giovedì 6 settembre 2018

Filosofia: P. Pasqualucci, Le 5 tesi preliminari della metafisica del soggetto - Sinossi



Paolo  Pasqualucci -
Le  cinque  tesi  preliminari  della metafisica  del soggetto -
Sinossi


NOTA   PREVIA

Dopo il  post pubblicato  recentemente su questo blog con la “prefazione” alla metafisica del soggetto. cinque tesi preliminari,  pubblico ora la “introduzione”,  ovvero la  “sinossi delle cinque tesi". ”   Per comodità del lettore riporto nuovamente in apertura le cinque tesi nella versione aggiornata  apparsa all’inizio del secondo volume dell’opera, dedicato a “Il concetto dello spazio”,  Giuffrè ed., 2015.   Questa versioen è leggermente ampliata rispetto al testo apposto in apertura al primo volume di questa stessa opera, uscito nel 2010. 
Il testo, risalente a  otto anni fa, ha subito qualche ritocco e una sostanziale aggiunta alla terza tesi, che tratta del  concetto del tempo.   


  
LE  CINQUE  TESI  PRELIMINARI  DELLA  METAFISICA  DEL SOGGETTO


I.       Il pensiero in atto non può mai darsi simultaneamente due o più contenuti diversi.  Il contenuto delle nostre operazioni mentali è sempre unico poiché è inserito in una irreversibile successione di pensieri nel tempo, uno per uno, uno dopo l’altro.

II.     Lo spazio è condizione empirica (e non trascendentale) della possibilità della nostra conoscenza.  Esso è la dimensione intrinsecamente vuota, continua, omogenea, identica in tutte le direzioni (isotropa), immobile, infinita, che permette alla materia e all’energia di avere luogo e moto (spazio assoluto).

       III.  Il succedersi del contenuto (sempre singolo ed individuale) del nostro pensiero in atto (nel linguaggio comune, il succedersi dei nostri pensieri) non può aver luogo altro che nel tempo.  Il tempo costituisce allora una dimensione reale, senza la quale i nostri pensieri non potrebbero essere :  non è creato dai nostri pensieri più di quanto lo sia lo spazio dal nostro movimento. ­

IV.   Il pensiero non può identificarsi tout court con la coscienza, che è solo un determinato contenuto del pensiero in atto, non il presupposto stesso del pensare.  L’idea di una consapevolezza implicita è inaccettabile.

V.   Esiste un ordine a fondamento della nostra conoscenza, che si rivela già nell’ordine temporale (la successione, come tale irreversibile) del contenuto dei nostri pensieri in atto.  Quest’ordine non è posto dal soggetto pensante ma deve esser da esso riconosciuto.  L’ordine che compare nell’Io è parte dell’Ordine che governa il Tutto.





SINOSSI  DELLE  CINQUE  TESI



Prima  tesi

Il pensiero in atto non può mai darsi simultaneamente due o più contenuti diversi.  Il contenuto delle nostre operazioni mentali è sempre unico poiché è contenuto in una irreversibile successione di pensieri nel tempo, uno per uno, uno dopo l‘altro


La tesi ha una portata universale.  Essa non vale solo per quel contenuto del nostro pensare in atto che si traduca in concetti, dedotti dall’esperienza o da altri concetti, intesi a rappresentarci il significato intrinseco di qualcosa, quale esso sia (del comportamento mio o di un altro, del bello in relazione a certe opere d’arte, dell’immagine contenuta in un certo ricordo, delle nuvole che compaiono all’orizzonte etc; ossia di un’azione, un concetto, un’immagine, una sensazione).  Vale, ugualmente, per quel contenuto del nostro pensiero in atto che esprima l’aver coscienza di qualcosa, il sapere di sapere (come si suol dire), sino alla coscienza di sé o autocoscienza;  sia costituito, il qualcosa, dall’attività dei nostri sensi (so di vedere, di sentire) o da un’attività mentale (so di leggere, di pensare) o da un fare in generale (so di camminare, di suonare uno strumento, di lavorare).
Affermo che, nella medesima unità di tempo, nell’istante dato o nella durata, noi non riusciamo mai a pensare simultaneamente a due o più azioni diverse o a due o più concetti diversi  a due o più immagini diverse, o a due sensazioni diverse.  Non riusciamo ad analizzarle ed interpretarle, a dar loro significato simultaneamente.  Né, similmente, ad aver coscienza di un sentire o di un fare o di un pensare, mentre siamo impegnati nelle nostre sensazioni o nel fare o nel pensare.  Il pensiero costituito dall’esser cosciente di vedere o di fare o di pensare già mi astrae dal vedere stesso, o dal fare, o da ciò cui stavo pensando.  È quindi un pensiero a sé, non simultaneo ad alcun altro, nemmeno al pensiero stesso del quale ci si senta consapevoli.
Il principio qui affermato si fonda sulla mia esperienza interiore, sull’indagine di me stesso in quanto soggetto pensante.  Ritengo impossibile far convivere, simultaneamente, nell’unità di tempo data, due o più contenuti del nostro pensiero in atto, quali che siano, perché, indagando in me stesso, io non vi sono mai riuscito.  Non sono mai riuscito a far emergere la consapevolezza di una siffatta simultaneità di contenuti e sono convinto che questo insuccesso non dipenda tanto da una mia incapacità quanto da un’impossibilità intrinseca della nostra mente, che è stata evidentemente costruita in un certo modo da Colui che ci ha creato, Iddio onnipotente.
Sulla base della mia esperienza interiore, che credo essere quella di tutti, invito pertanto il gentile lettore ad indagare parimenti in se stesso per verificare se io abbia ragione o torto.  Sono convinto che, per quanti sforzi potrà fare, egli non riuscirà mai a pensare simultaneamente a due o più cose.  Voglio dire, a pensarle nel senso proprio del termine, a rappresentarsele alla mente ognuna nello stesso tempo come suo contenuto, distinto e specifico :  quello e non altro.  Non abbiamo il dono dell’ubiquità mentale, la nostra mente non può bilocarsi, se mi si consente l’espressione.  Provi il lettore a pensare simultaneamente ai concetti che gli risultano dalla lettura del presente saggio e a qualsiasi altra cosa.  Oppure, più in generale, provi egli a pensare simultaneamente a cosa diversa da ciò che sta vedendo o sentendo attentamente, concentrato sui suoi particolari, teso a coglierne il significato intrinseco.  Oppure, dopo aver letto i Corollari che seguono e averli mentalmente riassunti in una definizione estremamente sintetica, di una sola parola (del tipo:  successione, non-coesistenza, irreversibilità, unicità, concretezza, temporalità dei nostri pensieri), provi a pensare tutti questi nomi (o solo un paio di essi) simultaneamente e non in successione.  I nomi delle cose o dei concetti li possiamo pensare solo in successione, allo stesso modo di ciò di cui sono il segno.

