Anniversari: 4
Novembre 1918, la resa incondizionata dell’Austria-Ungheria alla fine della
battaglia di Vittorio Veneto
Quest’anno cadono cento anni dalla vittoriosa
battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre - 4 novembre), con la quale finì la I
Guerra Mondiale sul fronte italiano.
Celebriamo la ricorrenza rendendo commosso omaggio alla memoria dei
nostri valorosi soldati, il cui sacrificio provocò alla fine la scomparsa del
nostro secolare nemico, l’impero austro-ungarico, e la salvezza della ricostituita
nazione italiana unitaria, che finalmente raggiungeva i confini naturali e
strategici su tutto l’arco alpino. Morti
nient’affatto “inutili” i nostri. Se è
vero che sarebbe stato preferibile non entrare in quella tremenda guerra, dalla
quale tuttavia non era nemmeno facile star fuori, condizionata com’era la
nostra situazione geopolitica, ieri come oggi, dalla Potenza che dominava il
Mediterraneo – è pur vero, come scrisse il non-interventista Benedetto Croce,
che la guerra, dopo Caporetto, era diventata a tutti gli effetti “veramente
nostra”: si combatteva per salvare “il
nostro onore nazionale”e la nostra “dignità di italiani”, dopo quella dura
batosta. Ci fu una considerevole
mobilitazione patriottica, popolare, spontanea nel Paese, per sostenere moralmente
i combattenti e resistere all’invasore.
Si mobilitarono in massa i mutilati e gli invalidi di guerra. Ci si
aggrappava con le unghie e con i denti alle Montagne e al Fiume, in feroci
combattimenti all’arma bianca, innanzitutto per sopravvivere, per evitare la
scomparsa dell’Italia come Stato e nazione finalmente indipendente; per evitare
che quasi quattro secoli di occupazioni e dominazioni straniere, cui il
Risorgimento e l’unificazione avevano posto fine, tornassero ad essere di nuovo
una dura e umiliante realtà.
Dopo le tragiche vicende della II Guerra Mondiale, si
sono affermati in Italia partiti politici e protettorati culturali per
principio ostili all’idea della Patria: i valori patriottici furono stoltamente
coinvolti nella condanna del nazionalismo esasperato del fascismo. Veniva messo così fuori legge anche il sano
patriottismo, cui tendono per istinto tutti i popoli. Lo sviluppo della mentalità regionalistica e
particolaristica ha poi condotto alla negazione dell’idea della Patria comune e
dello Stato unitario in nome della c.d. “nazionalità spontanea” a base
regionale e antiunitaria, ideologia inizialmente favorevole all’Unione Europea,
soprattutto perché quest’ultima sembrava promettere un’Europa “delle regioni”, generosa
dispensatrice di sussidi, prebende e ricchezza.
Mentre risorgevano dall’oblìo, trovando spessore mediatico, gli odi antiitaliani
e antiunitari degli sparuti gruppetti di legittimisti di ogni ordine e grado,
dai neo-papalini ai neo-borbonici ai neo-ducali ai fissati del mito asburgico, e chi più ne
ha più ne metta.
Oggi, vige ancora da noi il sostanziale divieto di
menzionare l’ideale della Patria come valore positivo e di celebrare quel che
c’è stato di valido nel tormentato e spesso infelice passato militare della
nazione. Della Grande Guerra si vuol
ricordare sempre e solo il rovescio di Caporetto, dimenticando la tenuta contro
la c.d. “spedizione punitiva” lanciata dal Maresciallo Conrad sugli Altipiani e
la successiva conquista nostra di Gorizia (nel 1916) e come le nostre ripetute
offensive, pur dissanguandoci, avessero portato il nemico sull’orlo del
collasso, per evitare il quale l’imperatore Carlo d’Asburgo chiese l’aiuto dei
tedeschi, concretatosi nello sfondamento di Caporetto. E dimenticando che fummo ben capaci di riprenderci,
arrestando subito dopo il nemico sulle montagne e sul Piave; facendo fallire la
sua ultima grande offensiva nel giugno del 1918, dandogli infine il colpo di
grazia con lo sfondamento di Vittorio Veneto. Demmo anche un valido contributo al salvataggio
dell’esercito serbo nel 1915, alle operazioni in Albania e sul fronte macedone,
all’offensiva finale alleata in Francia.
