Recensione: “La fine del comunismo in Europa”. Un importante volume collettaneo
“Però la migliore fortezza che sia, è non
essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze, et il populo
ti abbi in odio, le non ti salvono” (Machiavelli, Il Principe, cap.
XX, ed. Chabod, Einaudi, Torino, 1972, pp. 107-108).
Sommario:
1. Presentazione. 2. Il comunismo come forma compiuta di
totalitarismo. 3. La rivendicazione
della libertà individuale, bandiera della Dissidenza. 4. La radice profonda del marxismo è
filosofica. 5. Il comunismo dal punto di vista della teologia della storia. 6.
Il “quadro storico-politico”dell’Urss e la dissoluzione del regime nei Paesi
satelliti. 7. Il “vivere nella menzogna”
imposto dal regime comunista e dal “politicamente”e “teologicamente corretto”.
1. Presentazione
Si potrebbe dire, parafrasando Marx ed
Engels ma in un altro senso, che, da quando il Muro
di Berlino è venuto giù nel 1989, anticipando di due anni l’implosione
dell’Unione Sovietica, primo Stato socialista della storia, uno spettro si aggira
per l’Europa: quello del comunismo. La cultura predominante, sempre
orientata in vario modo a sinistra, mi sembra non abbia fatto molto per
esorcizzarlo, questo sinistro spettro, almeno in Italia. Esorcizzarlo,
soprattutto nei suoi fondamenti teoretici, filosofici e politico-economici. Il
mimetizzarsi dell’antico partito comunista nella sinistra libertaria e
libertina protagonista della Rivoluzione Sessuale, sbandierando il pacifismo e l’umanitarismo del “politicamente corretto”,
al fine di perseguire in modo più aggiornato l’opera di demolizione dei valori
della società borghese e cattolica – di quello che ne era rimasto – non ha
certamente contribuito a far chiarezza.
Revisioni e autocritiche ci sono
state più che altro a livello individuale. In ogni caso c’è da
chiedersi quanto abbiano davvero inciso. Mondadori ha pubblicato nel 1998 in
traduzione italiana Il libro nero del Comunismo, celebre volume
collettaneo uscito in Francia nel 1996, con incisivi contributi di studiosi
francesi e dell’Europa orientale. Nel 2001 ancora Mondadori ha
pubblicato un volume collettaneo, di revisione critica, dedicato al comunismo
italiano: Sergio Bertelli – Francesco Bigazzi (a cura di), P.C.I. La
storia dimenticata, con validi contributi di studiosi italiani e
russi. Queste opere si servivano anche del materiale che era emerso
dagli archivi di Mosca, dopo la fine del regime. Il volume sul PCI è
oggi di difficile reperimento, anche sul mercato antiquario.
Alla
mancata o solo parziale revisione in profondità del comunismo come fenomeno
storico e culturale, credo abbia contribuito anche la latitanza della
cultura cattolica, sulla quale pesa tuttora la colpevole e totale assenza
di ogni analisi e condanna del marxismo e del comunismo storico (forse il
fenomeno più drammatico e più importante del pur drammatico Novecento) da parte
del pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II - assenza dovuta, come
è stato inoppugnabilmente documentato, ad un preciso disegno di velleitaria Realpolitik da
parte dei due Papi artefici e protagonisti di quel Concilio, Giovanni XXIII e
Paolo VI.
Dalla cultura cattolica è in verità venuta
certamente la più approfondita e originale critica ai fondamenti filosofici del
marxismo, protagonista Augusto Del Noce: ma si è trattato
di un pensatore rimasto sempre isolato, certamente anche a causa
dell’originalità delle sue posizioni. Nemmeno le sue profonde
analisi del fenomeno dell’ateismo contemporaneo, strettamente connesso all’affermarsi
del marxismo, hanno lasciato traccia nella cultura cattolica mainstream, che
si contenta degli sbiaditi riferimenti all’ateismo e al totalitarismo presenti
nei documenti conciliari --- eppure l’irreligiosità e l’ateismo contemporanei
non sono stati e non sono fenomeni di secondaria importanza né possono
separarsi dalle vicende del marxismo asceso al potere nella Russia del 1917,
non per la forza delle sue idee ma con un colpo di Stato militare, favorito
dalle circostanze straordinarie nelle quali si trovava quel Paese.
Ben vengano, dunque, questi due volumi, il
primo in occasione dei 25 anni dal crollo del comunismo in Europa. Essi ci offrono un’ampia e articolata
panoramica di analisi e riflessioni critiche sulla “fine del comunismo in Europa”
e sul “peso del comunismo nella storia europea del XX secolo”. Sono il
frutto di una encomiabile iniziativa di studio “multidisciplinare” sul
comunismo organizzata dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli
Studi di Teramo e tuttora in corso, concretatasi finora in due convegni internazionali
di studi, i cui contributi costituiscono rispettivamente gran parte del
contenuto dei due libri; tenutisi, i convegni, presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università degli Studi di Teramo. Con la speranza di provvedere
in seguito a quella del secondo, pubblico qui una articolata recensione al
primo.
Il volume titola: La fine del
comunismo in Europa. Regimi e dissidenze 1956-1989, a
cura di Tito Forcellese, Giovanni Franchi, Antonio Macchia, Rubbettino, 2016,
pp. 338, E. 18,00. È inserito nella Collana: “Quaderni di storia,
politica ed economia” “Cahiers d’histoire, politique, économie” Fondation Emile
Chanoux. Si adorna di una Presentazione di Paolo
Gheda, di una Introduzione dei tre curatori e di
una Postfazione di Paolo Savarese, attuale Preside della
Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo. Contiene 13
saggi, escludendo la Postfazione, uno dei quali in inglese e uno in
tedesco. La metodologia applicata è coraggiosamente innovativa,
avendo adottato una “analisi interdisciplinare, caratterizzata non solo dalla
ricerca storiografica legata all’età contemporanea, dalla storia politica e
delle relazioni internazionali, ma anche dall’uso di categorie politologiche,
di critica della cultura, e da un approccio filosofico e finanche teologico
alle ideologie”(op. cit., p. 9).
Questa è in breve la struttura
dell’opera. I primi quattro saggi riguardano l’aspetto teoretico
ossia l’interpretazione in chiave di filosofia politica del comunismo, dei
suoi fondamenti teorici e di quelli
della dissidenza. I successivi si occupano
soprattutto di singoli aspetti: dalla politica ecclesiastica dell’URSS al disgelo
e alla fine del regime; dall’agonia del regime in Ungheria alla sua crisi
finale in Polonia, Cecoslovacchia; dalla dissidenza ucraina all’opposizione organizzata
dai pastori luterani nella Repubblica Democratica Tedesca, per finire con una
breve sintesi della “storia culturale della dissidenza”. Per ovvie ragioni, esporrò con maggiore ampiezza
solo alcuni dei saggi riuniti nel volume, in particolare i primi quattro, avendo come
punto di riferimento l’eccellente Introduzione (pp. 9-21). Mi soffermerò anche sulla Postfazione del
prof. Savarese.
2. Il comunismo come
forma compiuta di totalitarismo.
Dal punto di
vista del concetto, il più importante sembra essere il primo intervento, la Critica
del totalitarismo, originale contributo dell’illustre critico
letterario e slavista Vittorio Strada, scomparso
quest’anno, in passato iscritto al PCI sino al 1980 ma senza mai rinunciare ad
una certa indipendenza di giudizio, che lo portò ad appoggiare il dissenso in
Russia, tanto da essere inviso come “revisionista” agli intellettuali del
regime. Strada ricorda come nel periodo tra le due guerre, “alcuni autori
(Fedotov, Bucharin) avevano messo in evidenza le forti affinità tra il regime
comunista e quello fascista”. Strada
segue quest’interpretazione, che si distacca dalle analisi marxiste centrate
sulla dimensione economica, e interpreta comunismo, fascismo e nazionalsocialismo
come differenti forme di “totalitarismo”.
In tal modo, come sottolinea il prof. Savarese nella Postfazione,
l’illustre critico “ha riaperto il problema dell’interpretazione storiografica
del comunismo” (p. 321). Per far ciò,
egli deve prima liberare il campo della ricerca dalle autointerpretazioni del
comunismo che attraverso la critica dello “stalinismo”si limitano a condannare
un particolare periodo del regime sovietico e assolvono, alla fine, il regime
come tale (pp. 10-11)” . E non solo il
regime, osservo, cercano di assolvere anche l’ideologia, che un despota crudele
come Stalin avrebbe “tradito”. Ma Strada è giustamente convinto “che
Stalin, con i suoi immani crimini, sia in effetti il continuatore della politica
di Lenin. Risponde sempre alla
storiografia marxista, che rifiuta il concetto di totalitarismo come residuo della
Guerra Fredda: vero è che invece è proprio
chi lo rifiuta che rimane imprigionato nella contrapposizione tra blocchi ideologici. Il totalitarsimo è per Strada una nuova forma
di potere assoluto che si differenzia sostanzialmente dal dispotismo e dalla
tirannia: esso si caratterizza per un
“progetto palingenetico” di trasformazione della società, contro ogni tipo di
riformismo. La sua origine si trova in
Marx e, nella versione utopista, in autori ancora più antichi. Strada definisce il comunismo come una forma
di “archeo modernizzazione” e giudica nel complesso l’esperienza dei regimi
comunisti come una modernizzazione fallita.
Il comunismo russo sarebbe caduto per il dissenso interno ma anche a
causa delle mai risolte tensioni etniche e nazionali dell’impero
sovietico. Tutto ciò farebbe pensare che
alla fine il riformismo di Max Weber abbia prevalso sul rivoluzionarismo di
Karl Marx, e la democrazia liberale sul totalitarismo. Ma – nota Strada – la storia non è finita e
una nuova minacciosa forma di totalitarismo nel frattempo si è affacciata sulla
scena mondiale, quella islamista, che secondo l’Autore ha profonde affinità con
l’ideologia comunista”(p. 11).
Accanto al “dissenso
interno” in parte provocato dal venir meno della fede negli ideali comunisti e
alle “tensioni” etniche e nazionali proprie di ogni formazione statale di dimensioni
e struttura imperiali, non ha contribuito alla caduta del regime anche il costo
ormai insostenibile del gigantesco apparato militare e del finanziamento dei
partiti e governi comunisti all’estero, nonché di “movimenti” e “personaggi”
legati a forme di lotta non ortodossa contro il mondo capitalista? Tutto questo multiforme apparato doveva
costare enormemente. Strada ribadisce
quella che deve ritenersi la giusta interpretazione: lo stalinismo è stato la continuazione del
marxismo-leninismo o, se si preferisce, del leninismo, visto che, del
marxismo esiste anche la variante socialdemocratica, parlamentare, quella, per
così dire, dal volto umano, che ha, per esempio in Germania, una grande
tradizione, anche culturale.
I Bolscevichi si sono sempre considerati gli eredi della
rivoluzione borghese, dei Giacobini: in base al determinismo storico professato
da Marx essi dovevano superare la rivoluzione borghese in quella comunista, che
avrebbe inevitabilmente condotto per gradi alla società senza classi e su scala
mondiale. Questa era la loro fede. Dai
Giacobini hanno mutuato la spietatezza rivoluzionaria, l’uso del terrore
sistematico e l’idea che l’avversario politico sia un nemico del popolo e dell’umanità
da distruggere in tutti i modi: tutti elementi,
questi, comunque copiosamente presenti nella tradizione rivoluzionaria russa,
che non aveva certo bisogno di cercarsi i modelli della violenza all’estero e
nelle rivoluzioni borghesi del passato. Interessante anche il riferimento di Strada
all’islam come forma di “totalitarismo”.
Mi ricorda un concetto simile espresso dall’autorevole storico tedesco Ernst
Nolte ad un convegno del 2002 a Trieste:
l’islamismo doveva esser inteso come il giacobinismo del XX secolo (una
sintesi della sua relazione apparve sul Corriere della Sera del
20.9.2002, p. 37).
Indubbiamente lo Stato comunista ha dato vita al progetto
di realizzare un “uomo nuovo”, liberatosi da ogni tutela divina e quindi da
ogni forma di religione, intento a realizzarsi nella totalità che si costruisce
da se stessa, nelle generazioni, in modo rigorosamente collettivo e sotto la
guida degli “illuminati” del partito unico. Da questo punto di vista, il comunismo ha dato
vita allo Stato “totalitario” più completo e radicale. Strada ripropone la questione, “se tutti i
regimi totalitari siano effettivamente tali.
Ciò riguarda in particolare il fascismo italiano che da alcuni studiosi
è considerato a pieno titolo totalitario e da altri semplicemente autoritario,
sia pure di un autoritarismo di nuovo tipo rispetto a quelli
tradizionali”. Il “paradosso” del
fascismo, “consiste nel fatto che esso, totalitario per autodefinizione e
programma, è stato il meno totalitario rispetto al comunismo e al
nazionalsocialismo per una serie di circostanze storiche (permanenza della
monarchia, presenza della Chiesa, sopravvivenza del padronato, limitazione
della violenza ecc.) e, pur volendo esser totalitario, non ci riuscì del tutto”(pp.
29-30).
[Il fascismo fu un regime dittatoriale
ma pseudototalitario] Approfondire
il discorso sul fascismo ci porterebbe fuori tema. Si può tuttavia aggiungere alla tesi di
Strada qualche osservazione, anche per liberare il “bieco ventennio” da una
superficiale e ingiusta assimilazione ai totalitarismi nazista e comunista. Il fascismo non fu fortemente autoritario e
dittatoriale ma poco totalitario (al di là di certe forme esteriori)
solo “per una serie di circostanze”.
Ciò dipese, a mio avviso, anche dalla sua ideologia, di tipo social-patriottico,
fondata sul culto della Nazione, mirante a superare le lotte di classe in nome
dell’interesse nazionale e a unire gli italiani con il creare un tipo di “uomo
nuovo” fondato sull’”umanesimo del lavoro” e gli ideali di sacrificio, onore,
fedeltà, dedizione alla Patria: un “uomo nuovo” in grado di superare il nefasto
culto del “particulare” radicato da secoli nella nostra mentalità (contraddisse
tutto ciò con le sciagurate leggi razziali del novembre del 1938). Sul piano sociale, con il corporativismo,
esso tentò una sintesi tra capitale e lavoro, per così dire; un esperimento
sociale che non riuscì nel suo intento e tuttavia suscitò un ampio interesse anche
all’estero, nella prima metà degli anni Trenta. Al contrario degli altri due regimi
totalitari, ebbe rispetto per la religione, risolse la grave Questione Romana,
ristabilì il prestigio della Chiesa cattolica e ne difese ufficialmente i valori.
Tra le caratteristiche del regime
fascista, Strada menziona anche la “sopravvivenza del padronato, la limitazione
della violenza, etc.”. Sono rilievi
obiettivi, che si possono anche rendere più espliciti, se non altro per
rispetto della verità storica. Ad
esempio: il Codice Civile del
1942 fu un ottimo codice per quei tempi.
Tutelava l’iniziativa privata e la proprietà privata ma inserendole in
un’ottica più sociale, di impresa, e introducendo una maggior tutela del
lavoro. Vi fecero valere i loro punti di
vista Filippo Vassalli e Piero Calamandrei, esimi giuristi, che non erano
(ancora) apertamente antifascisti, pur essendo note le loro tendenze
liberali. Non c’era libertà di parola
però un cauto atteggiamento critico, come quello de La Critica di
Benedetto Croce, era tollerato. Per Croce, Mussolini ebbe sempre il massimo
rispetto. Per quanto riguarda la “limitazione
della violenza”, guardiamo ad un’istituzione singolare e indubbiamente odiosa
come il Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, tribunale
espressamente politico che rispondeva direttamente al Duce, composto da
funzionari del Partito Nazionale Fascista e, in misura minore, da normali magistrati
ivi distaccati. Da non confondere con la
magistratura ordinaria, che mantenne sempre una certa indipendenza.
Entrato in funzione nel febbraio del 1927,
dopo che nel 1926 Mussolini era sfuggito a ben tre tentativi di ucciderlo, doveva
durare solo cinque anni e invece resse sino alla caduta del regime, cioè per 16
anni e mezzo, ampliando gradualmente le sue competenze. Il “Tribunale speciale” è ancor oggi portato
ad esempio dall’antifascismo militante come simbolo del carattere “crudele e
sanguinario” del regime, frutto della malvagità di Mussolini, che voleva
consolidarsi al potere terrorizzando gli avversari . Quel tribunale perseguiva
soprattutto chi aveva attentato alla
“sacra persona del Duce” o voleva attentarvi; chi organizzava movimenti
clandestini per rovesciare il regime, compiendo anche attentati o progettandoli
(venendo così imputato di sabotaggio, banda armata, terrorismo); chi spiava;
chi tradiva. Era un tribunale militare e
si rifaceva al codice di guerra, un tribunale “rivoluzionario”. Operava con coreografica messinscena
poliziesca nei dibattimenti e soprattutto alla lettura delle sentenze. I
dibattimenti erano pubblici anche se molto brevi, e consentivano la difesa
d’ufficio ma anche di fiducia. Era escluso l’appello ma si poteva inoltrare
domanda di grazia al Duce.
I dati
aggiornati della sua attività repressiva, come risultano dal più recente saggio
ad esso dedicato, sono i seguenti. Per
il periodo 1927-1937: 6170 processi, 11.043 imputati, 7581 prosciolti, 3112
condannati, 350 in contumacia. A questi,
vanno aggiunte, secondo Mimmo Franzinelli, alcune migliaia di imputati incarcerati
per più di un anno in attesa di giudizio, successivamente prosciolti in
istruttoria o rinviati alla magistratura ordinaria.
In un discorso
del 12 marzo 1929, Mussolini così vantava l’operato del Tribunale Speciale: “Malgrado le favole spacciate a getto
continuo dall’antifascismo internazionale, tale Tribunale è stato severo, ma
giusto; lo dicono queste veridiche cifre: di 5046 imputati, ben oltre 4000 sono
stati assolti. Degli altri, ben 275 sono
stati condannati a pene inferiori a 10 anni; uno solo alla pena di morte; 230
saranno liberati entro l’anno. Confrontati
con i terrori antichi e contemporanei, quello fascista si scolora!”.
Il Tribunale
Speciale era duro specialmente con i comunisti.
Si trattava di un ingiustificato odio ideologico? L’apertura degli archivi sovietici dopo la
fine dell’Urss ha permesso di trovare le prove di come la dirigenza sovietica
del tempo (Lenin, Zinoviev, Bucharin, Trostkij), dal 1922 al 1926 nutrisse
fondate speranze di poter compiere la rivoluzione, oltre che in Germania, in
Italia, puntando su comunisti e anarchici, che dovevano esser opportunamente
organizzati da agenti infiltrati, con particolare riguardo alla formazione di
unità armate. In Francia c’erano molti
comunisti italiani. NeI 1925 il PCI era giunto ad organizzarli militarmente, in
numero da quattordici a diciottomila, soprattutto nella zona di Parigi. C’erano
uno stato maggiore, centurie, battaglioni, riunioni regolari e corsi d’addestramento
e persino una rivista. Circolava anche
l’idea di una “incursione armata in Italia”. I quadri comunisti francesi e
italiani facevano insieme con regolarità sei mesi di corsi militari a Mosca. In
Italia, nel 1925-26, “la struttura militare del partito comunista era attiva
all’interno di due associazioni di ex combattenti, in particolare ‘Italia
Libera’. Dai documenti segreti del
Comintern, si ricava che di 25.000 reduci della Grande Guerra iscritti a
‘Italia Libera’, 5000 erano comunisti.
L’ala sinistra dell’organizzazione programmava un’insurrezione e aveva
contatti nell’esercito. Anche nell’altra
associazione, chiamata ‘Ex combattenti’, si era formata una frazione comunista”(Aleksander
Kolpakidi e Jaroslav Leontiev, Il peccato originale. Antonio Gramsci e la fondazione del PCd’I, in P.C.I., La storia dimenticata, cit., pp.
25-60; pp. 48-49; 52. Gramsci era al corrente
di questa struttura militare e dei piani insurrezionali).
Dopo un periodo
di fiacca, dal 1938 il numero dei processi comincia ad aumentare, ma erano
aumentate anche le competenze del Tribunale Speciale, estesesi dal 1939 ai
reati valutari, all’accaparramento delle merci, ai reati annonari e ad altri
reati. Nel 1941, in piena guerra, i
processi furono 911, nel 1942 salirono a 2285, sino ad oltre 3000 nel primo semestre
del 1943.
Le condanne a
morte furono in totale 76, delle quali eseguite 56, le altre commutate in anni
di carcere. Si noti bene: cinquantasei in 16 anni e mezzo mentre
Stalin fece uccidere circa 700.000 persone solo nel 1937 in gran parte senza
processo (vedi infra). Le condanne a morte colpirono gli attentatori di Mussolini; una parte
degli irredentisti slavi, i quali avevano costituito organizzazioni
terroristiche e compiuto attentati, provocando anche alcuni morti e feriti; i
colpevoli di spionaggio e tradimento.
Ricordo che lo spionaggio e il tradimento (quest’ultimo, solo in tempo
di guerra) erano all’epoca puniti con la pena capitale anche nei Paesi
democratici. Nessuno fu fucilato per
reati puramente ideologici o scomparve nel nulla senza processo, alla maniera
bolscevica. Per i reati ideologici, accanto
al carcere, che appariva spesso effettivamente sproporzionato alla colpa, c’era
la condanna al confino di polizia, una pena
noiosa e fastidiosa ma tutto sommato abbastanza mite, sulla quale esiste
un’ampia letteratura, da Carlo Levi a Cesare Pavese a molti altri.
