Paolo Pasqualucci -
Le cinque
tesi preliminari della metafisica del soggetto -
Sinossi
NOTA PREVIA
Dopo il post pubblicato recentemente su questo blog con la
“prefazione” alla metafisica del soggetto. cinque tesi preliminari,
pubblico ora la “introduzione”,
ovvero la “sinossi delle cinque
tesi". ” Per comodità del lettore
riporto nuovamente in apertura le cinque tesi nella versione aggiornata apparsa all’inizio del secondo volume
dell’opera, dedicato a “Il concetto dello spazio”, Giuffrè ed., 2015. Questa versioen è leggermente ampliata
rispetto al testo apposto in apertura al primo volume di questa stessa opera,
uscito nel 2010.
Il testo, risalente a otto anni fa, ha subito qualche ritocco e una
sostanziale aggiunta alla terza tesi, che tratta del concetto del tempo.
LE CINQUE
TESI PRELIMINARI DELLA
METAFISICA DEL SOGGETTO
I.
Il pensiero in atto non può mai darsi simultaneamente due o più contenuti diversi. Il contenuto delle nostre operazioni mentali
è sempre unico poiché è inserito in una irreversibile successione di
pensieri nel tempo, uno per uno, uno dopo l’altro.
II.
Lo spazio è condizione empirica
(e non trascendentale) della possibilità della nostra conoscenza. Esso è la dimensione intrinsecamente vuota,
continua, omogenea, identica in tutte le direzioni (isotropa), immobile,
infinita, che permette alla materia e all’energia di avere luogo e moto (spazio
assoluto).
III. Il succedersi
del contenuto (sempre singolo ed individuale) del nostro pensiero in atto (nel
linguaggio comune, il succedersi dei nostri pensieri) non può aver luogo altro
che nel tempo. Il tempo costituisce allora una dimensione reale, senza la quale i nostri pensieri
non potrebbero essere : non è creato dai
nostri pensieri più di quanto lo sia lo spazio dal nostro movimento.
IV.
Il pensiero non può identificarsi tout court con la coscienza, che è solo un determinato contenuto del pensiero in
atto, non il presupposto stesso del pensare.
L’idea di una consapevolezza implicita è inaccettabile.
V.
Esiste un ordine a fondamento
della nostra conoscenza, che si rivela già nell’ordine temporale (la
successione, come tale irreversibile) del contenuto dei nostri pensieri in
atto. Quest’ordine non è posto dal
soggetto pensante ma deve esser da esso riconosciuto. L’ordine che compare nell’Io è parte
dell’Ordine che governa il Tutto.
SINOSSI DELLE
CINQUE TESI
Prima
tesi
Il pensiero in atto non può mai darsi simultaneamente due o
più contenuti diversi. Il contenuto
delle nostre operazioni mentali è sempre unico poiché è contenuto in una
irreversibile successione di pensieri nel tempo, uno per uno, uno dopo l‘altro
La tesi ha una portata
universale. Essa non vale solo per quel
contenuto del nostro pensare in atto che si traduca in concetti, dedotti
dall’esperienza o da altri concetti, intesi a rappresentarci il significato intrinseco di qualcosa, quale esso
sia (del comportamento mio o di un altro, del bello in relazione a certe opere
d’arte, dell’immagine contenuta in un certo ricordo, delle nuvole che compaiono
all’orizzonte etc; ossia di un’azione, un concetto, un’immagine, una
sensazione). Vale, ugualmente, per quel
contenuto del nostro pensiero in atto che esprima l’aver coscienza di qualcosa, il sapere di sapere (come si suol
dire), sino alla coscienza di sé o autocoscienza; sia costituito, il qualcosa, dall’attività dei nostri sensi (so di vedere, di sentire) o da un’attività mentale (so di leggere, di pensare) o da un fare
in generale (so di camminare, di
suonare uno strumento, di lavorare).
Affermo che, nella
medesima unità di tempo, nell’istante dato o nella durata, noi non riusciamo mai a pensare simultaneamente a due o più azioni
diverse o a due o più concetti diversi a
due o più immagini diverse, o a due sensazioni diverse. Non riusciamo ad analizzarle ed
interpretarle, a dar loro significato simultaneamente. Né, similmente, ad aver coscienza di un sentire o di un fare o di un pensare, mentre siamo impegnati nelle nostre
sensazioni o nel fare o nel pensare. Il
pensiero costituito dall’esser cosciente di vedere o di fare o di pensare già mi astrae dal vedere stesso, o dal
fare, o da ciò cui stavo pensando. È
quindi un pensiero a sé, non
simultaneo ad alcun altro, nemmeno al pensiero stesso del quale ci si senta
consapevoli.
Il principio qui
affermato si fonda sulla mia esperienza interiore,
sull’indagine di me stesso in quanto soggetto pensante. Ritengo impossibile far convivere, simultaneamente, nell’unità di tempo
data, due o più contenuti del nostro pensiero in atto, quali che siano, perché,
indagando in me stesso, io non vi sono mai riuscito. Non sono mai riuscito a far emergere la
consapevolezza di una siffatta simultaneità di contenuti e sono convinto che
questo insuccesso non dipenda tanto da una mia incapacità quanto da
un’impossibilità intrinseca della
nostra mente, che è stata evidentemente costruita in un certo modo da Colui che
ci ha creato, Iddio onnipotente.
Sulla base della mia
esperienza interiore, che credo essere quella di tutti, invito pertanto il
gentile lettore ad indagare parimenti in se stesso per verificare se io abbia
ragione o torto. Sono convinto che, per
quanti sforzi potrà fare, egli non riuscirà mai
a pensare simultaneamente a due o più
cose. Voglio dire, a pensarle nel senso
proprio del termine, a rappresentarsele alla mente ognuna nello stesso tempo come suo contenuto, distinto e specifico : quello
e non altro. Non abbiamo il dono
dell’ubiquità mentale, la nostra mente non può bilocarsi, se mi si consente
l’espressione. Provi il lettore a
pensare simultaneamente ai concetti
che gli risultano dalla lettura del presente saggio e a qualsiasi altra
cosa. Oppure, più in generale, provi
egli a pensare simultaneamente a cosa
diversa da ciò che sta vedendo o sentendo attentamente, concentrato sui suoi
particolari, teso a coglierne il significato intrinseco. Oppure, dopo aver letto i Corollari che seguono e averli
mentalmente riassunti in una definizione estremamente sintetica, di una sola
parola (del tipo: successione,
non-coesistenza, irreversibilità, unicità, concretezza, temporalità dei nostri
pensieri), provi a pensare tutti questi nomi
(o solo un paio di essi) simultaneamente e non in successione. I nomi
delle cose o dei concetti li possiamo pensare solo in successione, allo stesso
modo di ciò di cui sono il segno.
Corollari
della prima tesi
1. L’ordine dei nostri pensieri, quale che sia il loro contenuto, è
sempre e solo quello della successione
nel tempo. Non potendo essere tra
loro simultanei, i contenuti del nostro pensiero in atto devono per forza di
cose disporsi in successione. Ciò
significa che la nostra capacità di pensare si attua sempre secondo una
successione temporale dei suoi contenuti, secondo il prima e il dopo.
2. Pertanto, un pensiero di
qualcosa non coesisterà mai
(nell’istante dato) con un pensiero di qualcos’altro ma verrà sempre prima o dopo di esso.
