Un inaccettabile articolo per i 30 anni delle Consacrazioni Episcopali
effettuate da mons. Lefebvre – Ristabiliamo i fatti
Sommario : 1.
La lefebvriana dichiarazione “storica” del 1974 di fedeltà alla Tradizione
viene mal presentata. 1.1. Una
“dichiarazione storica” rivelatasi profetica, da rileggere e meditare. 2. L’Autrice sembra insinuare che le divergenze
del 1985-86 con dom Gérard a proposito della Nuova Messa e dell’infausto
Incontro di Assisi erano dovute ad un
atteggiamento arrogante della FSSPX nei confronti del cardinale Ratzinger e del
Papa. 2.1 La critica e l’opposizione alle sconcertanti
iniziative ecumeniche di Giovanni Paolo II erano giuste e doverose. 3. Le vicende che portarono alle
Consacrazioni senza mandato del 1988 sono riferite da Scrosati in modo parziale e
sfavorevole a mons. Lefebvre. 3.1
L’insensibilità e la tattica dilatoria di Roma fecero fallire le trattative. 4. Non ci fu nessuno scisma, né “formale” né
“sacramentale” o “di fatto”, solo una disubbidienza giustificata dallo stato di
necessità. 4.1 L’accusa di mendacio a P.
Schmidberger è ridicola oltre che del tutto priva di senso. 4.2 Il vero significato dell’importante omelia
pronunciata da mons. Lefebvre in occasione delle Consacrazioni.
Mi riferisco a: Luisella
Scrosati: Dom Gérard e Lefbvre,
un’amicizia dolorosa, apparso su La Nuova Bussola Quotidiana del 30
giugno 2018. L’articolo si basa su un
testo notoriamente ostile a mons. Lefebvre, quale la biografia recentemente
pubblicata dal saggista e storico Yves Chiron sul benedettino dom Gérard Calvet:
Dom Gérard. Tourné vers le Seigneur, éd. Sainte-Madeleine, 2018, pp.
688.
Dom Gérard (1927-2008), monaco animato da un grande
zelo per la tradizione, in particolare per la conservazione della S. Messa di
rito antico, fondò un monastero (l’Abbazia Sainte-Madeleine du Barroux) che
manteneva la liturgia e l’impostazione dottrinale tradizionale, non inquinata
dalle novità emerse con il Vaticano II. Trovandosi
ovviamente in difficoltà con il vescovo locale e il suo ordine, egli si
appoggiò a mons. Lefebvre (1905-1991), ricevendone sempre un valido aiuto.
Stabilì con lui una vera e propria alleanza per la difesa della vita monastica
tradizionale e della vera liturgia. Ma
quando mons. Lefebvre, di fronte all’atteggiamento dilatorio di Roma per ciò
che riguardava i suoi successori alla guida della Fraternità Sacerdotale San
Pio X, da lui regolarmente eretta nel 1970, prese alla fine la tormentata e
dolorosa decisione di procedere alla consacrazione di quattro vescovi, da lui
scelti fra i sacerdoti della stessa FSSPX, senza più attendere un mandato
pontificio che continuava a non arrivare, dopo lunghi mesi di snervanti trattative
--- a quel punto dom Gérard abbandonò
l’anziano prelato francese e negoziò separatamente un accordo con Roma. Tale accordo gli garantiva il mantenimento
dell’impostazione tradizionale del suo monastero, tuttavia al prezzo di alcune
importanti e gravi concessioni: tra le quali, il riconoscimento della legittimità
della Messa del Novus Ordo, da celebrarsi occasionalmente. E difatti, dom Gérard ha dovuto sottoporsi
all’umiliazione di concelebrare tal Messa almeno due volte[1]. In tal modo egli ha rinnegato se stesso, ossia la battaglia che
per tanti anni aveva combattuto assieme a mons. Lefebvre in difesa della vera
Messa cattolica. I suoi discepoli si
sono poi distinti per la difesa delle nuove e singolari dottrine uscite dal
Concilio, in particolare di quella sulla “libertà religiosa”[2].
L’articolo di Scrosati presenta la vicenda
indubbiamente drammatica e dolorosa delle Consacrazioni filtrandola attraverso
i giudizi negativi di dom Gérard, come risultanti – si intuisce – dalla
biografia di Yves Chiron. I riferimenti
ai fatti non sono però sempre precisi e finiscono con l’indurre il lettore ad
un’errata interpretazione degli stessi, suggerendogli un’immagine negativa di
mons. Lefebvre. Ma procediamo con
ordine.
1. La lefebvriana dichiarazione “storica” del 1974
di fedeltà alla Tradizione viene mal presentata.
Incalzato dall’ordine benedettino e dall’Ordinario
locale, dom Gérard scelse dunque di “aderire a mons. Lefebvre, che il 21
novembre 1974 pronunciò una dichiarazione storica, nella quale espose la sua
ferma intenzione di proseguire la formazione di futuri sacerdoti, secondo lo
spirito di Ecône, prima ancora di conoscere l’esito della Visita
apostolica in corso nel seminario”[3].
La “dichiarazione storica” di mons. Lefebvre non ebbe
luogo mentre la Visita apostolica era ancora “in corso” bensì otto giorni
dopo. La Visita, infatti, si effettuò dall’11 al 13 novembre 1974. L’errata
informazione data da Scrosati mette di fatto in cattiva luce mons. Lefebvre,
quasi egli non avesse nemmeno voluto aspettare la fine di quella Visita per
esplodere nella sua polemica “dichiarazione storica”. I
due “visitatori”, due ecclesiastici belgi, mons. Descamps e mons. Onclin, si
macchiarono di due gravi inadempienze, sul piano formale: partirono senza firmare il “protocollo di
visita”, come richiesto dal diritto; non inviarono mai copia del loro rapporto
a mons. Lefebvre, come ugualmente richiesto dal diritto. Egli non ricevette mai alcun documento
ufficiale concernente la Visita. Inoltre, i due Visitatori, nell’interrogare i
seminaristi, se ne uscirono con affermazioni che destarono vivo scandalo: si
sarebbe giunti ad ordinare persone sposate; la Chiesa non era l’unica
depositaria della verità; la Resurrezione di Nostro Signore non era una certezza. Significativamente, non si recarono mai a
pregare nella Cappella del Seminario. Si
è poi saputo che, privatamente, avevano riferito alle autorità romane che tutto
era a posto nel Seminario di Écône, dal punto di vista
dottrinale e disciplinare, a parte “il rifiuto della nuova liturgia” e la
presenza di “uno spirito ostile al Concilio”, cose che ai loro occhi costituivano
ovviamente un demerito[4].
Spinto dall’indignazione per il comportamento dei due
Visitatori e ancor più per le loro disinvolte, pubbliche dichiarazioni
ereticali, che esigevano una replica, mons. Lefebvre emise allora la sua
“storica dichiarazione”, che tuttavia non consisteva nel contrapporre Ecône a
Roma, come si potrebbe ricavare dal testo di Scrosati, quasi la FSSPX si proponesse come una setta, contro
Roma; non era un supposto “spirito di Ecône”
quello che veniva invocato dall’anziano presule “per la formazione dei
sacerdoti” bensì lo spirito della Roma cattolica perenne contro le deviazioni
protestantiche introdottesi nella Roma ispirata alle riforme conciliari.
1.1. Una “dichiarazione storica” rivelatasi profetica,
da rileggere e meditare.
“Aderiamo con tutto il cuore, con tutta l’anima alla
Roma cattolica, guardiana della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al
mantenimento di questa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità.
Rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di
seguire la Roma di tendenza neomodernista e neoprotestante manifestatasi
apertamente durante il Vaticano II e dopo il Concilio in tutte le riforme che
ne sono seguite. Tutte queste riforme,
in effetti, hanno contribuito e tuttora contribuiscono alla demolizione della
Chiesa, alla rovina del Sacerdozio, alla distruzione del Sacrificio e dei
Sacramenti, alla scomparsa della vita religiosa, ad un insegnamento naturalista
e di tipo teilhardiano nelle Università, nei Seminari, nella catechesi;
insegnamento nato dal liberalismo e dal protestantesimo, condannati tante volte
dal magistero solenne della Chiesa.
Nessuna autorità, nemmeno la più elevata nella gerarchia, può
costringerci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica, chiaramente
espressa e professata dal magistero della Chiesa da diciannove secoli. Ha detto S. Paolo: “Ma quando NOI STESSI o un Angelo disceso dal cielo vi
annunziassero un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia
anatema!”(Gal 1, 8). Il Santo Padre non
ci ripete forse oggi il medesimo concetto?
E se una certa contraddizione si è manifestata tra le sue parole ed i
suoi atti e nel comportamento dei dicasteri vaticani, ebbene noi ci teniamo
fermi a ciò che è stato sempre insegnato.
Noi facciamo orecchie da mercante alle novità che distruggono la Chiesa”[5].
Mons. Lefebvre affermava dunque con estrema chiarezza
e precisione il seguente concetto: noi
non possiamo prender parte alla presente autodemolizione della Chiesa; resistiamo e ci
opponiamo alle novità perniciose e distruttrici, anche se provengono dalle
autorità stesse della Chiesa. Continuava,
infatti, subito dopo l’intrepido presule, con estrema lucidità:
“Non è possibile modificare la ‘lex orandi’ senza
modificare la ‘lex credendi’. A messa
nuova corrisponde nuovo catechismo, nuovo sacerdozio, nuovi seminari, nuove
università, Chiesa carismatica, pentecostale:
tutte cose contrarie all’ortodossia e al magistero di sempre.