Corollari della prima tesi

1.  L’ordine dei nostri pensieri, quale che sia il loro contenuto, è sempre e solo quello della successione nel tempo.  Non potendo essere tra loro simultanei, i contenuti del nostro pensiero in atto devono per forza di cose disporsi in successione.  Ciò significa che la nostra capacità di pensare si attua sempre secondo una successione temporale dei suoi contenuti, secondo il prima e il dopo.
2.  Pertanto, un pensiero di qualcosa non coesisterà mai (nell’istante dato) con un pensiero di qualcos’altro ma verrà sempre prima o dopo di esso.
3.  La successione dei pensieri è irreversibile, nel senso che essa va in una sola direzione.  Il pensiero in atto, che è sempre il presente del soggetto che pensa, è sempre nuovo rispetto al pensiero precedente, anche se ne ripete il contenuto.   Ciò vale anche quando il contenuto del nostro pensiero in atto è costituito dal ricordo di qualcosa, dato che grazie al ricordo la mente si rende presente ciò che è già accaduto e quindi per sempre trascorso.  L’atto di pensiero il cui contenuto è il ricordo è pur sempre un atto che, per il solo fatto di accadere, si aggiunge inevitabilmente a quello che lo precede :  mentre ce l’ho, questo particolare pensiero è in quel momento l’ultimo pensiero nella successione quotidiana dei miei pensieri, a prescindere dal suo contenuto.
La memoria viene dopo, come la coscienza.  Altrimenti, di cosa sarebbe memoria?  Essa è un ri-proporre il passato :  ricordando, torno indietro rispetto alla realtà presente ma con un atto di pensiero che, mentre è in atto, è il mio presente attuale, di questo momento.  Ciò non deve, tuttavia, indurci a credere che si dia memoria anche del presente.  Infatti, la qualità specifica dell’atto di pensiero di cui consta la memoria è proprio quella di esser la rappresentazione interiore di un fatto del passato.  Del presente, come notava Aristotele, non si può avere memoria, più di quanto la si possa avere del futuro[1].  
4.  Il contenuto del nostro atto di pensiero è sempre singolo, nel senso che lo è sempre di una cosa alla volta, di un solo argomento, di una sola immagine.  Singolo, nel senso di contrapposto a plurimo, indicando quest’ultimo termine una pluralità simultanea di contenuti diversi, pluralità che il nostro pensiero è per natura impossibilitato a darsi.
Con questo corollario, voglio mettere in rilievo il fatto della concretezza individuale del nostro pensiero, che, quando è in atto, lo è sempre non di più cose ma di una cosa sola :  di una cosa alla volta, di un solo argomento, di una sola immagine, di una sola idea per volta.  Di una realtà ogni volta ben determinata nella sua assoluta individualità, quale essa sia, dato che la nostra mente è libera nel darsi come contenuto qualsiasi cosa.  In questo senso, ogni nostro pensiero deve ritenersi unico perché impossibilitato per natura ad esser pensato simultaneamente ad ogni nostro altro pensiero.
Preciso, inoltre, che quando affermo che il contenuto del nostro atto di pensiero è sempre singolo perché concerne un argomento (o cosa, o idea) alla volta, non voglio certamente escludere da esso la pluralità simultanea di elementi o parti che esso eventualmente contenga.  Mi spiego.  Se rifletto sul fatto che sto vedendo e sentendo, ciò non significa dichiarare incompatibili con l’unicità di questa riflessione (unica, perché non può coesistere con nessun’altra nella stessa unità di tempo) i molteplici elementi – oggetti in quiete o in movimento, suoni, luci ed ombre, colori, volumi – che compongono, come sue parti, il mio quadro visivo e sonoro della realtà ovvero tutto ciò che vedo e sento nell’unità di tempo data. Tutta questa molteplicità esiste obiettivamente nell’immagine mia del reale poiché esiste nella realtà quotidiana stessa.  Essa è contenuta nella realtà e nella sua immagine, nella sua intrinseca unità, dato che non la vediamo scomporsi da tutte le parti, ma permanere compatta in esse; unità che concerne la natura di ciò che mi sta di fronte e non ha nulla a che vedere con l’unicità del pensiero che io ne ho, nel senso sopra chiarito.
5.   Il pensiero in atto non pensa mai se stesso che pensa  ossia mentre pensa :  è sempre il pensiero concreto di qualcosa, di un che di determinato, circoscritto; di un pensato che il pensiero si pone come oggetto, come se fosse altro da sé.  Ciò vale a prescindere dalla natura del contenuto del nostro pensiero in atto.  Anche quando mi accorgo che “so di pensare” o penso un concetto o il concetto del pensare in quanto tale, anche questo è un contenuto determinato del mio atto di pensiero, non è l’atto a prescindere dal contenuto (ossia il pensante), e quindi non è pensiero che pensa il pensare (sé stesso in quanto pensante) più di quanto lo sia il vedere che vede sé stesso o il camminare che cammina sé stesso.  Infatti, il pensiero che pensa sé stesso dovrebbe avere in realtà a contenuto non ciò che viene (concretamente) pensato ma il puro pensante in quanto tale, come tale ancora privo di contenuti; in definitiva, il puro esser-pensante del pensiero (se così posso dire), che si fa fatica a distinguere dalla pura nostra capacità di pensare.  Quest’ultima non è rappresentabile alla mente, dato che essa si determina per noi solo nel pensato del singolo pensiero in atto. 
Il pensiero umano è quindi sempre pensiero in atto perché è sempre il pensiero di qualcosa di determinato, non quindi perché pensi sempre (implicitamente) sé stesso in tutto ciò che pensa, come ritenevano gli Idealisti.  Il contenuto del nostro pensiero in atto è pertanto sempre il pensato, non il pensante.  Per questo dico che il pensiero in atto non pensa mai sé stesso in quanto puro pensante, in tutto ciò che pensa.  Il concetto di un pensiero che pensa sempre sé stesso in tutto ciò che pensa (per il solo fatto di pensarlo) si può attribuire solo all’essere e all’operare della mente di Dio (che per noi non è effettivamente rappresentabile), come aveva già dimostrato Aristotele, con la ben nota ricchezza di argomentazioni, nel capitolo nono del libro XII della Metafisica. “L’intelligenza [del primo motore] pensa se stessa prendendo il posto dell’intelligibile; poiché essa diviene intelligibile a se stessa nell’atto di toccare e intendere il suo oggetto; onde l’intelligenza e l’intelligibile sono la stessa cosa”[2].