I dati sopra
citati li ho riportati dall’ultima opera dello storico antifascista Mimmo
Franzinelli, Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime
(1927-1943), Mondadori, 2017, p. 18, 104, 230-231 et passim. Il libro, più che al tribunale è dedicato
alle personalità (negative) di alcuni giudici e soprattutto alle vittime, volendo
l’autore togliere giustamente dall’oblìo
anche le difficili e a volte drammatiche vicende dei condannati oscuri,
individui isolati, poveretti spesso finiti nei guai per un improperio alla
figura del Duce o per una vile delazione.
Il libro è tuttavia scritto con lo stile e l’animus del pamphlet
antifascista più che con quello dello
storico e non offre al lettore un quadro organico dell’istituto indagato. Per esempio, riporta il totale delle domande
di grazia e la loro sorte complessiva? Apprendiamo,
comunque, che i prosciolti a volte lo erano dopo mesi di carcerazione
preventiva, situazione certamente iniqua, ma che si è riproposta, come sappiamo,
anche nell’Italia democratica. Ci furono ricorrenti amnistie, riduzioni di
pena. Le condanne più dure erano inflitte a comunisti, anarchici, socialisti,
membri del Partito d’Azione perché nemici acerrimi del regime che complottavano
attivamente contro di esso, ricorrendo se possibile anche al sabotaggio e agli
attentati, avendo le loro basi all’estero e l’appoggio dell’antifascismo
internazionale e della Russia sovietica.
Dopo diversi anni di galera, costoro (quadri
scarni ma selezionati di rivoluzionari) venivano inviati al confino di polizia,
regime assai migliore. Il Gotha dell’antifascismo, come si disse, venne ad un
certo punto concentrato alla fine degli anni Trenta nell’isola di Ventotene: 850 confinati, più di 500 i comunisti, tutti
elementi provati e selezionati che poterono così organizzarsi per le future,
imminenti lotte. Secondo Giampaolo Pansa, Bella Ciao.
Controstoria della Resistenza, Rizzoli, 2014, p. 24, le autorità fasciste
commisero un grave errore, quello di non disperdere i quadri comunisti per
l’Italia. Il vitto del confino era
piuttosto modesto. I confinati, sempre sotto il controllo della polizia,
potevano circolare per il paese, fare camminate, fare delle nuotate. A Eugenio Colorni, israelita filosofo e
matematico, caduto poi combattendo nella Resistenza, fu concesso di abitare con
la moglie “in un alloggio preso in affitto invece che nelle promiscue camerate”
della colonia, prima per un mese, poi per tre mesi (Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra: Guido
Piovene ed Eugenio Colorni, Einaudi, Torino, 1999, pp. 134-135).
Torniamo al comunismo. Strada non si nasconde che la sua fine non si
possa ridurre ad una sola causa e lasci aperti diversi interrogativi, derivanti
dalla natura ibrida di regimi come ad esempio quello cinese,
passato dal “maoismo” al “turbo capitalismo” però sotto la guida del partito
totalitario. Per tacere – aggiungo – della sopravvivenza in America Latina di
governi che si ispirano ancora al marxismo, anche se nella forma delle “ideologie
e teologie della liberazione” tipiche del movimento rivoluzionario sudamericano.
“Si può indicare una causa generale e
sostenere che la fine dell’URSS e del comunismo a essa affiliato nel mondo era
inscritta nel progetto fondatore e che, per tornare a quanto si è detto, Max
Weber ha avuto la meglio su Karl Marx:
il capitalismo si è restaurato là dove era stato spodestato con violenza
da una utopia che, secondo l’ideologia sovietica, nell’URSS era diventata
realtà. Si tratta di una restaurazione sui
generis che richiede analisi precise, estese al capitalcomunismo cinese,
dove il partito totalitario resta dominante, mentre la definizione economico-politica
delle società post-totalitarie ex sovietiche è tutt’altro che univoca e da
alcuni studiosi è definita “feudale”(p. 33).
Fa riflettere anche un’altra riflessione
di Strada, sulla Russia post-totalitaria, realtà che si presenta per certi aspetti
ancora fluida. “Centrale è la situazione
della Russia che da una democrazia formalmente autoritaria nel primo decennio
post-sovietico è diventata un autoritarismo formalmente democratico nel periodo
successivo e attualmente è caratterizzata da un nazionalismo carico di
risentimento antioccidentale e nostalgia imperial-sovietica con relativo
“culto” del leader carismatico”(p. 36).
Strada non sembra prender in considerazione il fatto che la classe
dirigente russa post-sovietica ha rimesso al posto d’onore la religione
cristiana, anche se nella versione della c.d. “ortodossia” di origine
greco-bizantina, identificatasi alla tradizione nazionale russa. L’euroasiatica
Russia di Putin è oggi l’unico Stato europeo che combatte la nefasta
rivoluzione sessuale e cerca di limitare il flagello dell’aborto, pur
consentendolo ancora le sue leggi. Ma è
anche vero che l’Ortodossia ha sempre alimentato il nazionalismo russo in senso
antioccidentale e anticattolico, dal mito di Mosca Terza Roma, agli slavofili,
ai panslavisti.
3. La rivendicazione della libertà
individuale, bandiera della Dissidenza.
La rivendicazione della libertà in nome
dei diritti civici e umani da parte di coraggiose minoranze di intellettuali e
cittadini comuni ha svolto, come è noto, un ruolo non indifferente nella crisi
finale dei regimi comunisti europei, in particolare in Cecoslovacchia. I suoi fondamenti filosofici sono
sinteticamente richiamati da Ivan Chvatík, professore di filosofia
nell’Università Carlo IV di Praga e direttore dello Jan Patočka Archiv, in una breve rievocazione critica del
pensiero di Jan Patočka, il “Socrate di Praga”, il portavoce
del famoso gruppo Carta 77 , che cominciò a contrapporre apertamente al
regime le esigenze dei diritti umani.
Nel suo intervento, Jan Patočka Spiritual Politics. Possible?, egli “affronta il tema delle radici
filosofiche del dissenso nel pensiero del fenomenologo ceco Jan Patočka, che muore [in séguito ad emorragia cerebrale, a settant’anni] dopo
una serie di estenuanti interrogatori da parte della polizia ‘nella battaglia
per la libertà’. Chvatík legge l’impegno
civile di Patočka, con il movimento Carta 77, attraverso le sue
categorie di filosofia della storia e della cultura tratteggiate nei Saggi
eretici sulla filosofia della storia (1975). Patočka concepirebbe l’opposizione nei confronti del regime comunista ceco
come una forma di upswing. Questo
atto, traducibile come “tensione” o “oscillazione verso l’alto”, rappresenta
nel pensiero del filosofo ceco il passaggio dell’uomo da un contenuto
pre-istorico – il “mondo naturale” nel quale il singolo è ancora assorbito dal
tutto sociale e dalle sue funzioni primarie – alla dimensione della storia, che
coincide con la “vita nella libertà” e con la socratica “cura dell’anima”. Rifacendosi
su questo punto soprattutto alla filosofia dell’esistenza di Nietzsche,
Heidegger e Derrida, Patočka ritiene
che un tale passaggio possa esser compiuto solamente nel momento in cui
l’essere umano mette in discussione per intero il mondo dei significati
tramandati e scopre la “notte della mancanza di significato”(night of
meaninglessness). La liberazione dal
totalitarismo comunista sarebbe dunque possibile per Patočka solo qualora si rifiutasse ogni forma di “significato totalizzante”(total
meaning) – nel quale egli fa rientrare anche la religione - : l’obiettivo ultimo sarebbe quello di
edificare una “comunità degli scossi” (shaken)”(pp. 12-13).
Comunità di coloro che vengono “scossi” nella loro
fede in una verità assoluta (quella del “significato assoluto”) e si accorgono
di dover ricorrere ad un dialogo di tipo socratico al fine di attuare la loro “cura
dell’anima” (pp. 71-72). La “cura
dell’anima” deve svolgersi all’insegna del principio della “responsabilità”, al
quale il filosofo ceco ha dedicato articolate analisi, e avere sempre di mira
il valore della libertà, che per Patočka (osservo) sembra in realtà un valore assoluto (nel suo linguaggio, un
“significato assoluto”). L’affermazione
dell’idea della libertà sembra essere alla base dell’idea di una “politica spirituale”. Infatti, lo upswing nella politica
consiste soprattutto nella “scoperta della libertà”; anzi, l’esistenza storica
è “esistenza prodotta dalla libertà per la libertà”. La libertà deve pertanto costituire il fine
proprio della politica: sia la libertà nostra che quella degli altri (p.
65).
I pericoli che minacciano la libertà
provengono dall’interno, dal nostro io, e dall’esterno, dalla polis. Per
combatterli bisogna sempre attuare nel giusto modo la “cura dell’anima”, che
consisterebbe “nel coltivare in noi ciò che possiede un potere trascendente, che
sorpassa ciò che esiste, aspirando all’oscurità dalla quale emerge ogni cosa”(p.
68). L’oscurità è quella provocata
dalla perdita del significato “totalizzante”, fatto che scuote ma è
necessario, secondo il Nostro, per poter realizzare nel miglior modo “la cura
dell’anima” e la libertà.
Non è qui il luogo per analizzare la
“filosofia della storia” originale e complessa di Jan Patočka, che ha suscitato tanti stimoli proprio a causa del suo carattere
volutamente “eretico”. Stimoli positivi
ma anche reazioni negative per certi suoi aspetti non condivisibili, quali ad
esempio la contrapposizione storia-preistoria (inclusi nella “preistoria” l’antica
Cina, l’antico Egitto e l’antico vicino Oriente!) e il significato da
attribuire alla guerra nell’ambito del processo storico. Nella sua relazione il prof. Chvatík si
chiede alla fine se la “politica spirituale” propugnata dall’illustre filosofo
sia effettivamente possibile e mi sembra si orienti per la negativa o comunque
per il dubbio. Problematico appare il concetto
della “perdita di significato” tendente a ridurre la portata o la necessità di
un significato assoluto ovvero di una verità assoluta con la quale l’uomo debba
confrontarsi.
[Logore ed infondate critiche al
cattolicesimo] Come cattolico,
osservo che in questa “perdita di significato” sarebbe coinvolta anche la
religione in generale. Il che equivarrebbe
a negare che esista una religione capace di insegnare verità su Dio e la morale,
da riconoscere come assolute perché rivelate da Dio stesso. La critica del filosofo ceco al mondo antico,
come ricostruita dal prof. Chvatík, sembra in effetti coinvolgere anche il
cristianesimo. Nel mondo antico, sia la
città greca che l’impero romano non furono capaci di mettere in atto la “cura
dell’anima” dei propri cittadini e sudditi.
Tale “cura” fu alla fine affidata alla religione, ovvero “a qualcosa che
sta a metà tra il mito e la filosofia”(p. 68).
Tale nozione di religione si applica anche al cristianesimo? Il testo non chiarisce, a mio avviso, ma
credo lo si possa supporre. In ogni
caso, Patočka critica il cristianesimo, accusandolo
di aver sempre incorporato un elemento politico, derivante dal fatto che
san Paolo si sarebbe servito della filosofia greca per elaborare le sue
dottrine mentre i dogmi sarebbero scaturiti unicamente dalla necessità di
imporre una fede come “significato assoluto” alle masse eterogenee dell’impero
romano (pp. 68-69).
Come si vede da questi pochi cenni, si
tratta di antiche (e diciamo pure logore) recriminazioni nei confronti di san
Paolo e della Chiesa, periodicamente riproposte. Ma l’accusa di aver dato un significato
politico alla religione sembra coinvolgere addirittura Gesù Cristo.
“Era tratto specifico della vittoriosa
religione cristiana nel declinante impero romano l’essersi organizzata sin
dall’inizio in modo simile allo stesso impero, formando in un certo senso uno
Stato parallelo entro lo Stato. Forse è per questo che Pilato rimprovera Gesù
per la sua pretesa di essere [considerato]
Re. Ma mentre la consapevolezza politica
dei cittadini Romani di essere parte dell’impero stava inevitabilmente
svanendo, il credo dei cristiani nella possibilità di realizzare il Regno di
Dio in terra era così forte da indurre Costantino a render legale il
cristianesimo, innanzitutto come ben accetto ausilio per mantenere ed ampliare
l’impero. Ritirandosi a Costantinopoli e
lasciando il governo di Roma de facto ai Papi cristiani, egli nei fatti diede
vita nel mondo europeo ad una situazione di diarchia - i.e., alla competizione del potere spirituale
con quello mondano. Comunque, nessuno
dei due era in grado di conseguire una completa vittoria e forse nemmeno lo voleva. La contesa verteva sempre su come spartire il
potere nel mondo. Pertanto, sin dal suo
stesso inizio, la cura cristiana dell’anima ha assunto un non insignificante
aspetto politico”(p. 69).
Impossibile non rilevare le forzature e
persino gli equivoci di siffatta ricostruzione. I capitoli 18 e 19 del Vangelo di
Giovanni ci mostrano che Pilato non ha affatto rimproverato Gesù per una
sua supposta pretesa di esser Re, dal momento che alla domanda di Pilato (“Sei
tu il Re dei Giudei?”), obbligatoria poiché era falsamente accusato di volersi
fare Re contro Cesare, aveva risposto che lui era Re ma che il suo regno non
era di questo mondo. Al contrario,
resosi conto che le accuse di incitare il popolo alla rivolta contro Roma e di
volersi fare re di Israele, erano false, Pilato voleva liberare Gesù ma ne fu
impedito dalle grida dei rappresentanti del Sinedrio, che cominciarono a
ricattarlo, minacciando di denunciarlo a Cesare, se avesse liberato il
predicatore Galileo, contro il quale loro insistevano nella falsa accusa. Pilato lasciò allora ai Sinedristi la
decisione sulla sorte di Gesù, che lui avrebbe poi ratificato ratione
officii. Pertanto: né Gesù si è mai
presentato come un Re temporale né il cristianesimo iniziale può esser
considerato addirittura “uno Stato nello Stato”. Era una religione diffusa come altre
nell’impero romano, con la sua articolata organizzazione sociale, come le
altre. Nonostante attraversasse la crisi
ariana, era una religione fortemente vitale, al contrario del decadente
paganesimo. Nel riconoscerla come “culto ammesso”(religio licita)
Costantino avrà sicuramente avuto anche un movente politico, quello di rafforzare
l’impero con l’apporto di questa nuova forza, tenuta fino a quel momento ai
margini per via delle ricorrenti persecuzioni.
Non fu poi lo spostamento della capitale a
Costantinopoli, nel 330, a creare una situazione di diarchia nel governo del
mondo di allora. Il Papa era solo il
capo di una religione tra le altre ammesse nell’impero e in campo politico non
aveva né il prestigio né la libertà d’azione che avrebbe avuto successivamente.
La “diarchia”, come dimostrano i posteriori conflitti tra Papato e Impero, non
dipendeva dal fatto che il Papa fosse rimasto da solo nella città di Roma: era
nella cosa stessa ovvero nella autonomia e nella superiorità che le due supreme
istituzioni reclamavano, l’una rispetto all’altra, pur restando tra di loro necessariamente
connesse da molteplici vincoli, interessi e dal fine, costituito dalla
salvezza delle anime, cui il potere civile doveva contribuire nel suo ambito
specifico e con i suoi mezzi, del tutto temporali.
La critica di Patočka al cristianesimo sembra riflettere la posizione di chi avversa il cattolicesimo
come “religione positiva” dandole l’etichetta di “costantiniana” e per ciò
stesso contrapponendole un cristianesimo fondato unicamente sulla coscienza
individuale, di tipo platonizzante, dedita alla “cura dell’anima”, ritenuta
evidentemente capace di orientarsi da sola, in piena libertà, sugli
insegnamenti di Cristo e quindi sui Testi Sacri, come se si trattasse di cosa
semplice e facile. Concezione errata,
ripresa da modernisti e neo-modernisti: oltre a non esser conforme ai Testi e a mancare di senso storico, apre la porta a
tutte le eresie. La rivendicazione della
libertà della coscienza individuale contro l’autorità della Chiesa
perenne, custode del Deposito della Fede, Chiesa della quale si vuol vedere
solo la dimensione temporale ingigantendone per di più certe negative caratteristiche,
nella tradizione culturale ceca ha illustri precedenti, risalenti se non erro a
Jan Hus, l’eretico precursore di Lutero. La rivendicazione della libertà individuale
contro il regime totalitario comunista, è stata più che legittima: essa ha contribuito validamente alla sua
crisi e collasso finale. Tuttavia,
bisogna guardarsi dall’accoglierne acriticamente tutti i contenuti, inaccettabili
quando includono nella loro scepsi la religione rivelata dal vero Dio, come se
la sua giusta pretesa di esser creduta
come verità assoluta (perché di origine divina) la ponesse sullo stesso
piano delle false verità di una “religione secolare”, sul tipo di quella
professata dai regimi totalitari.
4. La radice profonda del marxismo è
filosofica.
Questo importante tema è l’oggetto di un
saggio che viene così presentato: “Alla
lettura in chiave post-moderna di Chvatík del dissenso patočkiano nei confronti del regime comunista, si contrappone il saggio di
Marco Cangiotti (Le radici filosofiche del comunismo). Nel solco del suo maestro Augusto Del Noce,
Cangiotti svolge una rigorosa analisi filosofica del comunismo marxista. In Marx è presente il tema hegeliano
dell’alienazione e il problema della riconciliazione. Il filosofo di Treviri si
oppone però alla “prospettiva teologizzante “di Hegel: l’uomo è un “ente naturale” ma – a differenza
del materialismo di Feuerbach - si
autoproduce attraverso il suo lavoro, e trova la sua realizzazione nella storia
e nella società, che diventano il “nuovo principio di universalizzazione”. L’opera di Marx, in quanto centrata sulla
prassi, è radicalmente antifilosofica.
Il comunismo marxista è un sistema nel quale la ragione aspira ad essere
autosufficiente; esso rappresenta una nuova forma di gnosi (Voegelin) che nega
il sovrannaturale, l’idea di peccato originale e vuole trasformare radicalmente
il mondo (“perfettismo politico”). Il
sistema marxista si confuta però da solo:
infatti non riesce a realizzarsi nella storia, ed è quindi proprio sul
piano della prassi che trova la sua “inappellabile falsificazione”. Cangiotti nota però un fenomeno che egli
definisce come l’aspetto “opaco”della sconfitta del marxismo: dopo la caduta
dei regimi comunisti sopravvive, anzi si rafforza in Occidente il “paradigma immanentista
ed ateo”. L’Autore, citando Del Noce,
introduce alla fine del suo lavoro un problema ancora irrisolto, che riguarda
la storia politica e prima ancora culturale dell’Occidente, fino ai nostri
giorni: la sopravvivenza di una
“subordinazione teorica e spirituale dei vincitori ai vinti” (pp. 12-13).
Il
prof. Cangiotti respinge in termini netti e giustamente l’opinione di chi
ammette un “Marx caduco”, quello, per intenderci, “filosofico”; da considerare
come un Marx minore, da tralasciare in favore del suo pensiero
politico-economico, realizzatosi compiutamente ne Il Capitale. Negare l’importanza del Marx “filosofico”
significa diminuire il pensiero di Marx, rendendolo a ben vedere
incomprensibile in certi suoi fondamentali concetti, quali ad esempio la
“alienazione” o “estraneazione” dell’uomo a se stesso, intesa soprattuto come
“lavoro estraneato” del sistema capitalistico borghese. La rivalutazione del Marx “filosofico” è
stata come è noto fatta in chiave critica da Augusto Del Noce, il cui concetto
di “visione transpolitica” della storia contemporanea appare del tutto
legittimo all’Autore. La concezione “transpolitica” della storia, nelle parole dello
stesso Del Noce, è quella per la quale “per intendere la storia contemporanea
cioè quella che va dalla Prima guerra mondiale e dalla rivoluzione di ottobre a
oggi occorre dare la priorità alla causalità ideale quanto a dire al momento
filosofico-religioso” (p. 40).
Per religioso credo si debba
intendere la “religione secolare” incarnatasi nei movimenti totalitari del
secolo scorso, in particolare in quello comunista. Se tale “priorità” concessa
alla “filosofia” appare eccessiva, si deve tuttavia riflettere sul fatto che il
leninismo, come del resto lo stesso marxismo, è costruzione del tutto dottrinaria,
che elabora (in base a una filosofia dialettica e materialistica che conduce ad
un radicale determinismo storico) una concezione rigida e chiusa della
realtà sociale e dello Stato, da applicarsi rigorosamente nella prassi, una
volta preso il potere e instaurata la dittatura del proletariato ossia del
partito comunista.
La radice filosofica di Marx risale al
nucleo teoretico del suo pensiero, rivelato dai Manoscritti economico
filosofici del 1844, rimasti inediti per quasi un secolo perché pubblicati
solo nel 1932. Erano appunti di lavoro
di Marx, per così dire, buttati giù durante un suo soggiorno parigino. Secondo l’Autore, essi costituiscono “il
nucleo teoretico principale di tutta la riflessione marxiana, afferrando il
quale diventa possibile comprendere nella sua reale radicalità e nella sua
potente originalità il pensiero del pensatore di Treviri”(pp. 41-42). In questi manoscritti la parte filosofica
deve dunque ritenersi assai più importante di quella economica.
[La critica di Marx a Hegel nei
Manoscritti del ’44] Si tratta in
sostanza di “un commento critico al pensiero hegeliano”. Marx parte da Hegel per confutarlo e andare
oltre. Di Hegel accetta le categorie
della “alienazione” e del suo relativo “superamento” nella “conciliazione”
delle antitesi in essa presenti. Ma
questo “superamento” deve avvenire in modo del tutto diverso rispetto a Hegel,
deve cioè far sparire tutto ciò che Hegel ha conservato, innalzandolo a momento
dello Spirito: “morale, diritto privato, famiglia, società civile, Stato etc”
(vedi la parte finale della critica della dialettia hegeliana nei Manoscritti). E questa sparizione implica appunto la
visione utopica della società senza classi e senza proprietà privata realizzata dal comunismo, che chiuderebbe la
storia dopo la rivoluzione vittoriosa:
una prospettiva che Hegel – annoto – avrebbe respinto nel modo più
assoluto, giudicandola un’utopia priva di senso, già per il fatto di implicare
la fine della storia e quindi l’arrestarsi del movimento dello Spirito.