* * *
La sconfitta di Caporetto, descritta sempre come
“disfatta” quasi il Regio Esercito fosse stato cancellato dalla faccia della
terra e non si fosse più visto all’orizzonte, fu sì molto pesante, anche sul
piano dell’immagine, ma non decisiva. Gli austro-tedeschi ci avevano distrutto
l’ala sinistra, tenuta dalle 25 divisioni della II Armata, con le sue immense
retrovie (era costituita, l’armata, da 700.000 uomini!). Con un massicio e
magistrale attacco di sorpresa, avevano
lanciato nel punto dello sfondamento (per la verità approntato a difesa
in modo approssimativo dal generale Capello, che aveva voluto mantenere uno
schieramento offensivo, privo della giusta profondità), ben 147 battaglioni, la
cui punta di diamante era formata da 7 sceltissime divisioni tedesche e 7
sceltissime austro-ungariche, con 1584 cannoni contro 49 battaglioni nostri con
561 cannoni; le quali truppe, invece che con i consueti sanguinosi e
improduttivi assalti frontali avevano attaccato in nuclei separati potentemente
armati che si infiltravano nelle nostre linee aggirandole. Piombarono rapidamente
nelle retrovie, che si diedero alla fuga gridando che la prima linea nostra
aveva ceduto senza combattere, il che non era vero, e coinvolgendo nel
disordine le retrovie più lontane, cui si mescolò quasi subito la popolazione
civile in fuga, in un gigantesco caos. Gli “sbandati” furono alla fine 400.000
ed occorsero mesi per riordinarli e rifarne unità in grado di combattere,
almeno nella difensiva.
Tuttavia, come annotò la Relazione Ufficiale
Austriaca , il Regio Esercito, “presunto in dissoluzione” dopo
Caporetto, risorse dopo soli quindici giorni, bloccando il nemico sulla linea
che andava dagli Altipiani, al Grappa, alla foce del Piave, più breve di quella
dell’Isonzo e assai meglio difendibile.
Il fatto è che le nostre forze superstiti si erano ritirate in ordine e combattendo
senza perdere la coesione: la III Armata, schierata dalla Bainsizza al mare,
con 10 divisioni pur lasciando indietro l’artiglieria pesante e i centri
logistici; la IV, scesa in discrete condizioni dal Cadore, con 7 divisioni; i
resti della II, circa 11 divisioni, ancora in buono stato. Una parte della II Armata si era battuta sino
all’annientamento tra Isonzo e Tagliamento, riuscendo a ritardare l’avanzata
nemica di quel tanto sufficiente al passaggio delle altre due Armate. Il nemico cercava di cadere sul tergo della
nostra linea scendendo dalle montagne lungo i fiumi per imbottigliarci in una
gigantesca sacca. Episodi di sbandamento
e crollo morale ci furono tra le nostre truppe ma solo nel settore entrato in
crisi, dopo lo sfondamento non prima. L’improvviso cedimento di quel tratto di
fronte ebbe cause esclusivamente militari e gli sbandamenti successivi furono
provocati anche dai comandi, tagliati fuori da ogni notizia nel primo giorno
perché la formidabile artiglieria nemica aveva reciso ogni collegamento, e
inclini a perdere la testa nel susseguente caos di ordini e contrordini nonché
a prestar ascolto alle voci più infondate, scaricando così la colpa sui soldati
della II Armata, ingiustamente accusati di viltà in un vergognoso bollettino
che fece subito il giro del mondo, rovinandoci la reputazione. La bassezza
morale dimostrata nell’occasione dall’Alto Comando italiano ne confermò i limiti,
le lacune, gli errori di impostazione ed esecuzione che contribuirono alla
crisi, tra i quali la cattiva dislocazione delle riserve, l’incapacità di
alcuni generali (in primis Pietro Badoglio) di prendere rapide e audaci
decisioni in momenti difficili.
Le divisioni franco-britanniche, che, secondo
una vulgata tanto falsa quanto ancora ampiamente diffusa, avrebbero fermato
praticamente da sole il nemico, come se il nostro esercito si fosse dissolto
(“gli italiani sono fuggiti, inglesi e francesi hanno fermato loro i tedeschi”)
entrarono in realtà in linea solo ai primi di dicembre del ’17, quando il
fronte era stato già stabilizzato da noi in durissimi combattimenti, durati per
buona parte del mese di novembre. Le
divisioni alleate, inizialmene 11 ridottesi poi a 5, rappresentarono comunque
un aiuto prezioso perché, costituendo esse l’imprescindibile riserva strategica
(200.000 uomini ben provvisti di artiglieria, anche pesante), ci permisero di
schierare in prima linea tutte le truppe
in grado di battersi.