L’argomento di questo corollario verrà trattato in modo particolareggiato nell’esposizione della quarta tesi del presente lavoro.   L’affermazione che il pensiero in atto non può mai avere effettivamente come proprio oggetto sé stesso pensante, può apparire troppo forte anche a chi non condivide le posizioni speculative dell’Idealismo.  Mi si può obiettare:  va bene sostenere che, quando io penso a questo o a quello, non penso il mio pensiero mentre pensa e quindi non ho il pensare ad oggetto e contenuto del mio atto di pensiero.  Ma circa la domanda se il pensiero, quando pensa a sé stesso, pensi in realtà sé stesso che sta pensando, come dobbiamo rispondere? Ogni volta che mi sento consapevole di pensare (so che sto pensando) o quando mi dedico al concetto stesso del pensare, indagando nella mia mente che cos’è il pensiero, non pongo forse il pensare in quanto tale ad oggetto della mia indagine?  E non penso, allora, il pensare in quanto tale o in sé, ragion per cui il mio pensato viene ad esser costituito dal mio me stesso pensante? 
Rispondo.  Quando so di pensare, ciò significa che il mio atto di pensiero si è dato questo contenuto, diverso da ogni altro, contenuto che al momento mi occupa interamente, hic et nunc.  L’oggetto di questo mio pensiero è costituito dalla consapevolezza di qualcosa, non dal pensiero pensante in quanto tale, che non è un contenuto ma un puro porsi in atto spirituale, il puro porsi (di quest’atto) nel suo porsi.  Il fatto che la mia consapevolezza interiore qui riguardi il pensare invece che il vedere, il sentire, lo scrivere, l’agire in generale, nulla toglie che siffatto esser-consapevole sia un atto di pensiero il cui contenuto specifico non è dato dal porsi di sé stesso ma da ciò che è posto, costituito dall’esser-consapevole-di :  nel caso di specie, dall’esser consapevole del pensare.  Perciò, l’esser consapevole di una realtà (quella del fatto che sto pensando) non significa pensare il pensiero mentre pensa (il pensiero pensante) ma, più semplicemente, pensare a un determinato contenuto di pensiero, un pensato circoscritto in sé stesso e non mai il pensante  in quanto tale.  La distinzione tra pensante e pensato (omologa a quella tra potenza ed atto) è, a mio avviso, ineliminabile.  Va poi detto che esser consapevoli di pensare non è diverso, in quanto atto di pensiero, dall’esser consapevoli di qualsiasi altra cosa :  di vedere, di sentire, di camminare, etc.
Nella nozione “sapere di pensare” bisogna poi distinguere la semplice consapevolezza di pensare dal pensiero che indaga la natura stessa del pensiero.  La prima è in noi nel nostro ripetuto “so di pensare”, in generale:  constatazione interiore che sopravviene continuamente mentre pensiamo, quale che sia il contenuto del nostro atto di pensiero.  Siffatta consapevolezza altro non dice dallo scarno “so di pensare”; essa esprime la pura consapevolezza dell’esistenza in me di tutti questi atti di pensiero, nella loro quotidiana successione temporale.  Oltre non va.
Diversa appare invece la consapevolezza dell’atto di pensiero il cui contenuto è costituito dalla natura stessa del pensare, dalla domanda “che cos’è il pensiero?”.  Bisogna, infatti, chiedersi:  quando il soggetto si pone questa domanda, qual è l’oggetto proprio di essa?  Il pensiero mentre pensa se stesso?  Il pensiero del pensiero?  Sì, il pensiero “del” pensiero ma necessariamente inteso, questo pensiero, nella sua natura intrinseca, nella sua essenza, come la ricaviamo dal suo manifestarsi nel singolo pensiero concreto, in atto, nel pensato.  Per meglio dire:  non dal suo manifestarsi (mentre si manifesta, nel meccanismo interiore di questo manifestarsi) ma dal suo essersi manifestata, dal suo aver preso forma nel pensato.  Il pensato di siffatta indagine può essere allora il seguente:
   il pensiero è una realtà immateriale e invisibile, del tutto spirituale, situata nel tempo e non nello spazio e operante nel tempo, che agisce in noi grazie al collegamento con il nostro cervello, determinandosi nei vari contenuti che costituiscono via via nel tempo il pensiero in atto.  
Il concetto del pensiero che qui emerge è sempre quello che si ricava dal contenuto specifico di più atti di pensiero, contenuto che descrive (in un discorso logicamente concatenato) la natura del pensiero, ponendosela di fronte come dall’esterno, in quel determinato pensato.  Non è quello del pensiero mentre si pensa nel pensare sé stesso, condizione che può concepirsi solo implicitamente esistente perché impossibilitata a costituire il contenuto di un qualsivoglia, concreto atto di pensiero.  E qui, come si è visto, l’implicitamente esistente o presente equivale in realtà ad una pura astrazione. 
Quando poi analizziamo il principio di causalità, di ragion sufficiente, di non-contraddizione, e le categorie con le quali opera il nostro pensiero, ci soffermiamo sul  suo modo di operare, che presuppone la natura del pensiero.  Questi princìpi costituiscono sempre il contenuto di un pensiero in atto e valgono per ciò che essi significano in relazione alla realtà, non perché supposta manifestazione del pensiero che pensa se stesso nel pensarli.     
6.  Per ciò che riguarda il concetto della successione del tempo, risulta dai predetti  che la successione è reale perché i nostri pensieri in atto sono reali, dato che noi effettivamente pensiamo.  Il tempo è allora reale, è una realtà che esiste di per sé, non può essere solo il risultato di una nostra misurazione o comunque un rapporto dipendente dagli enti, nelle loro reciproche relazioni (vedi infra, tesi terza).  Se il tempo non costituisse una realtà effettiva, i contenuti del nostro pensiero in atto potrebbero succedersi l’un l’altro, potrebbero disporsi in una successione alla quale è inapplicabile il concetto stesso dello spazio?  Se il tempo non esistesse ma fosse solamente un rapporto creato da noi nel misurare le cose, dove si situerebbe la successione dei pensieri, in quale dimensione? 