3. La successione dei
pensieri è irreversibile, nel senso
che essa va in una sola direzione. Il
pensiero in atto, che è sempre il presente
del soggetto che pensa, è sempre nuovo rispetto
al pensiero precedente, anche se ne ripete il contenuto. Ciò vale anche quando il contenuto del
nostro pensiero in atto è costituito dal ricordo
di qualcosa, dato che grazie al ricordo la mente si rende presente ciò che è già accaduto e quindi per sempre
trascorso. L’atto di pensiero il cui
contenuto è il ricordo è pur sempre un atto che, per il solo fatto di accadere,
si aggiunge inevitabilmente a quello
che lo precede : mentre ce l’ho, questo particolare pensiero è in quel
momento l’ultimo pensiero nella
successione quotidiana dei miei pensieri, a prescindere dal suo contenuto.
La memoria viene dopo, come la coscienza. Altrimenti, di cosa sarebbe memoria?
Essa è un ri-proporre il passato :
ricordando, torno indietro rispetto alla realtà presente ma con un atto
di pensiero che, mentre è in atto, è
il mio presente attuale, di questo
momento. Ciò non deve, tuttavia, indurci
a credere che si dia memoria anche del presente. Infatti, la qualità specifica dell’atto di
pensiero di cui consta la memoria è proprio quella di esser la rappresentazione
interiore di un fatto del passato. Del
presente, come notava Aristotele, non si può avere memoria, più di quanto la si
possa avere del futuro[1].
4. Il contenuto del nostro
atto di pensiero è sempre singolo,
nel senso che lo è sempre di una cosa alla volta, di un solo argomento, di una
sola immagine. Singolo, nel senso di contrapposto a plurimo, indicando quest’ultimo termine una pluralità simultanea di
contenuti diversi, pluralità che il nostro pensiero è per natura
impossibilitato a darsi.
Con questo corollario,
voglio mettere in rilievo il fatto della concretezza
individuale del nostro pensiero, che, quando è in atto, lo è sempre non di
più cose ma di una cosa sola : di una cosa alla volta, di un solo argomento,
di una sola immagine, di una sola idea per volta. Di una realtà ogni volta ben determinata
nella sua assoluta individualità, quale essa sia, dato che la nostra mente è
libera nel darsi come contenuto qualsiasi cosa.
In questo senso, ogni nostro pensiero deve ritenersi unico perché impossibilitato per natura
ad esser pensato simultaneamente ad ogni nostro altro pensiero.
Preciso, inoltre, che
quando affermo che il contenuto del nostro atto di pensiero è sempre singolo perché concerne un argomento (o
cosa, o idea) alla volta, non voglio certamente escludere da esso la pluralità
simultanea di elementi o parti che esso eventualmente contenga. Mi spiego.
Se rifletto sul fatto che sto vedendo e sentendo, ciò non significa
dichiarare incompatibili con l’unicità di questa riflessione (unica, perché non
può coesistere con nessun’altra nella stessa unità di tempo) i molteplici
elementi – oggetti in quiete o in movimento, suoni, luci ed ombre, colori,
volumi – che compongono, come sue parti, il mio quadro visivo e sonoro della
realtà ovvero tutto ciò che vedo e sento nell’unità di tempo data. Tutta questa
molteplicità esiste obiettivamente nell’immagine mia del reale poiché esiste
nella realtà quotidiana stessa. Essa è
contenuta nella realtà e nella sua immagine, nella sua intrinseca unità, dato
che non la vediamo scomporsi da tutte le parti, ma permanere compatta in esse; unità che concerne la natura di ciò che
mi sta di fronte e non ha nulla a che vedere con l’unicità del pensiero che io ne ho, nel senso sopra chiarito.
5. Il pensiero in atto non pensa mai se stesso che pensa ossia mentre pensa : è sempre il pensiero concreto di qualcosa, di un che di determinato,
circoscritto; di un pensato che il
pensiero si pone come oggetto, come
se fosse altro da sé. Ciò vale a prescindere dalla natura del
contenuto del nostro pensiero in atto.
Anche quando mi accorgo che “so di pensare” o penso un concetto o il
concetto del pensare in quanto tale,
anche questo è un contenuto determinato
del mio atto di pensiero, non è l’atto a prescindere dal contenuto (ossia il pensante),
e quindi non è pensiero che pensa il pensare (sé stesso in quanto pensante) più
di quanto lo sia il vedere che vede sé stesso o il camminare che cammina sé
stesso. Infatti, il pensiero che pensa sé stesso dovrebbe avere in realtà a
contenuto non ciò che viene (concretamente) pensato ma il puro pensante in quanto tale, come tale ancora privo di contenuti;
in definitiva, il puro esser-pensante del pensiero (se così posso dire), che si
fa fatica a distinguere dalla pura nostra capacità
di pensare. Quest’ultima non è
rappresentabile alla mente, dato che essa si determina per noi solo nel pensato del singolo pensiero in atto.
Il pensiero umano è
quindi sempre pensiero in atto perché è sempre il pensiero di qualcosa di determinato, non quindi perché pensi sempre
(implicitamente) sé stesso in tutto ciò che pensa, come ritenevano
gli Idealisti. Il contenuto del nostro pensiero in atto è pertanto sempre il pensato, non il pensante. Per questo dico
che il pensiero in atto non pensa mai
sé stesso in quanto puro pensante, in tutto ciò che pensa. Il concetto di un pensiero che pensa sempre
sé stesso in tutto ciò che pensa (per
il solo fatto di pensarlo) si può attribuire solo all’essere e all’operare
della mente di Dio (che per noi non è effettivamente rappresentabile), come
aveva già dimostrato Aristotele, con la ben nota ricchezza di argomentazioni,
nel capitolo nono del libro XII della Metafisica.
“L’intelligenza
[del primo motore] pensa se stessa prendendo il posto dell’intelligibile;
poiché essa diviene intelligibile a se stessa nell’atto di toccare e intendere
il suo oggetto; onde l’intelligenza e l’intelligibile sono la stessa cosa”[2].
L’argomento di questo
corollario verrà trattato in modo particolareggiato nell’esposizione della quarta tesi del presente lavoro. L’affermazione che il pensiero in atto non
può mai avere effettivamente come proprio oggetto sé stesso pensante, può apparire troppo forte
anche a chi non condivide le posizioni speculative dell’Idealismo. Mi si può obiettare: va bene sostenere che, quando io penso a
questo o a quello, non penso il mio pensiero mentre pensa e quindi non ho il pensare ad oggetto e contenuto del mio
atto di pensiero. Ma circa la domanda se
il pensiero, quando pensa a sé stesso,
pensi in realtà sé stesso che sta
pensando, come dobbiamo rispondere? Ogni volta che mi sento consapevole di
pensare (so che sto pensando) o
quando mi dedico al concetto stesso
del pensare, indagando nella mia mente che
cos’è il pensiero, non pongo forse il pensare in quanto tale ad oggetto della mia indagine? E non penso, allora, il pensare in quanto
tale o in sé, ragion per cui il mio pensato viene ad esser costituito dal
mio me stesso pensante?
Rispondo. Quando so
di pensare, ciò significa che il mio atto di pensiero si è dato questo contenuto, diverso da ogni altro,
contenuto che al momento mi occupa interamente, hic et nunc. L’oggetto di questo mio pensiero è costituito
dalla consapevolezza di qualcosa, non
dal pensiero pensante in quanto tale,
che non è un contenuto ma un puro porsi in atto spirituale, il puro porsi (di quest’atto) nel suo porsi. Il fatto che la mia consapevolezza interiore
qui riguardi il pensare invece che il vedere, il sentire, lo scrivere, l’agire
in generale, nulla toglie che siffatto esser-consapevole sia un atto di
pensiero il cui contenuto specifico non è dato dal porsi di sé stesso ma da ciò
che è posto, costituito dall’esser-consapevole-di
: nel caso di specie, dall’esser
consapevole del pensare. Perciò, l’esser
consapevole di una realtà (quella del fatto
che sto pensando) non significa pensare il pensiero mentre pensa (il pensiero
pensante) ma, più semplicemente, pensare a un
determinato contenuto di pensiero, un pensato
circoscritto in sé stesso e non mai il
pensante in quanto tale. La distinzione tra pensante e pensato
(omologa a quella tra potenza ed atto) è, a mio avviso, ineliminabile. Va poi detto che esser consapevoli di pensare
non è diverso, in quanto atto di pensiero, dall’esser consapevoli di qualsiasi
altra cosa : di vedere, di sentire, di
camminare, etc.