Questa Riforma, prodotto del liberalismo e del modernismo, è
interamente pervasa del loro veleno.
Nasce dall’eresia e sfocia nell’eresia, anche se tutti i suoi atti non
sono formalmente eretici. È pertanto impossibile che i cattolici coscienti e
fedeli adottino questa Riforma e vi si sottomettano in qualsivoglia maniera.
L’unico atteggiamento coerente con
la fedeltà alla Chiesa e alla dottrina cattolica, per la nostra salvezza,
consiste nel rifiuto categorico di accettare tale Riforma.
Pertanto, senza alcuna ribellione,
alcun senso di colpa, alcun risentimento noi perseguiremo la nostra opera di
formazione sacerdotale guidati dalla stella del magistero di sempre, persuasi
di non poter render più grande servigio alla Santa Chiesa Cattolica, al Sovrano
Pontefice e alle generazioni future.
Per questo, ci atteniamo
fermamente a tutto quello che è stato creduto e messo in pratica nella fede,
nei costumi, nel culto, nell’insegnamento del catechismo, nella formazione dei
sacerdoti, nell’istituzione della Chiesa, da parte della Chiesa di sempre e
codificato nei libri apparsi prima dell’influenza modernista del Concilio,
nell’attesa che la vera luce della Tradizione dissipi le tenebre che oscurano
il cielo della Roma eterna.
Nel far ciò, con la grazia di Dio,
il soccorso della Vergine Maria, di san Giuseppe, di san Pio X, noi siamo convinti di restare fedeli alla
Chiesa Cattolica e Romana, a tutti i successori di Pietro, e di essere “fideles
dispensatores mysteriorum Domini Nostri Jesu Christi in Spiritu Sancto”.[6]
Rileggendo queste parole dopo 44 anni, nessun
cattolico che abbia conservato il sensus fidei e la capacità di ragionare con
la sua testa può dubitare della loro
verità, del loro carattere “profetico”, come si ama dire oggi: chi può negare che le “novità”introdotte seguendo
le indicazioni del Concilio Vaticano II stessero già allora innescando nella
Chiesa un processo di autoannientamento che non si è m a i interrotto
e che oggi è diventato vera e propria decomposizione, a tutti i livelli: dottrinale, pastorale, liturgico, dei costumi? Il tempo è galantuomo, come si suol
dire: esso ha reso giustizia all’occhio
acuto, al coraggio intellettuale e morale di mons. Marcel Lefebvre; alla lucidità,
al coraggio, alla tenacia sue e di mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991),
il vescovo brasiliano, arcivescovo di Campos, fine teologo, che lo ha sempre
affiancato nella dura e solitaria battaglia per la difesa della fede. Due soli
vescovi, delle centinaia che erano nel Coetus internationalis Patrum, lo
schieramento dei vescovi che in Concilio si batterono contro il dilagante
neo-modernismo, colpevolmente lasciato avanzare dai Papi al tempo regnanti. Due soli, ma due giganti della fede.
2. L’Autrice sembra insinuare che le divergenze con
dom Gérard del 1985-86 a proposito della Nuova Messa e dell’infausto Incontro
di Assisi erano dovute soprattutto ad un atteggiamento arrogante della FSSPX nei confronti del cardinale Ratzinger e del
Papa.
Nonostante la
reciproca stima tra mons. Lefebvre e dom Gérard, si erano manifestate gravi
divergenze quando quest’ultimo, nel 1985, aveva inopinatamente accettato “la validità,
la legittimità e il carattere non eretico del Novus Ordo Missae”, provocando
una lettera di “duro rimprovero” da parte di P. Schmidberger, allora Superiore
Generale della FSSPX. In essa, si ribadiva
che “il Novus Ordo era ambiguo, imbevuto di uno spirito eterodosso e
protestantizzante; è un vero pericolo per la fede cattolica, e ciò non solamente
nella sua direzione evolutiva e negli abusi, ma in se stesso”. Evidentemente, osservo, dom Gérard la pensava
allo stesso modo, altrimenti non si capisce perché si fosse fino a quel momento
rifiutato di celebrarlo. Con
l’imprevista apertura nei confronti della nuova liturgia egli cominciava tuttavia
a venir meno nella comune battaglia per mantenere la Messa di rito romano
antico e l’antica liturgia. Scrosati
riporta una “nota ironica” di dom Gérard, il quale, a margine della citata
lettera, là ove P. Schmidberger ribadiva che bisognava “custodire gelosamente i
nostri princìpi e la nostra unione con mons. Lefebvre in quanto egli rappresenta
l’episcopato in questa posizione cattolica”,
scriveva: “Voi siete il
Sant’Uffizio e attendete che il cardinale Ratzinger si umili riconoscendo i
propri errori?”[7]. L’Autrice evidentemente condivide
l’atteggiamento di compromesso con il Novus Ordo – un vero e proprio cedimento,
per non dire tradimento, da parte
di dom Gérard – e il giudizio beffardo e fuori misura dello stesso,
sull’esigenza più che legittima sollevata da P. Schmidberger, di riaffermare e
mantenere ad ogni costo la purezza dottrinale e liturgica, così come
faceva mons. Lefebvre, unica posizione legittima per un vero sacerdote di
Cristo (Gal 1, 8; 1Tim 1, 13; 4, 1-5;
Tt, 2, 7) .
Ma come si fa, postillo, a non osservare che il
cardinale Ratzinger, se avesse riconosciuto per tempo “i propri errori”,
emendandosi dalle letture e dottrine profane di cui si era sempre nutrito –
riconosciuto di fronte a Dio, non di fronte a mons. Lefebvre o a chiunque altro
– certamente non avrebbe terminato la sua carriera ecclesiastica inventandosi
la figura patetica e incomprensibile del “Papa Emerito”, fonte di grande
sconcerto per i fedeli tutti e di notevole confusione dottrinale e pastorale,
ulteriore perdita di prestigio del papato come istituzione.
Sbagliava dom Gérard ad accusare di arroganza la FSSPX
e sbaglia chi ancor oggi usa quella sua infelice “nota a margine” per rinnovare
quell’accusa. Come ognun può vedere, non si trattava di ergersi in Sant’Uffizio
bensì di respingere fermamente le deleterie riforme ispirate dal Concilio, a
cominciare dalla ambigua “Messa di Montini”, mantenendosi incrollabilmente
fermi “nei nostri principi” ossia nella fedeltà al Deposito della Fede e al
Magistero di sempre, come proclamato da mons. Lefebvre nella Dichiarazione del
21 novembre 1974, che pur aveva avuto la piena adesione di dom Gérard.
2.1 La
critica e l’opposizione alle sconcertanti iniziative ecumeniche di Giovanni
Paolo II erano giuste e doverose.
In quel periodo, “dom Gérard ebbe anche modo di
manifestare il proprio dissenso nei confronti della violenza con cui Giovanni
Paolo II, in occasione dell’incontro di Assisi del 1986, venne attaccato dalla
Fraternità, come anche per altri episodi”[8].
La critica di mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer
alle scandalose iniziative ecumeniche di quel Papa, non può esser liquidata
così sbrigativamente, sostituendole il logoro, falsissimo stereotipo di un
mons. Lefebvre sorta di bècero energumeno, la cui attività principale sarebbe
stata quella di criticare e attaccare il
Papa.
La critica era in realtà provocata dallo sconsiderato
attivismo ecumenico del Papa, che comportava evidenti cedimenti dottrinali,
oltre ai pastorali: essa aveva un
preciso fondamento teologico e rappresentava un dovere per dei Pastori
fedeli al loro mandato. Occorre ricordarla,
sulla base della biografia di mons. Tissier de Mallerais, anche perché i cedimenti
e gli errori sono stati mantenuti dai successori, ampliandosi ulteriormente con
il presente e regnante.
In margine al par. 11 della prima enciclica di Papa
Woytila, nel 1979, la Redemptor hominis, mons. Lefebvre scrisse: “Il n. 11 presenta una concezione
completamente nuova del cristianesimo. Si tratta di un umanesimo teilhardiano”. In margine al n. 13, che fa in pratica
l’esegesi di Gaudium et spes 22, sotto il titolo: “Cristo si è unito ad
ogni uomo”[sic], là ove vien detto che l’uomo, grazie a tale “unione”,
addirittura partecipa del mistero di Cristo “dall’istante in cui è stato
concepito nel seno materno [!]”, mons. Lefebvre, accanto ad un grande punto
esclamativo, scrisse: “Che ne è
dell’incorporazione a Cristo con il battesimo?”. Infatti, secondo la bimillenaria dottrina
della Chiesa, è solo con il battesimo che veniamo “incorporati a Cristo”, non
certo per il fatto stesso di esser nati, di esser uomini. Affermare questo significa cadere in un grave
e pernicioso errore, che conduce alla divinizzazione dell’uomo (errore già
confutato da S. Giovanni Damasceno [m. nel 749] e da S. Tommaso). Ma quest’errore, come hanno mostrato anche le
accurate analisi dello scomparso teologo tedesco prof. Johannes Dörmann,
Giovanni Paolo II lo ha mantenuto tenacemente nei suoi documenti ufficiali[9]. Nel 1981, ricorda mons. Tissier de Mallerais,
egli dichiarò a Manila: “nello Spirito Santo, ogni persona e ogni popolo sono
divenuti, grazie alla Croce e alla Resurrezione di Cristo, figli di Dio,
partecipi della natura divina, eredi della vita eterna”[10]. Sono divenuti: è l’errore della salvezza già effettuatasi
per tutti grazie “alla Croce e alla Resurrezione”, in sostanza grazie alla supposta
(ma impossibile ed inesistente) unione di Cristo “con ogni uomo” in quanto tale, per il fatto
stesso della sua Incarnazione.