Gli austro-tedeschi mancarono il loro obiettivo
strategico, delineatosi immediatamente dopo lo sfondamento sull’alto Isonzo: provocare il crollo militare dell’Italia e la
sua uscita di fatto dalla guerra, con grave danno dell’Intesa. Infatti, se fossimo stati travolti sul Piave
o sul Grappa, gli austro-tedeschi avrebbero sicuramente occupato tutta la
pianura padana, sino alle Alpi Occidentali, e almeno parte dell’Italia
peninsulare. Avrebbero così potuto
mettere a profitto le industrie e soprattutto l’agricoltura della fertile
pianura padana, recuperando forze ed energie di fondamentale importanza per il
prosieguo della guerra o per ottenere una vantaggiosa pace di compromesso. L’Intesa avrebbe dovuto spostare
considerevoli forze a difesa delle Alpi, dal lato francese, indebolendo
pericolosamente il fronte del Nord, che faceva fronte ai tedeschi, i quali stavano
spostando fior di unità dal fronte russo, dove l’esercito zarista era ormai in
dissoluzione, per preparare la sfondamento decisivo a Ovest, dove gli americani
erano ancora pochi.
La guerra si cominciò in realtà a vincere sul nostro
fronte prima di Vittorio Veneto, allorché l’offensiva austro-ungarica del
giugno del ’18 (battaglia del Solstizio o del Montello), lanciata in
contemporanea con le grandi ed ultime offensive tedesche in Francia, venne
nettamente respinta da noi e dai nostri alleati. Per la seconda volta gli
Altipiani, il Grappa e il Piave rappresentarono un baluardo insuperabile. Una vittoria solo difensiva, la
nostra, che ebbe tuttavia conseguenze devastanti per il nemico, già da tempo in
serie difficoltà per il blocco continentale, la penuria di viveri, uomini e
munizioni, le diserzioni, i fenomeni sempre più accentuati di disgregazione del
multietnico impero. In quella avventata offensiva,
sconsigliata dai suoi più saggi generali, l’imperatore Carlo aveva gettato le
sue ultime risorse militari, anche quelle liberatesi dopo il crollo della
Russia, sicuro di travolgere finalmente “il nostro nemico ereditario”, come ci
chiamava. Dopo il suo fallimento,
l’esercito Imperial-Regio non era più in grado di prendere l’iniziativa.
Il processo di disgregazione della
Duplice Monarchia si accelerò.
* * *
In altri articoli pubblicati su questo b l o g , per
rievocare il centenario della Grande Guerra, mi sono occupato del significato
di quella guerra sul nostro fronte, contro le deformazioni e le ignoranze del
“politicamente corretto” dominante, senza trascurare singole battaglie, come
quella del Solstizio e di Vittorio Veneto.
Rimando gli eventuali interessati a quei testi e alla bibliografia ivi
citata. Terminerò la presente, ultima
rievocazione, ricordando brevemente le circostanze che portarono alla battaglia
e le sue conseguenze.
Occupata la Serbia nel 1915, la Romania nel 1916,
fatta crollare la Russia nel 1917, data una buona legnata all’Italia e
occupatane gran parte della pianura veneta sempre nel 1917, il 1918 si presentava
sotto eccellenti prospettive per gli Imperi Centrali: Germania e
Austria-Ungheria, con alleato l’impero ottomano e la Bulgaria, entrata in
guerra per recuperare i territori che serbi e greci le avevano tolto nella
seconda guerra balcanica. Gli Imperi
Centrali occupavano in Occidente il Belgio e parte della Francia del Nord; in
Italia il Friuli e il Veneto sino al Piave; in Oriente, dopo il collasso della
Russia e l’armistizio di Brest-Litovsk, un’ aerea che andava dai paesi baltici
alla Polonia russa all’Ucraina alla Crimea.
Le pianure russe erano loro aperte, immersa la Russia nella guerra
civile. Il fronte tagliava l’Europa in
diagonale dai porti belgi al confine svizzero; dallo Stelvio alla foce del
Piave; dall’Albania meridionale sino a Salonicco. Tedeschi e austriaci
dominavano in pratica tutta l’area balcanica.
I loro alleati turchi avevano subìto dure batoste dai russi nel Caucaso
ma tuttavia ancora tenevano contro i Britannici in Palestina e in Mesopotamia
ossia nell’attuale Irak. Qui, i britannici
avevano attaccato per impadronirsi delle fonti di petrolio, subendo
inizialmente una pesante sconfitta, dalla quale si erano però ripresi.