Seconda  tesi

Lo spazio è condizione empirica (e non trascendentale) della possibilità della nostra conoscenza.  Esso è la dimensione intrinsecamente vuota, continua, omogenea, identica in tutte le direzioni (isotropa), immobile, infinita, che permette alla materia e all’energia di avere luogo e moto (spazio assoluto).


Ci si apre la via a questa fondamentale deduzione già muovendo dalla constatazione che il nostro pensiero in atto non può esser simultaneamente presente al formarsi delle nostre sensazioni in noi.  Infatti, in quel formarsi non vi è partecipazione del nostro pensiero.  Consideriamo come si costituisce in noi l’immagine del mondo.  L’onda elettromagnetica che si ritiene esser la luce produce nel fondo dell’occhio dei segnali.  Attraverso il nervo ottico raggiungono la corteccia cerebrale.  Quest’ultima  elabora in via definitiva la “visione primaria”, come viene chiamata[3].  Questo processo, studiato da fisica, fisiologia e psicologia, ci dà l’immagine del mondo esteriore, anche se non sappiamo esattamente come.  Infatti, non sappiamo come fanno tutti questi processi materiali, queste interazioni di materia ed energia a produrre per esempio la nostra sensazione del colore.  In realtà, i nessi profondi di tutto il processo visivo ci sfuggono[4]. Sappiamo, tuttavia, che quest’immagine ci dà una rappresentazione esatta del mondo esteriore, del tutto sufficiente alle nostre esigenze, tant’è vero che siamo normalmente in grado di distinguere tra un’immagine vera ed una falsa, dipenda quest’ultima da nostre patologie o da fenomeni esteriori.
Ma nel processo conoscitivo dei nostri sensi, qual è il ruolo del pensiero, sia come intelletto che indaghi nell’immagine offertagli dai sensi stessi, sia come coscienza di averla, quest’immagine?  Nella formazione naturale, fisiologica dell’immagine, che è del tutto fisico-chimica, materiale, il pensiero del soggetto non gioca alcun ruolo :  esso viene dopo.  Esso analizza ed interpreta “l’informazione” (come si dice oggi) fornitagli dai sensi, probabilmente servendosi anche della memoria.  La sensazione, cui si aggiunge il pensiero che la analizza ed interpreta, viene tradizionalmente chiamata percezione.  La percezione non è posteriore alla sensazione :  è la sensazione della quale siamo coscienti.  Ciò che è posteriore, è la coscienza.
Ci sono quindi diverse fasi nella formazione della conoscenza mediante i sensi, costituite tutte da tempi infinitamente brevi, dato che si svolgono alla velocità della luce, a quella dei nostri processi chimico-neurologici, a quella del pensiero.  L’istantaneità nella quale tutto ciò sembra accadere ci dà l’impressione della simultaneità tra l’immagine nostra del mondo e il mondo in essa contenuto, e tra quest’immagine e la consapevolezza che ne abbiamo, allorché quest’ultimo pensiero ci attraversa la mente.  Ma siffatta istantaneità è apparente già per il fatto che l’onda elettromagnetica della luce o le onde elastiche del suono non si trasmettono istantaneamente nello spazio, come se la loro velocità fosse infinita.  Esse possiedono una velocità determinata, per quanto elevata.  Ciò significa che impiegano un certo tempo a percorrere una distanza, un tratto di spazio :  non lo coprono mai istantaneamente.
La formazione dell’immagine del mondo in noi richiede dunque un intervallo di tempo, per quanto brevissimo.  Si ha una scansione temporale dovuta all’esistenza di un effettivo intervallo di spazio, una distanza reale, tra noi e l’oggetto posto fuori di noi (scansione che continua all’interno di noi, perché – come si è ricordato – la formazione dell’immagine nei circuiti del sistema occhio-cervello, rinchiuso nello spazio della nostra testa, richiede sempre un certo tempo ad effettuarsi, misurabile in millisecondi). Tutto ciò significa che lo spazio (allo stesso modo del tempo) è un elemento costitutivo (anche se passivo) della nostra conoscenza sensibile, costitutivo in senso empirico ossia come realtà dotata di una sua oggettività, che è quella della realtà fuori di noi, indipendente da noi che la percepiamo e pensiamo.  L’esistenza stessa dello spazio impedisce il formarsi istantaneo dell’immagine del mondo in noi.  Istantaneo :  immediatamente, senza intervallo alcuno di tempo.
E quindi :  condizione empirica, lo spazio, della possibilità della nostra conoscenza della realtà fuori di noi e non trascendentale, come sosteneva Kant, costituita quest’ultima da un’intuizione dello spazio come forma universale di tutti gli oggetti fuori di noi; intuizione non sensibile ma puramente interiore, rappresentazione immediata e a priori, cioè anteriormente ad ogni esperienza sensibile, dello spazio come forma universale delle cose.  Rappresentazione non voluta da noi ma connaturata (sempre secondo Kant) alla nostra mente; senza la quale – rappresentazione – non potremmo conoscere le cose che sono nello spazio reale, fuori di noi (conoscerle, si intende, alla maniera di Kant :  non come sono in se stesse ma come forme della nostra sensibilità e quindi come sono per noi).
Ma noi, va detto, non abbiamo bisogno di possedere nella nostra mente l’idea dello spazio o meglio lo spazio in idea; non abbiamo bisogno della kantiana intuizione a priori dello spazio (e del tempo) per esser poi capaci di conoscere empiricamente gli oggetti nello spazio e quindi la realtà spaziale che ci circonda da ogni lato (o per avere la sensazione interiore del tempo).  Non ne abbiamo bisogno, dato che la sensazione esterna, come si è detto, forma in noi le immagini e le sensazioni interiori del mondo esterno (gusto, tatto) in modo del tutto indipendente dal nostro pensiero, dalla nostra consapevolezza.  Come potrebbe, allora, il nostro pensiero costituire esso stesso, mediante un’intuizione (logicamente) anteriore ad ogni esperienza (quella dello spazio), la condizione che ci permette di conoscere il mondo esterno, quando invece questo mondo giunge a noi, sotto forma di immagini e sensazioni, in modo del tutto indipendente dal pensiero stesso?  E difatti, Kant non riesce a dimostrare l’esistenza indipendente di un’intuizione trascendentale.  Egli è costretto a darle un’esistenza solo implicita, che è quella di un mero postulato, come tale impossibile a dimostrarsi (vedi infra, esposizione della seconda tesi e critica del concetto kantiano dello spazio, nel secondo volume di quest’opera).
La verità è che, quando il contenuto del nostro pensiero in atto è costituito da una sensazione (che si traduce in una rappresentazione empirica della realtà esteriore), la sensazione (a causa della scansione spaziale tra noi e l’oggetto; scansione che ne implica una temporale, costituita dal tempo impiegato dalle onde luminose o sonore a percorrere la distanza spaziale stessa) deve esser venuta prima nel tempo, non può esser contemporanea (o simultanea che dir si voglia) al pensiero del quale costituisce il contenuto.  Il nostro aver coscienza della realtà sensibile è sempre posteriore alla nostra immagine di questa stessa realtà :  non può esserle dentro, svilupparsi simultaneamente ad essa.  Ammettere questo, significa concepire (al modo di Kant e degli Idealisti) una coscienza che esiste solo implicitamente, una coscienza per così dire inconscia, il che rappresenta una contraddizione patente del concetto stesso della coscienza (vedi infra, tesi quarta).


  
Terza  tesi

Il succedersi del contenuto (sempre singolo ed individuale) del nostro pensiero in atto (nel linguaggio comune, il succedersi dei nostri pensieri) non può aver luogo altro che nel tempo.  Il tempo costituisce allora una dimensione reale, senza la quale i nostri pensieri non potrebbero essere :  non è creato dai nostri pensieri più di quanto lo sia lo spazio dal nostro movimento


La successione dei nostri pensieri ci dà la percezione interiore  del tempo[5].  Ce la dà proprio perché è una successione.  Gli atti di pensiero (i contenuti via via diversi dei nostri pensieri in atto) hanno luogo secondo una successione irreversibile, che è quella del prima e del dopo, senza che questo prima e questo dopo possano riferirsi in qualche modo ad un’estensione ossia ad uno spazio.  L’esistenza del tempo non dipende qui da una misurazione esterna alla successione stessa, che si ottenga con strumenti rapportati alla luce del sole e al movimento della terra.  Ciò accade nel caso della percezione esterna del tempo.  Ma nel caso del succedersi dei nostri atti di pensiero, è la successione stessa che ci dimostra l’esistenza del  tempo, dato che il prima  e il dopo che la caratterizzano, non possono essere altro che temporali.  L’esistenza della successione (ed in conseguenza del tempo) è dimostrata dal nostro stesso pensare in atto e non ha bisogno di un’unità di misura che la rapporti a qualcosa di esterno e diverso.
Tutto ciò significa che noi (vedi supra, seconda tesi) non abbiamo bisogno di presupporre un’intuizione trascendentale del tempo, del tempo come forma pura, anteriore ad ogni esperienza.  La percezione del tempo risulta già dalla nostra percezione interiore del succedersi dei nostri pensieri.  I pensieri nostri sono immateriali e tuttavia esistono.  Ne consegue che la loro successione è reale.  Deve pertanto considerarsi reale il tempo, mediante il quale ci rappresentiamo il loro succedersi.  In altre parole :  se è reale la successione dei contenuti del nostro pensiero sempre in atto, il tempo è qualcosa di reale, per quanto resti sempre impalpabile in se stesso ed appaia infinito quanto al suo inizio e alla sua fine perché non delimitabile da un prima ed un dopo iniziali e finali. 
Ribadire la realtà del tempo può sembrare pleonastico al comune buon senso.  Ma non lo è, se riflettiamo sul fatto che la maggior parte dei Fisici odierni tende a concepire il tempo come una realtà priva di autonomia, funzionale allo spazio (“spazio-tempo”) o addirittura inesistente, in quanto realtà in sé.  Il tempo sarebbe il risultato di un nostro modo di misurare le cose, un’unità di misura non una realtà effettiva ed indipendente.
Il tempo come realtà intrinseca alle cose – la  d u r a t a   che eternamente sta e scorre per noi (proprio in quanto dura, sta) nel mutare degli enti e nell’accadere degli eventi, che mutano nel tempo e ad opera del tempo poiché li consuma il loro carattere temporale (la caducità del finito, spazialmente determinato) - questo modo tradizionale e spontaneo di intendere il tempo non avrebbe motivo di essere.  Esisterebbe solo il tempo rilevabile dall’evento fisico determinato in un punto; il tempo locale, perché tempo di ogni punto della rete infinita di eventi costituente il cosmo, misurabile solo relativamente al tempo di ogni altro punto.  È la prospettiva relativistica,  inaugurata da Einstein, il quale cercò di rendere il tempo una funzione dello spazio con lo stabilire  la luce (la sua velocità c) quale unità di misura del tempo stesso.  Pertanto oggi i Fisici negano che si possa determinare l’esistenza di un “ordine del tempo”, giusta il quale i fenomeni hanno luogo, un ordine indipendente dai fenomeni stessi[6].
Tale punto di vista viene tuttavia oggi ritenuto insoddisfacente da altri, i quali sostengono che, se si vuole riuscire a superare la frattura  tra la relatività generale (la teoria gravitazionale einsteiniana)  e la meccanica quantistitica (teorie che implicano due concezioni diverse dello spazio, non-euclideo la prima, euclideo la seconda), occorre recuperare il concetto dell’ordine del tempo nei fenomeni[7].
Ma proprio questo faccio notare:  l’esistenza dell’ordine del tempo nei fenomeni non appare forse già nel succedersi unidirezionale dei nostri pensieri?