Secondo Marx, precisa subito l’Autore, ci
sarebbe una contraddizione in Hegel tra il metodo dialettico “e i suoi
contenuti, che invece continuerebbero a essere portatori della stessa
alienazione che si vorrebbe superare”.
Perché Hegel non supererebbe l’alienazione? Perché ne concepisce il “superamento” quale
restaurazione del momento infinito dello Spirito e quindi, detto in altri
termini, “della religione e della filosofia”(p. 43). L’alienazione del soggetto dal proprio mondo
e anche rispetto a se stesso può esser superata solo se il soggetto si
riconcilia nella coscienza con il proprio mondo, ma tale “riconciliazione” non
può aver luogo se la coscienza non si eleva ad una dimensione più alta, che è
quella del sapere di sé risultante dalla filosofia e dalla religione, intese
quale momento più alto del realizzarsi dello Spirito nel suo divenire.
Per il materialista Marx l’errore di base
consiste nel “rappresentare l’uomo per quello che non è, ossia per una
creatura, qualcuno che dipende da qualcun altro che lo ha creato, un ente
finito che deve se stesso ad un presunto ente infinito, un ente immanente totalmente
soggetto a una dimensione trascendente”.
Nella Fenomenologia dello Spirito, scrisse Marx nei Manoscritti,
di positivo c’è il fatto che “Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un
processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione
di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace
perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro” (pp.
43-44). Ma per Hegel l’uomo non è
ovviamente solo “il risultato del proprio lavoro”: è invece pensiero, spirito, autocoscienza
nella quale deve inverarsi “il risultato del proprio lavoro”; il che significa:
l’uomo deve “elevarsi dalla sua propria particolarità al punto di vista universale,
che è quello dello spirito”(p. 44).
Ma proprio per questo tale “movimento verso
il divino” è per Marx astratto:
perché “pone la verità dell’uomo fuori
dell’uomo”(p. 45), violando in tal modo – ricordo – il canone materialista
secondo il quale “essere radicali è afferrare la cosa alla radice. Ma la radice per l’uomo è l’uomo stesso”,
altro celebre dictum marxiano. A
Hegel, Marx pertanto oppone una nuova concezione dell’uomo, una nuova antropologia,
i cui princìpi sono: 1. l’uomo è un ente naturale, che può esprimersi
totalmente solo in relazione ad oggetti sensibili; 2. in quanto “ente naturale” non appartiene a
un’essenza che lo trascenda ma “esiste a se stesso come ente generico [Gattungswesen]”,
dove “generico” va inteso evidentemente nel senso di “appartenente al genere”,
al genere umano, in modo da esserne concretamente condizionato. Ma non in modo semplicemente naturale,
specifica il prof. Cangiotti, bensì attraverso la storia (p. 46). Lo storicismo di Marx, nonostante il
materialismo che lo fonda, non è naturalistico.
Scrisse egli nei Manoscritti:
“E come tutto ciò ch’è naturale deve nascere, così anche l’uomo
ha il suo atto di nascita, la storia, ch’è tuttavia da lui
consaputa, e perciò, in quanto atto di nascita con coscienza, è atto di nascita
che supera se stesso. La storia è la
vera storia naturale dell’uomo”. Da una
proposizione come questa, se ne ricava, commenta l’Autore, che “l’uomo è
l’autore, nella e attraverso la storia, di se stesso”(p. 47). Ma questo “nascere con coscienza alla storia”
non è ancora troppo hegeliano? Cessa di
esserlo, nel momento in cui Marx riduce il pensiero, e quindi la coscienza, ad
un pensare che è tale solo e sempre “a partire dalla storia e dalla
società”. E poiché la storia e la
società sono “nient’altro che il prodotto dell’azione, il pensiero non potrà
presentarsi che come azione, come prassi trasformatrice”(p. 48). Il pensiero è concepibile allora solamente
come “azione storica” e la politica diventa “il maturo esito della filosofia”. Questa è l’inedita (e singolare) filosofia di
Marx, che Del Noce ha appunto definito una “non-filosofia”, nel senso di una
filosofia che si realizza unicamente “superandosi-inverandosi nella prassi” (p.
49). È questa la “filosofia” il cui
compito consiste nel “trasformare il mondo”, della celebre 11a Tesi contro Feuerbach. Ogni metafisica è praticamente bandita,
perché considerata inutile, le sue domande non avrebbero più senso.
La penetrante
analisi del prof. Cangiotti mette bene in rilievo il debito di Marx nei confronti
di Hegel e nello stesso tempo il suo netto distacco. Per collocare in modo soddisfacente Marx nel
moto rivoluzionario del pensiero moderno, come valutare, se non in modo
positivo, la chiave di lettura inaugurata da Del Noce con la sua
interpretazione “transpolitica” della modernità? L’immanentismo moderno ha la sua radice
filosofica in Cartesio e nel suo rifiuto del principio di autorità, poiché il
razionalismo cartesiano si distacca sia dal soprannaturale che dal naturalismo
e immanenza significa, sempre per Del Noce, “razionalismo separato da
naturalismo”(p. 51). Il razionalismo
viene ad esser così inteso perché assume un’idea di ragione che non è
“semplicemente gnoseologica” ossia limitata al problema della conoscenza, da
ristrutturarsi su presupposti rigorosamente razionali, prescindendo da religione
e storia. L’idea di ragione che viene a
prevalere, intende la ragione “come connotata dal carattere di una assoluta
autoreferenzialità e perfetta autosufficienza, per cui la sua verità non
necessita dell’apporto di alcunché di estraneo; non della natura, in quanto la
ragione, attraverso la matematizzazione, è in se stessa la produttrice delle
regole della realtà; nemmeno della soprannatura, in quanto dimensione solo
ipotetica e assolutamente inverificabile con metodo scientifico. Così, il razionalismo domina la sfera naturale
ed esclude programmaticamente ogni possibile dimensione soprannaturale” (pp.
51-52). Si apre così il processo, la via
in discesa, che porta dal Dio trascendente al “divino immanente” e infine
all’ateismo, che rappresenterebbe la “piena maturazione della prospettiva
immanentistica”, nella quale si colloca, come un punto d’arrivo, il pensiero di
Marx (p. 52).
A questa pur
validissima ricostruzione delnociana, aggiungo tuttavia quella che mi sembra
una doverosa precisazione. Il galileiano
e cartesiano rifiuto del principio d’autorità in campo strettamente gnoseologico
era giustificato. In fisica non
si poteva più accettare l’autorità di Aristotele ossia la cosmologia
aristotelica e il relativo concetto del moto.
L’esperienza, grazie al cannocchiale di Galileo, dimostrava che
l’ipotesi eliocentrica era l’unica valida e che il concetto del moto di
Aristotele era del tutto insoddisfacente.
L’esperienza prima ancora che la matematica dimostrava la validità della
nuova immagine del mondo. L’esperienza
coniugata all’intelletto che ne analizzava i dati in termini
matematico-geometrici. L’errore fu, già
con il Cogito cartesiano, l’aver trasformato in razionalismo tutto
pervadente la necessaria indipendenza della ragione nell’indagare la natura con
il metodo sperimentale.
Queste,
dunque, le “radici dottrinali” del marxismo.
Tra di esse includerei anche Spinoza, della cui Ethica il giovane
Marx fece ampi estratti, senza particolari commenti, pubblicati alcuni decenni
fa in Italia. Il possibile contributo di
Spinoza alla formazione della filosofia di Marx mostrerebbe forse il permanere
di una componente panteistica e quindi “naturalistica”nello “storicismo”
marxiano, che indubbiamente possiede una motivazione chiliastica del tutto assente
in Hegel? In ogni visione del mondo che
propugna un millenarismo di tipo “carnale” non c’è un elemento
“naturalistico”? Inoltre, il determinismo
spinoziano non può aver influito sul determinismo storico professato da Marx? Queste
riflessioni non incidono, ovviamente, sulla legittimità dell’interpretazione
delnociana, la quale dimostra la necessità di stabilire di che tipo di
ateismo si tratti. Si tratta di
quell’ateismo che, oltre a negare l’esistenza di Dio, nega anche l’esistenza
del peccato originale (allo stesso modo dei deisti, osservo) poiché nega che la
realtà sia stata creata da Dio dal nulla, che l’uomo possa essere nello stesso
tempo creatura ed un essere libero, che Dio si sia incarnato in un uomo. La “condizione umana” che conosciamo è
pertanto essa sola quella “normale” e non c’è né ci deve essere “offerta di
salvezza trascendente” (p. 53). Tutti
questi aspetti dell’ateismo moderno sono ricompresi nell’opzione ateistica di
Marx, forse la più radicale, dal momento che porta a concepire la
“riconciliazione” dell’uomo con se stesso unicamente nella società, nella
politica ovvero solo nell’ambito della condizione umana, che appare ora “normale”
perché unica realtà che si crede esistere.
[Marx, uno
gnostico?] Il saggio si conclude con
un riferimento allo gnosticismo di Marx, secondo la ben nota
interpretazione di Eric Voegelin, per il quale l’immanentismo marxiano
rappresenterebbe “l’immanentizzazione dello eschaton cristiano, ossia
dell’idea cristiana di perfezione”(p. 55). La filosofia di Marx sarebbe una manifestazione
dello “spirito gnostico”(ivi). Ma di
quale gnosticismo, si chiede l’Autore, riecheggiando il problema della sua
definizione proposto a suo tempo da Del Noce, il quale ricordava la profonda
differenza tra il concetto antico e quello moderno della gnosi? La gnosi antica non era certo atea.
Essa era radicalmente pessimistica nei confronti del mondo, opera del Demiurgo
malvagio, dal quale bisognava salvare l’anima, istruendola nella sapienza della
conoscenza esoterica (la gnosi, appunto) che l’avrebbe guidata, dopo la
morte, nel lungo viaggio attraverso gli eoni per raggiungere “il Padre”. La moderna, al contrario, negando
l’aldilà giudica sì negativamente il mondo presente ma con la convinzione di
poterlo riformare radicalmente, dopo averlo distrutto. Essa non vuole fuggire dal mondo ma
trasformarlo: è mossa dall’ottimismo singolare
dei rivoluzionari, che distruggono per ricostruire ab ovo secondo il
loro preesistente modello di società.
Dove, allora, lo “gnosticismo” in Marx?
La nozione in
comune tra antico e nuovo gnosticismo sarebbe la seguente: ‘la ricerca di sottrarsi ai mali
dell’esistenza”, una comune esperienza di “smarrimento e rifiuto della realtà
come essa è data”(p. 56). Questo parallelismo
mi ha sempre lasciato perplesso. Può
esser giusto per qualche forma di socialismo utopistico, ma per il marxismo? I marxisti non rifiutano affatto la realtà
della società capitalista e borghese, dal momento che la considerano un momento
necessario del processo storico. La
accettano per “farne esplodere le contraddizioni” e “superarla” mediante la
rivoluzione proletaria, che sarà l’inizio del mondo nuovo. La violenza della rivoluzione borghese sarà
superata dalla violenza di quella proletaria, comunque inevitabile, poiché “la
violenza è la levatrice della storia”, secondo un altro celebre dictum. In Marx non ci sono concessioni
all’individualismo sentimentale, allo “smarrimento”, al “dolore” dell’uomo
moderno, non c’è nulla nel suo pensiero che rinvii ad istanze di tipo
esistenzialistico. L’uomo, lo si è
visto, è per Marx un “ente” che opera sempre condizionato dalla classe e più
ampiamente dal “genere”: esiste, pensa e
agisce come un soggetto collettivo, anche quando non ne ha coscienza. Il marxismo non vuole affatto “sottrarsi ai
mali dell’esistenza”. Li considera necessari
e vuole imporli con la forza ai propri avversari. Solo con la presa del potere da parte del
proletariato, guidato dall’avanguardia comunista, e l’abolizione della
proprietà privata dei mezzi di produzione, tali mali potranno cessare. Potranno, quindi, cessare solo nella sfera
del mito, quando l’utopia sarà diventata realtà nella (instaurata) società
senza classi. Ma tutto questo processo,
assolutamente certo per i marxisti, non ha nulla di una “fuga dal mondo”;
rivela invece l’intenzione di conquistare il mondo, di impadronirsene
con la forza, come ha fatto la borghesia, per ricostruirlo completamente dopo
averlo purificato con il ferro e il fuoco.
Più
convincente mi appare il parallelo tra gnosticismo ed esistenzialismo,
suggerito a suo tempo da Hans Jonas: nell’idea centrale all’esistenzialismo
della heideggeriana Geworfenheit,
lo stato del “trovarsi gettato” nella vita senza motivo, e nella conseguente
giustificazione dell’anomia o libertà da ogni norma oggettivamente obbligante,
professata (e praticata) da Jean-Paul Sartre, quasi reincarnazione dell’antico
gnosticismo libertino (vedi: Hans Jonas, Gnosticismo, esistenzialismo e
nichilismo, epilogo di ID., Lo Gnosticismo , tr. it di M. Riccati di
Ceva, SEI, Torino, 1973, pp. 335-355).
[L’attuale ricaduta dell’Occidente nel
sostrato libertino e materialista] Su
un ultimo importante punto di questo stimolante saggio vorrei soffermarmi: l’aspetto opaco della sconfitta del
comunismo. L’Unione Sovietica è implosa,
il “tribunale della storia” ha condannato l’esperimento comunista. Questo è un fatto che è impossibile negare. Ma, annota felicemente l’Autore, “la storia
ci sta mostrando un aspetto opaco della sconfitta in questione, aspetto che si
rivela non appena si consideri criticamente il campo dei presunti
vincitori. Il permanere in esso, e anzi
l’irrobustirsi, del paradigma immanentista e ateo, e le distorsive conseguenze
antropologiche prima che politiche che ciò comporta, ci conducono, come misura
di minima onestà intellettuale a prendere in considerazione il giudizio che,
ancora una volta Augusto Del Noce formulava in maniera anticipata già negli
anni Sessanta del secolo scorso, ossia la tesi di una ultima sostanziale
subordinazione teorica e spirituale dei vincitori rispetto al vinto. Qui si
aprirebbe però un altro discorso, per il quale il titolo appropriato potrebbe
proprio essere quello delnociano di “irreligione occidentale”, come cifra del tempo
che ci è dato da vivere”(p. 60).
Concordo pienamente. La chiave di lettura giusta è quella della
“irreligione occidentale”. Il
materialismo di Marx non si origina solo dall’immanentismo hegeliano, espellendone
il “divino”. Alle spalle, oltre a
Spinoza, ha anche tutta la tradizione dell’irreligiosità libertina e illuminista. Basta vedere come lui e Engels parlano della
famiglia, del matrimonio, dei rapporti fra i sessi. Abbandonando formalmente tutta la componente
rivoluzionario-utopistica della loro ideologia, i marxisti e i loro eredi sono
rifluiti al sostrato profondo, quello appunto del materialismo sei e
settecentesco, con la sua marcata “irreligiosità”, e non hanno trovato
difficoltà ad abbracciare strettamente e a promuovere la Rivoluzione Sessuale,
i cui variopinti coribanti uno Stalin, il cui regime era puritano in fatto di
costumi, non avrebbe esitato a far deportare o fucilare. In un certo senso, i post-marxisti sono
tornati all’origine, dopo che i partiti comunisti dei Paesi capitalisti avevano
per decenni lavorato a distruggere la morale cristiana e borghese favorendo –
grazie alla loro penetrazione (sorretta anche dai fondi moscoviti) nel mondo
della cultura – l’edonismo borghese in tutte le sue forme. E questo è potuto succedere senza contrasto
perché nel frattempo la decadenza dei valori laici e borghesi è diventata impressionante,
scivolando già per conto suo verso forme di nichilismo e perversione semplicemente
allucinanti. Di tutto questo movimento discendente “l’irreligiosità
occidentale” è un pilastro fondamentale, come ognun può vedere. E l’irreligiosità e l’edonismo sono stati favoriti del contemporaneo venir
meno del “segno di contraddizione” rappresentato dalla Chiesa cattolica e dalla
cultura cattolica, scivolate anch’esse alla fine, dopo le “riforme del Concilio”,
nella voragine della Rivoluzione Sessuale e dell’irreligiosità, come dimostrano
le dolorose ed infami vicende dei ben noti scandali a sfondo omosessuale nei
quali la Chiesa visibile è attualmente coinvolta. Il “paradigma immanentistico e ateo” non fa che irrobustirsi perché sembra nei
fatti condiviso da tutte le direzioni.
Non si tratta tanto, a mio avviso, di “subordinazione nei confronti del
vinto”. Si tratta dell’esaurirsi
catastrofico della “proposta di risoluzione” dei problemi dell’uomo
contemporaneo rappresentata, nel secondo dopoguerra, dalla Chiesa cattolica con
la sua intatta “prospettiva cristiana”, come annotava Del Noce nel suoi studi
sull’ateismo (p. 50), in alternativa a quella laica, in crisi per colpa delle
tragedie della II g.m. ma non abolita.
5. Il comunismo dal punto di vista
della teologia della storia
Strettamente connesso al precedente, sul
piano dell’interpretazione filosofica del comunismo, appare il denso saggio del
prof. Franchi, nel quale il ricco apparato di note integra e approfondisce egregiamente
il testo, ampliando ulteriormente la visuale. “Il lavoro di Giovanni Franchi (Il
comunismo: un’interpretazione in chiave di teologia della storia) analizza
l’ideologia comunista con gli strumenti della critica teologica, che ha la sua
origine nel XIX secolo nell’opera di Juan Donoso Cortés ed è proseguita nel
Novecento da autori come Alois Dempf ed Eric Voegelin. Dietro al comunismo di Marx e al mito della
sua scientificità c’è una concezione progressista del tempo che tende a
distruggere l’ordine esistente e a realizzare in terra una società perfetta;
questa teologia della storia, tutta protesa verso il futuro, già si trova nei
millenarismi degli inizi dell’età moderna, ad esempio in Thomas Müntzer, e più
indietro ancora nell’opera di Gioacchino da Fiore (XII sec.) che teorizza il
prossimo avvento di un Terzo Regno dello Spirito, dopo quello del Figlio,
dominato da un monachesimo contemplativo che sostituirà il vecchio ordine della
Chiesa e dei poteri terreni. Franchi mette
però in evidenza come una struttura millenarista della storia sia in effetti
già presente all’epoca di Cristo, e abbia la sua origine nel messianesimo
giudaico che aspetta un riscatto terreno di Israele. Il cristianesimo non è quindi all’origine
delle dottrine millenariste perché con l’incarnazione del Figlio inizia il
Regno di Dio – la pienezza dei tempi -, che prosegue con la vita nel corpo
mistico di Cristo che è la Chiesa: per questo, anche per lo studio del
comunismo è fondamentale la distinzione tra l’escatologia giudaica e l’apocalittica
cristiana. Resta aperto il problema
storico-spirituale di come sia stato possibile che in Occidente la teologia cristiana
della storia, che trova la sua sistemazione nella concezione delle due città di
s. Agostino e nella dottrina del sacrum imperium, ad un certo punto sia
regredita verso concezioni meno differenziate della società e della storia,
come il millenarismo delle ideologie politiche della modernità”(pp. 14-15).
L’Autore affronta una questione
indubbiamente essenziale: se l’ideologia comunista sia da considerarsi “una
semplice dottrina politica, economica o anche filosofica”, recepibile
soprattutto da un pubblico colto, o se essa “invece non sia qualche cosa
di più ampio e radicale, che tocca il
rapporto personale con Dio, in grado per questo di influenzare e sedurre nel
profondo ogni animo umano: una vera e
propria ‘religione politica’”(p. 73).
Non c’è dubbio che il marxismo coinvolge la religione, anche se in modo
del tutto particolare: da un lato perché la nega in modo radicale, ritenendo
addirittura inutile porsi la domanda sull’esistenza di Dio; dall’altro,
ponendosi esso stesso come una “religione politica o secolare” a causa della
componente chiliastica o messianica che lo contraddistingue. Questo secondo aspetto fu messo in particolare
evidenza da Nicolaj Berdiaev, nel suo famso saggio su Le fonti e il
significato del comunismo russo, apparso in inglese nel 1937: “Marx ha creato un autentico mito attorno al
proletariato. La missione del
proletariato diviene oggetto di fede. Il
marxismo non è solo una scienza e una politica, esso è anche una fede, anzi una
religione. Ed è lì che risiede la sua
forza”( tr. it. dal russo di L. Dal Santo, La Casa di Matriona, Milano, 1976,
p. 133).
L’Autore ricorda come il nesso tra
filosofia della rivoluzione e teologia sia stato messo in rilievo già
nell’Ottocento a partire da Juan Donoso Cortés e, in un breve scritto, da
Rosmini. Questi pensatori osservavano
che certe concezioni politiche del liberalismo e socialismo si fondavano su
“errori teologici”. Nel socialismo
Rosmini vedeva il tentativo utopistico di realizzare in questo mondo l’ideale
cristiano della perfezione, ma come “perfettismo politico”(p. 74). Le grandi analisi di
Troeltsch e Max Weber “rimettevano in gioco” la religione, dopo l’intervallo
positivista, quale fattore determinante della vita non solo spirituale ma anche
economica, se solo si pensa al classico saggio di Weber, L’etica
prostestante e lo spirito del capitalismo, del 1905. Al punto che Carl Schmitt, nell’elaborare il
concetto di “teologia politica”, si sentiva autorizzato a sostenere, nel 1922,
che “tutti i concetti pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono
concetti teologici secolarizzati”(p. 75).