Quando fu
promulgato il nuovo Codice di Diritto Canonico, nel gennaio del 1983, mons.
Lefebvre fu molto colpito dal fatto che esso codificasse espressamente
l’ecclesiologia del Vaticano II, con tutte le sue ambiguità cariche d’errori, a
cominciare dalla nuova idea di collegialità, stabilente la mostruosità
giuridica di d u e titolari della suprema potestà di
giurisdizione sulla Chiesa: il Papa da
solo e il Collegio episcopale con il Papa (c. 336). Dopo la comparsa del Codice, mons. Lefebvre
cominciò a prendere concretamente in considerazione l’idea, fino a quel momento
solo ventilata, di consacrare un suo successore e di iniziare delle forme di
protesta pubblica. Quando, nel novembre
del 1983, dopo che il Papa in luglio aveva lasciato tutti di stucco con
l’attribuire a Lutero una “profonda religiosità”, della quale in verità nessuno
si era mai accorto (Documentation Catholique 1855, 3.7.1983, 696), la
Commissione mista cattolico-luterana enumerò sette punti importanti “tra le
idee del Vaticano II, nei quali si possono trovare accolte le richieste di
Lutero”, l’anziano presule avvertì che “la misura era ormai colma”. Assieme a mons. de Castro Mayer, diede il 21 novembre di quell’anno corpo
all’idea, avanzata da altri, di pubblicare una “lettera aperta” al Papa nella
quale, rifacendosi espressamente all’Incidente di Antiochia tra san Paolo e san
Pietro (Gal 2, 11-14), si denunciavano 6 errori o deviazioni gravi
inquinanti la dottrina e la pastorale correnti, errori già condannati dal
Magistero anteriore:
1. Una concezione latitudinaria ed ecumenica della
Chiesa;
2. Un governo collegiale e un orientamento democratico
nella Chiesa;
3. Una falsa concezione dei diritti naturali
dell’uomo, con particolare riferimento alla “libertà religiosa”;
4. Una concezione assoluta del potere del Papa, quando
invece tale potere è subordinato al potere divino attuantesi nella Tradizione,
nella Sacra Scrittura e nelle definizioni promulgate dal magistero
ecclesiastico;
5. La concezione protestante della Messa e dei
Sacramenti, condannata dal Concilio di Trento;
6. In generale, la libera diffusione delle eresie provocata
dalla soppressione del Sant’Uffizio[11].
È importante
ricordare oggi questi sei esiziali errori, se solo si considera a cosa
sono arrivate le concessioni all’eresia luterana con l’attuale Pontefice e il
grado di “protestantizzazione” ormai
raggiunto dalla Chiesa visibile, in generale.
Ma lo è, anche per rammentare agli smemorati che due vescovi, 35
anni fa, avevano pur messo pubblicamente in guardia la Cattolicità dall’abisso
che si stava spalancando.
In quegli anni, l’autodemolizione della Chiesa ad
opera di Giovanni Paolo II stava procedendo ad un ritmo sostenuto. Il Papa
incontrava grecoscismatici (soi-disants Ortodossi) auspicando una “unità
armoniosa” tra le due “Chiese”. Andava in visita rispettosa nei templi
buddisti, in Tailandia. Partecipava a Ginevra al Consiglio Ecumenico delle
Chiese. Nel Togo ai riti della locale
religione animista e in India a quelli indù, facendosi imprimere sulla fronte
le ceneri sacre di questi ultimi. Faceva
le stesse cose di Papa Francesco, quanto all’ecumenismo. Citando sempre la dichiarazione conciliare Nostra
Aetate, 3, manifestava grande stima
e rispetto per i musulmani. Otto anni dopo la scomparsa di mons. Lefebvre, il
14 maggio 1999, avrebbe reso il famoso bacio di omaggio ad una copia del Corano
regalatagli da una delegazione musulmana!
Giovanni Paolo II aveva anche allargato alquanto le “richieste di
perdono” a nome della Chiesa per certi suoi supposti errori del passato; pratica
sconcertante iniziatasi con Paolo VI che di fatto sottoponeva ad una radicale damnatio
memoriae tutto ciò che la Chiesa era stata, come istituzione, come storia e
come Magistero[12].
Cosa avrebbe dovuto fare mons. Lefebvre di fronte a
una deriva del genere: tacere per rispetto al Papa, per non scandalizzare le
anime pie e i sepolcri imbiancati, per
paura? Tacendo, si sarebbe reso complice. Nell’omelia della domenica di Pasqua 1986 a
Écône, puntualizzò con l’abituale franchezza la
situazione senza precedenti: “ Nous nous trouvons devant un dilemme grave qui,
je crois, n’a jamais existé dans l’Église:
celui qui est assis sur le Siège de Pierre participe à des cultes de
faux dieux…”[13].
Nel 1984-85 ci fu la revisione del Concordato
del 1929 tra la S. Sede e l’Italia. Con soddisfazione del Segretario di Stato cardinale
Casaroli, al p. 1 del Protocollo Allegato, si eliminava seccamente il
principio secondo il quale la religione cattolica era la sola religione dello
Stato italiano. Tale principio era stato
stabilito da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna, nell’art. 1 dello
Statuto Albertino, da lui octroyé il 4 marzo 1848: “La religione cattolica apostolica e romana è
la sola religione dello Stato. Gli altri
culti ora esistenti [nello Stato] sono tollerati conformemente alle leggi”. Lo
Statuto, in quanto legge fondamentale del Regno, fu mantenuto nel successivo
Regno d’Italia (1861) e ribadito nell’art. 1
del Trattato Lateranense dell’11 febbraio 1929 tra Regno d’Italia
e S. Sede, auspici Benito Mussolini e Pio XI.
Il Trattato risolse la grave
“Questione Romana” (i rapporti tra Stato e Chiesa come enti sovrani
territoriali paritari) ed entrò in vigore assieme al citato Concordato,
nel quale, tra l’altro, lo Stato unitario riconosceva valore civile al
matrimonio ecclesiastico, ponendo fine al predominio del matrimonio civile, pur
mantenuto[14].
Ma il 3 ottobre 1984, il Papa non concesse la Messa
tradizionale con l’indulto Quattuor abhinc annos? Perché mons. Lefebvre non se ne avvalse, come
invece altri? Perché l’indulto poneva la
condizione di riconoscere “la legittimità ed esattezza dottrinale del Messale
Romano promulgato da Paolo VI nel 1970” ossia la legittimità della Nuova Messa
e implicitamente del Vaticano II con
tutte le sue riforme. Mons. Lefebvre
aveva sempre mantenuto chiarissimo il concetto che la Nuova Messa era il punto
nodale della questione. Nel periodo agitato seguito alla soppressione illegale
della Fraternità, quando lo si minacciava di sospensione a divinis (poi
irrogata) se avesse proceduto alle ordinazioni sacerdotali, il 29 giugno 1976
disse nel sermone tenuto proprio durante le ordinazioni, ugualmente tenutesi:
“Il est clair, il est net, que c’est sur le problème
de la messe que se joue tout le drame entre Écône et
Rome […] L’insistance que mettent ceux qui nous sont envoyés de Rome pour nous
demander de changer de rite nous fait réfléchir […] Cette nouvelle messe est un
symbole, une expression d’une foi nouvelle, d’une foi moderniste. Car, si la très sainte Église a voulu garder,
tout au cours des siècles, ce trésor précieux qu’elle nous a donné du rite de
la sainte messe canonisé par saint Pie V, ce n’est pour rien. C’est parce que, dans cette messe, se trouve
toute notre foi…”[15].
Dopo esser andato nella sinagoga di Roma, a render
omaggio ai “nostri fratelli maggiori”, come disse, Giovanni Paolo II organizzò
a sorpresa nel 1986 l’incontro di preghiera per la pace ad Assisi con i
rappresentanti di tutte le religioni del globo (bisogna pur dirlo: un’indecorosa e blasfema carnevalata
liturgica). La reazione pubblica di
mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer di fronte al gravissimo fatto, non
poteva mancare. Dopo aver scritto ad
otto cardinali per protestare contro l’annunciato evento, che gli ricordava giustamente
“il variopinto Congresso di Chicago del 1895”, organizzato da protestanti e teosofi,
riunente tutte le religioni mondiali, al quale Leone XIII aveva proibito ogni
partecipazione cattolica, mons. Lefebvre rese nota una pubblica protesta, firmata
anche dal suo compagno di lotta brasiliano, il 2 dicembre 1986. Essi denunziavano il fatto con parole
vibranti di giusto e smisurato sdegno.
“Le péché public contre l’unicité de Dieu, contre le
Verbe incarné et son Église fait frémir d’horreur: Jean-Paul II encourageant les fausses
religions à prier leurs faux dieux: scandale sans mesure et sans précédent, […]
impiété inconcevable et humiliation insoutenable pour ceux qui demeurent
catholiques dans la fidélité à vingt siècles de profession de la même foi”[16].