Nella nozione “sapere di
pensare” bisogna poi distinguere la semplice consapevolezza di pensare dal
pensiero che indaga la natura stessa
del pensiero. La prima è in noi nel
nostro ripetuto “so di pensare”, in generale:
constatazione interiore che sopravviene continuamente mentre pensiamo,
quale che sia il contenuto del nostro atto di pensiero. Siffatta consapevolezza altro non dice dallo
scarno “so di pensare”; essa esprime la pura consapevolezza dell’esistenza in
me di tutti questi atti di pensiero, nella loro quotidiana successione
temporale. Oltre non va.
Diversa appare invece la
consapevolezza dell’atto di pensiero il cui contenuto è costituito dalla natura
stessa del pensare, dalla domanda “che cos’è il pensiero?”. Bisogna, infatti, chiedersi: quando il soggetto si pone questa domanda, qual
è l’oggetto proprio di essa? Il pensiero
mentre pensa se stesso? Il pensiero del pensiero? Sì, il
pensiero “del” pensiero ma necessariamente inteso, questo pensiero, nella sua
natura intrinseca, nella sua essenza, come la ricaviamo dal suo manifestarsi
nel singolo pensiero concreto, in atto, nel pensato. Per meglio dire: non dal suo manifestarsi (mentre si manifesta, nel meccanismo
interiore di questo manifestarsi) ma dal suo essersi manifestata, dal
suo aver preso forma nel pensato. Il pensato
di siffatta indagine può essere allora il seguente:
il
pensiero è una realtà immateriale e invisibile, del tutto spirituale, situata
nel tempo e non nello spazio e operante nel tempo, che agisce in noi grazie al
collegamento con il nostro cervello, determinandosi nei vari contenuti che
costituiscono via via nel tempo il pensiero in
atto.
Il concetto del pensiero
che qui emerge è sempre quello che si ricava dal contenuto specifico di più
atti di pensiero, contenuto che descrive (in un discorso logicamente
concatenato) la natura del pensiero, ponendosela di fronte come dall’esterno, in
quel determinato pensato. Non è quello del pensiero mentre si pensa nel pensare sé stesso,
condizione che può concepirsi solo implicitamente esistente perché
impossibilitata a costituire il contenuto di un qualsivoglia, concreto atto di
pensiero. E qui, come si è visto, l’implicitamente esistente o presente equivale in realtà ad
una pura astrazione.
Quando poi analizziamo
il principio di causalità, di ragion sufficiente, di non-contraddizione, e le
categorie con le quali opera il nostro pensiero, ci soffermiamo sul suo
modo di operare, che presuppone la natura del pensiero. Questi princìpi costituiscono sempre il
contenuto di un pensiero in atto e valgono per ciò che essi significano in
relazione alla realtà, non perché supposta manifestazione del pensiero che
pensa se stesso nel pensarli.
6. Per ciò che riguarda il
concetto della successione del tempo, risulta dai predetti che la successione è reale perché i nostri pensieri in atto sono reali, dato che noi effettivamente
pensiamo. Il tempo è allora reale, è una realtà che esiste di per sé, non può essere solo il
risultato di una nostra misurazione o comunque un rapporto dipendente dagli
enti, nelle loro reciproche relazioni (vedi infra,
tesi terza). Se il tempo non costituisse una realtà effettiva,
i contenuti del nostro pensiero in atto potrebbero succedersi l’un l’altro,
potrebbero disporsi in una successione alla quale è inapplicabile il concetto
stesso dello spazio? Se il tempo non
esistesse ma fosse solamente un rapporto creato da noi nel misurare le cose,
dove si situerebbe la successione dei pensieri, in quale dimensione?
Seconda
tesi
Lo spazio è condizione empirica (e non trascendentale)
della possibilità della nostra conoscenza. Esso è la dimensione intrinsecamente vuota, continua,
omogenea, identica in tutte le direzioni (isotropa), immobile, infinita, che
permette alla materia e all’energia di avere luogo e moto (spazio assoluto).
Ci si apre la via a
questa fondamentale deduzione già muovendo dalla constatazione che il nostro
pensiero in atto non può esser simultaneamente presente al formarsi delle
nostre sensazioni in noi. Infatti, in
quel formarsi non vi è partecipazione del nostro pensiero. Consideriamo come si costituisce in noi
l’immagine del mondo. L’onda elettromagnetica
che si ritiene esser la luce produce nel fondo dell’occhio dei segnali. Attraverso il nervo ottico raggiungono la
corteccia cerebrale. Quest’ultima elabora in via definitiva la “visione
primaria”, come viene chiamata[3]. Questo processo, studiato da fisica,
fisiologia e psicologia, ci dà l’immagine del mondo esteriore, anche se non
sappiamo esattamente come. Infatti, non
sappiamo come fanno tutti questi processi materiali, queste interazioni di
materia ed energia a produrre per esempio la nostra sensazione del colore. In realtà, i nessi profondi di tutto il
processo visivo ci sfuggono[4].
Sappiamo, tuttavia, che quest’immagine ci dà una rappresentazione esatta del mondo esteriore, del tutto
sufficiente alle nostre esigenze, tant’è vero che siamo normalmente in grado di
distinguere tra un’immagine vera ed una falsa, dipenda quest’ultima da nostre
patologie o da fenomeni esteriori.
Ma nel processo
conoscitivo dei nostri sensi, qual è il ruolo del pensiero, sia come intelletto
che indaghi nell’immagine offertagli dai sensi stessi, sia come coscienza di
averla, quest’immagine? Nella formazione
naturale, fisiologica dell’immagine, che è del tutto fisico-chimica, materiale,
il pensiero del soggetto non gioca alcun ruolo : esso viene dopo. Esso analizza ed
interpreta “l’informazione” (come si dice oggi) fornitagli dai sensi,
probabilmente servendosi anche della memoria.
La sensazione, cui si aggiunge
il pensiero che la analizza ed interpreta, viene tradizionalmente chiamata percezione. La percezione non è posteriore alla sensazione :
è la sensazione della quale siamo coscienti. Ciò che è
posteriore, è la coscienza.
Ci sono quindi diverse
fasi nella formazione della conoscenza mediante i sensi, costituite tutte da
tempi infinitamente brevi, dato che si svolgono alla velocità della luce, a
quella dei nostri processi chimico-neurologici, a quella del pensiero. L’istantaneità
nella quale tutto ciò sembra accadere ci dà l’impressione della simultaneità
tra l’immagine nostra del mondo e il mondo in essa contenuto, e tra
quest’immagine e la consapevolezza che ne abbiamo, allorché quest’ultimo
pensiero ci attraversa la mente. Ma
siffatta istantaneità è apparente già per il fatto che l’onda elettromagnetica
della luce o le onde elastiche del suono non si trasmettono istantaneamente
nello spazio, come se la loro velocità fosse infinita. Esse possiedono una velocità determinata, per
quanto elevata. Ciò significa che
impiegano un certo tempo a percorrere una distanza, un tratto di spazio : non lo coprono mai istantaneamente.