Molto opportunamente il prof. Franchi ricorda in nota la critica a
Schmitt dello storico delle religioni Erik Peterson, secondo il quale “con il trinitarismo
cristiano diventa impossibile ogni analogia tra Dio e il monarca terreno”
(ivi): un concetto, questo, certamente
da approfondire.
A mio avviso, Carl Schmitt vuol provare
troppo. Ho criticato la sua impostazione, cercando di ridurne l’eccessiva
ampiezza, in un mio saggio: Politica e religione. Saggio di teologia della
storia, Pellicani editore, Roma, 2001, del quale ho pubblicato i primi
quattro capitoletti in questo blog, modificati ed ampliati (vedi articolo del
25 settembre 2018). La critica all’idea
di progresso e di modernità ha fortemente contribuito ad “una lettura in chiave
teologica dell’ideologia comunista”, continua il prof. Franchi, ricordando i
molteplici contributi che vanno dalla recezione di Dostojevskij in Occidente a
Nietzsche, a Jacob Burchardt sino a Spengler (1922). L’Autore vede uno snodo critico essenziale
nell’opera dello storico del pensiero medievale e filosofo della cultura Alois Dempf,
morto nel 1982. Cattolico e antinazista,
è stato “uno dei protagonisti del rinnovamento della cultura cattolica tedesca
nell’epoca della Repubblica di Weimar” (p. 77).
L’opus magnum di Dempf è
notoriamente Sacrum Imperium (1929).
In questo fondamentale testo, Dempf “inquadra lo sviluppo della teologia
e della filosofia medievale all’interno di una filosofia della cultura e della
società: l’esito di questo studio è, possiamo dire, la scoperta delle matrici
“pre-moderne” del “moderno”, in particolare attraverso la ricostruzione di
quelle correnti teologiche e spirituali del basso medioevo che, mettendo in
discussione i simboli del ‘sacro impero’ e dell’ordine culturale cristiano,
preludono al razionalismo, alla riforma protestante e a movimenti ancor più
radicali” (p. 78).
L’origine “teologica” della Weltanschauung
moderna sarebbe dunque nella dissoluzione della vera teologia medievale. Le correnti fondamentali della modernità “in
particolare fideismo, razionalismo, realismo politico, derivano dalla
dissoluzione della cultura cristiana medievale che – attraverso un realismo
critico – era riuscita ad armonizzare le tre grandi ‘forze della vita’,
ossia: religione, spirito e politica”
(ivi). Non quindi un’origine per
filiazione diretta ma per recezione ed elaborazione delle false dottrine emerse
dalla crisi (interna) di quelle buone, si potrebbe dire.
[Una teologia eretica della storia
all’origine del messianesimo comunista?]
Ma quali sarebbero le “matrici spirituali e culturali profonde
dell’ideologia comunista”, che emergono da tutta questa corrente di poderosi studi? Sarebbero rappresentate soprattutto della
“teologia della storia”: essa avrebbe
approntato uno schema di sviluppo triadico e millenarista della storia poi
secolarizzato dallo storicismo, quello marxista incluso.
La filosofia della storia marxista trova,
dunque, una sua “matrice” nell’avvento della prospettiva millenarista,
con la Riforma protestante, segnatamente con Thomas Müntzer, predicatore
rivoluzionario crudelmente giustiziato dai nobili dopo che le sue bande armate
di contadini, violente e sanguinarie, era state disfatte a Frankenhausen, nel
1525. Müntzer, espressione tipica dello
stravolgimento delle menti e dei grandi disordini provocati dalla ribellione
luterana, basandosi sulla sua personale interpretazione del Libro di Daniele,
dell’Apocalisse e della mistica cristiana, “profetizza l’avvento di un
prossimo regno millenario degli eletti, un’idea che avrà anche una conseguenza
politica nella storia tedesca con il movimento anabattista, la guerra dei
contadini e i tragici esperimenti collettivistici di Mühlhausen e Münster”(p.
80). Un “regno” che si poteva
evidentementre instaurare con la violenza, distruggendo i rapporti sociali
esistenti, con tutte le loro ingiustizie.
Come rilevarono alcuni studiosi, citati
dall’Autore, nel caos rivoluzionario instauratosi con la cosiddetta Riforma,
“l’interpretazione delle profezie era diventata un’arma ideologica”(ivi). E difatti, “l’escatologia poteva essere un
fattore di integrazione nella struttura culturale dominata dalla Chiesa solo
fintanto che ‘la fine del mondo rimanesse indeterminata in senso
storico-politico’(Koselleck). Ma a
partire dal 1520 [anno della condanna formale di Lutero come eretico, con la
Bolla Exurge Domine di Leone X] né la Chiesa né i politici furono più in
grado di arginare lo scontro delle divergenti letture storico-ecclesiologiche”
(pp. 80-81). Bisogna sottolineare,
osservo, che l’interpretazione “teologica” della storia profana, accettata
dalla Chiesa anche se non imposta ovviamente come dogma di fede, non era frutto
di un’imposizione: scaturiva spontaneamente da quella che era stata la
“filosofia della storia” professata dai Padri della Chiesa, sulla base di
quella che era sempre stata ritenuta l’interpretazione più corretta dei
Testi. Si trattava in sostanza della
concezione agostiniana delle Due Città, terrena e celeste, coabitanti in
dialettica tensione di conversione-rifiuto sino al giorno del ritorno o Parousìa
di Nostro Signore. In quel giorno,
Giorno del Giudizio Universale, sarebbe finita la storia del genere umano. Come si evince chiaramente dai Vangeli, tale
“giorno” deve ritenersi indeterminato, quanto al suo accadere temporale,
dato che esso, noto solo al Padre, ci aveva ammonito Gesù, sarebbe giunto
all’improvviso, “rapido come la folgore”.
Non solo, sarebbe giunto quando la fede sarebbe quasi scomparsa dalla
faccia della terra, quasi sommersa dalle forze del male o comunque, ridotta ad
un piccolo resto assediato, giusta la famosa e terribile domanda di Gesù,
riportata da Lc 18, 8: “Ma il Figlio
dell’Uomo, alla sua venuta, troverà forse la fede sopra la terra?”.
Nel libro XX del De civitate Dei,
come è noto, sant’Agostino demolisce l’errata dottrina del millenarismo, da lui
stesso anteriormente condivisa, grazie ad una acuta analisi di passi difficili
dei Testi Sacri. Egli illustra anche, in
modo convincente, quale sarebbe stata la condizione della Chiesa negli ultimi
tempi, prima dell’Avvento del Signore:
sparsa su tutta la terra ma diminuita e assediata dalle forze e dalle
arti dell’Anticristo, un soggetto collettivo.
I suoi protagonisti avrebbero sedotto le nazioni e le avrebbero
trascinate nella “aperta persecuzione” contro la Chiesa di Cristo. Tale persecuzione “si scatenerà dalle tenebrose
profondità dell’odio”(in apertam persecutionem de latebris erumpet odiorum)(Cfr.
Agost., Città di Dio, XX, XI, tr. it. e note di C. Borgogno, intr. e
revis. di A. Landi, 1973, p. 1223). Ma
con l’accavallarsi dei millenarismi, delle utopie palingenetiche a sfondo apparentemente
religioso, il senso della storia viene a mutare radicalmente.
Di questo mutamento di senso non può
tuttavia esser considerato responsabile il cristianesimo, inteso ovviamente
come dottrina ortodossa, insegnata dalla Chiesa cattolica (sino all’inizio, con
il Vaticano II, dei grandi disordini che tuttora l’affliggono - postillo) e
quindi come “filosofia della storia” sulla base di quella dottrina. Questa è la tesi fondamentale, a mio avviso
del tutto esatta, che emerge dall’intervento del prof. Franchi: se il marximo ha “matrici teologiche”, esse
non sono da ricercarsi nella teologia cattolica vera e propria: lo sfondo “teologico” del millenarismo
secolare delineato dalle grandi analisi degli specialisti, è quello di concezioni
eretiche più o meno consapevoli, a cominciare, per l’appunto da quella del
citato Müntzer. L’Autore mostra, del
resto, come essa non sia scaturita dal nulla ma da un sostrato ereticale
preesistente, messo magistralmente in luce da autori di diversa impostazione,
come Dempf, Taubes, Voegelin, Cohn, de Lubac (come studioso di Gioacchino da
Fiore), Löwith.
Dempf risale alla lotta per le investiture
tra papato e impero, lotta per la libertà della Chiesa dall’invasivo potere
imperiale, libertà come giusta autonomia non come separazione, restando fermo
il fatto che il potere spirituale, per sua natura, doveva ritenersi superiore a
quello temporale. In quest’epoca
cominciano a formarsi “teologie della storia” che esprimono la grave tensione
tra papato e impero e comincia ad apparire la ripartizione della storia nelle
tre età: del Padre, del Figlio, dello Spirito.
Comincia anche ad apparire il tema della aspirazione ad un’età nella
quale la Chiesa non sia più così “feudale e mondanizzata, dominata dall’avaritia,
autentica ‘nuova Babilonia’, ma sia invece “povera e contemplativa”; un’età che sia anche l’ultima dell’umanità,
nella quale prevalgano “lo spirito monastico e lo spiritus pietatis”(pp.
81-82).
[La visione trascendente di Gioacchino
da Fiore all’origine della “filosofia della storia” secolare] Ma la personalità che realizza il mutamento
di paradigma, “dal modello cristiano patristico e ‘agostiniano’ a quello
moderno e progressista” è, per riconoscimento unanime di tutti gli studiosi, il
monaco calabrese Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Scruta le Scritture “per penetrare la storia
futura dell’umanità”(p. 83). Egli elaborare in modo articolato lo schema delle
tre età. Secondo i criteri numerologici da lui prescelti, l’Età del Padre
sarebbe durata per 42 generazioni, ossia da Giacobbe a Gesù Cristo; l’Età del
Figlio avrebbe dovuto arrivare a san Benedetto (21 generazioni) e finire
all’anno 1260, compimento delle 42 generazioni e inizio della nuova èra,
dell’Età dello Spirito, il Terzo Regno, che sarebbe stato inaugurato da
una grande personalità, un dux novus de Babylone. La prima età si è svolta sotto il dominio
della Legge ossia dell’Antico Testamento; la seconda si sta svolgendo nel
rapporto conflittuale tra la Legge e la libertà apportata da Cristo; la terza
sarà caratterizzata dalla piena comprensione, dal maturo giudizio, dalla piena
libertà. Essa “terminerà con l’avvento del
vero e proprio Anticristo e con il giudizio finale”(p. 84). Nella Terza, vi sarebbe stato un aumento
della Grazia. La “teologia della
storia” di Gioacchino innova del tutto sulla tradizionale visione cristiana
perché “concepisce la stessa storia umana come un progresso dell’esegesi che,
dalla littera, culmina nella spiritualis intelligentia, ossia
nella piena comprensione delle verità di fede rappresentata da un quinto e
ultimo Evangelium Aeternum” (ivi).
Soprattutto Dempf ha messo in rilievo come
l’attesa gioachimita di un’età nella quale una concezione finalmente spirituale
predominasse in ogni ambito, a cominciare dalla stessa Chiesa, bisognosa di
riforma anche nei costumi, influenzasse le dottrine “spiritualiste” e
“pauperiste”, sino ai nostri giorni.
Vale a dire, “l’idea che l’ordine gerarchico e sacramentale della Chiesa
ma anche le istituzioni terrene, essendo legati alla seconda età, si
dissolveranno nel nuovo regno dello Spirito e saranno sostituiti da un’unica comunità
di monaci santi e contemplativi” (p. 85).
Tale idea fu il cavallo di battaglia delle correnti eretiche del
francescanesimo, provocando i noti conflitti e i conseguenti interventi papali.
Voegelin ha invece insistito sul
carattere di modello per le successive
filosofie della storia assunto dalle categorie gioachimite: il “modello tripartito” dello sviluppo
storico; il capo carismatico, guida spirituale che introduce all’Età dello
Spirito; il profeta della nuova èra di definitiva perfezione spirituale, dotato
di “una rivelazione diretta o di una gnosi speculativa”, incaricato di
annunciare l’avvento del Terzo Regno. Infine, l’idea della “comunità di persone
spiritualmente perfette, che non hanno più bisogno della grazia, e quindi neppure
più della mediazione sacramentale della Chiesa:
questo simbolo opererà prima nelle sette tardo-medievali, in quelle
protestanti e poi nelle utopie e nei modelli di società perfetta dei pensatori
moderni, fino alla società finale senza classi del comunismo di Marx e dei suoi
seguaci” (p. 86).
Gioacchino da Fiore era in buona fede,
prima di morire consegnò i suoi scritti alla Chiesa rimettendosi al suo
giudizio, dimostrando così di non avere l’animo dell’ eretico. Pur non potendosi considerare eretico in
senso formale, le sue dottrine appiono tuttavia intinte di elementi
eterodossi. L’idea di una “età dello
Spirito” tutto rinnovante è per esempio sempre stata assai diffusa tra i
greco-scismatici. Gli studiosi discutono, tuttavia, sino a che punto egli possa
considerarsi o meno “eretico” (pp. 87-89).
È un fatto che la sua concezione della S.ma Trinità è stata condannata
al IV Concilio Lateranense (1215) mentre la sua teoria dei tria status mundi,
contenuta nelle sue opere publicate postume nel 1254 dai suoi seguaci, fu
riprovata dalla Sorbona, che ne censurò 31 proposizioni, e nel 1255 dal papa
Alessandro IV. La concezione della
storia di Gioacchino si fonda sul suo modo di intendere la S.ma Trinità. Come ha
notato a suo tempo Raul Manselli, “se prescindiamo dalla teoria trinitaria
tutta la meditazione storica gioachimita perde completamente ogni base di
giustificazione teologica e dialettica”.
Sempre secondo Manselli, Gioacchino “collega lo svolgimento della storia
allo stesso processo trinitario di Dio, riprendendo e precisando il concetto
agostiniano della Provvidenza come presenza di Dio nella storia, ma superandolo
e approfondendolo con la mediazione del concetto scolastico e medioevale della appropriatio
di ogni epoca della storia ad una persona della Trinità”(Le citazioni di
Manselli provengono da Antonio Crocco, Gioacchino da Fiore e il gioachimismo,
Liguori editore, Napoli, 19762, p. 78).
La nozione ortodossa della appropriatio,
da non confondersi con quella delle proprietà delle Persone divine, applicata
alle Persone della S.ma Trinità non sembra potersi intendere nel senso di
Gioacchino. La cosa risulta dalla
consultazione dei manuali classici di teologia dogmatica, come Bartmann e Ott. Qual è stato l’errore di Gioacchino? Secondo il IV Concilio Lateranense, l’abate
calabrese, che ha sempre negato di esser uscito dal seminato, avrebbe concepito
l’unità trinitaria in questo modo: “non
veram et propriam, sed quasi collectivam et similitudinariam esse fatetur,
quemadmodum dicuntur multi homines unus populus, et multi fideles una Ecclesia
iuxta illud: Multitudinis credentium
erat cor unum et anima una [Act 4, 32] etc.”.
Gioacchino sembra dunque negare il carattere reale dell’unità
stessa. In polemica contro Pietro
Lombardo, era caduto proprio in quest’errore:
“manifeste protestans, quod nulla res est, quae sit Pater et Filius et
Spiritus Sanctum; nec est essentia, nec substantia, nec natura: quamvis concedat,
quod Pater et Filius et Spiritus Sanctus sunt una essentia, una substantia
unaque natura”(DS, 803).
[Perché l’anno 1260?] Il sistema di calcolo viene così esposto nel
libro di Crocco (p. 81 ss.). Seguendo la
genealogia evangelica di Matteo, Gioacchino enumera tra Abramo e Cristo 42
generazioni. Secondo le norme della concordanza
tra i due Testamenti, nel Liber concordiae, questo schema dovrà
ripetersi nella seconda età del mondo, ma con una differenza. Le generazioni dell’Antico Testamento furono
diverse per durata, quelle del Nuovo saranno invece ciascuna di 30 anni. 30 moltiplicato 42 fa 1260. Ecco dunque spiegato l’arcano dell’anno 1260.
Le generazioni della seconda età del mondo, quella di Cristo, dovevano durare
ciascuna 30 anni per il semplice motivo che Cristo aveva iniziato la sua
predicazione quando aveva trent’anni d’età ed essere 42, specularmente
all’Antico Testamento. Si tratta di
analogie del tutto esteriori, come ognun può vedere. È bene precisarlo, in quest’epoca nella quale
profezie e profetismi, imbevuti di “rivelazioni private” di ogni tipo vengono
diffuse sciolte e a pacchetti tra i cattolici che si dichiarano “tradizionalisti”. Ma la precisazione, che non vuol far
dimenticare il carattere artificioso della costruzione dell’abate
calabrese, deve valere anche per i
progressisti, dato che nel Concilio i paragrafi iniziali della costituzione Lumen
gentium sulla Chiesa sembrano introdurre proprio lo schema gioachimita
delle tre età del mondo intese come età della Chiesa, agli artt. 1-4. Fu infatti il pastorale Vaticano II a
presentarsi come Concilio del “rinnovamento” nel nome dello Spirito, come se
fosse addirittura una Nuova Pentecoste, come se cominciasse con esso l’Età
dello Spirito, dopo quelle del Padre e del Figlio, quasi età in cui la Grazia
si sarebbe effusa per la prima volta in modo più completo, compiuto, universale. Quasi superfluo ricordare che san Tommaso
respinse in modo molto netto quest’idea:
“ non est tamen expectandum quod sit aliquis status futurus, in quo
perfectius gratia Spiritus Sancti habeatur, quam hactenus habita fuerit…Et per
hoc excluditur quorumcumque vanitas, qui dicerent esse expectandum aliud tempus
Spiritus Sancti”( ST, I-IIae, q. 106, a. 4 e ad 2, cit. da Crocco,
op. cit., p. 100).
[Eventi dell’anno 1260]. A s i a :
il 6 maggio Kubilay diventa Gran Kan dei Mongoli, stabilendo la sua
capitale a Pechino. Nel Medio Orente, i
Mamelucchi riprendono la Siria ai Mongoli.
E u r o p a : in Italia, i Guelfi
fiorentini, partigiani del Papa, sono sconfitti dai Ghibellini toscani,
partigiani del Re di Sicilia Manfredi, nella battaglia di Montaperti [4 sett.
1260, una delle più sanguinose del Medio Evo, quella che “fece l’Arbia colorata
in rosso” - Dante](J-C Volkmann, Chronologie de l’histoire universelle,
Gisserot, Paris, 1997, p. 48). Nessuno
di questi avvenimenti aveva significato epocale. In ogni caso, in Italia si continuava con le
lotte feroci, con le guerre civili tra Guelfi e Ghibellini, tra Papato e Impero. E si sarebbe continuato ancora a lungo. Di “rinnovamento” nemmeno l’ombra.
L’abate calabrese viene visto oggi
soprattutto quale elemento di rottura nei confronti della tradizionale e
ortodossa visione cristiana della storia e autore di una audace teologia della
storia, esemplata sul mistero della Santissima Trinità, in se stessa
insostenibile, per quanto geniale fosse, ma ugualmente creatrice di un nuovo
modo di intendere la storia al quale spettava il futuro. Vi compaiono infatti l’idea di un progresso
dell’umanità verso uno stadio di perfezione finale, anche se tale perfezione
per Gioacchino è solo morale, e dovrebbe
esser guidata da un monachesimo purificato; lo schema triadico dello sviluppo
storico; il ruolo della personalità carismatica e altri aspetti interessanti
che qui non possiamo approfondire, quali ad esempio l’intrecciarsi di decadenza
e ascesa nel passaggio da uno status mundi ad un altro.
Per render giustizia a Gioacchino, bisogna
comunque considerare il periodo storico nel quale egli ha vissuto, un’epoca
difficile e drammatica, contro la quale si è erta la sua austera e mistica
speculazione, il cui obiettivo principale era la riforma morale della Chiesa,
auspicata da più parti e da tempo.
“Si era al tramonto tempestoso del XII
secolo; un secolo in cui si erano succeduti avvenimenti politici e religiosi
particolarmente tragici. Basti ricordare,
fra l’altro: le lunghe e sanguinose
lotte dei Comuni contro l’Impero; il dissidio tra il Papato e l’imperatore Federico
Barbarossa, che aveva turbato la Chiesa con alterne vicende di riconciliazioni
e di aspri conflitti, sfociati nell’elezione di ben tre antipapi (Vittore IV,
Pasquale II e Callisto III, opposti ad Alessandro III); la caduta di Gerusalemme del 1187, che aveva
prodotto un forte trauma nella Cristianità occidentale ed aveva infranto il
grande sogno medievale da cui erano partite le Crociate; infine, nell’area più
vicina a Gioacchino, nell’Italia meridionale, le inaudite crudeltà e le repressioni
sanguinarie contro la feudalità ecclesiastica e laica fedele alla tradizione
normanna da parte dell’imperatore Enrico VI di Svevia, che è probabilmente il magnus
tyrannus ricordato [da Gioacchino] nel [suo] commento all’Apocalisse. Oltre a questa serie di “sventure del
secolo”(calamitates saeculi), che trovano un’eco puntuale nelle opere di
Gioacchino, altri motivi turbavano l’animo del mistico: gli innumerevoli disordini morali che
affliggevano la Chiesa, feudalizzata e mondanizzata, contro i quali già san Bernardo
aveva invano levato recentemente la sua voce ammonitrice.