La situazione obiettiva costringeva mons. Lefebvre a
“combattere per la fede, denunciando lo scandalo” rappresentato dalle
deviazioni dottrinali e pastorali dilaganti nella Chiesa e proprio per colpa
dei Papi: era convinto che questo fosse
il compito che a lui, in quanto vescovo, era stato affidato dalla Provvidenza[17]. Si trattava di un combattimento epocale per
la difesa della vera fede, al quale si era affiancato anche dom Gérard, salvo
poi tirarsi indietro quando lo scontro
si era fatto inevitabilmente frontale contro le inaccettabili e
frenetiche iniziative ecumeniche di un Papa determinato a portare sino in fondo
il “rinnovamento” promosso dal Concilio.
La questione di sostanza era teologica, dottrinale; le questioni di forma
erano del tutto secondarie. Nessuno
voleva mancare di rispetto al Papa o attaccarlo, ma chi si considerava ancora autenticamente
cattolico, era costretto a denunziare
nel modo più fermo le sue deviazioni dottrinali e pastorali. La verità è che dom Gérard ad un certo punto
non se la sentì di continuare nell’infuocata battaglia, contro il Papa e tutta
o quasi la Gerarchia; evidentemente non aveva l’eccezionale tempra di
combattente di mons. Lefebvre, nella cui tenacia e perseveranza di impavido Defensor
Fidei è comunque impossibile non vedere l’azione dello Spirito Santo.
3. Le
vicende che portarono alle Consacrazioni senza mandato sono riferite da Scrosati
in modo parziale e sfavorevole a mons. Lefebvre
La ricostruzione di Scrosati muove dal Protocollo
di Accordo concordato con il cardinale Ratzinger e firmato da mons.
Lefebvre il 5 maggio 1988, con firma ritirata il giorno successivo. Il
protocollo conteneva la “regolarizzazione canonica della Fraternità” e così disciplinava
la possibilità di criticare il Concilio:
“riguardo a certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o che
riguardano le riforme successive della liturgia e del diritto, e che a noi
sembrano difficilmente conciliabili con la tradizione, noi ci impegniamo ad
avere un atteggiamento positivo di studio e confronto con la Sede apostolica,
evitando ogni polemica”[18].
Perché mons. Lefebvre ritirò la sua firma? L’Autrice non cerca di dare una qualche
spiegazione. “Ma Mons. Lefebvre, il giorno dopo, ritirò la sua firma e chiese a
Roma, come prova della sincerità di questa proposta, di fissare la data delle
ordinazioni episcopali entro il 30 giugno di quell’anno. Si trattava di un ultimatum. Il 24 maggio, mons. Lefebvre si recò
nuovamente da Ratzinger, chiedendo la consacrazione non più di uno ma di tre
vescovi, scelti da una commissione la cui maggioranza fosse composta da non
meglio precisati membri della tradizione e che venisse data risposta entro il 1
giugno. Il 30 maggio Lefebvre incontrò
diversi responsabili della Fraternità e i superiori delle comunità religiose
amiche. Tra questi ultimi era presente
dom Gérard, che era contrario ad una rottura con Roma ed auspicava
l’accettazione dell’accordo proposto dalla Santa Sede […].
Nel frattempo Roma rispondeva di voler accelerare le
nomine dei futuri vescovi, di modo che le consacrazioni potessero essere fatte
entro il 15 agosto dell’anno in corso, forse per assecondare la sincera
percezione di mons. Lefebvre di non esser lontano dal redde rationem
(morirà infatti nel 1991). Ma il 15
giugno Lefebvre annunciò in una conferenza stampa la volontà di procedere
comunque alle ordinazioni episcopali il 30 giugno ed indicò i nomi dei quattro
futuri vescovi. La Congregazione dei
vescovi indirizzò allora un Monitum a Lefebvre, avvertendo che lui ed i
quattro futuri vescovi sarebbero incorsi nella scomunica latae sententiae ;
nel contempo la Santa Sede chiedeva ai membri della Fraternità e a tutti i
fedeli di riconsiderare la propria posizione e affermava “che saranno prese
tutte le misure per garantire la loro identità nella piena comunione della
Chiesa cattolica”[19].
Questa succinta (ed anche lacunosa) ricostruzione degli
eventi non situa il comportamento di mons. Lefebvre nel suo effettivo contesto
storico, non cerca di far capire perché ad un certo punto sia sorto il problema
stringente di uno o più successori, non ci rende noto il carattere piuttosto
deludente dell’accordo da lui saggiamente rescisso. Già riferire i fatti a partire dal protocollo
del 5 maggio, significa esporli in modo tronco e parziale, cosa che fatalmente
finisce col mettere in cattiva luce la figura di mons. Lefebvre.
Ma valga il vero.
Negli anni 1981-82 c’era stato in Brasile un antefatto assai poco incoraggiante. Dimessosi per limiti d’età il 28 agosto 1981
mons. de Castro Mayer, il suo successore, nominato dall’autorità vaticana,
mons. Alberto Navarro, aveva rapidamente demolito tutto ciò che aveva costruito
il suo predecessore: chiusi i seminari,
cacciati insegnanti e seminaristi, trasferiti i preti che celebravano nel rito
tridentino. Un’autentica persecuzione,
uno sterminio completo[20].
Da quell’epoca mons. Lefebvre cominciò pertanto a porsi
il problema di un successore fedele alla Tradizione della Chiesa. Il problema si acuiva man mano che passavano
gli anni. La sua salute peggiorava,
rendendogli ad un certo punto impossibili i lunghi viaggi in aereo, necessari
per andare a impartire le Cresime nelle Americhe, per esempio. Peggiorava sempre più la situazione della
Chiesa visibile. Dal 1983 lasciò
trasparire più volte pubblicamente la sua intenzione, condivisa da mons. de
Castro Mayer, di consacrare lui stesso dei collaboratori, ricevendo puntuali
repliche ossia messe in guardia dal cardinale Ratzinger, al tempo Prefetto
della Congregazione per la Dottrina della Fede[21].
Lo scandalo inaudito dell’Incontro interreligioso di
Assisi fu da lui interpretato come un primo segno dall’Alto per rompere gli
indugi. Un secondo segno fu costituito
dalla risposta di cinquanta pagine data dalla Congregazione per la Dottrina
della Fede nel marzo 1987 a trentanove Dubia da lui sottomessi nell’ottobre 1985 sulla
compatibilità della nuova dottrina sulla “libertà religiosa” con l’insegnamento
tradizionale della Chiesa. La risposta,
che voleva dimostrare esser la novità
del tutto compatibile con la dottrina di sempre, convinceva mons. Lefebvre del
carattere sempre più neo-modernista di un magistero che, ispirandosi sempre al
Concilio, appariva “schiavo ormai di
falsi princìpi”. Nel consueto sermone
per le ordinazioni del 29 giugno 1987 annunciò che “avrebbe proceduto a
nominare dei successori per continuare quest’opera, dato che Roma è nelle tenebre”[22].
Nell’agitazione
che ne seguì, scrisse l’8 luglio successivo a Ratzinger: “Nous supplions le
Saint-Père, par votre intermédiaire, de procurer le libre exercise de la
Tradition” in modo da permettere “que S.E. Mgr de Castro Mayer et moi-même
puissions nous donner des auxiliaires de notre choix”[23].
Cominciarono nervose e a tratti convulse trattative,
che durarono quasi un anno, per poi fallire clamorosamente. L’articolo di Scrosati, ispirandosi verosimilmente
al libro di Yves Chiron, sembra scaricare sul solo mons. Lefebvre la colpa del
fallimento, facendolo apparire come persona arrogante e testarda, prona anche a
colpi di testa, come il famoso ritiro della firma del 5 maggio. E senza mai cercare di spiegare al lettore le
sue ragioni. Ma questa rappresentazione
della personalità e dell’azione di mons. Lefebvre non regge ad un’analisi
obiettiva dei fatti.
3.1 L’insensibilità
e la tattica dilatoria di Roma fecero fallire le trattative
Il cardinale Ratzinger, ricevuto mons. Lefebvre a Roma
il 14 luglio 1987, propose una soluzione pratica: dichiarazione attenuata della
FSSPX sul Concilio e il Nuovo Messale per ottenere dal Papa un vescovo per le
future ordinazioni. In séguito, si
sarebbe trovato il modo di garantire una certa autonomia nei confronti dei
vescovi diocesiani, per poter continuare nell’impostazione fedele alla
Tradizione. Il 28 luglio Ratzinger fece
maggiori concessioni in una lettera a mons. Lefebvre: niente più dichiarazioni
di tipo dottrinale, si sarebbe concessa
“una struttura giuridica adeguata” per la “giusta autonomia” della Fraternità;
ci sarebbero stati degli “ausiliari”. Si confermava la concessione del Messale
del 1962, la continuazione dei seminari, delle ordinazioni. Sarebbe stato inviato un Visitatore
Apostolico, peraltro già richiesto da tempo dalla stessa Fraternità.
Secondo mons. Tissier de Mallerais, che ha vissuto
quegli eventi in prima persona come teologo, attivo collaboratore di mons.
Lefebvre, quest’ultimo era intenzionato
a procedere alle consacrazioni già per il 25 ottobre di quell’anno, festa di
Cristo Re, trovando ancora generiche le offerte romane e, soprattutto, non avendo
più fiducia nei confronti di autorità pervase da una mentalità chiaramente
neo-modernista. Ma poi ci ripensò, perché,
annota il suo biografo, anche lui “non era tutto d’un pezzo”. I suoi collaboratori lo invitavano alla
prudenza e premeva anche a lui trovare un accordo[24].