La formazione
dell’immagine del mondo in noi richiede dunque un intervallo di tempo, per
quanto brevissimo. Si ha una scansione
temporale dovuta all’esistenza di un effettivo intervallo di spazio, una
distanza reale, tra noi e l’oggetto posto fuori di noi (scansione che
continua all’interno di noi, perché – come si è ricordato – la formazione
dell’immagine nei circuiti del sistema occhio-cervello, rinchiuso nello spazio
della nostra testa, richiede sempre un certo tempo ad effettuarsi, misurabile
in millisecondi). Tutto ciò significa che lo spazio (allo stesso modo del
tempo) è un elemento costitutivo
(anche se passivo) della nostra conoscenza sensibile, costitutivo in senso empirico ossia come realtà dotata di una sua
oggettività, che è quella della realtà fuori
di noi, indipendente da noi che la percepiamo e pensiamo. L’esistenza stessa dello spazio impedisce il
formarsi istantaneo dell’immagine del mondo in noi. Istantaneo :
immediatamente, senza intervallo alcuno di tempo.
E quindi : condizione empirica, lo spazio, della possibilità della nostra conoscenza
della realtà fuori di noi e non trascendentale,
come sosteneva Kant, costituita quest’ultima da un’intuizione dello spazio come
forma universale di tutti gli oggetti fuori di noi; intuizione non sensibile ma
puramente interiore, rappresentazione immediata e a priori, cioè anteriormente
ad ogni esperienza sensibile, dello spazio come forma universale delle cose.
Rappresentazione non voluta da noi ma connaturata (sempre secondo Kant)
alla nostra mente; senza la quale – rappresentazione – non potremmo conoscere
le cose che sono nello spazio reale, fuori di noi (conoscerle, si intende, alla
maniera di Kant : non come sono in se
stesse ma come forme della nostra sensibilità e quindi come sono per noi).
Ma noi, va detto, non
abbiamo bisogno di possedere nella nostra mente l’idea dello spazio o meglio lo
spazio in idea; non abbiamo bisogno
della kantiana intuizione a priori dello spazio (e del tempo) per esser poi
capaci di conoscere empiricamente gli oggetti nello spazio e quindi la realtà
spaziale che ci circonda da ogni lato (o per avere la sensazione interiore del
tempo). Non ne abbiamo bisogno, dato che
la sensazione esterna, come si è detto, forma in noi le immagini e le sensazioni
interiori del mondo esterno (gusto, tatto) in
modo del tutto indipendente dal nostro pensiero, dalla nostra
consapevolezza. Come potrebbe, allora,
il nostro pensiero costituire esso stesso, mediante un’intuizione (logicamente)
anteriore ad ogni esperienza (quella dello spazio), la condizione che ci
permette di conoscere il mondo esterno, quando invece questo mondo giunge a
noi, sotto forma di immagini e sensazioni, in modo del tutto indipendente dal pensiero stesso? E difatti, Kant non riesce a dimostrare l’esistenza
indipendente di un’intuizione
trascendentale. Egli è costretto a darle
un’esistenza solo implicita, che è
quella di un mero postulato, come tale impossibile a dimostrarsi (vedi infra, esposizione della seconda tesi e critica del concetto kantiano
dello spazio, nel secondo volume di quest’opera).
La verità è che, quando
il contenuto del nostro pensiero in atto è costituito da una sensazione (che si
traduce in una rappresentazione empirica della realtà esteriore), la sensazione
(a causa della scansione spaziale tra noi e l’oggetto; scansione che ne implica
una temporale, costituita dal tempo impiegato dalle onde luminose o sonore a
percorrere la distanza spaziale stessa) deve esser venuta prima nel tempo, non può esser contemporanea
(o simultanea che dir si voglia)
al pensiero del quale costituisce il contenuto.
Il nostro aver coscienza della
realtà sensibile è sempre posteriore
alla nostra immagine di questa stessa realtà :
non può esserle dentro,
svilupparsi simultaneamente ad essa.
Ammettere questo, significa concepire (al modo di Kant e degli
Idealisti) una coscienza che esiste solo
implicitamente, una coscienza per così dire inconscia, il che rappresenta
una contraddizione patente del concetto stesso della coscienza (vedi infra, tesi quarta).
Terza
tesi
Il succedersi del contenuto (sempre singolo ed individuale)
del nostro pensiero in atto (nel linguaggio comune, il succedersi dei nostri
pensieri) non può aver luogo altro che nel tempo. Il tempo costituisce allora una dimensione
reale, senza la quale i nostri pensieri non potrebbero essere : non è creato dai nostri pensieri più di
quanto lo sia lo spazio dal nostro movimento
La successione dei
nostri pensieri ci dà la percezione interiore
del tempo[5]. Ce la dà proprio perché è una successione. Gli atti di pensiero (i contenuti via via
diversi dei nostri pensieri in atto) hanno luogo secondo una successione
irreversibile, che è quella del prima e
del dopo, senza che questo prima e questo dopo possano riferirsi in qualche modo ad un’estensione ossia ad
uno spazio. L’esistenza del tempo non
dipende qui da una misurazione esterna alla successione stessa, che si ottenga
con strumenti rapportati alla luce del sole e al movimento della terra. Ciò accade nel caso della percezione esterna
del tempo. Ma nel caso del succedersi
dei nostri atti di pensiero, è la successione stessa che ci dimostra l’esistenza del tempo, dato che il prima e il dopo
che la caratterizzano, non possono essere altro che temporali. L’esistenza della
successione (ed in conseguenza del tempo) è dimostrata dal nostro stesso
pensare in atto e non ha bisogno di un’unità di misura che la rapporti a
qualcosa di esterno e diverso.
Tutto ciò significa che
noi (vedi supra, seconda tesi) non abbiamo bisogno di presupporre
un’intuizione trascendentale del tempo, del tempo come forma pura, anteriore ad
ogni esperienza. La percezione del tempo
risulta già dalla nostra percezione interiore del succedersi dei nostri
pensieri. I pensieri nostri sono
immateriali e tuttavia esistono. Ne
consegue che la loro successione è reale. Deve pertanto considerarsi reale il tempo,
mediante il quale ci rappresentiamo il loro succedersi. In altre parole : se è reale la successione dei contenuti del
nostro pensiero sempre in atto, il tempo è
qualcosa di reale, per quanto resti sempre impalpabile in se stesso ed
appaia infinito quanto al suo inizio e alla sua fine perché non delimitabile da
un prima ed un dopo iniziali e finali.
Ribadire la realtà del tempo può sembrare pleonastico al comune buon
senso. Ma non lo è, se riflettiamo sul
fatto che la maggior parte dei Fisici odierni tende a concepire il tempo come
una realtà priva di autonomia, funzionale allo spazio (“spazio-tempo”) o
addirittura inesistente, in quanto realtà in sé. Il tempo sarebbe il risultato di un nostro
modo di misurare le cose, un’unità di misura non una realtà effettiva ed
indipendente.
Il tempo come realtà intrinseca alle cose – la d u r a t a
che eternamente sta e scorre per noi (proprio in quanto dura, sta)
nel mutare degli enti e nell’accadere degli eventi, che mutano nel tempo
e ad opera del tempo poiché li consuma il loro carattere temporale (la
caducità del finito, spazialmente determinato) - questo modo tradizionale e
spontaneo di intendere il tempo non avrebbe motivo di essere. Esisterebbe solo il tempo rilevabile
dall’evento fisico determinato in un punto; il tempo locale, perché
tempo di ogni punto della rete infinita di eventi costituente il cosmo,
misurabile solo relativamente al tempo di ogni altro punto. È la prospettiva relativistica, inaugurata da Einstein, il quale cercò di
rendere il tempo una funzione dello spazio con lo stabilire la luce (la sua velocità c) quale unità
di misura del tempo stesso. Pertanto
oggi i Fisici negano che si possa determinare l’esistenza di un “ordine del
tempo”, giusta il quale i fenomeni hanno luogo, un ordine indipendente dai
fenomeni stessi[6].
