
23. Per il testo della bolla Exsurge Domine, Denzinger-SchönMetzer 1976,
769/1479. Nelle citazioni, ove non diversamente indicato, le parole
tra parentesi quadre sono poste da me.
[21] Tutto il paragrafo su
Spinoza l’ho sintetizzato, con qualche modifica, da P. Pasqualucci, UNAM
SANCTAM. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI
secolo, Solfanelli, Chieti, 2013, cap. XVI: La libertà religiosa
della Dichiarazione ‘Dignitatis humanae’, laico corpo estraneo nel Vaticano
II?, pp. 245-326, pp. 264-296 per i paragrafi dedicati a Spinoza,
erroneamente esaltato ancor oggi quale apostolo della genuina, rispettosa
libertà di coscienza in materia religiosa. In questi paragrafi
ritengo di aver messo bene in evidenza il carattere tendenzioso e a volte
clamorosamente errato della “esegesi” biblica di Spinoza. Il cui
richiamo mi è parso necessario per ricordare agli smemorati l’origine laica,
agnostica, rivoluzionaria e anticristiana del principio della libertà di
coscienza in religione, fatto incautamente proprio dal pastorale Concilio
Ecumenico Vaticano II.
[22] Aulard 1975,
21 L’iconoclastìa giacobina fu molto più ampia e sistematica di
quella, pur notevole, messa in atto a suo tempo dai Protestanti francesi,
durante le guerre di religione.
[24] Uzureau 1999,
6-7. Il testo in francese moderno: “Je jure de veiller
avec soin sur les fidèles qui me sont confiés, d’être fidèle à la nation, à la
loi et au roi, et de maintenir de tout mon pouvoir la Constitution décretée par
l’Assemblée et acceptée par le roi”.
[46] Ivi, 999. Queste ultime suscitarono il
compiacimento luciferino di Voltaire, per il resto suo acerrimo nemico: “Il y a
par–ci par–là de bons traits dans ce Jean–Jacques” (Rousseau 1969, 1751)
[62] Schmitt 1972,
69–70. Schmitt ricorda il concetto espresso da Rousseau, secondo il quale le
leggi devono “imiter les décrets immuables de la Divinité”, nel Discours
sur l’Economie Politique, concetto nel quale si manifesterebbe “l’ideale
della vita giuridica statale che fu assunto senz’altro dal razionalismo del
XVIII secolo” (ivi, 69)
[73] Vossler 1949,
30. Vedi anche Antoni 1968,
cap. I, Gli svizzeri e l’idea di nazione, 13–54, Chabod 1962, 43–45, 93–114. Lo
scritto fondamentale per l’idea rousseauiana della nazione è la Lettre
à Mr. D’Alembert sur les spectacles, del 1758, nella quale egli attacca
violentemente la proposta d’instaurare un teatro a Ginevra, sul modello
francese, considerato fonte di corruzione dei sani e tradizionali
costumi svizzeri. Vedi Pasqualucci 1976,
409 ss.; 1981, 73 ss.
[74] Come è noto, la
critica di Rousseau al progresso e al suo mito, fu formulata in un saggio che
all’epoca destò scandalo, rivelandolo di colpo al pubblico, e provocando
l’avversione, mai venuta meno, di Voltaire nei suoi confronti. Si
tratta del Discorso sulle scienze e sulle arti, del 1750, sua prima
opera. Vale la pena riportarne la titolazione: DISCOURS,
qui a remporté le prix à l’Academie de Dijon. En l’année
1750. Sur cette Question proposée par la meme
Académie: Si le rétablissement des Sciences et des Arts a contribué
à épurer les moeurs. Par un Citoyen de Genève (vedi: Jean- Jacques
Rousseau, Oeuvres complètes. III: Du Contrat social. Écrits politiques,
ediz. diretta da B. Gallimard e M. Raymond, nfr, Gallimard, 1964, pp. 3-30, per
il testo).
[81] Schmitt 1972,
167–208, ha messo in rilievo le ambiguità e le ipocrisie delle
“neutralizzazioni e spoliticizzazioni”