Mons. Lefebvre non ha mai agito senza consultarsi. Ha sempre ascoltato molte persone: non solo i
collaboratori, gli amici qualificati ma, a volte, persino il quisque de
populo. Chiedeva l’opinione altrui, ascoltava, rifletteva. Poi però la decisione la prendeva lui, da
solo, in modo netto, assumendosene pubblicamente tutta la responsabilità. Così, a ben vedere, deve fare un vero capo,
un vero pastore del gregge affidatogli da Nostro Signore.
Il 3 ottobre, “fece
un volta-faccia pubblico”, dinanzi a 4000 fedeli venuti ad Écône
per festeggiare i suoi quarant’anni di episcopato, assieme a tutti i
seminaristi e a preti e religiosi amici. Disse che Roma “aveva presentato delle
soluzioni che sembravano straordinarie”.
Improvvisamente, si aprivano grandi speranze di una soluzione ottimale. L’11 novembre venne il Visitatore Apostolico,
nella persona del cardinale Édouard Gagnon, presidente del Consiglio Pontificio
della Famiglia, noto per il suo carattere mite e paziente. Per intercessione di Jean Guitton, con il
quale era in buoni rapporti, mons. Lefebvre aveva ottenuto da Ratzinger che il
Visitatore svolgesse compiti solo informativi.
Il cardinale Gagnon fece un’ottima relazione sull’ortodossia dottrinale
e sullo “spirito ecclesiastico” del Seminario.
Ma mons. Lefebvre aveva notificato al cardinale “tre esigenze” ulteriori,
da trasmettere a Roma: 1. per l’effettiva
autonomia dai vescovi diocesani un Ordinariato con il Superiore generale della
Fraternità come Ordinario; 2. una
Commissione romana presieduta da un cardinale ma i cui membri fossero
selezionati dal Superiore generale, per regolare i rapporti tra il futuro
Ordinariato e la S. Sede, Curia compresa;
3. tre vescovi invece di uno solo, tra i quali lo stesso Superiore
generale, da inquadrarsi nel modello degli Ordinari Militari[25].
Come si vede, la volontà di avere tre vescovi, essendo
stato uno solo sempre da lui considerato del tutto insufficiente, mons.
Lefebvre l’aveva manifestata in modo ufficiale ben nove mesi prima del 24
maggio 1988; non apparve all’improvviso in quella data, come si ricava dalla
lacunosa ricostruzione di Scrosati. E
fin dall’inizio non aveva forse richiesto più ausiliari? In un’intervista del 2
febbario 1988, egli ribadì il concetto: “sono deciso a consacrare almeno tre
vescovi per il 30 giugno [di quell’anno], sperando di aver l’approvazione di
Giovanni Paolo II. Ma, se non dovessi averla, passerei oltre, per il bene della
Chiesa, per la perpetuità della Tradizione”.
Perché il 30 giugno? Perché
veniva dopo il 29, Festa dei Santi Pietro e Paolo, giorno nel quale ogni anno a
Écône si facevano le ordinazioni sacerdotali, con ampia
partecipazione di clero e fedeli: tutta
la struttura organizzativa dell’evento era dunque in loco, già approntata[26].
I tre punti erano per mons. Lefebvre fondamentali. In una lettera al Papa del 20 febbraio,
insisteva per avere una data per le Consacrazioni anteriormente al 30 giugno. Il 18 marzo, il cardinale Ratzinger rispose
proponendo l’istituzione di una commissione per trovare una soluzione pratica,
con due esperti per parte, un canonista e un teologo. La commissione si riunì il 12 e il 13 aprile
1988 nel Palazzo del Sant’Uffizio.
Presidente Ratzinger, moderatore il P. Benoît Duroux OP con P. Tarcisio
Bertone (il futuro cardinale) e P. Fernando Ocariz dell’Opus Dei. Dall’altra parte, mons. Lefebvre con P. Patrice
Laroche (canonista) e P. Bernard Tissier de Mallerais (teologo e futuro
biografo dello stesso monsignore). Mons.
Lefebvre si lasciò convincere ad accettare il documento finale perché gli
permetteva di sostenere che “alcuni punti del Concilio e delle riforme
liturgiche e del diritto canonico gli sembravano difficilmente conciliabili con
la Tradizione”[27]. Ma sui tre punti che gli stavano a cuore, non
aveva in realtà ottenuto nulla di concreto.
La Commissione sarebbe stata composta a larga maggioranza da membri
della Curia, cinque contro due della Fraternità. Non si voleva concedere alcun vescovo. Poi si accondiscese a uno, grazie ad un
intervento di Bertone eleggibile tra i membri della Fraternità. Si chiedeva di riconoscere la giurisdizione
degli Ordinari locali per le Cresime. Nei confronti della nuova liturgia,
sottolineò il cardinale Ratzinger, “occorreva reciprocità nell’accettazione dei
riti”. Le comunità legate alla
Fraternità sarebbero state reincorporate nei loro ordini anche se con uno “statuto particolare”. Per il vescovo, ci voleva comunque tempo, occorreva
far pervenire i dossier dei candidati, che andavano studiati. Già il 3 maggio
mons. Lefebvre fece avere quattro nomi di eleggibili, i dossier li inviò a
ruota. Il 4, Ratzinger disse che a
Parigi, nella chiesa della Fraternità, Saint-Nicolas-du-Chardonnet, si sarebbe
dovuta celebrare anche una Messa della parrocchia, cioè con il nuovo rito poiché
“la Chiesa è una”. Per la data, il P.
Laroche ne propose una non oltre il 15 agosto, possibilmente il 30 giugno. Ma sulla data il cardinale Ratzinger non si
pronunciò.[28]
Mons. Tissier de Mallerais, presente ai fatti,
testimonia che mons. Lefebvre non era affatto tranquillo; era combattuto tra
una “vera soddisfazione” per l’accordo con Roma e una “sorda diffidenza”. Non appariva affatto contento di se stesso. Lo fece capire, nello stesso pomeriggio della
firma, alle Discepole del Cenacolo, le suore che curavano e a tutt’oggi
curano a Velletri la redazione di sì sì no no, il famoso periodico
“antimodernista” fondato nel 1975 da don Francesco Putti del Clero Romano
(1909-1984), loro padre spirituale.
Disse loro: “ Se don Putti fosse qui, che direbbe? - Monsignore, dove state andando? –
Monsignore, che state facendo?”[29].
Bisogna sapere che mons. Lefebvre aveva sempre avuto
grande stima di don Putti, che aveva incontrato più volte, mostrando di tener
sempre in gran conto la sua opinione.
Nel 1983, sì sì no no aveva pubblicato la “lettera aperta”
inviata al Papa con la denuncia dei “sei errori” da mons. Lefebvre e mons. de
Castro Mayer (vedi supra). Nel
ringraziarlo, mons. Lefebvre l’aveva definito “l’ultimo araldo della Fede
cattolica a Roma”[30]. Don Putti combatteva la stessa coraggiosa
battaglia dei due vescovi difensori della fede contro l’avanzata del
neo-modernismo all’interno della Chiesa.
L’inattesa evocazione dell’opinione di don Putti, faceva capire che,
secondo lo stesso mons. Lefebvre, don Putti non sarebbe stato affatto contento
del documento testé firmato dall’anziano presule. E di questo, mons. Lefebvre si angustiava. Dopo una notte praticamente insonne e passata
in preghiera al Priorato di Albano, il giorno dopo, perfettamente calmo per la
ritrovata tranquillità dello spirito, fece recapitare a Ratzinger una lettera
nella quale ritirava la firma (lettre de dédit) e poneva la questione
della fissazione della data della Consacrazione al 30 giugno come questione
fondamentale, da lui già in precedenza sollevata ma negletta dal
cardinale. Il tempo per approvare i
dossier dei candidati c’era, scriveva. Il Papa poteva abbreviare la procedura e
far avere il suo mandato per il 15 giugno.
Se la risposta fosse stata negativa, mons. Lefebvre avrebbe comunque
proceduto alla Consacrazione, forte del fatto che il Protocollo d’Accordo gli
concedeva un vescovo. Le reticenze delle
autorità romane sulla consacrazione di un sacedote della Fraternità, gli
facevano temere dilazioni[31].
Sembrava appunto un ultimatum. Ma bisognava pure cercar di sbloccare un
negoziato che si stava trascinando da quasi un anno e costringere la S. Sede a
mettere le carte in tavola! Il cardinale Ratzinger, rimasto di stucco dal ritiro
della firma, dopo aver annullato la conferenza stampa che avrebbe annunciato
l’avvenuto accordo, scrisse a mons. Lefebvre chiedendogli di “riconsiderare la
sua posizione”. Il 10 maggio,
quest’ultimo fece una quadro generale della situazione ai sacerdoti della
Fraternità, ribadendo che “il 30 giugno ci saranno delle consacrazioni
episcopali, con o senza l’accordo con Roma”.
Il 17 maggio Ratzinger scrisse a mons. Lefebvre una lettera contenente
quelle che sembravano essere le definitive condizioni poste da Roma: sarebbe
stata necessaria una lettera al Santo Padre nella forma di una “umile supplica”
per chiedere “riconciliazione e perdono”.
Si poteva anche chiedere la concessione di un vescovo per la Fraternità
ma “senza suggerire data alcuna”. Questa
lettera di Ratzinger è taciuta da Scrosati.