Tale punto di vista viene tuttavia oggi ritenuto insoddisfacente da
altri, i quali sostengono che, se si vuole riuscire a superare la frattura tra la relatività generale (la teoria
gravitazionale einsteiniana) e la
meccanica quantistitica (teorie che implicano due concezioni diverse dello
spazio, non-euclideo la prima, euclideo la seconda), occorre recuperare il
concetto dell’ordine del tempo nei fenomeni[7].
Ma proprio questo faccio notare:
l’esistenza dell’ordine del tempo nei fenomeni non appare forse
già nel succedersi unidirezionale dei nostri pensieri?
Quarta
tesi
Il pensiero non può identificarsi tout court con la coscienza,
che è solo un determinato contenuto del pensiero in atto, non il presupposto
stesso del pensare. L’idea di una
consapevolezza implicita è inaccettabile.
Questa tesi si pone in
aperto contrasto con il principio informatore del pensiero moderno e contemporaneo,
quello dell’autocoscienza. Essa sembra porre uno iato tra il pensiero in
atto e la coscienza, come se quest’ultima non fosse anch’essa pensiero ed anzi quel pensiero di sé, quell’autocoscienza
che si deve necessariamente porre a
fondamento e presupposto, anche
inconsapevole, di ogni nostro pensare.
Il mio punto di vista è
lineare. Ciò di cui si ha coscienza può
essere costituito da una realtà esterna o interna al soggetto. E quindi :
dalla sensazione esteriore oppure da un sentimento, uno stato d’animo
(ricordo, fantasia, emozione, stato della coscienza morale) o dal puro pensiero
(ragionamento, concetto). Ciò di cui si
può aver coscienza può essere, dunque, qualsiasi cosa, e risultare di un
contenuto molteplice.
Allora l’aver coscienza
è un atto di pensiero che necessariamente
presuppone ciò di cui è coscienza, qualsiasi cosa sia “il qualcosa” del
quale veniamo ad esser coscienti. Lo
presuppone e perciò non può mai
essergli simultaneo, né esplicitamente né implicitamente. È pertanto un atto di pensiero come un altro, in quanto atto di
pensiero, nella continua successione degli atti di pensiero: esso ha
semplicemente un contenuto diverso rispetto al pensiero il cui contenuto è dato
non dall’aver coscienza ma da un altro oggetto, quale esso sia.
Così concepita, la
coscienza non è posta fuori dal pensiero in atto o in opposizione ad esso. Essa è semplicemente un atto di pensiero di diversa qualità rispetto agli altri atti
di pensiero, ove per qualità si deve
intendere un contenuto diverso (diverso,
nel senso che ciò che lo costituisce, questo
contenuto, è rappresentato dall’aver
coscienza) non da un diverso modo di venire in essere, in quanto atto della
nostra mente.
La coscienza, diceva S. T o m m a s o d’Aquino, non è né potentia né habitus ma actus :
“applicatio scientiae ad aliquid”.
Sapere di qualcosa in un atto di pensiero specifico, che si aggiunge a
ciò che abbiamo sentito o pensato : “applicazione di un sapere ad un atto
particolare” del nostro pensiero :
“conscientia addit supra scientiam applicationem scientiae ad actum
particularem”[8]. Ciò significa che essa viene sempre dopo.
La definizione di S. Tommaso coglie, a mio avviso con assoluta
precisione, il fatto che l’aver coscienza di qualcosa si aggiunge sempre (anche nel tempo) a questo qualcosa (il che non
è lo stesso che dire, alla maniera degli Idealisti, che l’aver coscienza di
qualcosa per ciò stesso aggiunge sempre
qualcosa, sul piano del significato, a ciò di cui si ha coscienza). Vi si aggiunge, nella definizione di S.
Tommaso, in modo non implicito ma esplicito,
altrimenti il prender o l’aver coscienza non sarebbe tale. Infatti, è intrinseco al concetto stesso
della coscienza, l’esser essa proprio quell’atto di pensiero mediante il quale ci rendiamo coscienti di qualcosa ossia
lo rendiamo esplicitamente alla
nostra consapevolezza, traendolo in tal modo alla luce del nostro intelletto,
isolandolo dal contesto – concerna “il qualcosa” la reatà esteriore o quella
nostra, interiore.
La giusta collocazione
del concetto della coscienza nel contesto del nostro pensare in atto, fa vedere
come la tesi qui affermata
scaturisca per logica conseguenza dalla mia prima tesi, secondo la quale, come si è detto, il pensiero in atto
non può applicarsi a due o più contenuti simultaneamente : la quarta tesi ne costituisce l’applicazione al concetto della coscienza.
La mia tesi non vuol negare, ovviamente,
l’esistenza di ciò che chiamiamo coscienza,
inteso come consapevolezza di una
realtà esteriore od interiore al soggetto, comprendente perciò anche ciò che il
pensiero moderno chiama coscienza di sé o autocoscienza (quale che sia poi il
modo nel quale i Moderni e Contemporanei concepiscono ciò che chiamano coscienza di sé, autocoscienza). Vuol negare questo postulato : che il concetto della coscienza debba
costituire il fondamento stesso implicito
della nostra conoscenza, il presupposto ineliminabile di ogni nostro conoscere,
come afferma per esempio K a n t in un noto passo della Critica della ragion pura.
Partendo dal presupposto che solo nella coscienza può realizzarsi
l’unità del molteplice oggetto della nostra conoscenza, Kant scrive : “Questa coscienza (Bewusstsein) può sovente essere molto debole, cosicché noi la
colleghiamo nell’effetto [cioè a posteriori] – e non nell’atto stesso cioè
immediatamente – al prodursi [in noi] della rappresentazione [della realtà
sensibile, esterna]; ma, nonostante questa differenza, una coscienza deve esser pur sempre presente, anche se mancante della
chiarezza piena; senza questa coscienza [implicita], i concetti, e con essi
la conoscenza degli oggetti [del mondo esterno], appaiono del tutto
impossibili”[9].
Noi ci rendiamo conto
del significato della nostra rappresentazione sensibile della realtà (di ciò
che significa una nostra determinata immagine o “rappresentazione” del reale)
solo una volta che si sia prodotta in noi, non
mentre si produce ossia “nell’atto stesso” del suo prodursi, “cioè
immediatamente”. Che la nostra
consapevolezza reale ed effettiva funzioni in questo modo, Kant è costretto a
riconoscerlo. Però, non gli sta
bene. Non concorda con il modo nel quale
egli vuole impostare il problema della conoscenza. Bisogna allora affermare che una “coscienza”
in realtà ci deve essere sempre, deve
esserci sempre stata all’interno del processo di formazione della nostra
“rappresentazione” della realtà. Deve esserci sempre stata, anche se noi non ne eravamo coscienti! Come a dire :
poiché una coscienza deve esserci sempre stata; poiché qui non se ne
trova traccia esplicitamente; allora, deve
esserci stata implicitamente, come di nascosto.