Oppresso dallo sconforto, accentuato e
acutizzato dalla componente pessimistica della concezione agostiniana in lui
costantemente presente, Gioacchino distolse lo sguardo dallo spettacolo
desolante che offriva la società cristiana e si ritrasse nella solitudine del
suo eremo, tra i monti della Sila: era
un “rifiuto”del mondo, ma era anche
l’esigenza fortemente sentita di scoprire e di temprare nell’interiorità la sua
“vocazione”mistica di interprete delle occulte e misteriose leggi che regolano
il corso della storia, per poter formulare e rivolgere al mondo il suo
messaggio di renovatio. Dalla
“concordanza” dei due Testamenti, sarebbero emersi gli “alta consilia” ovvero
“le leggi trascendenti e provvidenziali della storia, contenute nei simboli delle
Scritture”. Occorreva “decifrare ed
interpretare” i “simboli sacri”per comprendere il piano divino nella storia
(Crocco, cit., pp. 92-93).
Il desiderio angoscioso di trovare la
soluzione definitiva ai gravi mali del presente, ha tuttavia provocato in
Gioacchino una fuga in avanti, un trascendere mistico-speculativo nell’eterodossia,
anche se l’esigenza fondamentale della quale si faceva portatore – la riforma
morale e spirituale della Chiesa e l’avvento di un capo spirituale all’altezza,
unita alla sua personale austerità – lo rendeva caro ai migliori spiriti del
tempo, tra i quali Dante.
[La vera “teologia della storia”
cristiana non ha avuto alcuna influenza sui posteriori millenarismi secolari] In garbata polemica con Karl Löwith, il prof.
Franchi conclude il suo saggio ribadendo quella che a me sembra una verità
palmare, e cioè che i millenarismi profani e rivoluzionari hanno avuto (se
l’hanno avuto, sottolineo) un archetipo in “teologie della storia” intrise di
eresie, condannate dalla stessa Chiesa.
Secondo Löwith, la “irreligiosità secolare” di pensatori come Fichte,
Hegel, Marx “dipende in modo generico dall’escatologia giudaica e cristiana,
non potendosi essa sviluppare dalla concezione classica del tempo,
caratterizzata invece dall’idea ciclica dell’eterno ritorno” (pp. 89-90). L’eterno ritorno, preciso, delle forme di
Stato, che nella loro forma pura sono monarchia, aristocrazia,
democrazia, sviluppandosi ognuna di esse ogni volta dalla corruzione della
precedente secondo un ritmo per l’appunto ciclico. In tal modo, prosegue l’Autore, Löwith mostra
di aderire di fatto alla prospettiva del marxismo c.d. utopico di Ernst Bloch o
alla “nuova teologia politica” o “alla teologia della morte di Dio”, per i
quali “l’ateismo e il secolarismo sono la logica conclusione di un Dio che si
incarna” (p. 90). Perché tali negazioni
(osservo) debbano essere la “logica conclusione” dell’Incarnazione, non si
riesce per la verità a comprendere, tanto meno dalle fumose pagine di un Ernst Bloc. Ma tant’è.
Giustamente replica il prof. Franchi:
“ Bisogna invece distinguere in modo più attento i caratteri specifici
della teologia cristiana, per vedere se è proprio di essa o se invece è da
altre concezioni del tempo che deriva il progressismo e l’utopismo”(ivi). E
queste “altre concezioni” appartengono in genere all’escatologia giudaica o al
cristianesimo eretico, come nel caso di Montano, il quale, come notava Dempf,
nel II secolo d. C. presenta la prima teoria completa “del terzo regno di una
chiusa comunità di santi”(ivi).
Insomma, bisognerebbe affrontare
la questione anche dal punto di vista dottrinale. “Bisognerebbe
chiarire, questa volta non più solo da un punto di vista
storico-genetico ma dottrinale, se il progressismo e l’ideologia rivoluzionaria
comunista che da questo deriva, dipendano, come vuole Löwith, dalla concezione
cristiana della storia oppure, come sostiene Voegelin, da una cultura religiosa
ancora più antica come il millenarismo giudaico”(p. 93).
L’errore principale di Löwith, nel suo
modo di intendere il cristianesimo, è il seguente: egli “non sembra mettere a fuoco con la
dovuta attenzione gli specifici caratteri della concezione cristiana del tempo,
che viene identificata con una generica “storia della salvezza”(Heilsgeschichte)
comune sia a Israele che al cristianesimo.
Una concezione più rigorosa del concetto di storia della teologia
cattolica ci permette di mostrare come non possa essere il cristianesimo
l’origine di ogni progressismo, utopismo o rivoluzionarismo” (p. 94). Il concetto di una “storia della salvezza” è,
come si sa, di origine protestante. La
“concezione più rigorosa” da contrapporre a quella di un Löwith è sinteticamente ripresa dall’Autore
dall’opera del domenicano P. Roger-Thomas Calmel, in un testo tradotto in
italiano nel 1967 da Borla: Per una
teologia della storia. Si tratta, al
pari della visione cristiana della storia esposta mediante un commento
all’Apocalisse (nel 1957 in italiano) del Padre Féret o.p., di teologi di
spicco, attivi ben prima del Concilio, nei quali è dato ritrovare l’autentica
teologia cattolica. Grazie ad essi, la
vera visione cristiana della storia e della salvezza appaiono in modo genuino e
soprattutto ortodosso e l’averli riproposti all’attenzione costituisce forse il
tratto più originale del saggio del prof. Franchi. E scientificamente
il più valido, a ben vedere, poiché evita di far passare per legittima teologia
e autentico pensiero della Chiesa visioni di per se stesse affatto ortodosse.
Il Padre Calmel, “partendo proprio dal
testo più oscuro e controverso del Nuovo Testamento, l’Apocalisse di s. Giovanni, mostra bene che la teologia
cristiana della storia non può essere interpretata in nessun modo in chiave
millenarista e progressista: la
pienezza, come compimento dei tempi, non va collocata nel futuro, perché essa è
già arrivata con Cristo. Il Figlio
tornerà una seconda volta, per il giudizio, ma prima ci dovrà essere la “grande
tribolazione”: la zizzania crescerà e il
male raggiungerà “dimensioni spaventevoli”, ci sarà l’apostasia degli Stati e
delle città e anche la Chiesa sarà ridotta a un “piccolo avanzo” (pp.
94-95). Questa è sempre stata la visione
ortodossa: la “pienezza dei tempi” si è
realizzata con l’Incarnazione e la fondazione della Chiesa. Dall’Ascensione in poi, si trattava solamente
di costruire il corpo mistico di Cristo in base ai suoi insegnamenti, finché
non fosse stato raggiunto il numero degli eletti, noto solo alla prescienza del
Padre. Allora sarebbe venuta la fine,
improvvisa, con il ritorno improvviso del Cristo Giudice a separare in eterno
il grano dal loglio. Una visione della
storia, per restare alla concezione della storia, rigidamente dualistica,
quanto al suo interiore svolgimento e soprattutto al suo risultato finale. Dualistica, nel senso che divide la
storia in due sole epoche contrapposte: prima di Cristo e dopo Cristo, e la
conclude con il Giudizio ossia con la divisione in eterno del genere umano in
Eletti e Reprobi.
Contro la “concezione progressista e
modernista del tempo”, che si stava infiltrando tra i teologi proprio all’epoca
del Vaticano II, quando egli stava scrivendo il suo libro, il P. Calmel
ribadiva che questa è la concezione veramente cattolica e quindi ortodossa del divenire
che noi chiamiamo storia: “la ‘storia
sacra’ prepara all’avvento di Gesù; con Cristo essa è compiuta, tutto è
rivelato e la pienezza di grazia è data ai fedeli. Dopo Gesù – spiega l’autore – non c’è più
storia sacra ma c’è la storia della Chiesa, con la sua ‘ricchezza di
redenzione’, che durerà sino alla fine dei tempi”(pp. 95-96). Il P. Calmel distingueva poi nettamente tra progresso
e salvezza. La salvezza
dell’anima, l’acquisto della vita eterna, non dipende dal progresso del genere
umano, questa ormai abusata nozione di un progresso in senso spirituale e
materiale continuo verso un avvenire sempre migliore, che scade necessariamente
nell’indefinito e ignora bellamente le involuzioni e decadenze dei popoli,
tutto il lato tragico e irredimibile della storia. Per il P. Calmel “ci possono essere progressi
in singoli ambiti della vita, come quello scientifico o della tecnica, ma nel
campo propriamente umano il vero e autentico progresso si realizza solo con la
venuta del Signore e con l’instaurazione di una civiltà cristiana “(p.
96). Nel “campo umano” ossia morale e
spirituale in generale l’anima progredisce solo se si converte a Cristo e segue
ogni giorno i suoi insegnamenti, grazie all’opera della Chiesa: insomma, se si impegna senza interruzione per
la propria santificazione quotidiana, cosa che può avvenire al meglio quando
c’è una “civiltà cristiana”.
Questo è il vero “progresso”, se ciò che
conta più di tutto è la vita eterna. O
dobbiamo ritenere che le cose di questo mondo contino di più? Ma anche dal punto di vista della semplice
osservazione empirica della storia, l’idea che essa mostri l’esistenza di un
progresso continuo del genere umano verso il meglio, grazie all’uso delle sue
facoltà, appare del tutto irreale. P.
Calmel criticava giustamente autori come Teilhard de Chardin, con il quale “fa
irruzione nella cultura cattolica una concezione evoluzionista della storia, di
matrice hegeliana; Dio è concepito come
“immerso” nella storia. Egli si
manifesta in essa come un lento e ineluttabile procedere dalle tenebre alla
luce. Ogni aspetto della realtà
esistente è allora sacrificato al ‘Moloch dell’avvenire’e si immagina che ci
possa essere una crescita indefinita verso il bene e la perfezione nel mondo;
nella Chiesa la rivelazione è quindi subordinata alla storia, ed è concepita
come un qualcosa che continua a dispiegarsi nel tempo, anche dopo la
Pentecoste. Calmel invita però a
distinguere bene il mondo dalla Chiesa, la “corrente storica” dalla
“redenzione”: la salvezza deriva
dall’appartenenza alla Chiesa di Cristo, non dalla storia”(ivi). Deriva, osservo, dal “servare mandata” nel
senso spiegato da Nostro Signore (Lc 17, 10), non dalla cultura profana o dallo
sfoggio di buoni sentimenti e non è possibile senza l’aiuto determinante della Grazia, lo stesso
in tutti i tempi perché la salvezza è sempre la stessa ottenendosi lottando
sempre contro le stesse tentazioni e gli stessi peccati.
Ma la “teologia eterodossa della storia”,
ci ricorda giustamente il prof. Franchi, è penetrata anche nel mondo cattolico,
soprattutto nella seconda metà del XX secolo (a partire dal Concilio,
aggiungo). Uno dei suoi più nefasti
risultati è stato quello di stravolgere il significato del concetto di “segni
dei tempi”. Lo si è interpretato come se
Dio (reputato ora “immanente nella storia”) parlasse sempre attraverso di essi,
anche attraverso i più profani. ; “Questa concezione ha fatto ad esempio
credere a molti fedeli che, poiché il mondo sembrava avviarsi verso una società
socialista, essi si dovevano adeguare ai tempi.
Ma, come spiega P. Calmel, un giudizio sugli eventi storici è possibile
solamente se già prima abbiamo accolto la “luce sovrannaturale” per poterli
discernere”(p. 96-97). La conclusione
generale, per quanto riguarda il marxismo, perfettamente condivisibile, è la seguente: “Le concezioni della storia caratterizzate da
una tensione verso una perfezione e un pieno compimento terreno in un tempo
futuro, come quella comunista, non derivano dalla teologia cristiana ma, più
verosimilmente, dal millenarismo e dal chiliasmo giudaico”(p. 98).
Quest’interpretazione, sulla quale ha
insistito in chiave gnostica Voegelin, appare senz’altro più attendibile. Mi chiedo tuttavia: non è possibile che le ripartizioni in epoche
o le visioni millenaristiche scaturissero dalla cosa stessa? Voglio dire:
dalla natura stessa dei fatti storici conosciuti e dall’interpretazione
che il pensatore in questione, per esempio Marx, si riteneva in dovere di
ricavarne. Dalla natura stessa dei fatti
storici: è indubbio che sono esistite due grandi epoche della storia umana:
quella pagana o delle civiltà antiche e quella cristiana. Quest’ultima è stata seguita da una terza,
nella quale tuttora viviamo, iniziatasi alla fine del Medio Evo con l’Umanesimo
e soprattutto con il Non serviam! di Lutero, che pone il divino ai margini, prima di fatto poi
per così dire di diritto, vedendo nell’uomo il centro di tutto. E difatti,
molti chiamano quest’epoca post-cristiana. E così abbiamo
t r e epoche o stadi o status
mundi, dove il terzo status ha una qualità opposta a quella profetizzata da
Gioacchino da Fiore. Per individuare
queste tre epoche, non occorre applicarvi alcun archetipo, rifarsi ad alcuna
precedente e pregressa “filosofia della storia”: esse sono lì, basta guardare all’evidenza,
per convincersene.
Per
restare a Marx. Rileggendo il Manifesto
del Partito Comunista, scritto in simbiosi con Engels, siamo sicuri di
trovarvi un autentico sviluppo triadico del processo storico? Il celebre Manifesto (1848), pur
pervaso di attese messianiche, che intende esplicitamente suscitare nel
promuovere la presa di coscienza rivoluzionaria del proletariato mondiale, di
epoche sembra conoscerne solo due:
quella presente della borghesia e quella che si sta aprendo, del proletariato,
che sarà l’ultima e definitiva. L’epoca
precedente, dei rapporti feudali, dominata dalla classe nobiliare, appare solo sullo sfondo:
in un certo senso, appartiene alla preistoria, dal punto di vista
marxista. Certamente, possiamo parlare
qui di tre epoche ossia di tre diversi modi di produzione: feudale,
borghese, comunista da instaurare. Ma i
primi due corrispondono ad una realtà storica e sociale effettivamente
esistita ed esistente, a prescindere quindi dall’applicazione alla storia
di schemi triadici precostituiti, affatto necessari all’enucleazione delle
epoche appena citate.
Marx interpreta notoriamente la storia
esclusivamente in chiave di rapporti economici di produzione, della loro
proprietà, di lotta di classe. I valori
morali, estetici, religiosi, culturali in generale, sono per lui (erroneamente)
solo una “sovrastruttura” di questi rapporti.
I rapporti di produzione di
un’economia a base quasi integralmente agraria nel mondo antico non sono, a ben
vedere, molto diversi da quelli della società altomedievale e medievale:
come si spiega, allora, il mutamento radicale di religione
intercorso? Non si spiega, in termini
economici e sociali. Ma sul sorgere del
cristianesimo si può sempre rivendere la spiegazione sociale: esser stato esso la religione degli umili
(servi, schiavi, donne del popolo), che compensavano la loro infelicità terrena
con la fede nella vita eterna, anche se questa spiegazione ignora
disinvoltamente il carattere
interclassista del cristianesimo, diffusosi rapidamente in tutte le classi
della popolazione.
Le lotte di classe erano ben presenti
nella società antica e medievale, lo sappiamo.
Ma, dal punto di vista di un Marx, la connessione storicamente vitale
tra proprietà dei rapporti di produzione e lotta di classe si ha solamente con
l’ascesa della moderna borghesia e la nascita della moderna industria. L’epoca della borghesia è pertanto l’epoca
storica che conta poiché da essa scaturirà per interiore dialettico e
drammatico sviluppo il predominio del proletariato. In Marx non compare, a mio avviso, nessuno
schema triadico dello sviluppo storico bensì una diade, se così posso
esprimermi: la storia è contrapposizione
frontale tra borghesia e proletariato a causa del processo (dialettico) interno
tra fattori della produzione, rapporti di produzione, proprietà degli stessi. Il
filone di ricerca indagato dal prof. Franchi, a mio avviso ha anche il merito
di colmare una lacuna poiché riporta all’attenzione la componente “messianica”
del marxismo, troppo a lungo dimenticata, e senza la quale non si saprebbe
spiegare la presa del bolscevismo sulla parte più estremista e visionaria del
movimento rivoluzionario, come notava in passato Berdjaev, che la riconnetteva
ad una tradizione di fanatismo nichilista tipicamente russa (oggetto di acute
analisi anche da parte di Enzo Bettiza nel suo un tempo celebrato studio: Il
mistero di Lenin. Per un’antropologia dell’homo bolscevicus, Rizzoli,
Milano, 1982, pp. 443).
6. Il “quadro storico-politico”
dell’Urss e la decomposizione dei Paesi satelliti
I successivi tre saggi “forniscono
un quadro storico-politico sull’Unione Sovietica dal 1956 al 1989 toccando
molteplici aspetti: dalla crisi del modello ideologico in economia, alla sfida
geopolitica legata al potenziale militare, sino alla drammatica vicenda della
chiesa ortodossa. Infine le vicende dei regimi e della dissidenza in
Urss sono rilette a partire da una prospettiva politica e istituzionale inedita
conservata presso l’Archivio Andreotti” (p. 14). Abbiamo in tal
modo: Paolo Gheda, Il disgelo e la fine dell’Unione sovietica: quadro
storico e riferimenti bibliografici; Giovanni Codevilla, Dallo
scontro all’incontro: la politica ecclesiastica sovietica dalla morte di Stalin
alla caduta del regime; Tito Forcellese, Regimi e dissidenze
nel fondo ‘Unione Sovietica’ dell’Archivio Andreotti.
[Finché si è sentito forte, il regime
sovietico ha sempre perseguitato la religione] Dall’intervento del
prof. Codevilla, profondo conoscitore della materia, risulta che
nella Russia attuale “si ricostituisce il legame tra Nazione e Ortodossia e si
ritorna al confessionalismo zarista”, situazione che vede il cattolicesimo in
posizione del tutto subordinata, come sempre, posposto persino a Buddismo,
Giudaismo, Islam. “Si ritorna dunque al modello dello Stato
assoluto, nel quale si ripropone il sinallagma del
giurisdizionalismo: lo Stato protegge la Chiesa, assicurandole uno
status privilegiato, la quale in contraccambio si pone come fonte di
legittimazione dell’autorità statale, affermandosi, in altre parole, come gosustanovitel’naja,
ossia come forza che edifica lo Stato, per usare un termine assai caro
all’attuale patriarca Kirill”(p. 121).
Ma è bene ricordare alcuni aspetti della
persecuzione comunista della religione in Urss, persecuzione che ha in un certo
senso costituito il prototipo per le persecuzioni da parte degli altri regimi
comunisti. È bene non dimenticare le
cifre della persecuzione leninista e poi staliniana, anche per ribattere il mito,
che sembra riapparire con i nazional-bolscevichi attuali e i loro ammiratori in
Occidente, di uno Stalin patriota russo che, dopo l’attacco tedesco,
sarebbe stato favorevole nei confronti della religione, sino alla morte. Per resistere al nemico occorreva una “Grande
Guerra Patriottica”, una mobilitazione di energie nazionali che colmasse le
lacune di quella comunista; occorreva
quindi riabilitare la gerarchia ecclesiastica e chiamarla a partecipare alla
battaglia patriottica. Fu solo una
scelta tattica, dettata dalle gravi circostanze. Dopo la guerra e la vittoria Stalin ritornò
ai suoi tradizionali metodi.
“I primi anni del potere sovietico sono
caratterizzati da una lotta violenta e cruenta del regime comunista contro la
Chiesa e i credenti. Negli anni 1918-1920 vengono uccisi non meno di 28
esponenti della gerarchia, alcune migliaia di sacerdoti e monaci e 12.000
laici, prevalentemente membri delle confraternite e delle associazioni in
difesa della Chiesa. Nel biennio
1930-1932, gli arrestati per motivi religiosi sono 60.000, e di questi 5.000
vengono fucilati, prevalentemente nelle campagne. Dal 1928 al 1930 sono 197 i vescovi ad esser
perseguitati. Dal 1923 al 1930 c’è la
NEP, o Nuova politica economica, con la quale Lenin aveva fatto
concessioni all’iniziativa privata di fronte al fallimento totale del comunismo
integrale da lui inaugurato appena preso il potere. In questi anni i clericali arrestati
sono solo 7.649. Ma nel 1930, quanto
Stalin pone fine alla NEP, sono già 13.354.
Con la fine della NEP riprendono le condanne a morte, interrotte appunto
dal 1923. Alla vigilia dell’attacco
tedesco (che scatta il 22 giugno 1941), i vescovi in libertà sono solo quattro;
tutti gli altri sono stati fucilati o sono reclusi nei lager o nelle carceri;
le chiese aperte al culto in tutta l’Urss sono circa trecento. La tregua nella lotta antireligiosa dura
solamente dal 1943 al 1947, quando riprendono le condanne a morte e le
deportazioni”( op. cit., p. 99. Le fonti
dei dati sono russe).
La campagna antireligiosa, sospesa da
Stalin nel 1943, riprende con vigore proprio ad opera di Kruscev, che pure
aveva denunciato i crimini di Stalin e permesso timide aperture di opinione
all’interno, per esempio autorizzando nel 1962 la pubblicazione di Una
giornata di Ivan Denisovič, di
Solženicyn. Alla religione si
contrapponeva lo studio scientifico dell’ateismo, imposto dallo Stato. Il periodo peggiore per la Chiesa Ortodossa
fu dal 1958 al 1964: vengono chiusi 5.540 edifici di culto, cinque seminari
sugli otto aperti, quaranta monasteri su cinquantasei. La campagna investe tutte le religioni (pp.