Ma le grandi risorse agricole dei paesi subcarpatici e
dell’Ucraina al momento potevano render poco, a causa della guerra in corso. E
ferreo si manteneva il blocco navale britannico e delle marine alleate in
Atlantico e nel Mediterraneo, nonostante le gravi perdite di naviglio
mercantile inflitte dai sottomarini tedeschi.
Le popolazioni dei due imperi soffrivano seriamente la fame, la scarsità
dei beni e di materie prime, il freddo.
L’inverno del 1917 era stato eccezionalmente freddo e non solo
in Russia. A Berlino l’elettricità
veniva irrogata solo per poche ore al giorno, non c’era più riscaldamento, la gente
portava il cappotto anche in casa, rischiarava le case con le candele, quando
poteva.
Non era forse quello, nella primavera del ’18, dopo la pace di Brenno imposta alla Russia bolscevica, il momento di fare
pubbliche e generose proposte per una accettabile pace di compromesso, che
ponesse fine all’enorme macello e alla sofferenza delle popolazioni? Le proposte avrebbero dovuto essere generose:
restituire l’indipendenza al Belgio, l’Alsazia e la Lorena alla Francia, dare
il Trentino all’Italia, attuare finalmente la riforma federale dell’impero
asburgico, concedendo una certa autonomia a certe nazioni, ad esempio ai cechi,
ai croati nei confronti degli ungheresi.
In cambio, gli Imperi Centrali avrebbero avuto mano praticamente libera
a Est, dominando i Balcani e avendo la possibilità di ricacciare indietro la
Russia. Sappiamo che la diplomazia
pontificia, dietro le quinte, premeva sull’imperatore Carlo perché accettasse
le proposte segrete di pace separata fattegli dagli anglo-americani per tutto
il ’17 sino ai primi mesi del ’18, ossia
sino all’inizio delle offensive tedesche in Francia, e si convincesse a
concedere qualcosa anche all’Italia, il Trentino appunto, per eliminare un
ostacolo importante al felice esito delle trattative. Ma Carlo d’Asburgo non volle mai concedere
nulla a noi, nemmeno in base al più elementare calcolo della Ragion di Stato: per noi nutriva un invincibile odio ammantato
di disprezzo, nel miglio stile asburgico.
Ma lo Stato Maggiore Imperiale tedesco commise un
errore fondamentale, dalle enormi conseguenze, sul piano storico. I militari tedeschi esercitavano di fatto
anche il potere politico. Essi, e
soprattutto il generale Ludendorff,
capace organizzatore e stratega, ma tipico esponente del militarismo prussiano
nella sua forma più ottusa, decisero di tentare la carta della vittoria anche
sul fronte occidentale, prima che gli americani, che stavano arrivando
lentamente, avessero potuto dispiegare tutta la loro superiore potenza. Austriaci e ungheresi si accodarono, i
secondi con maggior entusiasmo dei primi.
I tedeschi scatenarono cinque grandi offensive in
Francia, nel marzo, aprile, maggio, giugno e luglio, in Piccardia, nelle
Fiandre, a Soissons, a Noyon, a Reims.
Iniziarono il 21 aprile, con tre Armate precedute da apocalittici
bombardamenti, anche a gas, le quali separarono britannici e francesi in due
tronconi. I britannici persero 22 divisioni ma i francesi, comandati dal
generale Pétain, futuro Maresciallo di Francia, riuscirono a chiudere la falla
buttandovi dentro 45 divisioni della riserva generale. Ludendorff fu fermato “per un capello”. Il 27 maggio Ludendorff riparte con 60
divisioni, sfonda di nuovo e giunge sino a 60 km. da Parigi ma Pétain riesce
ancora a fermarlo, sempre con grande fatica.
Le perdite sono enormi da ambo le parti e le riserve tedesche si vanno
esaurendo rapidamente. In questa fase, nel giugno, il Comando austriaco,
d’accordo con Ludendorff decide di attaccare in Italia, slanciandosi nella già
ricordata fallita offensiva, il cui scopo era annientare il Regio Esercito
sul campo. Intanto Ludendorff ha
continuato nelle sue offensive, facendo traballare ogni volta gli Alleati ma
senza riuscire mai a conseguire lo sfondamento strategico. La quinta e ultima scatta il 15 luglio, verso
Parigi, ma è bloccata dopo solo tre giorni e il 18 gli Alleati passano al
contrattacco. Inizia quella che verrà
chiamata Battaglia di Francia, nell’ambito della quale l’esercito
tedesco perderà l’iniziativa, che manteneva da quattro anni.