Ammettendo un
presupposto del genere, si dovrebbe allora ammettere l’esistenza continua di una nostra consapevolezza implicita in ogni nostra
rappresentazione : continua e perciò simultanea ad ogni nostra
rappresentazione, ad ogni fase del nostro processo cognitivo. Ma in tal modo la nostra coscienza diventa il
presupposto non solo del nostro pensare ma anche del nostro sentire, delle
nostre sensazioni. Inoltre, una
consapevolezza implicita è concetto in sé contraddittorio
perché, come si è detto, è proprio della consapevolezza l’esser esplicito. Una
consapevolezza implicita o inconscia, è inconsapevole. E allora non è consapevolezza, non è
coscienza. Non è nulla. Non esiste.
Kant ha dovuto ricorrere alla contraddizione in termini di una coscienza implicita o inconsapevole,
cosiddetta oggettiva o logica[10],
proprio per cercare di aggirare l’ostacolo insormontabile rappresentato dal
fatto che noi non possiamo conferire simultaneamente più contenuti al nostro
atto di pensiero, ragion per cui la nostra coscienza di avere delle
rappresentazioni della realtà esterna è sempre posteriore alle rappresentazioni stesse, mai simultanea al loro
venire in essere.
L’Idealismo non ha
affatto superato la contraddittoria concezione kantiana; anzi, l’ha mantenuta e
condotta all’estremo. Consideriamo
brevemente quanto H e g e l scrive sul concetto della coscienza (Bewusstsein). La coscienza in senso immediato è quella
“sensibile” o “empirica”, la quale registra
“la semplice ed immediata certezza” dell’oggetto costituito dalla realtà
esteriore. Questa coscienza, lo è sempre
“di un qualcosa, di una cosa esistente, di un singolo, e così via”, nel qui e
nell’ora, sì da essere “la più ricca nel contenuto ma la più povera di
pensieri”[11]. La coscienza più ricca di pensieri, è invece l’autocoscienza, che è “la verità” e “il
fondamento” della coscienza, onde la semplice “coscienza di un altro oggetto è
[in realtà già] autocoscienza” perché quando “io so l’oggetto come mio ([mio
perché] esso è mia rappresentazione [dell’oggetto stesso]), io perciò so in
esso me stesso [Ich weiss daher darin von
mir]”. Io “so me stesso” vuol dire
: ho la consapevolezza di essere ciò che
sono, ossia io=io. Questa è
“l’espressione dell’autocoscienza”, che nello stesso tempo fa apparire l’idea
di una “libertà astratta”, perché è ancora quella dell’”idealità pura”[12],
dell’io che si pone come io non ancora correlato ad un contenuto, ad una
situazione concreta, storica; che non ha
ancora preso coscienza di sé come autocoscienza che dal particolare (dall’io
dell’individuo empirico) deve elevarsi all’universale, allo Spirito. Avendo ancora a contenuto solo se stessa,
“l’espressione dell’autocoscienza” viene inizialmente ad essere “senza realtà,
perché essa stessa, l’oggetto di sé, non è un oggetto, non essendovi [qui]
alcuna differenza dell’oggetto e di sé”[13]. Si tratta, infatti, sempre della coscienza,
che pone se stessa a suo proprio oggetto, si fa “oggetto di sé”.
In queste brevi ma
potenti pennellate, che mirano al superamento del dualismo di soggetto e
oggetto, si noterà, tuttavia, la presenza di una contraddizione, consistente, a
mio avviso, proprio nel concepire il primo gradino dell’autocoscienza come
coscienza implicita. Infatti, essa non appare sulla scena come il
contenuto distinto di un atto di
pensiero che il soggetto rivolga a se stesso (l’atto della coscienza di sé,
dell’io=io) ma risulta oggettivamente
(e quindi implicitamente) già nella
semplice coscienza sensibile, quasi fosse connaturata ad essa. Nel conoscere l’oggetto (esterno) io già “so
in esso (darin = dentro) me stesso”:
lo so, per il fatto stesso di conoscere e quindi senza saperlo esplicitamente;
anzi, questo sapere me stesso (= questa coscienza dell’esser io il mio io) deve
silenziosamente (kantianamente) precedere
il contenuto concreto della coscienza sensibile. Ma precedere, come? Sempre oggettivamente,
sempre restando nell’implicito, nel nascosto. Ma, come si è
detto, una coscienza implicita che
coscienza è? Il concetto di una
coscienza che sia tale solo implicitamente appare contraddittorio poiché manca
in esso proprio l’affermazione di quel rendere interiormente esplicito al soggetto pensante, di quel
render manifesto un contenuto, che
per definizione appartiene al concetto della coscienza.
Che la coscienza di sé,
come coscienza dell’io penso, giunga
all’io esclusivamente come riflessione
sul fatto interiore del pensare, e quindi posteriormente
al pensiero concretamente in atto : so di pensare in quanto io rifletta sul
fatto che sto (già) pensando; ciò è
addirittura esplicitamente escluso da F i c h t e , per il quale il sorgere della
coscienza sembra esser costituito da un’intuizione di sé autocreatrice, per
così dire.
La natura del pensiero –
afferma - non si stabilisce considerandone il nesso con la percezione e nemmeno
la successione “di un pensiero ad un altro”.
Il pensiero ha, infatti, un carattere “assoluto” e pertanto “riposa su
sé stesso”[14]. Perciò, “non possiamo affatto affermare che
l’io pensi [proprio] in questo pensiero, grazie al quale successivamente si
dimostra che l’io è divenuto [cosciente] a sé stesso per via della riflessione
su di esso [pensiero]; bisogna invece dire che è il pensiero stesso a
concepirsi da sé stesso come una vita indipendente, ad esser questo pensiero
che si rende obiettivo”[15].
Fichte vuol stabilire
come si debba intendere il concetto dell’io
penso. Grazie a quel pensiero,
riflettendo successivamente sul
quale, l’io è diventato cosciente di se stesso come io pensante? E quindi grazie ad un sapere scalato nel
tempo, grazie alla successione di sapere e sapere di sapere? No.
Non ci sono qui un prima e un dopo.
Perché? Perché è il pensiero
stesso, secondo Fichte, in quanto “vita autonoma”, realtà indipendente, a
“concepire sé stesso tramite sé stesso”, ad “obiettivarsi” in quanto pensiero, al di fuori di qualsiasi determinazione
temporale. Contro ogni esperienza, che ci vincola alla successione dei
nostri pensieri, il pensiero, ovvero l’autocoscienza di sé dell’uomo, acquista
allora, nell’ottica di Fichte, i caratteri dell’eternità,
autodivinizzandosi. E difatti, il
“sapere” non è più concordanza dell’intelletto con la cosa, visione troppo
ristretta, bensì “libertà”, libertà
“assoluta”[16]. Al posto dell’io che pensa, la cui consapevolezza
è in primis costretta a tener conto della successione temporale dei propri
pensieri in atto, Fichte pone il pensiero che pensa sé stesso, al di fuori di
ogni determinazione temporale. Il che è
del tutto assurdo. Infatti, il
pensiero ha sempre un contenuto, che è diverso da quello di un altro pensiero,
altrimenti bisognerebbe dire che esso pensa sempre la stessa cosa o che pensa
simultaneamente tutto il pensabile. Ma
la diversità dei contenuti implica necessariamente la loro successione nel tempo. L’idea di un pensiero che pensa sempre sé
stesso, come autocontemplantesi in eterno, mette l’astratto al posto del
concreto, fa del nostro pensare un qualcosa di indifferenziato ed
inesprimibile. In definitiva, di
irrazionale.
Quinta
tesi
Esiste un ordine a fondamento della nostra conoscenza, che
si rivela già nell’ordine temporale (la successione, come tale irreversibile)
del contenuto dei nostri pensieri in atto.