Il 20 successivo, mons. Lefebvre scrisse al Papa, ribadendo che per lui
“il 30 giugno” era una data limite e che occorrevano “più vescovi” poiché uno
solo era del tutto “insufficiente”. Il
24 maggio, a Roma, chiese a Ratzinger di trasmettere al Papa questa
richiesta: di volergli indicare, prima
del 1° giugno, se concedeva la consacrazione di t r e vescovi
per il 30 successivo, e se concedeva una maggioranza di membri della Tradizione
nella famosa commissione.
Il 30 maggio il cardinale comunicò la risposta del
Papa. Niente maggioranza nella commissione, la Fraternità “non ne ha
bisogno”. Circa i vescovi, il Santo
Padre “è disposto a nominare un vescovo della Fraternità […] in modo che la
consacrazione possa aver luogo il 15 agosto”.
Ma occorre che siano inviati al Santo Padre ulteriori dossier in modo
che il Santo Padre possa scegliere un candidato “con il profilo previsto
dall’accordo”. I candidati finora indicati non avevano “il profilo”. Bisognava affidarsi al Papa e al Signore[32].
Tormentato sulla giusta decisione da prendere, ma
sempre fedele al suo metodo, mons. Lefebvre convocò per il 30 maggio al priorato
di Notre-Dame-du-Pointet “i sacerdoti difensori della fede e i superiori e le
superiori delle comunità monastiche amiche”.
Una sorta di “petit concile de la Tradition”, nel quale ognuno potè
esprimersi in tutta franchezza[33].
Si dichiararono per
l’accordo il P. Lecareux, i cappuccini, il P. Coache e lo stesso P.
Tissier de Mallerais, unitamente a dom Gérard.
Altri vi si opposero. Le suore quasi all’unanimità erano tutte contrarie[34]. Dom Gérard evocò il rischio di finire col
diventare “una piccola Chiesa”, per sempre separata dalla grande Chiesa. Contro
i pericoli di assorbimento e dissoluzione paventati da mons. Lefebvre, disse
che “ci si sarebbe difesi con la forza delle nostre posizioni dottrinali”. I fatti poi lo hanno drammaticamente smentito,
dal momento che il Barroux, fatto l’accordo con Roma, ha rapidamente accettato
le pessime novità introdotte dal Concilio, in particolare la “libertà religiosa”,
ispirata a ben noti modelli profani! Il
concetto espresso da mons. Lefebvre, alla fine, affermava un principio “luminoso”,
commenta il suo biografo: “Le lien
officiel à la Rome moderniste n’est rien à côté de
la préservation de la foi!”[35].
Scrosati non cerca di spiegare al lettore i motivi per
i quali mons. Lefebvre decise alla fine di rompere le trattative. Eppure risultano chiaramente dalla
documentazione. Durante la riunione del
Pointet del 30 maggio, mons. Lefebvre così riassunse la situazione: “Finora eravamo protetti in modo naturale, la
selezione si faceva da se stessa per l’esigenza di una frattura con il mondo
conciliare; d’ora in poi bisognerà fare dei controlli continui, difendersi
senza tregua dagli ambienti romani, dagli ambienti diocesani. È per questo che vogliamo tre o quattro
vescovi e la maggioranza nel consiglio romano [la commissione, vedi supra]. Ma fanno orecchie da mercante. Hanno accettato soltanto un vescovo e sotto
minaccia continua, e hanno rimandato la data.
Ritengono inconcepibile che li si tratti come un ambiente contaminato,
dopo tutto quello che ci accordano. Dunque
per noi si pone il problema morale: bisogna assumersi il rischio di contatti
con questi ambienti modernisti nella speranza di convertire qualche anima, e
con la speranza di proteggersi con la grazia di Dio e la virtù della prudenza,
e quindi rimanere uniti a Roma legalmente, secondo la lettera, dato che lo siamo
nella realtà e secondo lo spirito? O bisogna
prima di tutto preservare la famiglia della Tradizione per mantenere la sua
coesione e il suo vigore nella fede e nella grazia, considerando che il legame
puramente formale con la Roma modernista non può venir equiparato con la
salvaguardia di questa famiglia, la quale rappresenta ciò che resta della vera
Chiesa cattolica? Che cosa Iddio, la
SS.ma Trinità e la Vergine di Fatima ci chiedono come risposta a questa domanda?”[36]
In effetti, come annota P. Gleize, “rimanere integri
in un ambiente contaminato è molto spesso un’impresa votata al fallimento. Fu
il sogno di dom Gérard e fu pure il suo scacco”[37].
Dagli argomenti esposti da mons. Lefebvre si vede,
comunque, che la commissione da lui proposta aveva soprattutto il compito di
costituire un filtro nei rapporti ordinari tra la Fraternità e la Curia, non
quello di scegliere i vescovi al posto del Papa, come sembra affermare
l’articolo di Scrosati: “…la consacrazione non più di uno ma di tre vescovi,
scelti da una commissione la cui maggioranza fosse composta da non meglio precisati
membri della tradizione…”. Inoltre, non
è vero, come scrive l’Autrice, che “nel frattempo Roma rispondeva di voler
accelerare le nomine dei futuri vescovi, di modo che le consacrazioni potessero
esser fatte entro il 15 agosto…”. Quali
“futuri vescovi”? Il Papa ne concedeva u n o a
malapena, sia pure tratto dai sacerdoti della Fraternità, ma mostrava di
tirarla in lungo sulla scelta effettiva, richiedendo nuovi dossier. Non dimostrava affatto l’intenzione di
“accelerare” per arrivare senza intoppi al 15 agosto. L’articolo vuol far credere che la S. Sede
avesse concesso più di un vescovo a mons. Lefebvre e che gli stesse venendo
premurosamente incontro sulla data!
Il 2
giugno, festa del Corpus Domini (Fête-Dieu), mons. Lefebvre scrisse la famosa lettera al Papa,
nella quale interrompeva le trattative e dichiarava di tirar dritto per la via
indicatagli dalla Provvidenza.
“Étant donné le refus de considérer nos requêtes
et étant évident que le but de cette réconciliacion n’est pas du tout le même
pour le Saint-Siège que pour nous, nous croyons préferable d’attendre des temps
plus propices au retour de Rome à la
Tradition.
C’est pourquoi nous nous donnerons nous-même
les moyens de poursuivre l’oeuvre que la Providence nous a confiée…”[38].
I concetti erano chiari: ci troviamo di fronte al
rifiuto di prendere in considerazione le nostre richieste; il fine di questa riconciliazione non è il
medesimo per la S. Sede e per noi (questo è un punto essenziale); preferiamo
allora aspettare dei tempi più propizi al ritorno di Roma alla Tradizione, solo
allora sarà possibile “riconciliarci”.
Ci daremo quindi da noi stessi i mezzi per proseguire nell’opera
assegnataci dalla Provvidenza (procederemo, pur in assenza del mandato del
Papa). Subito dopo, la lettera
aggiungeva che l’azione era giustificata anche dalla lettera del cardinale
Ratzinger del 30 maggio, dalla quale risultava che “la consacrazione episcopale
non è contraria alla volontà della S. Sede, essendo stata accordata per il 15
agosto”. In realtà, abbiamo visto che
il Papa si dichiarava “disposto” a concedere un solo vescovo, possibilmente per
il 15 agosto. Mons. Lefebvre qui
utilizzava a suo favore il senso delle dichiarazioni di Ratzinger, anche se è
vero che il principio della consacrazione di un vescovo tratto dalla
Fraternità era stato accettato (ma accettato, sottolineo, nel senso che il Papa
era disposto a concedere un vescovo, uno solo, se avesse trovato tra i preti della Fraternità il
candidato con il giusto “profilo”).
Mons. Lefebvre tagliò con un colpo di spada i bizantinismi
con i quali la S. Sede continuava a dar l’impressione di prender tempo e
dilazionare. E consacrò q u a t t r o vescovi. Il Papa rispose il 9 giugno alla lettera di
mons. Lefebvre qualificando il suo progetto come “atto scismatico”. Il
cardinale Ratzinger inviò il suo segretario, che fu ricevuto il 10 a colloquio
per molte ore da mons. Lefebvre. Si avanzò la proposta di riconsiderare la
composizione della ipotizzata commissione[39]. Un’offerta
tardiva, comunque parziale e non risolutiva, non certo tale da indurre mons.
Lefebvre a ritornare sui suoi passi.
Il 29 giugno mons. Lefebvre ordinò quindici sacerdoti.
Il 25 era arrivato il vescovo emerito di Campos, mons. Antonio de Castro Mayer, con diversi suoi sacerdoti; pur sofferente, egli
aveva voluto esser presente per testimoniare il suo appoggio, leale sino alla
fine. Dopo l’omelia della consacrazione di mons. Lefebvre, lesse una breve,
incisiva dichiarazione, contenente una “professione pubblica di fede” di
sostegno alla posizione assunta da mons. Lefebvre. Il 17 giugno era arrivata l’ammonizione del
cardinale Gantin, che lo scongiurava di non procedere, se non voleva ritrovarsi
scomunicato ipso facto. Il pomeriggio
del 29 venne a visitarlo Jean Guitton, che fu sorpreso della calma e della pace
interiore che da lui emanavano. A domanda, rispose che si sentiva calmo “perché
aveva l’impressione di fare la volontà di Dio”.
Alla sera un messaggio di Ratzinger esprimeva il paterno monito del Papa
di soprassedere. Mons. Lefebvre lo
commentò così con un suo sacerdote: “Se oggi stesso mi portassero il mandato
pontificio con tanto di firma, rinvierei la consacrazione al 15 agosto e
l’annuncerei domani”[40].