Quarta   tesi

Il pensiero non può identificarsi tout court con la coscienza, che è solo un determinato contenuto del pensiero in atto, non il presupposto stesso del pensare.  L’idea di una consapevolezza implicita è inaccettabile.


Questa tesi si pone in aperto contrasto con il principio informatore del pensiero moderno e contemporaneo, quello dell’autocoscienza.  Essa sembra porre uno iato tra il pensiero in atto e la coscienza, come se quest’ultima non fosse anch’essa pensiero ed anzi quel pensiero di sé, quell’autocoscienza che si deve necessariamente porre a fondamento e presupposto, anche inconsapevole, di ogni nostro pensare.
Il mio punto di vista è lineare.  Ciò di cui si ha coscienza può essere costituito da una realtà esterna o interna al soggetto.  E quindi :  dalla sensazione esteriore oppure da un sentimento, uno stato d’animo (ricordo, fantasia, emozione, stato della coscienza morale) o dal puro pensiero (ragionamento, concetto).  Ciò di cui si può aver coscienza può essere, dunque, qualsiasi cosa, e risultare di un contenuto molteplice.
Allora l’aver coscienza è un atto di pensiero che necessariamente presuppone ciò di cui è coscienza, qualsiasi cosa sia “il qualcosa” del quale veniamo ad esser coscienti.  Lo presuppone e perciò non può mai essergli simultaneo, né esplicitamente né implicitamente.  È pertanto un atto di pensiero come un altro, in quanto atto di pensiero, nella continua successione degli atti di pensiero: esso ha semplicemente un contenuto diverso rispetto al pensiero il cui contenuto è dato non dall’aver coscienza ma da un altro oggetto, quale esso sia.
Così concepita, la coscienza non è posta fuori dal pensiero in atto o in opposizione ad esso.  Essa è semplicemente un atto di pensiero di diversa qualità rispetto agli altri atti di pensiero, ove per qualità si deve intendere un contenuto diverso (diverso, nel senso che ciò che lo costituisce, questo contenuto, è rappresentato dall’aver coscienza) non da un diverso modo di venire in essere, in quanto atto della nostra mente. 
La coscienza, diceva S.  T o m m a s o   d’Aquino, non è né potentia habitus ma actus :  “applicatio scientiae ad aliquid”.  Sapere di qualcosa in un atto di pensiero specifico, che si aggiunge a ciò che abbiamo sentito o pensato : “applicazione di un sapere ad un atto particolare” del nostro pensiero :  “conscientia addit supra scientiam applicationem scientiae ad actum particularem”[8].  Ciò significa che essa viene sempre dopo.  La definizione di S. Tommaso coglie, a mio avviso con assoluta precisione, il fatto che l’aver coscienza di qualcosa si aggiunge sempre (anche nel tempo) a questo qualcosa (il che non è lo stesso che dire, alla maniera degli Idealisti, che l’aver coscienza di qualcosa per ciò stesso aggiunge sempre qualcosa, sul piano del significato, a ciò di cui si ha coscienza).  Vi si aggiunge, nella definizione di S. Tommaso, in modo non implicito ma esplicito, altrimenti il prender o l’aver coscienza non sarebbe tale.  Infatti, è intrinseco al concetto stesso della coscienza, l’esser essa proprio quell’atto di pensiero mediante il quale ci rendiamo coscienti di qualcosa ossia lo rendiamo esplicitamente alla nostra consapevolezza, traendolo in tal modo alla luce del nostro intelletto, isolandolo dal contesto – concerna “il qualcosa” la reatà esteriore o quella nostra, interiore.
La giusta collocazione del concetto della coscienza nel contesto del nostro pensare in atto, fa vedere come la tesi qui affermata scaturisca per logica conseguenza dalla mia prima tesi, secondo la quale, come si è detto, il pensiero in atto non può applicarsi a due o più contenuti simultaneamente :  la quarta tesi ne costituisce l’applicazione al concetto della coscienza.
La mia tesi non vuol negare, ovviamente, l’esistenza di ciò che chiamiamo coscienza, inteso come consapevolezza di una realtà esteriore od interiore al soggetto, comprendente perciò anche ciò che il pensiero moderno chiama coscienza di sé o autocoscienza (quale che sia poi il modo nel quale i Moderni e Contemporanei concepiscono ciò che chiamano coscienza di sé, autocoscienza).  Vuol negare questo postulato :  che il concetto della coscienza debba costituire il fondamento stesso implicito della nostra conoscenza, il presupposto ineliminabile di ogni nostro conoscere, come afferma per esempio  K a n t  in un noto passo della Critica della ragion pura.  Partendo dal presupposto che solo nella coscienza può realizzarsi l’unità del molteplice oggetto della nostra conoscenza, Kant scrive :  “Questa coscienza (Bewusstsein) può sovente essere molto debole, cosicché noi la colleghiamo nell’effetto [cioè a posteriori] – e non nell’atto stesso cioè immediatamente – al prodursi [in noi] della rappresentazione [della realtà sensibile, esterna]; ma, nonostante questa differenza, una coscienza deve esser pur sempre presente, anche se mancante della chiarezza piena; senza questa coscienza [implicita], i concetti, e con essi la conoscenza degli oggetti [del mondo esterno], appaiono del tutto impossibili”[9].
Noi ci rendiamo conto del significato della nostra rappresentazione sensibile della realtà (di ciò che significa una nostra determinata immagine o “rappresentazione” del reale) solo una volta che si sia prodotta in noi, non mentre si produce ossia “nell’atto stesso” del suo prodursi, “cioè immediatamente”.  Che la nostra consapevolezza reale ed effettiva funzioni in questo modo, Kant è costretto a riconoscerlo.  Però, non gli sta bene.  Non concorda con il modo nel quale egli vuole impostare il problema della conoscenza.  Bisogna allora affermare che una “coscienza” in realtà ci deve essere sempre, deve esserci sempre stata all’interno del processo di formazione della nostra “rappresentazione” della realtà.  Deve esserci sempre stata, anche se noi non ne eravamo coscienti!  Come a dire :  poiché una coscienza deve esserci sempre stata; poiché qui non se ne trova traccia esplicitamente; allora, deve  esserci stata implicitamente, come di nascosto.
Ammettendo un presupposto del genere, si dovrebbe allora ammettere l’esistenza continua di una nostra consapevolezza implicita in ogni nostra rappresentazione :  continua e perciò simultanea ad ogni nostra rappresentazione, ad ogni fase del nostro processo cognitivo.  Ma in tal modo la nostra coscienza diventa il presupposto non solo del nostro pensare ma anche del nostro sentire, delle nostre sensazioni.  Inoltre, una consapevolezza implicita è concetto in sé contraddittorio perché, come si è detto, è proprio della consapevolezza l’esser esplicito.  Una consapevolezza implicita o inconscia, è inconsapevole.  E allora non è consapevolezza, non è coscienza.  Non è nulla.  Non esiste.  Kant ha dovuto ricorrere alla contraddizione in termini di una coscienza implicita o inconsapevole, cosiddetta oggettiva o logica[10], proprio per cercare di aggirare l’ostacolo insormontabile rappresentato dal fatto che noi non possiamo conferire simultaneamente più contenuti al nostro atto di pensiero, ragion per cui la nostra coscienza di avere delle rappresentazioni della realtà esterna è sempre posteriore alle rappresentazioni stesse, mai simultanea al loro venire in essere.