Quest’ordine non è posto dal soggetto pensante ma deve esser da esso
riconosciuto. L’ordine che compare nell’Io è parte dell’ordine che governa il
Tutto.
Il corollario che, in relazione al problema
della conoscenza e al concetto della verità, si ricava da queste quattro tesi,
e che si può considerare a sua volta una quinta tesi, è il seguente :
esiste un ordine a fondamento
della nostra conoscenza. Il nostro
conoscere, in quanto pensiero sempre in atto con un contenuto determinato, si
colloca in un certo modo nel tempo e nello spazio. Riflette un ordine, per così dire fisiologico, rigido ed immodificabile, un
tassello fondamentale del quale è costituito dalla successione dei nostri pensieri nel
tempo. Questo ordine non è posto dal
soggetto pensante. Esso inerisce alla
natura delle cose. Ciò significa,
pertanto, che lo si può dedurre dall’esperienza astraendo legittimamente da
essa mediante concetti e definizioni, senza bisogno di doverlo fondare sulla
nostra coscienza.
Non può in conseguenza
sostenersi il concetto della verità
tipico dei Moderni, fondato sulla coscienza di sé o autocoscienza del soggetto
conoscente, una volta che l’autocoscienza venga tolta dal suo piedestallo per
esser ridotta ad un atto di pensiero come un altro, nella successione dei
pensieri, diverso solo per il suo contenuto o qualità. Se si accetta quella che per me è una verità
palmare, e cioè che la nostra coscienza non può implicitamente accompagnarsi alle nostre rappresentazioni, alle
quali non può pertanto essere simultaneamente presente, si deve ammettere che
l’unità, nel succedersi dei nostri
pensieri, ossia l’unità della nostra conoscenza, non può fondarsi (unicamente)
sulla nostra coscienza di sé, quale suo presupposto (necessariamente)
implicito. La nostra coscienza, se vuol
esser tale, deve accompagnarsi esplicitamente
alle nostre rappresentazioni : deve quindi presupporle, venir sempre dopo.
Il fondamento dell’unità
della nostra conoscenza dovrà allora essere esplicito
e non implicito, come in Kant –
vedi supra).
Ma ciò che altro significa, se non che tale unità dovrà esser riconosciuta dalla nostra coscienza come
risultante dall’intero processo conoscitivo, che ricomprende sia il soggetto
che la cosa (l’oggetto del conoscere), nella
loro reciproca adaequatio? Un’unità, quindi, costituita dall’ordine che il soggetto e l’oggetto vengono a costituire,
ordine che è quello dell’essere e del
quale il nostro pensiero è solo una parte.
La prima e la quinta tesi di questo lavoro spingono perciò a ritenere che, se
la verità deve risultare dalla concordanza del nostro pensiero con un ordine
obiettivo, allora essere e pensare n o n coincidono. Coincidono solo nella “concordanza” che si
realizzi, non in sé. La separazione,
tuttavia, non è assoluta, dal momento che il pensiero deve concepirsi come la
parte immateriale dell’essere, allo stesso modo dell’anima. L’essere non può concepirsi come parte del
pensiero. Infatti, mentre l’essere ricomprende il pensiero, quest’ultimo si
limita a comprendere l’essere. Non si può dire lo ricomprenda.
Ma P a s c a l non ha forse scritto: “Par l’espace, l’univers me comprend et
m’engloutit comme un point; par la pensée, je le comprends”?[17]. E tuttavia, questo “comprendere” non eleva
affatto l’uomo all’altezza dell’universo, identificandolo all’essere
dell’Universo tramite il pensiero stesso che lo “comprende”, quasi esso appunto
ricomprendesse l’Universo.
E difatti, nessuno come Pascal è consapevole dei limiti del nostro
pensiero, per quanto grande sia la sua straordinaria capacità di comprendere. “Toute la dignité de l’homme est en la
pensée. Mais qu’est-ce que cette
pensée? Qu’elle est sotte! […] Qu’elle est grande par sa nature! Qu’elle est
basse par ses défauts!”[18]. Tutto ciò che non si riesce a comprendere si
eleva sempre al di là delle nostre conoscenze, pur vaste e veritiere, come
un’insuperabile muraglia. Già nella
comprensione dello spazio, che costituisce ai nostri occhi la caratteristica
prima dell’Universo, nella quale appare tutta la maestà dell’Essere, si rivela un rapporto tra finito ed infinito
che non riusciamo a spiegare, che resta incomprensibile, e che si mantiene
imperturbato, impenetrabile nel suo mistero.
“Tout ce qui est incompréhensible ne laisse pas d’être. Le nombre
infini. Un espace infini, égal au fini”[19].
Proprio la dimensione
infinita della natura, che le nostre scoperte non fanno altro che ampliare,
schiaccia l’uomo, rendendolo consapevole della sua nullità di fronte
all’Essere. È inutile che “gonfiamo” le
nostre costruzioni intellettuali “al di là degli spazi immaginabili” dal nostro
intelletto. Così facendo, “nous n’enfantons
que des atomes, au prix de la réalité des choses”. In realtà, il nostro pensiero si perde
nell’immensità dell’Essere, che ci compare immediatamente nell’immensità
dell’Universo, il quale possiamo ben concepire come “une sphère infinie dont le
centre est partout, la circonférence nulle part”. Ma in una rappresentazione
del genere, la nostra immaginazione ovviamente “si perde” e viene sovrastata
dal “carattere sensibile dell’onnipotenza di Dio”[20]. L’onnipotenza divina che si manifesta
nell’esistenza dell’Universo, non riusciamo a rinchiuderla in una
rappresentazione geometricamente finita dell’Universo stesso. In termini pascaliani, la “grandezza”
dell’uomo deve dunque rivelarsi soprattutto nel riconoscere la sua “miseria”[21]. Il che non significa rinunciare a pensare e
rifugiarsi nella disperazione cosiddetta esistenziale. Significa, invece, esercitare la propria
capacità di comprendere nel modo dovuto, tenendo conto dei suoi limiti e
mantenendola nelle giuste proporzioni con la realtà effettiva delle cose.
* * *
Questa dunque la sinossi delle cinque tesi preliminari
della metafisica del soggetto. Seguirà l’esposizione analitica delle singole tesi, una per
una. Nell’ambito di essa, ampio spazio
sarà dedicato alla confutazione della concezione kantiana dello spazio e del
tempo, che deve tuttora considerarsi il fondamento speculativo del soggettivismo ancor oggi imperante nella
teoria della conoscenza, presso filosofi e scienziati.
Secondo Heidegger, il §
10 della Critica della ragion pura,
nel quale Kant tratta Dei concetti puri
dell’intelletto o categorie, costituisce “la chiave di volta per la
comprensione della Critica della ragion
pura come fondazione della metafisica [moderna]”[22]. In questo paragrafo, Kant annuncia che
procederà a rielaborare e riformare le categorie aristoteliche dal punto di
vista della filosofia trascendentale, intendendole cioè come concetti puri ossia dati a priori,
indipendentemente da ogni esperienza, che essi soli, anzi, renderebbero possibile.
Ma la deduzione dei
concetti “puri” dell’intelletto non sarebbe stata possibile, se, anteriormente
ad essa, Kant non avesse costruito una definizione
trascendentale dello spazio e del tempo, da intendersi cioè come intuizioni
a priori, anteriori ad ogni nostra conoscenza sensibile, resa anzi possibile
proprio da siffatte intuizioni. La
kantiana “fondazione” della metafisica moderna mediante i concetti “puri”
dell’intelletto poggia sui pilastri rappresentati dalla concezione
trascendentale dello spazio e del tempo.