Le offensive alleate si susseguono l’8 e il 20
agosto. I tedeschi, non disponendo più
di riserve, devono indietreggiare. A
metà settembre sono sulla linea Hindenburg, sulla frontiera franco-belga del
1914. Gli Alleati gettano nella fornace forze fresche sempre maggiori,
soprattutto americane. Nella Linea
Hindenburg viene aperta una breccia il 15 settembre. L’esercito tedesco
tuttavia non perse la coesione, non fu travolto. La linea non era più continua, non c’erano
più riserve, le munizioni si dovevano razionare: eppure riusciva ancora a
tenere in scacco il superiore nemico con una eccellente “difesa strategica”,
grazie alla qualità militarmente superiore del suo corpo ufficiali. Il 14
agosto, al Quartier Generale di Spa, nel Belgio occupato, presente il Kaiser,
si decise di aprire negoziati di pace con gli Alleati sulla base dei 14 Punti
del Presidente americano Wilson, ma l’iniziativa fu presa pubblicamente solo il
3 ottobre successivo. Il 13 settembre
l’imperatore Carlo informò i tedeschi che aveva deciso di chiedere
l’armistizio, facendo di fatto finire l’alleanza tra i due imperi. La “difesa strategica” tedesca non avrebbe
potuto durare all’infinito. Si poteva
tuttavia sperare di giungere a schierarsi per gradi sui confini naturali, sul
Reno, puntando sulla stanchezza diffusa anche tra le file alleate, in modo da
poter negoziare una pace dignitosa.
Ma il crollo militare della Quadruplice Alleanza cominciò
il 26 settembre, quando la Bulgaria all’improvviso capitolò, chiedendo un
armistizio. Cos’era successo? In Grecia, costretto il Paese ad entrare in
guerra dagli Alleati, si era formata una Armata d’Oriente sotto comando
francese con truppe francesi, serbe, inglesi, greche e italiane. Il generale Franchet d’Esperey sfondò il 15
settembre la linea bulgara con il corpo franco-serbo, cogliendo l’avversario di
sorpresa in una zona montagnosa poco presidiata, mentre i britannici tenevano
impegnato il resto dei nemici. Con
l’esercito diviso in due tronconi, i bulgari, già molto provati, chiesero ed
ottennero un armistizio il 26 settembre, firmato il 29 successivo. A questi combattimenti partecipò anche il
nostro corpo di spedizione, di circa 45.000 uomini.
Il fatto era gravissimo per gli Imperi Centrali, dal
momento che né tedeschi né austriaci avevano riserve da poter opporre. L’Intesa si era aperta la via verso Budapest
e verso la stessa Vienna. Le truppe
ungheresi schierate sul nostro fronte cominciarono ad agitarsi, desiderose di
andare a difendere la loro patria minacciata alle spalle. Quasi contemporaneamente,
il 19 settembre, l’esercito britannico, con aggiunti contingenti francesi ed
arabi, sbaragliava completamente l’esercito turco in Palestina, a Megiddo,
impiegando in modo micidiale anche l’aviazione.
Il rapido inseguimento portava alla conquista di Damasco e di
Aleppo. Praticamente senza quasi più
esercito e minacciata in Tracia ancora dagli inglesi, la Turchia capitolò il 30
ottobre, quando la battaglia di Vittorio Veneto era ormai decisa.
* * *
L’esercito tedesco ormai in ritirata in Francia,
seppure ordinata; le quasi simultanee disfatte bulgare e turche; tutto ciò
faceva vedere che la situazione si stava rapidamente sbloccando in senso
irreversibilmente favorevole all’Intesa.
Il Regio Esercito avrebbe dovuto attaccare a sua volta, se non
voleva che la guerra finisse con il nemico ancora attestato sul Piave e sul
Grappa, una immane iattura per noi, che avrebbe vanificato 40 mesi di tremendi
sacrifici. Il governo italiano aveva
cominciato a premere perché prendessero l’offensiva già dal luglio
precedente. Ma Diaz e Badoglio, suo Capo
di Stato Maggiore, non ne volevano sapere.