L’Idealismo non ha affatto superato la contraddittoria concezione kantiana; anzi, l’ha mantenuta e condotta all’estremo.  Consideriamo brevemente quanto  H e g e l  scrive sul concetto della coscienza (Bewusstsein).  La coscienza in senso immediato è quella “sensibile” o “empirica”, la quale registra  “la semplice ed immediata certezza” dell’oggetto costituito dalla realtà esteriore.  Questa coscienza, lo è sempre “di un qualcosa, di una cosa esistente, di un singolo, e così via”, nel qui e nell’ora, sì da essere “la più ricca nel contenuto ma la più povera di pensieri”[11].  La coscienza più ricca di pensieri, è invece l’autocoscienza, che è “la verità” e “il fondamento” della coscienza, onde la semplice “coscienza di un altro oggetto è [in realtà già] autocoscienza” perché quando “io so l’oggetto come mio ([mio perché] esso è mia rappresentazione [dell’oggetto stesso]), io perciò so in esso me stesso [Ich weiss daher darin von mir]”.  Io “so me stesso” vuol dire :  ho la consapevolezza di essere ciò che sono, ossia io=io.  Questa è “l’espressione dell’autocoscienza”, che nello stesso tempo fa apparire l’idea di una “libertà astratta”, perché è ancora quella dell’”idealità pura”[12], dell’io che si pone come io non ancora correlato ad un contenuto, ad una situazione concreta, storica;  che non ha ancora preso coscienza di sé come autocoscienza che dal particolare (dall’io dell’individuo empirico) deve elevarsi all’universale, allo Spirito.  Avendo ancora a contenuto solo se stessa, “l’espressione dell’autocoscienza” viene inizialmente ad essere “senza realtà, perché essa stessa, l’oggetto di sé, non è un oggetto, non essendovi [qui] alcuna differenza dell’oggetto e di sé”[13].   Si tratta, infatti, sempre della coscienza, che pone se stessa a suo proprio oggetto, si fa “oggetto di sé”. 
In queste brevi ma potenti pennellate, che mirano al superamento del dualismo di soggetto e oggetto, si noterà, tuttavia, la presenza di una contraddizione, consistente, a mio avviso, proprio nel concepire il primo gradino dell’autocoscienza come coscienza implicita.  Infatti, essa non appare sulla scena come il contenuto distinto di un atto di pensiero che il soggetto rivolga a se stesso (l’atto della coscienza di sé, dell’io=io) ma risulta oggettivamente (e quindi implicitamente) già nella semplice coscienza sensibile, quasi fosse connaturata ad essa.  Nel conoscere l’oggetto (esterno) io già “so in esso (darin = dentro) me stesso”: lo so, per il fatto stesso di conoscere e quindi senza saperlo esplicitamente; anzi, questo sapere me stesso (= questa coscienza dell’esser io il mio io) deve silenziosamente (kantianamente) precedere il contenuto concreto della coscienza sensibile.  Ma precedere, come?  Sempre oggettivamente, sempre restando nell’implicito, nel nascosto.  Ma, come si è detto, una coscienza implicita che coscienza è?  Il concetto di una coscienza che sia tale solo implicitamente appare contraddittorio poiché manca in esso proprio l’affermazione di quel rendere interiormente esplicito al soggetto pensante, di quel render manifesto un contenuto, che per definizione appartiene al concetto della coscienza.  
Che la coscienza di sé, come coscienza dell’io penso, giunga all’io esclusivamente come riflessione sul fatto interiore del pensare, e quindi posteriormente al pensiero concretamente in atto :  so di pensare in quanto io rifletta sul fatto che sto (già) pensando;  ciò è  addirittura esplicitamente escluso da  F i c h t e , per il quale il sorgere della coscienza sembra esser costituito da un’intuizione di sé autocreatrice, per così dire.
La natura del pensiero – afferma - non si stabilisce considerandone il nesso con la percezione e nemmeno la successione “di un pensiero ad un altro”.  Il pensiero ha, infatti, un carattere “assoluto” e pertanto “riposa su sé stesso”[14].  Perciò, “non possiamo affatto affermare che l’io pensi [proprio] in questo pensiero, grazie al quale successivamente si dimostra che l’io è divenuto [cosciente] a sé stesso per via della riflessione su di esso [pensiero]; bisogna invece dire che è il pensiero stesso a concepirsi da sé stesso come una vita indipendente, ad esser questo pensiero che si rende obiettivo”[15].
Fichte vuol stabilire come si debba intendere il concetto dell’io penso.  Grazie a quel pensiero, riflettendo successivamente sul quale, l’io è diventato cosciente di se stesso come io pensante?  E quindi grazie ad un sapere scalato nel tempo, grazie alla successione di sapere e sapere di sapere?  No.  Non ci sono qui un prima e un dopo.  Perché?  Perché è il pensiero stesso, secondo Fichte, in quanto “vita autonoma”, realtà indipendente, a “concepire sé stesso tramite sé stesso”, ad “obiettivarsi” in quanto pensiero, al di fuori di qualsiasi determinazione temporale. Contro ogni esperienza, che ci vincola alla successione dei nostri pensieri, il pensiero, ovvero l’autocoscienza di sé dell’uomo, acquista allora, nell’ottica di Fichte, i caratteri dell’eternità, autodivinizzandosi.  E difatti, il “sapere” non è più concordanza dell’intelletto con la cosa, visione troppo ristretta, bensì “libertà”,  libertà “assoluta”[16].  Al posto dell’io che pensa, la cui consapevolezza è in primis costretta a tener conto della successione temporale dei propri pensieri in atto, Fichte pone il pensiero che pensa sé stesso, al di fuori di ogni determinazione temporale.  Il che è del tutto assurdo.  Infatti, il pensiero  ha sempre un contenuto, che è diverso da quello di un altro pensiero, altrimenti bisognerebbe dire che esso pensa sempre la stessa cosa o che pensa simultaneamente tutto il pensabile.  Ma la diversità dei contenuti implica necessariamente la loro successione nel tempo.  L’idea di un pensiero che pensa sempre sé stesso, come autocontemplantesi in eterno, mette l’astratto al posto del concreto, fa del nostro pensare un qualcosa di indifferenziato ed inesprimibile.  In definitiva, di irrazionale.




Quinta  tesi

Esiste un ordine a fondamento della nostra conoscenza, che si rivela già nell’ordine temporale (la successione, come tale irreversibile) del contenuto dei nostri pensieri in atto.   Quest’ordine non è posto dal soggetto pensante ma deve esser da esso riconosciuto. L’ordine che compare nell’Io è parte dell’ordine che governa il Tutto.