La restaurazione della metafisica deve pertanto cominciare dalla critica
di questa concezione.
(La struttura assunta
dal secondo volume dell’opera, sul concetto dello spazio, ha portato ad
un notevole ampliamento del discorso, ben oltre Kant. Illustrare il
quale, richiederebbe un intervento a parte).
Paolo Pasqualucci
Giovedì 6
settembre 2018
[1] De Mem., 449 b. Cfr.
ARIST., Della memoria e della
reminiscenza, in ID., I piccoli
trattati naturali, tr. it. intr. e note di Renato Laurenti, Laterza, Bari,
1971, pp. 45-61; pp. 45-46 : “ Non si
può avere memoria del futuro, che è piuttosto oggetto di opinione e di
aspettazione [...] né del presente si ha memoria, bensì sensazione : e infatti con questa non conosciamo né il
futuro né il passato ma il presente soltanto.
La memoria è di quanto è avvenuto :
del presente, quando è presente, ad es. quando uno vede che questo è
bianco, nessuno direbbe che si ricorda e neppure di un oggetto che contempla
con lo spirito, mentre lo contempla e ci pensa intorno : dice solo che il primo lo percepisce con la
sensazione, l’altro lo conosce”.
[3] Per
una descrizione di questo processo, cfr.
: DARLEY, GLUCKSBERG, KINCHLA, Psicologia (1991), tr. it. di Maurizio
Ricucci, Il Mulino, Bologna, 1993, vol. I, p. 114 ss. Vedi anche:
C. UMILTÀ (a cura di), Manuale di
neuroscienze, Il Mulino, Bologna, 1999, 2a ed., pp. 115-129 e 201-227.
[4] W. HEITLER, Causalità e teleologia nelle scienze della natura, tr. it. di A.
Sparzani, Einaudi, Torino, 1967, pp. 44-45.
Non riusciamo a spiegare come faccia l’impulso elettromagnetico della
luce a tradursi per noi nella sensazione di un colore. Ma, ciò che è più grave, non sappiamo come la
corteccia visuale del nostro cervello giunga alla fine ad elaborare in
un’immagine unitaria tutte le “informazioni” che le sono giunte dalla retina
attraverso il nervo ottico. Sul punto,
vedi i seguenti articoli: J.S. WERNER,
B. PINNA, L. SPILLMAN, Illusory Color
& the Brain, in ‘Scientific American’, 296 (2007) 3, pp. 70-73; p.
72; F. WERBLIN, B. ROSKA, The Movies in Our Eyes, in ‘Scientific
American’, 296 (2007) 4, pp. 55-61; p. 55, 61.
[5] ARIST.,
Phys., IV, 219 a : “Invero, noi percepiamo simultaneamente
movimento e tempo, e se è buio e noi non subiamo alcuna affezione corporea, ma
un certo movimento resta presente nell’anima, subito ci sembra che
simultaneamente anche un certo tempo stia trascorrendo” (ID., La
Fisica, IV, 219 a, tr. it. introd. e note di Antonio Russo, Laterza,
Bari, 1968, p. 110). La percezione
interiore del tempo mediante la successione dei nostri pensieri fu colta anche
da altri filosofi. Vedi per esempio : G.
BERKELEY, Dialogues between Hylas and
Philonous (1713), Third Dialogue: “Phil. And is not time measured by the succession of
ideas in our minds? Hyl. It is”(In ID., A New Theory of Vision and other Writings,
a cura di e con introduz. di A. D. Lindsay, Everyman’s, London – New York,
1910, 1969, pp. 199-303; p. 221).
Nonché: C. WOLFF, Deutsche Metaphysik (1719), tr. it. con
testo tedesco a fronte, introd. e note di Raffaele Ciafardone, Rusconi, Milano,
1999, § 94 : “Conoscendo che qualcosa
può sorgere a poco a poco e, parimenti, prestando attenzione alla successione
dei nostri pensieri, otteniamo un concetto del tempo”.
[6] Questa impostazione è sostenuta, accanto ad altri, con particolare dovizia
di scritti, anche divulgativi, dall’illustre fisico teorico Carlo Rovelli, da
ultimo con: L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017. L’espressione “ordine del tempo” risulta da
un famoso frammento di Anassimandro, che il prof. Rovelli cita come esempio del
modo nel quale la fisica classica ha costruito astronomia e fisica, modo non
più attuale: “Le cose si trasformano
l’una nell’altra secondo necessità e si rendon giustizia secondo l’ordine del
tempo [katà tèn tou chronou táxin]” (op. cit., p. 23).
[7] Vedi: Craig Callender, Is time
an illusion?, in “Scientific American’, numero speciale dedicato al
problema del tempo in fisica, intitolato:
A Matter of Time, vol. 23, Nr. 4, Autunno 2014, pp. 14-21.
[8] Quaestiones disputatae, I, XVII, De conscientia, a. 1 e 2 ad IIum. Vedi
inoltre, Summa Theologiae, I, q. 79, a. 13.
Per altri testi di S. Tommaso sul tema, rinvio a C. FABRO, Percezione e pensiero (1941, 1962), ora
in ID., Opere complete, 6, a cura di
C. Ferraro, EDIVI, Segni, 2008, pp. 275-277.
Tra di essi, particolarmente pregnante questa frase, scritta nel
commentare Aristotele: “prius est
intelligere aliquid, quam intelligere se intelligere” (De Ver., q. 10 a.8).
[9] I. KANT, Kritik der
reinen Vernunft (=KdrV), A 103-104; ID., Critica
della ragion pura, tr. it. e introd. a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino,
1967, p. 644. Corsivi miei. Ricordo che la prima edizione della Critica (= A) è del 1781; la seconda
(=B) è del 1787, alla vigilia della Rivoluzione Francese.
[10] Sul
punto, vedi : I. KANT, Vorlesungen über die Metaphysik, ediz.
di Erfurt (1821), rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt,
1975, pp. 134-6. Questa edizione postuma
dei corsi di Kant sulla metafisica, si basa su stesure manoscritte che
risalgono in gran parte agli anni 1788 e 1789-1790, posteriori quindi alle due
edizioni della Critica della ragion pura
(cfr. la Vorrede alle Vorlesungen,
p. V).
[11] G.
W. F. HEGEL, Enzyklopädie der
philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), ed. Lasson, tr. it.
con note e prefaz. di B. Croce, Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio (1907), Laterza, Bari, 1963, § 418,
p. 392.
[14] J.
G. FICHTE, Die Thatsachen des
Bewusstseyns (1817), in Fichtes Werke,
a cura di I. H. Fichte (1845-1846), rist. De Gruyter, Berlin, 1971, vol, II,
pp. 535-709; p. 548.
[15] Ivi. Riporto anche l’originale : “Man kann eben darum [...] keineswegs sagen,
das Ich denke in diesem Denken, indem späterhin sich zeigen wird, dass erst
durch die Reflexion auf dieses Denken das Ich zu sich selbst komme : sondern man muss sagen, das Denken selbst als
ein selbstständiges Leben denkt aus und durch sich selbst, ist dieses
objectivirende Denken”.
[17] B.
PASCAL, Pensées, editi dopo la morte,
avvenuta nel 1662, in ID., Oeuvres
complètes, ediz. con note a cura di J. Chevallier, Gallimard, Paris, 1954,
pp. 1079-1345; p. 1157.
[21] Ivi,
p. 1156: “La grandeur de l’homme est
grande en ce qu’il se connaît misérable.
Un arbre ne se connaît pas misérable”.
[22]M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica
(1929), tr. it. di M. E. Reina, con introd. di E. M. Forni, Silva, Milano,
1962, p. 81.