104-105). Nello stesso tempo, la Chiesa Ortodossa è costretta ad entrare nel
Consiglio mondiale delle Chiese, organo nel quale sosterrà a spada tratta la
politica estera sovietica (p. 106). La
scandolasa subordinazione della Chiesa allo Stato (del resto una tradizione
russa, da Pietro il Grande in poi) viene denunciata da Solženicyn in una
celebre lettera aperta, del 29 maggio 1972: Lettera quaresimale a Pimen, Patriarca
di tutte le Russie. Sono quelli gli
anni nei quali si diffonde l’uso della psichiatria per reprimere il dissenso
(p. 108). La nuova Costituzione
sovietica del 1977 garantisce la libertà di coscienza ma di fatto garantisce
“la sola libertà di ateismo, giacché ai cittadini credenti viene concessa una
mera, temporanea libertà di culto, e ciò in sintonia con la concezione
comunista dei diritti di libertà, il cui esercizio è condizionato agli
interessi del popolo, al rafforzamento e allo sviluppo del sistema socialista e
all’edificazione comunista”, in sostanza in armonia con la Costituzione staliniana
del 1936”(pp. 111-112).
Il
partito comunista controllava strettamente tutto l’operato della gerarchia
ecclesiastica e se ne serviva per i suoi fini, soprattutto in politica
estera. Esemplare, in questo senso, fu
l’azione del metropolita Nikodim, artefice, con l’incontro di Metz con il cardinale
Tisserant, dell’accordo che comportava il silenzio dell’incipiente Concilio Vaticano
II sul comunismo. I dirigenti sovietici
temevano che il Concilio rinnovasse la condanna del comunismo contenuta nell’Enciclica
Divini Redemptoris di Pio XI, che aveva definito il comunismo
“intrinsecamene perverso”(p. 114-115).
Il clima comincia a mutare alla metà degli Ottanta, quando la dirigenza
sovietica prende coscienza del progressivo, ormai inarrestabile disgregarsi del
regime, in piena crisi di ideali e preso alla gola da una crisi economica
sempre più vasta (p. 115 ss.). Il resto
è storia recente. Siamo tornati “al
confessionalismo zarista” e, aggiungo, la conversione della Russia “al Cuore
Immacolato di Maria”, annunciata a Fatima, ovvero al cattolicesimo, appare
sempre remota.
Il “quadro storico”
sintetizzato dal prof. Gheda ci fa vedere con precisione i
meccanismi di politica militare e i problemi istituzionali che hanno finito col
portare al collasso l’Urss, una combinazione di fattori coagulantisi in un
declino economico inarrestabile, risultando alla fine l’economia soffocata,
oltre che dalla piramidale burocratizzazione, dal costo ormai insostenibile del
gigantesco apparato militare, del tutto eccessivo rispetto alle esigenze del
tempo di pace (ma mantenuto in quelle dimensioni, osservo, per ragioni
politiche che hanno indubbiamente pagato buoni dividendi in termini di
influenza politica e diplomatica).
I documenti, in gran parte inediti, emersi
dall’Archivio Andreotti mostrano come il famoso uomo politico,
sempre allineato sulle posizioni vaticane in politica estera, abbia svolto
un’azione cauta ma continua di “attenzione” e per quanto possibile di sostegno,
anche indiretto, al dissenso. In sinergia col Vaticano,
un’iniziativa costante presso i russi affinché riconoscessero i diritti umani,
cosa che poi avvenne nel 1975 col famoso Trattato di Helsinki, e la difesa, per
quanto possibile, dei cattolici perseguitati nell’Unione, in particolare in
Ucraina. Rilevante il suo rapporto di stima ed amicizia con il cardinale
ucraino Slipyi. L’azione vaticana e italiana per il riconoscimento
della libertà di coscienza nell’Unione, era svolta anche a vantaggio della
Chiesa Ortodossa, al tempo ancora duramente oppressa. Ma, non vorrei
sbagliarmi, non sembra che i Greco-scismatici se ne siano poi
ricordati.
I rimanenti cinque saggi sono
dedicati alla fine del comunismo nei Paesi satelliti (Ungheria, Polonia,
Cecoslovacchia, Ucraina, Repubblica Democratica Tedesca), mentre l’ultimo
del volume riguarda una sintesi molto efficace della Storia culturale
della dissidenza, del prof. Adriano Dell’Asta, slavista
insigne. Egli ci ripropone i principi essenziali per i quali si è
battuta la dissidenza: il rispetto del principio di legalità
contro un regime costituitosi sulla negazione stessa di tale principio e
sull’uso metodico e capillare della violenza, sia fisica che psichica e
morale: la riscoperta del valore dell’individuo come persona unita
all’adozione di un metodo di lotta non violento ma sempre a viso
aperto contro il regime.
I saggi sono: L’agonia del
kadarismo e la transizione postcomunista in Ungheria, di Gizella Nemeth e
Adriano Papo; Dalle dissidenze polacche a Solidarność, di Antonio Macchia; Radici
storiche e attualità del dissenso cecoslovacco: Tomáš Garrigue Masaryk, Alexander
Dubček, Václav Havel di Francesco
Leoncini; Figure della dissidenza ucraina, di Konstantin
Borisovič Sigov; Geistige
Voraussetzungen von Widerstand und Opposition in der DDR [Presupposti
spirituali della resistenza e dell’opposizione nella Repubblica Democratica
Tedesca], di Ehrhart Neubert.
Questi saggi, pur trattando eventi noti
nelle loro linee generali, li illustrano secondo una prospettiva riccamente
documentata e non priva di notazioni originali, almeno per il lettore
italiano. Mentre i primi due si mantengono nell’ottica di un
giudizio prevalentemente storico sul regime che fu, quelli dei professori
Leoncini e Sigov contengono anche una nota polemica, che tuttavia non altera la
loro ricostruzione, sempre di estremo interesse, e offre comunque ampi spunti
di riflessione, anche di sana polemica.
Il breve intervento del prof. Sigov,
docente di “storia delle idee teologiche e filosofiche” a Kiev, ci fa conoscere
figure eminenti dell’opposizione ucraina al regime comunista, da noi in
sostanza ignote, e ci ricorda molto opportunamente che in Ucraina c’è sempre
stata “un’opposizione religiosa rappresentata dalla Chiesa greco cattolica che
è rimasta attiva in clandestinità e ha sempre costituito il centro attorno al
quale si cristallizzavano le forze d’opposizione. L’esempio più evidente è il
cardinale Josyp Slipyj, ma come lui altre centinaia di preti e laici che
venivano mandati nel GUlag”(p. 256). Polemizzando con l’attuale
politica ucraina di Putin, l’Autore vede riapparire in essa forme di negazione
dell’identità nazionale e di persecuzione che rinviano al recente,
angoscioso passato (p. 260).
Diverso è il tratto polemico che appare
nel lavoro del prof. Leoncini, illustre specialista di storia
dell’Europa Orientale. Egli sottolinea giustamente e con efficacia
il permanere dell’eredità di Jan Hus e di Comenius nel moderno dissenso
cecoslovacco moderno, ma più ancora ceco, direi: l’appello al libero
giudizio della coscienza individuale, che risale alla lotta contro il Papato e
l’Impero per la libertà di coscienza e l’indipendenza nazionale e all’ideale
della creazione di un “uomo nuovo” mediante un sistema pedagogico, come quello vagheggiato
da Comenius, fondato su un “umanesimo” improntato all’idea della tolleranza e
del rispetto della dignità dell’uomo (vedi supra, il § 3 di questa recensione). La
sua polemica è rivolta contro chi ancor oggi nega che la svolta rappresentata in
primis dalla “Primavera di Praga” del 1968 abbia offerto un contributo
spirituale e politico originale e ancora valido, nel contesto della crisi dei
valori attuale. Secondo l’Autore, l’umanesimo della tradizione
spirituale e politica ceca, che nella nostra epoca ha avuto in Tomáš Masaryk
uno snodo essenziale, conserva un suo originale ed essenziale valore anche in
relazione ai problemi della nostra attuale Europa, dominata dal ferreo (e per
molti aspetti calamitoso) neo-liberismo dell’Unione.
Indubbiamente, la visione “umanistica” che
si fonda in particolare sul principio della “libertà della coscienza”
individuale come valore fondamentale,
rappresenta un elemento essenziale del vivere civile e del
riconoscimento della libertà della persona.
Tale “umanesimo” ha sicuramente contribuito ad alimentare la resistenza
al regime comunista di frange minoritarie, che hanno poi contribuito
attivamente alla sua crisi finale.
Ma, osservo, il Nostro non considera gli
elementi potenzialmente negativi contenuti in questo umanesimo, dal momento che
esso tende a fare della libertà di coscienza un valore assoluto, che si
pone fatalmente in antitesi alla religione rivelata ossia al cattolicesimo. E
difatti, quell’umanesimo non è storicamente
nato con la ribellione all’autorità della Chiesa, con l’eresia, rivestendosi
successivamente di uno spirito di tolleranza di tipo massonico e quindi, in
sostanza, apparente, come lo è appunto quello delle Logge, il cui
credo deistico è disposto a tollerare il mantenimento della religione cattolica
solo se quest’ultima rinunci a se stessa, accettando di diventare una religione
dell’Uomo, dietro il rivestimento esteriore di dogmi e di cerimonie ridotti ad
espressione della religiosità popolare tramandata?
Sorprendente, ma non più di tanto, per
quanto mi riguarda, scoprire nella cultura ceca un radicato giudizio negativo
globale sugli italiani, dai tempi di Petrarca a Comenius agli intellettuali
cechi asburgici, ossia sino alla vigilia della Grande Guerra: noi terra di
faziosi, banditi, criminali, ladri, dalla quale nulla di buono può venire mai;
infame patria di Machiavelli, odiatissimo da Comenius (p. 237). Un
simile pregiudizio, ampiamente diffuso in tutta Europa contro di noi ed
evidentemente anche in quella asburgica del tempo che fu, non meriterebbe
nemmeno una replica, tanto unilaterale esso appare. Se eravamo così
moralmente miserabili e infami, come abbiamo fatto in passato a creare e più di
una volta forme di civiltà e di progresso che sono pur state assunte a modello,
in Europa?
Osservo, comunque, che gli ideali di
tolleranza e pacifismo, intesi come regole della condotta politica, non sempre
portano bene. Nel 1938, quando Hitler cominciò a inghiottirsi la
Cechìa, la di poi formidabile Wehrmacht era ancora in fase di costruzione
e con equipaggiamento relativamente modesto mentre l’esercito cecoslovacco, ben
armato dall’eccellente industria pesante nazionale, non le era affatto
inferiore. Se si fosse battuto, non è affatto detto che i tedeschi
sarebbero riusciti a prevalere: si sarebbe potuta creare una situazione
militare di stallo, che non avrebbe
potuto lasciare indifferenti le Potenze e forse l’espansionismo di Hitler
avrebbe subìto una battuta d’arresto. La Cechìa è, secondo un
celebre stereotipo, la patria del “buon soldato Švejk”, quello che
irrideva alla disciplina militare (austro-ungarica) facendo l’idiota per
cercare di “imboscarsi” sempre e in tal modo salvare la pelle – sterotipo,
poiché gli hussiti e la famosa divisione cecoslovacca durante la guerra civile
bolscevica furono sempre ottimi combattenti. Ma la colpa, nel 1938, non fu dei
soldati o del popolo, bensì dei politici, che non ebbero il coraggio di battersi,
anche perché si sentirono abbandonati dai loro tradizionali alleati, francesi e
britannici. Forse avrebbero fatto bene a leggere un po’ di
Machiavelli, nutrirsi dell’implacabile realismo del Segretario Fiorentino,
meditare sulle pagine che egli dedica all’importanza delle “buone armi” e di un
sano spirito militare nelle classi dirigenti, che devono saper affrontare
valorosamente con le loro armi anche la sorte avversa ed un’eventuale
sconfitta, che sarebbe allora “gloriosa”
e non inutile per il futuro dello Stato.
Se nell’Ucraina “i temi
della libertà si sono fusi con quelli della fede religiosa” annotano i tre
autori della Introduzione, un fenomeno simile si è avuto nella
Repubblica Democratica Tedesca. Il saggio del teologo evangelico (ossia
luterano) Ehrhart Neubert, al tempo tra i protagonisti dell’opposizione al regime
comunista, “è incentrato sull’analisi del ruolo che la religione e le chiese
hanno avuto nella storia del dissenso nella Repubblica Democratica
Tedesca. Neubert mette in evidenza come il comunismo sia in effetti
una “religione politica”e che quindi abbia visto fin da subito nelle chiese una
forza concorrente da combattere; da qui il ruolo di resistenza delle
confessioni protestanti e cattoliche al regime della DDR. La
storiografia occidentale ha sottolineato poco il ruolo che la religione ha
avuto nella costituzione di un dissenso nel regime della Germania
dell’est. Attraverso il rinnovamento di una cultura dei diritti
dell’uomo (Helsinki 1975), le chiese nella DDR diventano il rifugio per chi si
oppone allo Stato totalitario e ai suoi abusi; anche contro le politiche dei
vertici ecclesiastici, spesso improntate alla convivenza con il regime, si
forma nelle chiese una cultura che aspira ad un “buon diritto terreno”, di
natura razionale […] Il ritorno ai principi evangelici del
protestantesimo costituisce per Neubert il nucleo dell’opposizione religiosa al
regime: la centralità del rapporto Dio-uomo conduce ad una idea di
politica “in difesa dell’uomo” e alla fine ai principi pluralistici e
costituzionali delle democrazie occidentali”(pp. 19-20).
7. Il
“vivere nella menzogna” imposto dal comunismo e dal “politicamente”e“teologicamente corretto”
Nella Postfazione che chiude il
volume, il prof. Savarese affronta il problema del totalitarismo
comunista dal punto di vista del suo rapporto con la verità e quindi con
la menzogna ideologica sistematica che ha caratterizzato la prassi del
comunismo al potere (e in verità non solo quello al potere). Se, di fronte
all’insufficiente revisione del marxismo e del comunismo, si vuole “riaprire la
questione storiografica e teoretica del totalitarismo comunista”(p. 308), è
necessario confrontarsi con la questione della verità. E ce lo insegna proprio l’esperienza della
coraggiosa e in certi casi eroica Dissidenza anticomunista.
“I dissidenti resistono alle pretese totalizzanti
e alle prassi annichilenti dei regimi in forza di un vincolo tra verità e vita,
che si riversa nelle parole e negli scritti, che non ha nulla
dell’autocompiacimento superficiale dell’intellettuale impegnato occidentale
[…] Il richiamo alla vita nella verità è, innanzitutto, l’opporre al potere
organizzato in nome di una fantomatica palingenesi della storia, quel qualcosa
che fa sì che l’uomo non si possa manipolare con nessuna prassi di denigrazione
o di rieducazione e, alla fine, annichilire.
È lo stesso tentativo di schiacciare l’uomo, magari polverizzandolo come
un insetto sotto lo scarpone di una qualche polizia politica, a riaffermare un
nucleo essenziale, non quantificabile eppure produttivo di effetti non solo non
ignorabili, ma decisivi in tutti i campi in cui l’uomo si trova comunque
gettato. È quanto identifichiamo, in
fondo quasi a tentoni, con il nome di dignità, ma che con le vicende dei
dissidenti perde l’astrazione, spesso ipocrita e non priva di contraddizioni,
delle dichiarazioni di principio, per diventare carne viva, pronta a dimostrare
il suo essere viva mettendo a disposizione il proprio sangue”(pp. 309-310).
La dignità come valore messo
effettivamente in gioco nel sacrificio di sé, nell’opporsi con semplicità e
rinunciando a priori alla violenza ad un regime che certamente non era più
quello crudelissimo di Stalin; che non ti faceva più sparire di colpo senza
processo nel nulla con una pallottola nella nuca, ma era ancora un regime duro
e oppressivo: ti vessava e incarcerava o rinchiudeva negli ospedali psichiatrici;
ti isolava rovinandoti la reputazione,
annientandoti socialmente; ti espelleva dalla patria. Non certo, quelle dei
dissidenti, le “dignità” comode e puramente ideologiche invocate in Occidente
dai paladini del “politicamente corretto” in tutte le sue sfumature, anche le
più demenziali. La vita, dunque, come
testimonianza per “sottrarsi alla menzogna di regime” e alla “menzogna
personale”, poiché accettare l’una implicava praticare l’altra (p. 310).
Se vogliamo, osservo, c’è stato a volte un
elemento menzognero nelle verità
ufficiali ritenute fondamentali dai governi di tutti i tempi. Menzogna, nel senso di alterazione del
vero, totale o parziale, per calcolo politico contingente o perché spinti dalla
nec2essità (dalla Ragion di Stato) e in sostanza dalla paura. Anche la Chiesa gerarchica, nel difendere il
proprio legittimo, modesto potere temporale, sempre minacciato dalle potenze mondane,
ha nell’Alto Medioevo fabbricato la falsa Donazione di Costantino, pensando di
potersi in tal modo meglio tutelare. Una mossa infelice, trattandosi del Papa,
dettata soprattutto dal timore, da umana debolezza e per la quale è stato susseguentemente
pagato un alto prezzo. Ma in ogni caso
un evento isolato, non un sistema di governo.
Oppure, menzogna, quando le verità ufficiali, che si presume
siano sempre coerenti con certi princìpi, non sembrano per diversi motivi più
in armonia con quei princìpi, risuonando in tal modo retoriche e vuote. Qui però la falsità è tale agli occhi
dell’opinione pubblica, convinta dell’esistenza di un’insanabile contraddizione
tra le dichiarazioni ufficiali e i fatti, non perché espressamente voluta e
pianificata dai governanti.
Il “divieto di fare domande” (vedi infra),
che caratterizza i regimi di “menzogna ideologica”, è sempre esistito
nel senso che nessun tipo di civiltà e sistema di governo ha mai permesso che
si ponessero pubblicamente in discussione i valori sui quali si reggevano, assurti
a princìpi fondamentali e inviolabili.
Le antiche città-stato elleniche mettevano a morte o mandavano in esilio
chi disputasse pubblicamente sull’esistenza degli dèi. Nell’Europa cristiana non si potevano
discutere le verità del cristianesimo, religione ufficiale, protetta dallo
Stato. O meglio, si potevano “anche fare
domande” su di esse, salvo accontentarsi delle risposte conformi al dogma. Si trattava però di dogmi ossia di
verità che si consideravano di origine divina, rivelate da Dio per la nostra
eterna salvezza, non di filosofemi o pseudo-verità dell’ideologia. Il “divieto di fare domande” implicato dal regime
di “menzogna ideologica” imposto dal comunismo e dall’attuale
conformismo del “politicamente corretto” in Occidente, si presenta con caratteristiche
del tutto diverse.
Inizialmente, proviene da una filosofia,
il marxismo, convinta stoltamente di aver risolto i problemi fondamentali
dell’uomo, non solo materiali ma anche spirituali, grazie all’instaurazione
(dichiarata inevitabile) di una società senza classi, ragion per cui il soggetto
che ancora si ponesse questi problemi, soprattutto quelli spirituali, sarebbe
da considerarsi un anormale, una mente che sragiona. Ispirando il metodo di governo di uno Stato
organizzante ogni aspetto della vita sociale in modo pervasivo e asfissiante,
tale filosofia ha portato questo Stato a sostituire la realtà effettuale con l’irrealtà
dell’ideologia condensante i postulati della suddetta filosofia. La negazione della realtà e il divieto di
fare domande hanno pertanto assunto aspetti surreali, ben noti e che non
è il caso di ripetere.
La
stessa cosa si sta producendo in Occidente, nelle democrazie decadenti dei
nostri giorni. Qui il marxismo c’entra
solo indirettamente poiché la tendenza prevalente, quella che sta alla base del
nostrano “politicamente corretto”, deriva, per ciò che riguarda la sua
componente filosofica, dal soggettivismo esasperato penetrato nel
pensiero occidentale, con i suoi ben noti risvolti nichilistici. Se, come diceva Nietzsche, “non esistono
fatti ma solo interpretazioni”, allora tutto diventa incerto e indeterminato,
nel mare magnum delle interpretazioni e non esiste più una realtà la cui
solidità ci impedisca di sprofondare nel mondo di fantasia del “decostruire”,
del “reinventare”, dello “sperimentare” e del “progettarsi “ all’infinito. Questo multiforme vagare in un mondo del tutto
irreale perché continuamente “decostruito” e “reinventato” dal soggetto che
“sperimenta”, siffatto marasma è diventato l’unica realtà in cui si vuole
credere ed è proibito porre domande che ne svelino l’inesistenza. Qui, da noi, il “vivere nella menzogna” proviene,
pertanto, soprattutto dalla decomposizione del retto pensiero, alla quale si è
aggiunto l’autodissolvimento del cattolicesimo,
tendenze ed eventi che hanno dato via libera ad ogni sorta di irrazionalismo
e subcultura, giunti, per nostra
sventura, sin alle aule altrimenti austere del potere legislativo.
[Carattere
peculiare della menzogna ideologica comunista] La menzogna che ha caratterizzato il
comunismo è stata dunque del tutto nuova, rispetto ai conformismi e alle
occasionali imposture del passato. Su
questo gli interpreti concordano. La
“menzogna” dipendeva anche dalla sostanziale negazione del principio del
governo della Legge, in teoria adottato dalle costituzioni sovietiche e dai
relativi codici. La dissidenza prendeva
spesso spunto dalla semplice e disattesa richiesta di applicare il principio di
legalità rispettando norme e procedure
stabilite dal regime stesso. Il fatto è,
come nota nel suo intervento il prof. Dell’Asta, che “l’esigenza della legalità
[invocata dai dissidenti] dipendeva piuttosto dal fatto che il regime contro il
quale lottavano i dissidenti si era edificato non sulla semplice e contingente
violazione della legalità e sulla violenza, ma sulla negazione del concetto
stesso di legalità e sull’affermazione strutturale della violenza e
dell’eliminazione del nemico come cardini del vivere civile e dell’edificazione
del mondo nuovo”(p. 296).