4. Non ci fu
nessuno scisma, né “formale”, né “sacramentale”, né “di fatto”, solo una disobbedienza
giustificata dallo stato di necessità.
Scrosati mostra di aderire alla tesi di Yves Chiron,
che a sua volta si basa acriticamente sulla tesi ufficiale sostenuta a suo
tempo dall’autorità vaticana. L’Osservatore
Romano del 30 giugno-1 luglio 1988
accusò anonimamente di scisma in senso formale (“atto formalmente scismatico”)
mons. Lefebvre, negandogli la buona fede: aveva agito contro il volere espresso
del Papa mentre "la pretesa ‘necessità’ era stata da lui creata appositamente
per conservare un atteggiamento di divisione dalla Chiesa cattolica, nonostante
le offerte di comunione e le concessioni fatte dal Santo Padre Giovanni Paolo
II”. Un’accusa del tutto assurda. L’esistenza
dello scisma in senso formale è stata negata da autorevoli canonisti e nel 2005
anche dal cardinale Dario Castrillón Hoyos al tempo Prefetto della Congregazione
per il Clero.
In un’intervista concessa al mensile 30giorni,
9/2005, dichiarò, dopo aver precisato che la FSSPX non poteva considerarsi né
sedevacantista né eretica: “purtroppo,
mons. Lefbvre procedette con le consacrazioni e pertanto si è creata una
situazione di separazione, anche se non si è trattato di uno scisma in senso
formale”(corsivo mio). Nel luglio
del 1995, i giuristi della Pontificia Università Urbaniana non approvarono
forse una “tesina” di laurea del P. Murray che sosteneva la stessa cosa? C’è stata una “separazione”, sottolineava Sua
Eminenza, ma non uno scisma in senso proprio o formale. I vescovi della
Fraternità erano stati validamente ordinati anche se illecitamente, mancando il
mandato pontificio. Nel 2005, pertanto,
la Fraternità si trovava pertanto nella situazione di una “associazione non
riconosciuta [dal CIC del 1983] i cui vescovi si dichiarano degli ausiliari”. Ausiliari della FSSPX, perché,
non avendo diocesi alcuna, non esercitando perciò il potere di giurisdizione
(che non avevano avuto), non governando insomma diocesi di una “chiesa parallela”,
esercitavano solamente una “giurisdizione supplita” per il caso concreto che
via via si presentasse, ad personam, per il bene delle anime.
Ma cerchiamo di spiegare la differenza tra
“separazione” e ‘scisma”.
Una situazione di “separazione” costituisce di per sé
uno scisma? Evidentemente no. La “separazione”derivante da una
disubbiedienza, non è a ben vedere una vera “separazione”dalla Chiesa militante
poiché la disubbidienza non configura una situazione che possa considerarsi come
tale scismatica, altrimenti bisognerebbe affermare che ogni disubbidienza
costituisce scisma, il che non è, ovviamente.
Perché si abbia uno scisma non basta la disubbidienza, occorre che
l’atto della disubbidienza presenti la natura di un vero e proprio atto
scismatico. La nozione di tale atto
la troviamo ben spiegata da Yves Congar OP, non ancora approdato alla nouvelle
théologie, nella ben nota voce schisme da lui curata per il Dictionnaire
de Théologie Catholique. Riassumendo
il pensiero dell’Aquinate, scriveva:
“L’atto scismatico è dunque quell’atto malvagio che ha direttamente,
propriamente ed essenzialmente quale oggetto specifico una cosa contraria alla
comunione ecclesiastica, vale a dire a quell’unità che, tra i fedeli, è
l’effetto proprio della carità. Un atto,
in effetti, si caratterizza per l’oggetto cui tende per sé, per il fatto stesso
di ciò che esso [atto] è. Un atto
mostrerà allora la qualità di atto scismatico, allorché, per la sua stessa
natura, avrà di mira la separazione dall’unità spirituale frutto della carità”[41].
L’atto scismatico, dunque, è, e non può non essere,
quello che ha come scopo “direttamente, propriamente ed essenzialmente” – non
si parla quindi di un approccio indiretto – la rottura dell’unità
ecclesiale. E perché si possa dire che
un atto abbia uno scopo del genere, occorre un segno certo, dato non
dalla disobbedienza in quanto tale, ma dalla “volontà di costituire per proprio
conto una Chiesa particolare”. Secondo
la limpida dizione di san Tommaso: “dicuntur
enim schismatici qui concordiam non servant in Ecclesiae observantiis, volentes
per se Ecclesiam constituere singularem”[42].
Non basta “non conservare la concordia”, non basta la
sola disubbidienza, occorre la volontà manifesta di costituirsi come Chiesa
separata. L’atto scismatico per
eccellenza non sarà allora quello che resta confinato alla mera disubbidienza
(quale una consacrazione episcopale senza mandato); sarà, invece, quello che
istituisce la gerarchia di una Chiesa parallela con la missio canonica, cioè
con il conferimento del potere di giurisdizione ai vescovi illegittimante
consacrati e l’istituzione delle relative diocesi. Un atto del genere
mira di sicuro alla “separazione dall’unità spirituale frutto della
carità”. È segno certissimo. Con quest’atto si ha lo scisma in senso
formale poiché con esso ci si sottrae formalmente alla sottomissione al Papa,
negandogli l’autorità come Sommo Pontefice, cioè come capo della Chiesa
universale: “ut summus Pontifex”[43].
Lo studio imparziale delle dichiarazioni e degli atti
di mons. Lefebvre dimostra inequivocabilmente che egli non ha mai avuto l’animus
dello scismatico. Aveva preannunciato pubblicamente che non avrebbe
istituito nessuna “chiesa parallela”, con una gerarchia propria, fornita di
potere di giurisdizione, secondo i canonisti (come si è visto) la vera prova
della volontà di scisma e dell’esistenza di quest’ultimo. E difatti non conferì ai quattro vescovi da
lui consacrati senza mandato il potere di giurisdizione. Conferì solo il potere
dell’Ordine, su base personale, da esercitarsi ad actum ovvero secondo
le necessità, l’esigenza posta dal caso concreto (per esempio, Cresime da
amministrare, ordinazioni sacerdotali).
A tutt’oggi la Fraternità non ha diocesi. È divisa in “distretti” amministrativi, i cui
titolari sono quasi sempre sacerdoti. È
rimasta quello che era: una
congregazione di vita in comune senza voti (pubblici), regolarmente eretta nel
1970 secondo il CIC del 1917, al tempo vigente.
Essa si trova fuori del nuovo CIC del 1983, che ha introdotto figure
parzialmente diverse dalle antiche, non fuori della Chiesa visibile.
Nel settembre 1986, durante un ritiro per i sacerdoti
da lui predicato a Écône, mons. Lefebvre per
l’appunto illustrò il ruolo limitato che avrebbero avuto i futuri vescovi, se
li avesse dovuti consacrare:
“Sarebbero i miei ausiliari, senza alcuna
giurisdizione ed unicamente per le cresime e le ordinazioni, con una funzione
anche dentro la Fraternità; ma agli occhi della Chiesa, conta il Superiore
Generale, i vescovi sarebbero al servizio della Fraternità. È la Fraternità che viene dalla Chiesa [C’est la Fraternité qui est
d’Èglise], che è stata approvata dalla Chiesa.
Non si tratta assolutamente di fare una “Chiesa
parallela”. Lo scopo è semplicemente “quello
di continuare la Fraternità, affinché essa non faccia una brutta fine per
l’impossibilità di avere chi consacra i sacerdoti”[44]. La mancanza di ogni intento scismatico è
confermata anche dalla conclusione del ragionamento: “E quando Roma tornerà alla verità della
Chiesa di sempre, questi vescovi rimetteranno la loro dignità episcopale nelle
mani del Papa, dicendogli: “Eccoci! Che
volete fare di noi? Se lo volete, ci
riduciamo ora a semplici preti; se volete servirvi di noi, servitevi di noi”[45].
Né si può parlare, come qualcuno ha fatto, di “scisma
virtuale”, costituito appunto dalla situazione di “separazione” nella quale di
fatto si trovano ad essere i membri della FSSPX ed i fedeli che assistono alle
loro funzioni e ricevono i Sacramenti dai suoi sacerdoti. Lo scisma “virtuale” sarebbe una situazione
canonicamente irrilevante ma “teologicamente reprensibile”, come sosteneva il
P. Murray, che pure negava radicalmente l’esistenza dello scisma in senso
formale. Ma, mi chiedo, può parlarsi di
scisma virtuale quando si ha una situazione di separazione esteriore imposta
dalla necessità? Non occorre che ci sia anche qui una effettiva volontà di
scisma, non ancora attuatasi? Ma questo
non è stato certo il caso di mons. Lefebvre, dei suoi sacerdoti e dei fedeli
che frequentano la S. Messa di sempre presso le loro chiese. Qui la separazione non esprime la volontà di
scindersi ma è imposta dallo stato di necessità; non è voluta, è subìta.
È il prezzo che si deve pagare innanzitutto per poter celebrare una Messa non
ambigua (come quella di Paolo VI) e sicuramente cattolica. Insomma, è il prezzo
che si deve pagare per poter rimanere fedeli alla Tradizione della Chiesa. Se qui ci troviamo in presenza di uno scisma
in senso virtuale allora erano scismatici in senso virtuale anche coloro che si mantenevano di fatto separati dagli
ariani eretici mentre costoro dominavano nella Chiesa ufficiale del
tempo. Anche sant’Atanasio dovrebbe
considerarsi uno scismatico in senso virtuale!