O erano ancora sotto lo shock di Caporetto oppure non afferravano la
situazione. Si arrivò a litigi violenti con Vittorio Emanuele Orlando, capo del
governo. Alla Camera, cominciavano a
levarsi grida di indignazione per l’inazione sul Piave, si vedeva con angoscia
“planare sul paese l’ombra cupa del 1866, quando altri avevano vinto per noi”, come
scrisse Franco Bandini. Il piano di
operazioni fu siglato il 26 settembre, giorno del crollo della Bulgaria. Fu
approvato da Diaz in via definitiva solo il 12 ottobre con inizio dell’offensiva
per il 18 successivo. La stagione era
inoltrata, le piogge a dirotto, il Piave in piena. L’inizio fu spostato al 23 e
poi al 24, ad un anno esatto di distanza da Caporetto.
Nel frattempo l’imperatore Carlo, il 16 ottobre, aveva
inviato un proclama ai popoli dell’impero, invitandoli “a ricrearsi secondo le
rispettive unità nazionali” cioè a modificare l’impero secondo una nuova
costituzione, di tipo federale. Era certamente troppo tardi. Comunque, dal
punto di vista militare, l’Imperial-Regio si apprestava a ritirarsi dal
Veneto invaso per concentrarsi, con le forze austriache vere e proprie, sulle
frontiere che aveva con noi all’inizio della guerra, includenti il Trentino e
tutto l’arco alpino sino all’Isonzo, e poter in tal modo negoziare una pace
possibilmente dignitosa.
Il 23 ottobre Wilson rispose alla richiesta tedesca
andando ben oltre i suoi 14 punti: chiese la capitolazione incondizionata e
l’abdicazione del Kaiser. In tal modo,
egli contraddiceva il principio utopistico (e ipocrita, secondo i suoi numerosi
nemici) da lui stesso enfaticamente proclamato di una pace “senza vinti né
vincitori”. Di fronte a richieste del genere, ove la Realpolitik come sempre
prevaleva sulle cosiddette buone intenzione, era della massima importanza per la
Germania mantenere le sue difese strategiche sui fianchi, nella pianura padana
e in Macedonia. La seconda era crollata
ma restava ancora l’esercito austro-ungarico, l’unica istituzione che ancora
funzionasse nella Duplice Monarchia. Per
quanto mal ridotto e dimidiato era ancora in grado di mantenere per un qualche
tempo una difensiva efficace sull’arco alpino e nella Valle dell’Adige, che si
sarebbe appaiata a quella che i tedeschi progettavano di stabilire (alla fine)
sul Reno, con l'intento di riuscire a passare l’inverno, per poter negoziare una pace decente. Se l’Imperial-Regio fosse crollato sul
Piave, per la Germania sarebbe stata la fine: una disfatta austriaca avrebbe
aperto agli Alleati la via verso Monaco, verso il cuore del Paese, non
esistendo più riserve per poter fronteggiare una situazione del genere. Fu proprio quello che accadde.
Il nostro comando era riuscito, alla fine, ad
attaccare in ritardo e nel momento peggiore, quello della massima piena del
Piave. I soldati fecero egregiamente il loro dovere, le paure del
dopo-Caporetto non avevano ragion d’essere. I ponti e le passerelle furono
costruiti sotto il fuoco nemico e contro le forze della natura dal nostro
valoroso Genio Pontieri, composto in gran parte da elementi tratti dalle lagune
venete, sottoposti nei mesi precedenti a severo addestramento. La piena si
portò via ad un certo punto tutti i ponti, tranne quello costruito per il settore
inglese, dove il fiume era molto più largo e la corrente più debole, onde fu
giocoforza farvi passare anche le truppe del generale Caviglia, la cui testa di
ponte era rimasta isolata a sinistra dell’armata anglo-italiana. Ciò diede origine all’estero alla maligna
quanto falsa leggenda, secondo la quale la Battaglia di Vittorio Veneto
l’avevano vinta gli inglesi da soli, con gli italiani che si erano nascosti
dietro di loro, come dimostrava il fatto che erano passati dopo di loro sui
ponti del loro settore!
Questa fu la Terza Battaglia del Piave o di Vittorio
Veneto. Durò cinque giorni effettivi,
dal 24 al 28 ottobre, giorno nel quale l’VIII Armata italiana, comandata dal
generale Caviglia, appoggiata sulla destra dall’armata anglo-italiana del
generale Cavan e sulla sinistra da quella franco-italiana del generale còrso
Graziani (erano armate miste), sfondò il centro dello schieramento nemico,
puntando in direzione di Vittorio Veneto e dividendo in due tronconi l’Imperial-Regio,
il cui schieramento montano poteva ora esser aggirato da sud. Sul Grappa gli italiani non passarono e
subirono le consuete, ingenti perdite, nei ripetuti assalti e
contrassalti. Ci riuscirono sul Piave,
contro un nemico indubbiamente debilitato ma che si batté valorosamente sino
all’ultimo, perché contro di noi non voleva perdere sul campo, nonostante le
defezioni di diversi reparti della seconda linea, soprattutto ungheresi e
cechi, a partire dal terzo giorno della battaglia e nonostante la dissoluzione
politico-amministrativa ormai inarrestabile dell’impero.