Certamente, annoto, esistevano norme e
procedure stabilite per quel minimo di legalità formale senza il quale
il sistema giuridico di uno Stato non può funzionare. Ma questa legalità minima spesso non era
rispettata. Cosa più grave, la legalità
in senso sostanziale non era considerata un valore da istituire e
difendere, dal momento che essa esprimeva il concetto che il principio del
governo della legge doveva valere per tutti, anche per i governanti e il
partito comunista, essendo la legge “di tutti regina, mortali e immortali”,
come recita il famoso verso di Pindaro.
Invece, nella visione leninista, la legge, il diritto erano solamente
degli strumenti utili nella lotta di classe e per la rivoluzione mondiale,
manipolabili ad libitium per le
esigenze superiori di tale lotta. A
ragione pertanto scrive il prof. Dell’Asta:
“Per la negazione del concetto stesso di legalità ricordiamo la lettera
di Lenin al commissario del popolo per la giustizia nella quale, in data 17
maggio 1922, Lenin propone di inserire nel codice penale sovietico un articolo
che prevede pene pesantissime, fino a quella capitale, per chi “aiuta oggettivamente”
o “può oggettivamente aiutare” la borghesia mondiale”(pp. 296-297).
Sembra – annoto – una riedizione bolscevica della giacobina “legge dei
sospetti”, per giustificare la massima estensione del terrore rivoluzionario. Del resto, prosegue il prof. Dell’Asta, il
primo capo della polizia segreta, il conte polacco Džeržinskij, chiedeva la
pura e semplice “repressione rivoluzionaria degli agenti della
controrivoluzione” ossia la loro esecuzione senza processo di sorta, per via amministrativa
(p. 297), cosa che avvenne innumerevoli volte e che fu perfezionata a sistema da Stalin, con
le sue infinite e programmate esecuzioni di massa (vedi da ultimo,
l’impressionante e documentatissima ricostruzione di Karl Schlögel, L’utopia
e il terrore. Mosca 1937. Nel
cuore della Russia di Stalin, 2008, tr. it. Rizzoli, 2016, pp. 825: in quell’anno ci furono circa due milioni di
arresti, circa 700.000 esecuzioni e circa 1.300.000 deportazioni, in
prevalenza di persone comuni, scomparse senza processo, scelte sulla base di
criteri etnici e sociali - op. cit., pp. 13-14. I carnefici venivano a loro
volta periodicamente “liquidati”).
Il concetto espresso da Lenin, nella
citata lettera, è, dal punto di vista sia giuridico che morale, pura barbarie. Chi stabilisce e come, che tizio “aiuta oggettivamente
la borghesia mondiale” o addirittura “p u ò
oggettivamente aiutare” tale borghesia? Con una norma del genere si possono
sterminare “legalmente” tutti i ricchi e anche tutti i borghesi, per il solo
fatto di esser tali: chi più di loro p u
ò aiutare la borghesia mondiale oggettivamente , ovvero per il fatto
stesso di esistere come persona ricca o semplicemente appartenente alla
borghesia?
La condanna a priori di un comportamento
praticamente impossibile ad accertarsi, costituisce di per sé una forma di
falsificazione della realtà. Il fatto
giuridico, invece di essere costruito in modo preciso nella sua fattispecie
normativa, viene presupposto come esistente e in sostanza inventato con l’uso
dell’avverbio “oggettivamente”. Ma qui
di veramente “oggettivo” non c’è nulla:
l’oggettività è pura menzogna ideologica, che malamente nasconde la pura
e semplice volontà di sterminare quello che si considera il nemico di classe,
cioè la borghesia in quanto tale: è la
politica ridotta allo hobbesiano homo homini lupus.
Il carattere ideologico caratterizza
dunque la menzogna totalitaria, soprattutto quella comunista e senza trascurare
ovviamente quella nazista (assai meno quella fascista, dato il carattere per
fortuna pseudo-totalitario di quel regime – vedi supra).
“La menzogna totalitaria non è quella
tradizionale, machiavellica, che ancora riconosce la differenza tra vero e
falso, ma quella propriamente ideologica, per la quale vero e falso, bene e
male non esistono più come tali, e sono ideologicamente reinventati ogni
giorno, fino a non avere più alcun rapporto con la realtà” . Così il prof. Dall’Asta (p. 303). Qui non abbiamo più “uno scontro tra diverse
idee della realtà ma tra la realtà e una fantasia che vuole prenderne il posto:
l’interpretazione, la surrealtà ideologica, deve eliminare la realtà autentica;
e la novità del male ideologico consiste appunto nella pretesa che ci sia
un’idea nel cui nome si debba eliminare la realtà. Il nemico va schiacciato come se fosse un
insetto perché nessuno possa più
sospettare che non è un insetto ma un essere umano. Non c’è più la realtà, ma quello che il
potere pensa di essa; nel mondo non ci sono più le cose che tutti vediamo, ma solo
quello che vede il potere e secondo quello che il potere decide debba essere il
suo significato”(ivi). Così la realtà
viene nascosta negli slogan e nelle definizioni dell’ideologia. Per fare un esempio, la pena di morte, reintrodotta
in Russia da Lenin nel 1918, dal 1927 si chiamava ufficialmente “misura di
difesa sociale”, non meglio specificata (ivi).
Questa scissione tra realtà e idea, questa
trasformazione dell’idea prodotta dall’ideologia nella vera e unica realtà che
si deve credere esistente, è anche conseguenza (sottolinea il prof. Savarese)
del primato conferito alla prassi, connotato essenziale del marxismo – quel primato
che, come si è visto, consiste nell’attribuire al pensiero il compito non
di comprendere ma di trasformare completamente (verändern) la
realtà. Questa intrapresa comporta la
necessità di “reimpostare le categorie e la grammatica elementare della verità,
il modo in cui la verità viene sentita, cercata e perseguita”(p. 313). Reimpostarle,
aggiungo, secondo un determinato contenuto, dal momento che, per Marx, si pensa
sempre e solo storicamente, socialmente, collettivamente; contenuto che, dal
punto di vista della prassi rivoluzionaria, può essere solo quello che emerge
dall’analisi marxiana della condizione umana e sociale, fatta propria in modo
particolarmente settario da Lenin.
[La verità è al servizio della
Rivoluzione] Da questa analisi, emerge che, dal punto di vista
marxista, non ci può esser posto per i cosiddetti valori, da accettare
come verità assolute, super partes, nel campo della morale e del diritto e
tantomeno, ovviamente, della politica:
la verità si può tranquillamente manipolare ai fini della rivoluzione.
“Un comunista deve esser pronto a compiere ogni sacrificio e, se necessario,
a ricorrere a ogni tipo di accorgimento e stratagemmi, a impiegare metodi
illegali, a celare la verità per infiltrarsi nei sindacati, consolidarvisi e
svolgervi attività rivoluzionaria” (tratto da: I principi essenziali del
leninismo, in Appendice alla classica biografia di David Shub, Lenin,
tr. it., Longanesi, Milano, 1972, p. 614).
L’etica
comunista, esisteva un’etica comunista? Lenin
affermava che sì, essa c’era ma non aveva nulla a che fare con l’etica
borghese. Essa si riassumeva nella
fedeltà cieca ed assoluta al partito e all’ideale comunista. Cosa che non aveva
nulla a che vedere con l’etica propriamente detta, liberamente manipolabile
nell’interesse della lotta di classe.
“In che senso ripudiamo etica e
moralità? Nel senso che esse sono state
predicate dalla borghesia, che dichiara che l’etica è rappresentata dai
comandamenti di Dio. Noi, naturalmente,
affermiamo di non credere in Dio e di sapere perfettamente che il clero, i
proprietari terrieri e la borghesia parlano in nome di Dio per perseguire i
propri fini di sfruttamento. Quando poi
costoro non fanno derivare la loro etica dai comandamenti di Dio, la ritraggono
da frasi idealiste o semiidealiste, sempre simili ai comandamenti.
Noi ripudiamo tutta questa moralità tolta
dagli umani concetti classicistici. Affermiamo
che si tratta di un inganno, di una frode che ottenebra il cervello degli
operai e dei contadini per gli interessi dei proprietari e dei capitalisti.
Affermiamo che la nostra moralità è
interamente subordinata all’interesse della lotta di classe del
proletariato. La nostra moralità
scaturisce dagli interessi della lotta di classe del proletariato”(citato in
Shub, op. cit., pp. 614-615).
Affermazioni tanto chiare quanto rozze,
nel loro semplicistico ridurre la fede in Dio, la religione, ad una impostura
mirante a conservare il predominio di una classe sulle altre. È la vecchia tesi libertina e poi illuminista
dell’origine della religione, di ogni religione, dall’impostura, escogitata per
dominare sugli altri con la superstizione. Marx e Engels condividevano
quest’impostazione, che in effetti ritroviamo tale e quale nel Manifesto del
partito comunista: “Le leggi, la
morale, la religione sono per il proletariato nient’altro che molteplici
pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono molteplici interessi borghesi”(K.
Marx, F. Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, in K. Marx, Frühe
Schriften, II, a cura di H.J. Lieber e P. Furth, WB, Darmstadt, 1971, pp.
813-883; p. 830).
La dissoluzione della religione e della
morale nell’utilitarismo più radicale, nutrito dall’interesse e dall’odio di
classe; questo far in tal modo tabula rasa di ogni principio morale e di ogni
religione, mostra la presenza nel marxismo di un nichilismo che
l’impalcatura economicistica e utopistica non riesce ad occultare. Qui, a ben vedere, è la radice non solo della
violenza e del terrorismo più spietato ma anche della perversione del concetto
stesso di verità, fatta scadere a semplice ideologia della classe
dominante. Nella ricerca del vero
operano certamente pregiudizi e pre-comprensioni di ogni tipo, di naturale
individuale e sociale. Che però l’animo
umano non ricerchi una verità del tutto oggettiva e finanche assoluta,
non è vero e lo dimostrano non solo le grandi opere della filosofia, della
scienza, della letteratura, dell’arte ma anche il nostro semplice e modesto
armeggiare quotidiano, che mai rinuncia a cercare di sapere “come stanno
effettivamente le cose, come sono effettivamente andate”.
Non si deve tuttavia credere che lo Stato
sovietico fosse lassista in tema di decoro e modestia, di costumi in generale. Al contrario, è sempre stato caratterizzato
da un marcato puritanesimo. Lo stesso
Stalin, che in privato non si sottraeva certo alle relazioni femminili, era
uomo di gusti tradizionali, borghesi, e non tollerava sconcezze, non ammetteva
il minimo cenno di immoralità nella sfera pubblica. Ma il fondamento del moralismo comunista qual
era? Non nella morale tradizionale, considerata
ufficialmente un pregiudizio borghese, né tantomeno nella religione: era
costituito dalle esigenze della classe operaia o meglio del compito
rivoluzionario ad essa ascritto, che richiedeva disciplina, etica del lavoro,
grandi ideali, onesti costumi; insomma, qualcosa di simile al mussoliniano
“credere, obbedire, combattere”, stile di vita che lasciava poco spazio alle
mollezze, borghesi e non. E difatti, il
regime comunista sovietico, ufficialmente puritano a casa sua, mai tralasciò di
finanziare i partiti comunisti e i movimenti sovversivi all’estero, i quali
favorivano nella cultura tutte le tendenze decadenti, al fine di minare e
distruggere l’etica cristiano-borghese, accelerando in tal modo la crisi della
società capitalistica.
Penso, tanto per fare un esempio, alla
diffusione tra il proletariato dei romanzi di Moravia, organizzata a livello
nazionale dal Partito comunista di casa nostra; all’appoggio fornito dal suo
apparato culturale ad un regista come Luchino Visconti, esteta omosessuale, le
cui opere si accanivano spesso contro la “famiglia borghese”. In Unione Sovietica Visconti, nella migliore
delle ipotesi, sarebbe stato mandato a villeggiare in Siberia. E penso, tanto per fare un altro esempio
della politica comunista della doppia verità, a quella triste rivista che era Noi
Donne, da tempo estinto, pubblicata dalla Unione Donne Italiane,
cioè dal Partito Comunista, naturalmente votata all’emancipazione della donna
in tutte le sue forme, nella quale per anni è apparso un inserto giallo,
intitolato Chi cerca trova ospitante, tra l’altro, annunci di donne che
cercavano “amicizia” ossia rapporti saffici, dando numeri di telefono o di caselle
postali o di patente o altro. Solo
alcuni esempi: numero di Giugno
1988: “Lesbica 37enne cerca
disperatamente una compagna per duraturo rapporto”; “Sono una lei che ti cerca
ragazza gay. Troviamoci”. Febbraio 1990: “Affitto anche brevissimi periodi
bella camera con bagno, angolo cottura, TV, riscaldamento, lenzuola, uso
bicicletta o motorino, a donne o a coppie lesbiche (quartiere Montesacro, Roma)”. Mi
capitò di far notare la cosa ad un esponente al tempo abbastanza autorevole di
quel partito, di mia conoscenza, il quale, allibito, replicò: “Ah, ma quelle
[la redazione di Noi Donne] sono state sempre delle pazze, fanno quello
che vogliono, nessuno le controlla!”.
Il prof. Savarese ci ricorda un’altra
“specificità” della “menzogna totalitaria, specificamente nella sua versione
comunista”, quella di ottenere l’adesione pubblica della vittima alla sentenza
che ingiustamente la condannava, con l’ammettere colpe mai commesse e manifestamente
incredibili. “Sembra che tale
peculiarità stia nella pretesa di dire tutto l’uomo e nella pretesa di averne
l’adesione altrettanto totale, l’adesione della coscienza attestata, ove
possibile, dalla pubblica assunzione delle responsabilità controrivoluzionarie. Eliminare fisicamente l’avversario non basta,
occorre riassorbirlo e conformarlo alla propria idea di uomo e di
cittadino; ciò che si richiede è la sua
adesione convinta all’idea d’ordine che
ispira il progetto totalitario e ne guida la prassi” (pp. 316-317). “Adesione” e “riconoscimento di colpa” ebbero
luogo soprattutto nei tragici processi-farsa del 1937-1938, durante il Grande
Terrore, con i quali fu sterminata la cosiddetta “vecchia guardia
bolscevica”. Indubbiamente, i bolscevichi
condannati sapevano perfettamente di essere manipolati da un meccanismo che
loro stessi avevano contribuito a costruire e a far funzionare in quel modo,
negli anni precedenti. E probabilmente
erano sinceri nel mantenere sino all’ultimo la loro fedeltà al partito (e in
qualche caso persino a Stalin) e agli ideali della rivoluzione. Ma c’è anche chi sostiene che certe
confessioni fossero in realtà ottenute con l’inganno, combinando cioè pressioni
e torture di vario tipo con promesse fallaci di liberazione o moderazione nella
pena, in cambio appunto della “confessione”.
Alla gran parte degli assassinati, dei settecentomila del 1937, non si
richiedeva nessuna confessione, non sapevano nemmeno qual era il capo d’accusa,
se c’era: svanivano improvvisamente e in
silenzio nel nulla, nella notte orrenda del Terrore indiscriminato e totale.
Il prof. Savarese conclude la sua Postfazione
ampliando giustamente il discorso, con l’accennare al fatto che oggi, “su
certi temi attualissimi passano linee neototalitarie molto insidiose, come
quelle portate dall’esasperazione autoreferenziale della tecnica o dalla
frammentazione dell’immaginario culturale”(p. 317). Egli ha di recente approfondito il tema
delicato del “vivere nella menzogna” diffusosi anche in Occidente con il
dominio del “politicamente corretto”, nonostante l’ovvia assenza di Stati
totalitari, in un importante articolo sul quadrimestrale Nomos 2 –
2018: Dalla bugia alla menzogna: la
post-verità e l’impossibilità del diritto. (Quest’articolo è apparso in traduzione
francese sul n. 141, Automne 2018, di Catholica, con il titolo: La
post-vérité ou la fin du droit, pp. 12-20; numero sul quale è da segnalare
l’editoriale di Bernard Dumont: Le nouvel esprit totalitaire, pp. 4-11).
Abbiamo dunque rinunciato addirittura al
concetto stesso della verità sì da rassegnarci a vivere all’insegna della post-truth,
vocabolo che l’Oxford Dictionary
ha scelto quale parola dell’anno per il 2016, tanto è apparso frequente il suo
uso in quell’anno? Il post-moderno,
essendo “post” di tutto, lo è anche della verità, in quanto tale? A queste assurde conclusioni non può che
arrivare un relativismo conoscitivo ed etico giunto al punto di non ritorno.
[“Vivere senza menzogna”,
l’insegnamento imperituro della Dissidenza] In queste tenebre ci è di
conforto e di guida l’esempio che viene
dalla recente Dissidenza anticomunista, così ben illustrata in questo
volume. Da essa, dalla “resistenza dei senza
potere”, sottolinea il prof. Savarese, abbiamo avuto un grande
insegnamento: il principio guida non
solo della politica ma anche della vita di ciascuno deve essere “la vita nella
verità”(p. 316). Concordo
pienamente: non si può accettare di
vivere nella menzogna, bisogna al contrario impegnarsi a vivere senza
menzogna, come spiegò Solženicyn nella sua famosa lettera pubblica del 12
febbrario 1974, intitolata appunto: Vivere
senza menzogna, giorno in cui fu arrestato
e poco dopo espulso dall’Urss. “Infatti, la violenza [del regime] non ha
altro dietro cui coprirsi se non la menzogna, e la menzogna non può reggersi se
non con la violenza. Non tutti i giorni
né su tutte le spalle la violenza abbatte la sua pesante zampa: da noi esige solo docilità alla menzogna,
quotidiana partecipazione alla menzogna:
non occorre altro per essere sudditi fedeli. Ed è proprio qui che si trova la
chiave della nostra liberazione, una chiave che abbiamo trascurato e che pure è
tanto semplice e accessibile: il
rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna. Anche se la menzogna ricopre ogni cosa, anche
se domina dappertutto, su un punto siamo inflessibili: che non domini per
opera mia!”(Solženicyn, Vivere senza menzogna, con la lettera ai
dirigenti dell’Unione Sovietica, Mondadori, Milano, 1974, pp. 65-66. Nella Lettera ai dirigenti sovietici,
il grande scrittore ad un certo punto affermava: “non l’autoritarismo è in sé intollerabile ma
la menzogna ideologica imposta quotidianamente”, op. cit., p. 53).
La vita dentro la m e n z o g n a pianificata:
“Come tutto ciò che avveniva nel Paese,
anche questa indignazione spontanea contro i sanguinosi crimini degli ebrei era
stata ideata e pianificata in anticipo.
Allo stesso modo Stalin progettava le elezioni al Soviet Supremo: gli obiettivi venivano scelti in anticipo, si
designavano i deputati, dopodiché aveva luogo, secondo il piano, la spontanea
designazione dei candidati, la propaganda elettorale a loro favore e, infine,
si arrivava alle elezioni popolari. Allo
stesso modo si indicevano tempestosi comizi di protesta, esplosioni d’ira nel
popolo e dimostrazioni di fraterna amicizia; sempre allo stesso modo, varie
settimane prima della parata festiva, ne veniva controllata la radiocronaca
dalla Piazza Rossa: “Vedo in questo momento sfilare a gran velocità carri
armati…”.[…] Allo stesso modo in anticipo si indicava quali fossero gli agenti
segreti di Paesi stranieri, i sabotatori, le spie; dopodiché, nel corso di
complicati interrogatori incrociati si sottoscrivevano protocolli dove
ragionieri, ingegneri, giureconsulti – ancor di recente ignari di appartenere
alla feccia controrivoluzionaria – confessavano poliedriche attività di spie
terroristiche. Allo stesso modo venivano
preparate lettere che madri dalla voce priva d’espressione leggevano dinanzi ai
microfoni, rivolgendosi ai figli soldati; allo stesso modo veniva pianificato
in anticipo l’impeto patriottico di Ferapont Golovatyj [fabbro che offrì “spontaneamente”
all’inizio dell’attacco nazista una grossa somma per costruire un carro armato,
molto probabilmente costrettovi - NdT];
così venivano nominati i partecipanti alle libere discussioni, se per qualche
ragione occorrevano delle libere discussioni, si preparavano e accordavano in
anticipo i discorsi dei partecipanti.
E, improvvisamente, il cinque marzo
[1953], Stalin morì. Quella morte venne
a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e
d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione. Stalin morì senza che ciò fosse pianificato,
senza istruzione degli organi direttivi.
Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte
conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza
dello Stato. Lo sconcerto invase le
menti e i cuori..” (Vasilij Grossman, Tutto
scorre…, tr. it. di G. Venturi, Adelphi, Milano, 2010, pp. 32-33).
Tuttavia, bisogna ammettere, sottolineo,
che “vivere senza menzogna” è difficile.
Quando la menzogna dilaga ed è professata anche dalle istituzioni,
imposta dallo Stato, per esempio con leggi contronatura come quelle che
autorizzano il “matrimonio gay” o
“l’educazione gender” nelle scuole, e nessuno ne sembra
particolarmente scandalizzato, opporsi richiede un coraggio che sono in pochi a
possedere. Del resto, è stato sempre
così: ad opporsi al conformismo sorretto dal Potere sul piano etico prima
ancora che politico sono state sempre delle minoranze, anche al tempo dei
martiri cristiani. La gran maggioranza è
fatalmente, fragilmente “docile alla menzogna”.
Oggi, in Occidente, viviamo nella
“menzogna ideologica imposta quotidianamente” dal “politicamente corretto”,
figlio (come ho detto) di una mentalità nichilistica diffusa nell’incoltura di
massa che ha fatto dell’irrealtà un modo normale di vivere, di essere,
uno status degradato per certi aspetti peggiore di quello della società
sovietica di un tempo. Viviamo anche,
vorrei aggiungere, nella “menzogna teologica” grazie alle mutazioni intercorse
nella dottrina e nella pastorale della Chiesa, a partire dal pastorale Concilio
Ecumenico Vaticano II, presentate sempre come se corrispondessero perfettamente alla dottrina di sempre, come se nulla fosse mutato nell'insegnamento ufficiale della Chiesa.