Il corollario che, in relazione al problema della conoscenza e al concetto della verità, si ricava da queste quattro tesi, e che si può considerare a sua volta una quinta tesi, è il seguente :  esiste un ordine a fondamento della nostra conoscenza.  Il nostro conoscere, in quanto pensiero sempre in atto con un contenuto determinato, si colloca in un certo modo nel tempo e nello spazio.  Riflette un ordine, per così dire fisiologico, rigido ed immodificabile, un tassello fondamentale del quale è costituito dalla successione dei nostri pensieri nel tempo.  Questo ordine non è posto dal soggetto pensante.  Esso inerisce alla natura delle cose.  Ciò significa, pertanto, che lo si può dedurre dall’esperienza astraendo legittimamente da essa mediante concetti e definizioni, senza bisogno di doverlo fondare sulla nostra coscienza.
Non può in conseguenza sostenersi il concetto della verità tipico dei Moderni, fondato sulla coscienza di sé o autocoscienza del soggetto conoscente, una volta che l’autocoscienza venga tolta dal suo piedestallo per esser ridotta ad un atto di pensiero come un altro, nella successione dei pensieri, diverso solo per il suo contenuto o qualità.  Se si accetta quella che per me è una verità palmare, e cioè che la nostra coscienza non può implicitamente accompagnarsi alle nostre rappresentazioni, alle quali non può pertanto essere simultaneamente presente, si deve ammettere che l’unità, nel succedersi dei nostri pensieri, ossia l’unità della nostra conoscenza, non può fondarsi (unicamente) sulla nostra coscienza di sé, quale suo presupposto (necessariamente) implicito.  La nostra coscienza, se vuol esser tale, deve accompagnarsi esplicitamente  alle nostre rappresentazioni :  deve quindi presupporle, venir sempre dopo.
Il fondamento dell’unità della nostra conoscenza dovrà allora essere esplicito e non implicito, come in Kant – vedi supra).  Ma ciò che altro significa, se non che tale unità dovrà esser riconosciuta dalla nostra coscienza come risultante dall’intero processo conoscitivo, che ricomprende sia il soggetto che la cosa (l’oggetto del conoscere), nella loro reciproca adaequatio?  Un’unità, quindi, costituita dall’ordine  che il soggetto e l’oggetto vengono a costituire, ordine che è quello dell’essere e del quale il nostro pensiero è solo una parte.
La prima e la quinta tesi di questo lavoro spingono perciò a ritenere che, se la verità deve risultare dalla concordanza del nostro pensiero con un ordine obiettivo, allora essere e pensare  n o n  coincidono.  Coincidono solo nella “concordanza” che si realizzi, non in sé.  La separazione, tuttavia, non è assoluta, dal momento che il pensiero deve concepirsi come la parte immateriale dell’essere, allo stesso modo dell’anima.  L’essere non può concepirsi come parte del pensiero.  Infatti, mentre l’essere ricomprende il pensiero, quest’ultimo si limita a comprendere l’essere.  Non si può dire lo ricomprenda.
Ma  P a s c a l  non ha forse scritto:  “Par l’espace, l’univers me comprend et m’engloutit comme un point; par la pensée, je le comprends”?[17].  E tuttavia, questo “comprendere” non eleva affatto l’uomo all’altezza dell’universo, identificandolo all’essere dell’Universo tramite il pensiero stesso che lo “comprende”, quasi esso appunto ricomprendesse  l’Universo.  E difatti, nessuno come Pascal è consapevole dei limiti del nostro pensiero, per quanto grande sia la sua straordinaria capacità di comprendere.  “Toute la dignité de l’homme est en la pensée.  Mais qu’est-ce que cette pensée?  Qu’elle est sotte! […]  Qu’elle est grande par sa nature! Qu’elle est basse par ses défauts!”[18].  Tutto ciò che non si riesce a comprendere si eleva sempre al di là delle nostre conoscenze, pur vaste e veritiere, come un’insuperabile muraglia.  Già nella comprensione dello spazio, che costituisce ai nostri occhi la caratteristica prima dell’Universo, nella quale appare tutta la maestà dell’Essere,  si rivela un rapporto tra finito ed infinito che non riusciamo a spiegare, che resta incomprensibile, e che si mantiene imperturbato, impenetrabile nel suo mistero.  “Tout ce qui est incompréhensible ne laisse pas d’être. Le nombre infini.  Un espace infini, égal au fini”[19]. 
Proprio la dimensione infinita della natura, che le nostre scoperte non fanno altro che ampliare, schiaccia l’uomo, rendendolo consapevole della sua nullità di fronte all’Essere.  È inutile che “gonfiamo” le nostre costruzioni intellettuali “al di là degli spazi immaginabili” dal nostro intelletto.  Così facendo, “nous n’enfantons que des atomes, au prix de la réalité des choses”.  In realtà, il nostro pensiero si perde nell’immensità dell’Essere, che ci compare immediatamente nell’immensità dell’Universo, il quale possiamo ben concepire come “une sphère infinie dont le centre est partout, la circonférence nulle part”. Ma in una rappresentazione del genere, la nostra immaginazione ovviamente “si perde” e viene sovrastata dal “carattere sensibile dell’onnipotenza di Dio”[20].  L’onnipotenza divina che si manifesta nell’esistenza dell’Universo, non riusciamo a rinchiuderla in una rappresentazione geometricamente finita dell’Universo stesso.  In termini pascaliani, la “grandezza” dell’uomo deve dunque rivelarsi soprattutto nel riconoscere la sua “miseria”[21].  Il che non significa rinunciare a pensare e rifugiarsi nella disperazione cosiddetta esistenziale.  Significa, invece, esercitare la propria capacità di comprendere nel modo dovuto, tenendo conto dei suoi limiti e mantenendola nelle giuste proporzioni con la realtà effettiva delle cose.

* * *

Questa dunque la sinossi delle cinque tesi preliminari della metafisica del soggetto.  Seguirà l’esposizione analitica delle singole tesi, una per una.  Nell’ambito di essa, ampio spazio sarà dedicato alla confutazione della concezione kantiana dello spazio e del tempo, che deve tuttora considerarsi il fondamento speculativo del soggettivismo ancor oggi imperante nella teoria della conoscenza, presso filosofi e scienziati.
Secondo Heidegger, il § 10 della Critica della ragion pura, nel quale Kant tratta Dei concetti puri dell’intelletto o categorie, costituisce “la chiave di volta per la comprensione della Critica della ragion pura come fondazione della metafisica [moderna]”[22].  In questo paragrafo, Kant annuncia che procederà a rielaborare e riformare le categorie aristoteliche dal punto di vista della filosofia trascendentale, intendendole cioè come concetti puri ossia dati a priori, indipendentemente da ogni esperienza, che essi soli, anzi, renderebbero possibile.
Ma la deduzione dei concetti “puri” dell’intelletto non sarebbe stata possibile, se, anteriormente ad essa, Kant non avesse costruito una definizione trascendentale dello spazio e del tempo, da intendersi cioè come intuizioni a priori, anteriori ad ogni nostra conoscenza sensibile, resa anzi possibile proprio da siffatte intuizioni.  La kantiana “fondazione” della metafisica moderna mediante i concetti “puri” dell’intelletto poggia sui pilastri rappresentati dalla concezione trascendentale dello spazio e del tempo.  La restaurazione della metafisica deve pertanto cominciare dalla critica di questa concezione.
(La struttura assunta dal secondo volume dell’opera, sul concetto dello spazio, ha portato ad un notevole ampliamento del discorso, ben oltre Kant. Illustrare il quale, richiederebbe un intervento a parte).