Ma vediamo come si giunse all’armistizio del 4
novembre, un secolo fa. Solo alle 7 di
mattina del 29 ottobre, quando l’esercito era ormai in rotta sul fronte del
Piave, i Comandi austriaci presero i primi contatti con il Comando italiano,
chiedendo un armistizio. In precedenza
avevano tentato invano con gli americani, che gli avevano fatto capire di dover
trattare con noi. Persero del tempo prezioso: l’imperatore Carlo non riteneva
evidentemente opportuno trattare direttamente con i disprezzati Welschen.
Iniziarono convulsi negoziati che si conclusero con la firma dell’Armistizio a
Villa Giusti, presso Padova, il pomeriggio del 3 novembre, a valere dal
pomeriggio (dalle 15) del 4 novembre successivo. Gli austriaci speravano
giustamente di poter negoziare con noi termini onorevoli. Ma non ci riuscirono. Le condizioni di armistizio non erano decise
dal Comando Supremo italiano o dai politici italiani isolatamente: erano prese dal Consiglio di guerra
interalleato, risiedente a Parigi, in quei drammatici frangenti riunito in
seduta permanente. Fu tale Consiglio,
che ricomprendeva le alte cariche
politiche e militari dei “Quattro Grandi”, ad imporre la resa
incondizionata, poiché tale fu l’armistizio che l’Austria dovette sottoscrivere. Certo, l’Italia non si oppose. Il collasso dell’esercito austro-ungarico,
come si è detto, aprì all’Intesa la via dell’indifesa Germania meridionale.
Ludendorff scrisse poi in una lettera privata che il crollo austriaco aveva
costretto la Germania ad accettare quasi subito la resa a discrezione (l’11
novembre successivo), cosa di cui erano ben consapevoli anche i politici e i
militari alleati, anche se in pubblico, specialmente i francesi, affettavano
indifferenza per la battaglia di Vittorio Veneto, venuta troppo tardi per esser
decisiva sulle sorti della guerra, dicevano. La Battaglia di Vittorio Veneto non fu
decisiva per le sorti della guerra, ormai segnate a favore dell’Intesa. Ebbe però un peso decisivo nell’accelerarne
la fine, avendo fatto saltare completamente la difesa del fianco strategico sud
dell’impero tedesco. Ebbe dunque la
sua importanza nel quadro generale del conflitto. Gli Alleati non erano affatto
in grado di distruggere il pur debilitato (ma sempre ottimo) esercito tedesco
in poche settimane o pochi mesi e quell’esercito non si dissolse sul campo,
come quello austro-ungarico. Cominciò a dissolversi nei giorni della resa
dell’Austria, dato che nel Paese stava scoppiando la rivoluzione socialista e
bolscevica, dal 3 novembre in poi. Se
l’Austria avesse tenuto sulle sue frontiere naturali, la guerra sarebbe ancora
continuata per un po’ di tempo e forse gli Imperi Centrali sarebbero riusciti a
strappare condizioni di pace meno dure.
Tant’è vero che, come aveva detto Lloyd George, premier britannico, la
capitolazione austriaca consentiva di “imporre alla Germania termini più duri”
con minori, se non nulle, probabilità di rifiuto: di imporre quella pace vendicativa che fu poi
confezionata a Versailles, un’ingiustizia e un errore dalle nefaste
conseguenze, come si sarebbe visto presto.
Questo, dunque,
in estrema sintesi, il significato di ciò che accadde in quel fatale 4 novembre
di un secolo fa. Data indubbiamente
significativa per noi italiani e che dovrebbe esser ricordata in modo
degno. Senza retorica e senza animosità
per i nemici di un tempo ma con il giusto pathos che la ricorrenza
richiede.
Era la fine della guerra in Italia, dopo tre anni e
mezzo di tremendi sacrifici umani e materiali.