[L’abolizione della realtà] Riprendo il prof. Savarese. “Occorre però anche notare, che il fronte
neototalitario va oltre la menzogna, ancora legata alla negazione della verità
e, quindi, alla ricerca di essa da parte dell’uomo; il nuovo fronte è
l’abolizione della realtà simpliciter, abolizione che si fa istituzione
mediante lo stravolgimento del linguaggio, la sua frammentazione
nell’immaginario in cui sia la vita nella verità come la sua negazione,
l’abolizione di ogni verità, non accede nemmeno al senso o alla sua espressione
, perché ormai privi di presa, di ancoraggio a un qualsiasi terreno su cui stare
e, conseguentemente, operare. Si
aggiunga che quello che qui denomino abolizione della realtà è un processo in
corso e in rapida evoluzione e, perciò, non solo è di difficile analisi, ma
estremamente sfuggente nei suoi punti qualificanti e imprevedibile nella sua
potenzialità disgregativa di tutto ciò che è umano”(p. 319).
L’abolizione della realtà:
giustissimo concetto per descrivere quello che sta accadendo. Pensiamo
al linguaggio imposto dalla Rivoluzione Sessuale, adottato purtroppo anche
dalle sciagurate leggi che l’hanno promossa nelle nostre società. Non si deve più dire “sesso” ma “genere”, gender,
in inglese. Non si deve più dire:
“padre” e “madre” ma “genitore 1 “ e “genitore 2”, dal momento che i “genitori”
possono essere oggi due omosessuali o due lesbiche! A tanto, bisogna dire, l’abolizione della
realtà imposta dal linguaggio dell’ideologia comunista non era arrivata. E perché non si deve più dire? Perché si vuole imporre la bizzarra idea che
il sesso, la distinzione naturale tra il maschio e la femmina, comune a
tutto il mondo animale, non sia appunto una realtà della natura ma un prodotto
della società, un fatto della “cultura”, onde ciascuno potrebbe scegliere mentalmente
a quale “genere” appartenere, con pieno diritto “sentirsi” femmina se è nato maschio
o maschio se è nato femmina. E il
legislatore dovrebbe limitarsi a trarne le conseguenze. Sono autentici deliri, tuttavia presi sul
serio da classi dirigenti che hanno evidentemente smarrito il ben
dell’intelletto. La soppressione della
realtà in favore dell’immagine imposta dall’ideologia marxista non era arrivata
ad abolire la natura, negando la distinzione e differenza naturale e complementare
dei sessi. Si è giunti a tanto perché da
noi l’anormale è diventato normale ed anzi privilegiato rispetto a ciò che è normale; ciò che è contronatura deve prevalere sulla
natura. Questo rovesciamento è stato
reso possibile anche dal progresso della scienza nella manipolazione della natura, che ha permesso i ben noti orrori
delle ‘maternità” artificiali, surrogate, “omosessuali” e chi più ne ha più ne
metta. C’è stato anche tradimento da
parte di certe organizzazioni scientifiche internazionali, quando, ad esempio,
si è voluto ufficialmente dichiarare che l’omosessualità non deve più
considerarsi una patologia, curabile come ogni patologia, ma una
inclinazione od “orientamento” normale: cosa del tutto falsa, scientificamente
inaccettabile. E difatti, il cromosoma
dell’omosessualità non è mai stato scoperto, checché ne dicano i media.
Ma non occorre avere una laurea in
medicina e specializzazioni in psicologia e psichiatria per capire che
l’omosessualità è una patologia, una tendenza appunto contro natura,
basta usare il senso comune. Cinque
secoli circa prima di san Paolo, Platone scriveva nel suo ultimo dialogo, criticando
l’uso dei “ginnasi” e dei “pasti incomune” o sissizie tra giovani dello stesso
sesso a scopo educativo-militare: “E
ancora pare che quest’uso abbia corrotta un’antica legge di natura che dovrebbe
governare sempre i piaceri sessuali non solo degli uomini ma anche delle
bestie. E di questi mali si dovrebbero
accusare primi i vostri Stati e tutti gli altri poi che fanno uso larghissimo
dei “ginnasi”; e sia che di questo argomento si pensi per gioco o seriamente,
bisogna riconoscere che tale piacere sembra esser stato attribuito dalla natura
al genere femminile e a quello dei maschi in quanto fra loro si uniscono per la
generazione, ma l’unione dei maschi coi maschi o delle femmine con le femmine è
contro natura [katà physin], atto temerario creato fin da principio da
disordinato piacere”( Plat., Leggi, I, 636 c; tr. it. di A. Zadro, in:
Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. II, p. 624).
Voegelin caratterizzava il totalitarismo
come “divieto di porre domande”. E Del Noce, che ha approfondito il concetto, annotava come, nel quadro di riferimento
marxista, appariva del tutto inutile porre domande sulle verità essenziali, ad
esempio porsi il problema della nostra stessa esistenza, dell’esistenza di Dio
e del nostro destino dopo la morte, le domande cui tradizionalmente risponde la
religione. Marx e Lenin credevano che,
semplicemente eliminandone le basi culturali e sociali, sopprimendola e contemporaneamente educando il popolo al
verbo scientifico e filosofico materialista, la religione sarebbe scomparsa: l’individuo non si sarebbe nemmeno più posto
la domanda sul significato della vita, sul suo destino eterno, su Dio, sul Bene
e sul Male. È accaduto esattamente il contrario,
come sappiamo.
L’errore filosofico di Marx sulla natura
dell’uomo, che egli semplifica in senso materialista, è emerso in tutta la sua
crudezza. Ritenendo il contenuto del
pensiero un mero riflesso delle condizioni sociali, ragion per cui le ingiustizie
del capitalismo erano a suo dire all’origine della fuga nel trascendente, nel
regno dei valori – sarebbe bastato abolire il capitalismo e instaurare una
società comunista per fornire al pensiero un contenuto privo di ogni tentazione
trascendente: l’esigenza del divino sarebbe caduta da sé. Ma la società comunista, instaurata con la
violenza più spietata, si è, come ogni altra società, rivelata del tutto
imperfetta ed anzi, per certi fondamentali aspetti, assai peggiore di quella
capitalistica. Pertanto, le domande
angosciate sul senso della vita, sul nostro destino ultraterreno, su Dio sono
inevitabilmente riapparse. E in modo
potente, l’aspirazione alla libertà, alla quale, quando è conculcata, l’animo e
il pensiero avidamente tendono: “È
davvero splendida la libertà, se basta evocarla perché la sua immagine riempia
di felicità”(Vasilij Grossman, Tutto scorre…, cit., p. 227). Il
fatto è che il contenuto del nostro pensare non può esser predeterminato dal tipo di società nel quale storicamente si
trovi colui che pensa, ma solo influenzato da essa e in modo spesso
marginale. Se così non fosse, il
pensiero non si riproporrebbe sempre le stesse domande sul significato della
vita, sui valori, su Dio, quale che sia il tipo di società nella quale il
soggetto pensante si trovi a vivere. Il
senso del divino e la necessità dell’esistenza di un Dio creatore ce lo
suggerisce, del resto, già la contemplazione della natura, con il suo
meraviglioso ordine, che rinvia al Nous, ad una mente sovrana,
onnisciente e onnipotente che l’abbia creato.
[La proibizione di far domande in
Occidente] Ma a porsi di
nuovo la domanda sui valori essenziali, su Dio e il destino finale della nostra
anima, sono in pochi oggi, in Occidente.
Questa è, a mio avviso, l’amara realtà, dovuta non solo al prevalere di
una cultura a sfondo scientistico e nello stesso tempo esistenzialista e
nichilista che degrada nel materialismo più radicale e nell'irreligiosità più
abietta ma anche al fatto che il discorso sui valori e sulla trascendenza è in
pratica scomparso dall'insegnamento della Chiesa cattolica, dopo il Concilio.
Anche da noi, è oggi di fatto probito far domande e di qualsiasi tipo e correlativamente
di emettere giudizi di qualsiasi tipo, in particolare di carattere
morale. Pensiamo, tanto per fare un
esempio, all’impossibilità di intaccare il dogma dell’uguaglianza assoluta:
tra uomini e donne, tra tutti gli individui, tra tutti i popoli; un’ideologia
che impone il dovere di cancellare ogni differenza, come se fossimo appunto per
natura tutti uguali, sopprimendo l’individualità concreta dei popoli, la
loro storia, le loro tradizioni, azzerando gli individui nella massa informe e
indifferenziata del tutti uguali. Il principio d’uguaglianza è scaduto
ad un perverso ugalitarismo da imporre a tutto e a tutti e che tende ad
includere anche gli animali, considerati addirittura titolari di diritti. Ma finora si è rivelato impossibile metterlo
in discussione, anche timidamente. Ugualitarismo
vuol dire che non si è ritenuti uguali nonostante le ovvie differenze di
vario tipo che l’esperienza ci mostra.
Si è uguali perché non esistono differenze e, se esistono, non
devono più esistere. L’ugualitarismo,
applicato ai rapporti tra i sessi, è giunto alle conseguenze più incredibili e
distruttive.
Siamo simili, maschi e femmine, ma
certamente non uguali, la cosa appare già dall’evidenza fornita dalla
natura. Ma proprio il concetto di natura
viene negato, unitamente a quello di
una sostanza che costituisca l’essenza delle cose, manifestandosi
nelle loro qualità o proprietà ma in se stessa distinta. Esser simili significa
esser in parte uguali ed in parte disuguali: cosa che non impedisce di esser
uguali davanti alla legge o di avere uguale dignità, in quanto persone.
L’ugualitarismo che si è voluto imporre ai sessi, ha avuto conseguenze
disastrose per l’intera società, dal momento che le leggi oggi autorizzano le
donne a fare tutti i mestieri e le professioni degli uomini (persino il
soldato), obbligandoci a vivere in un regime di ininterrotta, onnipresente
promiscuità, del tutto negativo per l’efficienza delle istituzioni e per la morale
e i costumi, come dimostrano ad abundantiam le cronache quotidiane. Ma anche per la sopravvivenza di un popolo,
poiché le donne che fanno tutti i mestieri degli uomini, che vivono, quindi, e
vogliono vivere come se fossero uomini, non sono più capaci alla fine di fare
le donne, di vivere come devono secondo natura vivere le donne: non voglion più sposarsi, non si sposano,
praticano a gran maggioranza liberissimi e lascivi costumi, come appunto gli
uomini da esse assunti a modello – i singles autonomi e indipendenti, sommi egoisti, gaudenti senza famiglia e senza religione – e non vogliono più aver figli, con la
conseguenza che i popoli etnicamente europei sono afflitti da una denatalità
che li sta avviando all’estinzione.
Ma si riesce ad aprire una discussione
pubblica su queste gravi questioni? No, il “politicamente corretto” lo
impedisce. Ma è anche vero che nemmeno i
cattolici pensosi delle sorti della religione, della vera famiglia e dei
costumi, la cosiddetta “galassia tradizionalista”, sembra ansiosa di mettere a
fuoco la “questione femminile”, parte essenziale della più ampia “questione
morale”che ci affligge. Il fatto è che
la menzogna ideologica è penetrata anche nel linguaggio della Chiesa, a
partire dall’infausto, pastorale Concilio Ecumenico Vaticano II. In fatto di formulazioni ambigue quel
Concilio ha persino anticipato il politicamente corretto dominante.
[La “menzogna teologica”, retaggio del
Concilio] Si pensi all’espressione
accommodata renovatio. Tutti gli
istituti di vita consacrata, conventi, monasteri, clausure, trappe, dovevano
essere rinnovati ma solo in un certo modo, reso dall’aggettivo accommodata: “rinnovamento adattato, commisurato a, che si
adatta a, che si aggiorna”. Ma a che cosa?
Alle “mutate condizioni dei tempi”, dice il Decreto conciliare del 28 ottobre
1965, Perfectae Caritatis, de accommodata renovatione vitae religiosae,
però sempre in armonia con la tradizione, si capisce: con il “continuo ritorno”
alla “primitiva ispirazione”. Art.
2: “Il rinnovamento aggiornato [accommodata renovatio] della vita
religiosa comporta il continuo ritorno alle fonti di ogni forma di vita
cristiana e alla primitiva ispirazione degli istituti e nello stesso tempo
l’adattamento [aptationem] degli istituti stessi alle mutate condizioni
dei tempi”. L’ambiguità del concetto
riposa sulla contraddizione che sembra dominarlo. La caratteristica della vita
dei religiosi (secondo i tre voti di castità, povertà, obbedienza) è sempre
stata quella di essere in completa antitesi con il mondo esteriore, regno del
Principe di questo mondo, la cui figura peccaminosa è caduca e passeggera. Com’è possibile, allora, che “il ritorno alle
fonti”, alla “primitiva ispirazione degli Istituti”, avvenga contemporaneamente
e anzi servendosi anche del loro “adattamento alle mutate condizioni dei
tempi”? L’adattamento a quelle
condizioni, che sono quelle del moderno mondo secolarizzato e miscredente,
dominato dal culto dell’Uomo, non impedisce di per sè il “ritorno alle fonti”? E difatti, la vera vita monastica in pratica
è scomparsa e quei pochi Istituti che tentano di rinnovarla ripristinando la
“primitiva ispirazione” senza però “accomodarla” allo spirito del mondo,
vengono osteggiati, perseguitati, se possibile distrutti sotto il governo del
presente Pontefice, Francesco, zelante esecutore dei dettati del Concilio.
Il
resto del Decreto ordinava di rivedere e quindi aggiornare le
costituzioni, i direttòri, i consuetudinari, i manuali di preghiere e di
cerimonie “ed altri simili libri”, di sopprimere le parti che non fossero più
attuali, di modificarli secondo le direttive presenti nei documenti del
Concilio stesso (PC 3). Tali direttive
valevano anche per gli istituti di vita contemplativa (PC 7) e per i membri
della “vita religiosa laicale”(art. 10).
Insomma, una tabula rasa collettiva e generalizzata. L’art. 18 consacrava infine l’irruzione della
mentalità secolare nei conventi e monasteri: “Per evitare poi il
pericolo che l’adattamento alle esigenze del nostro tempo sia solo esteriore [adaptatio
sit mere externa] …i religiosi…secondo le capacità intellettuali e il
carattere di ciascuno, siano convenientemente istruiti intorno alla mentalità e
ai costumi [SIC] della vita sociale odierna”.
Ed inoltre: “Per tutta la vita
poi i religiosi si adoperino a perfezionare diligentemente questa cultura
spirituale, dottrinale e tecnica, e i superiori, nella misura del possibile,
procurino loro a questo scopo l’occasione opportuna, i mezzi e il tempo
necessari”.
Non veniva qui meno ogni ambiguità? No, perché permaneva, per quanto inane, il
dettato iniziale, secondo il quale si doveva sempre attuare il ritorno “alle
antiche fonti” degli Istituti di vita religiosa e alla loro “primitiva
ispirazione”. E quindi si poteva sempre
dire (e non lo si diceva?), che non c’era contraddizione perché la “primitiva
ispirazione” non era toccata dalle riforme.
Tutto era conforme alla tradizione, come nell’altra posteriore formuletta,
quella della “riforma nell’ermeneutica della continuità”. Potrei citare altri noti esempi di ambiguità
teologicamente distruttiva nell’eloquio della “Chiesa conciliare” ma non credo
sia necessario. Voglio concludere, su
questo punto, ricordando che il “divieto di porre domande” si attua anche nel
“divieto di insegnare la morale cristiana tradizionale o di riproporre le
verità di fede del Giudizio e dell’Inferno”. Si attua, cioè, anche in modo
correlato nel divieto di giudicare, che poi esprime, a ben vedere, il divieto
di insegnare, non riconoscendosi più a nessuno l’autorità per
insegnare e in sostanza comandare e governare. Infatti, le cronache ci informano che i rari
sacerdoti che abbiano abbozzato qualche timida rampogna pubblica alle donne di
oggi per i loro immodesti costumi o che abbiano ricordato la possibilità di
andare all’Inferno se si muore all’improvviso (magari in un incidente stradale)
senza esser in grazia di Dio, sono stati immediatamente denunciati dai fedeli
ai loro vescovi e persino rimproverati da questi ultimi e sostituiti! A tal punto è giunta la corruzione della fede
e il tradimento della propria missione nell’ambito dell’odierna Chiesa
cattolica!
Caratteristica del linguaggio della
menzogna ideologica che mira a nascondere o a perseguire uno scopo non
dichiarato e spesso non dichiarabile, sembra quella di proporre una
terminologia sintetica, di per sé non del tutto chiara, che si disvela
solo nelle sue applicazioni, allargandosi a pioggia in vari campi. Si tratta di una terminologia che diventa parola
d’ordine e segno di riconoscimento dei buoni dai cattivi: chi la critica è ipso
facto fuori del consorzio
democratico. Pensiamo a termini come:
“inclusione”, “inclusivo”, “diversità”,
“migrante”, quasi tutti di origine anglo-americana. “Migrante” l’ha imposto l’ONU, invece di
“clandestino”: quest’ultimo,
corrispondente al vero, allo stesso modo di “invasore musulmano”, apparirebbe
discriminatorio.
E che dire di
“affirmative action”? La nozione appare
oscura. La “affirmative action”,
espressione del linguaggio burocratico statunitense, era un’azione (in genere
dello Stato) per favorire coloro che subivano o avevano subìto “discriminazioni”. L’istituì il Presidente J.F. Kennedy nel 1961
a favore degli afro-americani. Poi fu estesa alle donne, in generale. Tale
“azione” consisteva all’atto pratico nel riservare quote di posti
nell’amministrazione e altri privilegi ai supposti “discriminati”. Insomma, la “affirmative action” ha cominciato
a privilegiare delle minoranze che, in conseguenza di ciò, sono diventate
sempre più aggressive e arroganti.
La “affirmative
action” naturalmente si collega alla “inclusivity”, essa comporta “inclusione”
delle minoranze, che comprendono anche
quelle dei “diversi” cioè degli omosessuali d’ambo i sessi. Sacerdoti gay-friendly come il gesuita James
Martin osano scrivere indisturbati che la Chiesa deve essere “inclusiva”, deve
includere la “diversità” ossia includere gli omosessuali, accogliendoli come
tali. Ma nei patinati inserti delle
edizioni del sabato dei grandi giornali anglo-americani si possono leggere
interviste con esperti che ti spiegano come il business internazionale abbia
tutto da guadagnare dal diventare sempre più “inclusivo” e quindi aperto alla
“diversità”. Si capisce che tale
“inclusività” comprende gli omosessuali e le lesbiche, da promuovere ai posti
di lavoro; le donne, pure da promuovere; e gli stranieri, in genere asiatici e
africani. Che debba includere tutte
queste “categorie” non lo si dice mai apertamente, però lo si fa capire. Questa è una caratteristica del
linguaggio politicamente corretto:
esprimersi quasi sempre per allusioni, evitando in genere di chiamare le cose
con il loro nome. Far capire, senza
bisogno di scomode, ovvie definizioni. E
chi non capisce, peggio per lui. Può
venir bollato come “omofobo”, “razzista”, “sessista”, “fascista”, etc. Un altro termine volutamente ambiguo è governance che si deve spesso e volentieri usare al
posto di government, troppo
“esclusivo”, perché indica il governo dello Stato per il bene comune; governance è invece per
l’appunto “inclusivo” e proprio a causa della sua indeterminatezza. Indica,
infatti, il governo dello Stato in simbiosi con il governo di fatto di diversi
gruppi sociali, che possono andare dalle minoranze ai sindacati, a comunità di
vario tipo. Ma questo governo, i cui
confini restano indefiniti e nel quale non si individua una precisa
responsabilità, ispirandosi esso al
principio di solidarietà (elastico quanto alla sua definizione) si attua in modo che il governo responsabile
secondo la Costituzione svolga un’attività di mediazione più che di comando, in
tal modo snaturandosi. La governance è una nebulosa nella quale i più forti fanno
la parte del leone; è la dissoluzione ipocrita del vero governare in una sorta
di stato di natura di tipo hobbesiano.
Il discorso
“politicamente corretto”, per via dell’ambiguità in cui nuota, implica, come
hanno rilevato in molti, un impressionante “regresso culturale”. Inoltre, ha una tinta ipocrita poiché la
verità che vuol far passare è in genere quella del non-detto. Quando il gesuita James Martin scrive che la
Chiesa deve essere “inclusiva” degli omosessuali, dice una cosa solo
apparentemente chiara, dal momento che le persone comuni non comprendono che
cosa voglia effettivamente dire “includere” gli omosessuali nella Chiesa, visto
che non si dice mai chiaramente che essi possono esservi “inclusi” solo se si
pentono, si convertono a Cristo, cambiano vita.
Dir loro questo, ossia proporre loro la vera dottrina cattolica, sarebbe
un escludere, un farli
sentire discriminati! In effetti allo “includere” si accompagna il
“mettersi in ascolto” nei confronti degli omosessuali, “l’accompagnarli” in un
processo di “discernimento” etc.: si
tratta di una terminologia, applicata a svariate categorie, anche ai divorziati
risposati conviventi che vogliano sacrilegamente fare la S. Comunione, che si distingue per la sua opacità, dove ciò che conta è ciò che non vien detto apertamente
ma lasciato intuire.
L’accusa di ipocrisia viene poi rivolta al
“politicamente corretto” anche perché esso di fatto prospera nelle società
formalmente democratiche, quelle che garantiscono, sulla carta, una completa
libertà di parola, salvo ovviamente gli insulti, le ingiurie, le calunnie.
Paolo Pasqualucci
Mercoledì 21 novembre 2018