Paolo   Pasqualucci

Giovedì  6  settembre  2018
  




























































[1] De Mem., 449 b.  Cfr. ARIST., Della memoria e della reminiscenza, in ID., I piccoli trattati naturali, tr. it. intr. e note di Renato Laurenti, Laterza, Bari, 1971, pp. 45-61; pp. 45-46 :  “ Non si può avere memoria del futuro, che è piuttosto oggetto di opinione e di aspettazione [...] né del presente si ha memoria, bensì sensazione :  e infatti con questa non conosciamo né il futuro né il passato ma il presente soltanto.  La memoria è di quanto è avvenuto :  del presente, quando è presente, ad es. quando uno vede che questo è bianco, nessuno direbbe che si ricorda e neppure di un oggetto che contempla con lo spirito, mentre lo contempla e ci pensa intorno :  dice solo che il primo lo percepisce con la sensazione, l’altro  lo conosce”.
[2] ARIST., Met., Λ, 1072 b; tr. it. cit., 12, 7 (1072 b), pp. 420-421.
[3] Per una descrizione di questo processo, cfr.  :  DARLEY, GLUCKSBERG, KINCHLA, Psicologia (1991), tr. it. di Maurizio Ricucci, Il Mulino, Bologna, 1993, vol. I, p. 114 ss.  Vedi anche:  C. UMILTÀ (a cura di), Manuale di neuroscienze, Il Mulino, Bologna, 1999, 2a ed., pp. 115-129 e 201-227.
[4] W. HEITLER, Causalità e teleologia nelle scienze della natura, tr. it. di A. Sparzani, Einaudi, Torino, 1967, pp. 44-45.  Non riusciamo a spiegare come faccia l’impulso elettromagnetico della luce a tradursi per noi nella sensazione di un colore.  Ma, ciò che è più grave, non sappiamo come la corteccia visuale del nostro cervello giunga alla fine ad elaborare in un’immagine unitaria tutte le “informazioni” che le sono giunte dalla retina attraverso il nervo ottico.  Sul punto, vedi i seguenti articoli:  J.S. WERNER, B. PINNA, L. SPILLMAN, Illusory Color & the Brain, in ‘Scientific American’, 296 (2007) 3, pp. 70-73; p. 72;  F. WERBLIN, B. ROSKA, The Movies in Our Eyes, in ‘Scientific American’, 296 (2007) 4, pp. 55-61; p. 55, 61.
[5] ARIST., Phys., IV, 219 a :  “Invero, noi percepiamo simultaneamente movimento e tempo, e se è buio e noi non subiamo alcuna affezione corporea, ma un certo movimento resta presente nell’anima, subito ci sembra che simultaneamente anche un certo tempo stia trascorrendo” (ID., La  Fisica, IV, 219 a, tr. it. introd. e note di Antonio Russo, Laterza, Bari, 1968, p. 110).   La percezione interiore del tempo mediante la successione dei nostri pensieri fu colta anche da altri filosofi. Vedi per esempio :  G. BERKELEY, Dialogues between Hylas and Philonous (1713), Third Dialogue:  Phil.  And is not time measured by the succession of ideas in our minds?  Hyl.  It is”(In ID., A New Theory of Vision and other Writings, a cura di e con introduz. di A. D. Lindsay, Everyman’s, London – New York, 1910, 1969, pp. 199-303; p. 221).  Nonché:  C. WOLFF, Deutsche Metaphysik (1719), tr. it. con testo tedesco a fronte, introd. e note di Raffaele Ciafardone, Rusconi, Milano, 1999, § 94 :  “Conoscendo che qualcosa può sorgere a poco a poco e, parimenti, prestando attenzione alla successione dei nostri pensieri, otteniamo un concetto del tempo”. 
[6] Questa impostazione è sostenuta, accanto ad altri, con particolare dovizia di scritti, anche divulgativi, dall’illustre fisico teorico Carlo Rovelli, da ultimo con: L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017.  L’espressione “ordine del tempo” risulta da un famoso frammento di Anassimandro, che il prof. Rovelli cita come esempio del modo nel quale la fisica classica ha costruito astronomia e fisica, modo non più attuale:  “Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità e si rendon giustizia secondo l’ordine del tempo [katà tèn tou chronou táxin]” (op. cit., p. 23).
[7] Vedi:  Craig Callender, Is time an illusion?, in “Scientific American’, numero speciale dedicato al problema del tempo in fisica, intitolato:  A Matter of Time, vol. 23, Nr. 4, Autunno 2014, pp. 14-21.
[8] Quaestiones disputatae, I, XVII, De conscientia, a. 1 e 2  ad IIum.  Vedi inoltre, Summa Theologiae, I,  q. 79, a. 13.  Per altri testi di S. Tommaso sul tema, rinvio a C. FABRO, Percezione e pensiero (1941, 1962), ora in ID., Opere complete, 6, a cura di C. Ferraro, EDIVI, Segni, 2008, pp. 275-277.   Tra di essi, particolarmente pregnante questa frase, scritta nel commentare Aristotele:  “prius est intelligere aliquid, quam intelligere se intelligere” (De Ver., q. 10 a.8).
[9] I. KANT,  Kritik der reinen Vernunft (=KdrV),  A 103-104;  ID., Critica della ragion pura, tr. it. e introd. a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1967, p. 644.  Corsivi miei.  Ricordo che la prima edizione della Critica (= A) è del 1781; la seconda (=B) è del 1787, alla vigilia della Rivoluzione Francese.
[10] Sul punto, vedi :  I. KANT, Vorlesungen über die Metaphysik, ediz. di Erfurt (1821), rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1975, pp. 134-6.  Questa edizione postuma dei corsi di Kant sulla metafisica, si basa su stesure manoscritte che risalgono in gran parte agli anni 1788 e 1789-1790, posteriori quindi alle due edizioni della Critica della ragion pura (cfr. la Vorrede  alle Vorlesungen, p. V).
[11] G. W. F. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), ed. Lasson,  tr. it.  con note e prefaz. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1907), Laterza, Bari, 1963, § 418, p. 392.
[12] Op. cit., § 424;  tr. it., cit., p. 395.
[13] Ivi.
[14] J. G. FICHTE, Die Thatsachen des Bewusstseyns (1817), in Fichtes Werke, a cura di I. H. Fichte (1845-1846), rist. De Gruyter, Berlin, 1971, vol, II, pp. 535-709; p. 548.
[15] Ivi.  Riporto anche l’originale :  “Man kann eben darum [...] keineswegs sagen, das Ich denke in diesem Denken, indem späterhin sich zeigen wird, dass erst durch die Reflexion auf dieses Denken das Ich zu sich selbst komme :  sondern man muss sagen, das Denken selbst als ein selbstständiges Leben denkt aus und durch sich selbst, ist dieses objectivirende Denken”.
[16] Op. cit., pp. 550-551.
[17] B. PASCAL, Pensées, editi dopo la morte, avvenuta nel 1662, in ID., Oeuvres complètes, ediz. con note a cura di J. Chevallier, Gallimard, Paris, 1954, pp. 1079-1345; p. 1157.
[18] Ivi, p. 1156.
[19] Ivi, p. 1226.
[20] Ivi, p. 1105.
[21] Ivi, p. 1156:  “La grandeur de l’homme est grande en ce qu’il se connaît misérable.  Un arbre ne se connaît pas misérable”.
[22]M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica (1929), tr. it. di M. E. Reina, con introd. di E. M. Forni, Silva, Milano, 1962, p. 81.