Soprattutto, era la Vittoria, conseguita con l’eroico sacrificio
di un’intera generazione. Ma non si
trattava solo della vittoria in quella guerra, fatto di per sé pur notevole per
un popolo ed uno Stato di recente e tormentata formazione come il nostro. Con quella prova, con quel sacrificio,
riscattavamo moralmente noi stessi dalle dominazioni straniere che avevano
infierito su di noi per tre secoli e mezzo.
Da quando, nelle sciagurate e crudeli Guerre d’Italia (1498-1559),
Asburgo spagnoli e austriaci, monarchi francesi, confederazione svizzera, da
noi in nessun modo provocati, avevano fatto a pezzi il sistema degli Stati
italiani indipendenti, colti ed evoluti, ma militarmente deboli e sempre divisi
tra loro, sempre pronti a ricorrere stoltamente allo straniero per risolvere le
loro reciproche beghe. Fu una grande
tragedia, che non dobbiamo dimenticare.
In quelle guerre si cominciò a costruire, come è stato detto dal Fueter,
il sistema degli Stati europei basato sulla “politica di
equilibrio” tra gli egoismi delle Potenze.
Ebbene, possiamo dire che quel “sistema” si iniziò a costruire sul cadavere
dell’Italia. Riuscì a resistere solo la
Repubblica di Venezia, spacciata alla fine del Settecento da Napoleone, dopo
una lunga decadenza. Le Guerre d’Italia le vinse su tutti la Spagna
asburgica e quando il suo dominio finalmente si allentò, dopo altre guerre, cominciò
nel Settecento la prevalenza dell’Austria asburgica, rinnovatasi nel 1815 al Congresso di Vienna, dopo
l’intervallo napoleonico, che aveva annesso all’impero francese parti consistenti
del nostro Paese, riducendo le altre a Stati suoi satelliti. L’impero austriaco,
saldamente impiantato nel Trentino e nella provincia del Lombardo-Veneto, con la
Toscana asburgo-lorenese costituente di fatto un suo feudo, mai ci volle
riconoscere il diritto ad essere non dico uno Stato indipendente suo alleato o
una federazione di Stati suoi alleati, ma nemmeno, come Lombardo-Veneto, un territorio
dignitosamente inserito nella Confederazione Germanica. I territori italiani dell’impero erano solo
province, ben amministrate e ben sfruttate.
Eravamo e dovevamo restare, per tutti, solo una espressione
geografica, “volgo disperso che nome non ha”, pascolo ubertoso per le
politiche di potenza dei grandi Stati.
La lunga sequela delle “preponderanze straniere” – come le chiamò Cesare
Balbo, che invitava invano l’Austria a continuare la sua autentica missione storica,
civile e militare, nell’Europa orientale e nei Balcani, lasciando libera
l’Italia e facendosene anzi un’alleata – fu per noi un’età di ripetuto
sfruttamento economico e militare, di sudditanze disonorevoli, di umiliazioni a
non finire.
Ci deridevano e disprezzavano perchè, nel compiere
l’Unità nazionale, avevamo “vinto con le vittorie degli altri”. Ciò accadde nel 1866, una campagna conclusa
fulmineamente a loro favore dai prussiani, senza che avessimo il tempo di
rimediare all’inizio disastroso, quando fummo battuti dagli austriaci a Custoza
e a Lissa: Bismarck ci concesse ugualmente
il Veneto, come dai patti. Anche nel
1859, senza il preponderante aiuto francese non avremmo potuto strappare la
Lombardia all’Austria. Però il nostro concorso alla vittoria lo demmo, per
quanto era nelle nostre (modeste) forze, nella battaglia decisiva, quella di
Solferino e in scontri minori. Ebbene, combattendo da pari a pari nella Grande Guerra, dando sicuramente un
contributo significativo alla vittoria degli Alleati, checché ne dicano storici
e saggisti superficiali o prevenuti, abbiamo pagato il prezzo di sangue
che il nostro riscatto esigeva.
Perché quel sangue non sia stato versato invano,
dobbiamo ora resistere con tutte le nostre forze all’ondata nichilista che
vuole travolgerci come popolo, dall’interno e dall’esterno, ammantata di
ipocrisie pseudo-umanitarie e pacifiste. E tra i valori che dobbiamo
recuperare, per resistere, il patriottismo, la fede nell’Italia patria
comune e unitaria, da difendere in tutti i modi, occupa senz’altro un posto
eminente. In questo, ci ispiri, dunque,
e ci sostenga il ricordo di questa data gloriosa, il 4 novembre, giorno della
Vittoria della Patria, finalmente tutta unita nei suoi confini naturali.
Paolo
Pasqualucci, domenica 4 novembre 2018
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