E che tale separazione, pur in assenza di un nuovo rito della Messa,
ci fosse, lo rivela la sua famosa frase, che fu anche un grido di
battaglia: “Loro [gli ariani eretici]
hanno le chiese, noi abbiamo la fede!”.
Come ha dimostrato la “tesina” del P. Murray, mons.
Lefebvre non avrebbe neanche dovuto esser scomunicato, a norma del CIC del
1983. Egli agì convinto di trovarsi in
un impellente stato di necessità: la
necessità di provvedere – lui, unico vescovo, ormai anziano e logoro nel fisico
– alla sopravvivenza della Fraternità nel sicuro rispetto dello spirito dei suoi
statuti, che erano e sono quelli di una congregazione la cui missione consiste
nella formazione di sacerdoti in modo conforme alla Tradizione della Chiesa e
nel mantenimento della Messa di rito romano antico (detta “tridentina”). Una convinzione del genere, giusta o
sbagliata che sia, secondo il CIC del 1983 impedisce in ogni caso
l’applicazione della scomunica.
La disubbidienza rappresentata da una consacrazione
episcopale senza mandato del Papa veniva punita dal CIC del 1917 con la sospensione
a divinis (c. 2370). Il codice attuale,
al c. 1382, prevede invece la scomunica latae sententiae (cioè
applicabile dal Papa senza processo canonico poiché il fatto stesso comporta la
sentenza di scomunica), a meno che non ci siano delle cause attenuanti od esimenti,
tra le quali si annovera l’esistenza e persino la semplice convinzione
(ancorché errata) dell’esistenza dello stato di necessità[46].
Infatti, il Codice stabilisce che, per ciò che
riguarda lo stato di necessità, quando la violazione della norma è avvenuta con
un’azione intrinsecamente cattiva o dannosa per le anime, si ha una circostanza
solo attenuante, sufficiente però ad escludere l’applicazione della scomunica,
che deve essere sostituita da un’altra pena o da una penitenza.
Se la violazione, invece, ha avuto luogo con un atto
né intrinsecamente cattivo né dannoso per le anime (e una consacrazione senza
mandato fatta senza animus scismaticus non è certamente né cosa cattiva
né dannosa per le anime), allora l’imputabilità addirittura non sussiste e non
si può irrogare né pena né altra forma di sanzione.
Se però il soggetto per errore colpevole (per
errorem, ex sua tamen culpa) ha ritenuto di essere costretto ad agire in
stato di necessità, senza che la sua azione costituisse qualcosa di malvagio in
sé o di dannoso per la salute delle anime, in questo caso ha diritto alle sole
attenuanti. Il che significa che, anche in questo caso, se merita la scomunica,
questa non può esser dichiarata, perché deve esser sostituita da un’altra pena
o da una penitenza. Quando poi l’errore
di valutazione di cui sopra ha luogo senza colpa da parte del soggetto agente,
allora, invece dell’attenuante, il medesimo ha diritto all’esimente.
A norma di legge, la disobbedienza del cosiddetto
“vescovo ribelle”non avrebbe potuto esser punita con la scomunica. Questo punto è stato dimostrato dalla
“tesina” del P. Murray, che ricostruisce attentamente la fattispecie in
oggetto, anche se poi il P. Murray ritiene che mons. Lefebvre, sia pure agendo
in perfetta buona fede, si sia sbagliato nel valutare la gravità dello stato di
necessità (valutazione, questa del P. Murray, che a mio avviso è a sua volta
errata). Sulla base del dettato del
Codice, mons. Lefebvre e la Fraternità, forti della loro buona fede e della
convinzione che lo stato di necessità esisteva oggettivamente, hanno
sempre sostenuto che la scomunica doveva
considerarsi invalida e che lo scisma non c’è mai stato.
Ma lo scisma non c’era mai stato non tanto a causa
della invalidità della scomunica quanto perché né mons. Lefebvre né i quattro
vescovi da lui consacrati hanno dimostrato di avere una volontà
scismatica. La buona fede di mons.
Lefebvre, che il comunicato dell’Osservatore Romano cercava di mettere
in dubbio, risultava dal fatto
inoppugnabile di aver conferito ai suoi vescovi il solo potere di Ordine; di
averli istituiti, così come aveva detto, come semplici “ausiliari” della
Fraternità, in modo che questa non restasse in futuro senza sacerdoti[47]. Il comunicato amplificava alquanto le
“concessioni” fatte da Giovanni Paolo II, glissando sulla deleteria tattica
dilatoria messa in atto durante le trattative.
Inoltre, faceva mostra di ignorare sia lo stato di necessità nel quale
si trovava la FSSPX, sulla quale incombeva il reale pericolo di restare senza
sacerdoti, sia lo stato di necessità nel quale si era venuta a trovare l’intera
Cattolicità dopo il Vaticano II: ignorava
nel modo più completo la crisi della Chiesa.
4.1 L’accusa di mendacio rivolta da Scrosati a P. Schmidberger è ridicola oltre che priva
di senso
Ecco come
Scrosati conclude il suo articolo, sempre, credo, sulla falsariga di Yves Chiron.
“Dom Gérard, come gesto di riconoscenza nei confronti
di mons. Lefebvre, decise di essere presente alle ordinazioni. Dopo un discorso iniziale di mons. Lefebvre
ed un breve intervento di de Castro Mayer, Lefebvre domandò, secondo il rito
del Pontificale Romanum, al Superiore Generale: “Habetis mandatum
apostolicum?”; Schmidberger rispose affermando il falso: “Habemus”. Ma dom Gérard probabilmente non ascoltò questa
– bisogna dirlo – bugia, perché decise di allontanarsi prima delle
consacrazioni vere e proprie, nel bel mezzo del sermone di Lefebvre,
precisamente nel punto in cui il vescovo francese richiamò il messaggio delle
apparizioni della SS. Vergine a Quito, nelle quali si annunciava una grande
apostasia che avrebbe travolto la Chiesa nel XIX e gran parte del XX
secolo. Così commentò mons. Lefebvre [la
rivelazione privata di Quito]: “Ella
parlava di un prelato che si opporrà decisamente a questa ondata di apostasia e
di empietà, preservando il sacerdozio e facendo dei bravi preti. Fate voi l’applicazione, se volete; io non la
voglio fare, non posso”. All’amico della
prima ora, Laurent Meunier, dom Gérard aveva confidato: “La commedia è durata abbastanza, questo
comizio, questi applausi, non abbiamo più nulla da fare qui, noi
rientriamo”. Rientriamo in monastero,
voleva dire dom Gérard; rientriamo nella Chiesa, voleva dire il buon Dio”[48].
Dunque: P.
Schmidberger, con la complicità o per istruzione di mons. Lefebvre, avrebbe
affermato scientemente il falso. Vedi
come sono malvagi questi “lefebvriani”, che propinano agli allocchi che li
frequentano una smaccata bugia, quella di avere un “mandato” pontificio che in
realtà non avevano ricevuto! Ma non era
di pubblico dominio che le Consacrazioni sarebbero avvenute senza mandato
pontificio? E P. Schmidberger avrebbe,
assieme a mons. Lefebvre, sfidato scioccamente l’opinione pubblica di mezzo
mondo con il fingere platealmente di avere un mandato che tutti sapevano non
esserci?
Ma perché Scrosati non ha citato il prosieguo del
rito? Non finiva mica con lo “Habemus”. Continuava, secondo la prassi, esibendo il
mandato ovvero spiegando in che senso il mandato c’era, anche se non era quello
del Papa regnante, provenendo invece esso dalla Chiesa, dalla sua Tradizione,
in sostanza da Nostro Signore! In nessun
rigo del testo letto nel rito si è fatto credere di aver avuto il mandato da
Giovanni Paolo II. Per rendersene conto
bisogna riportare compiutamente le fonti:
da esse si ricava in che modo, pur senza poter nominare il Papa, si
ritenesse di essere comunque in possesso di un valido mandato apostolico.
“Avete un mandato apostolico?
L’abbiamo.
Che sia letto.
L’abbiamo dalla Chiesa Romana, la quale, nella sua
fedeltà alle sante tradizioni ricevute dagli Apostoli, ci ordina di
trasmetterle fedelmente ossia di trasmettere il deposito della fede a tutti gli
uomini, per la salvezza delle loro anime”[49].
Se le autorità ufficiali della vigente Gerarchia
rifiutano la loro autorizzazione ad una consacrazione episcopale richiesta
dallo stato di necessità in cui versano le anime, alle quali il clero, afflitto
dagli errori neomodernisti, non trasmette più il Deposito della Fede (l’ha di
recente fatto rilevare persino il cardinale Gerhard Müller,
riferendosi alla decadenza dell’episcopato cattolico attuale), è del tutto
legittimo ritenere che la “Chiesa di Roma”, quale si è costituita e mantenuta
in quasi venti secoli, sino al Vaticano II escluso, “ordini “ a coloro che sono
rimasti fedeli al dogma della fede di “trasmettere fedelmente il deposito della
fede”. Chi ha autorizzato, allora, mons.
Lefebvre a consacrare i quattro vescovi?
La Chiesa cattolica di sempre, il cui capo è Cristo e non il Papa, il
quale ne è il Vicario pro tempore in questo mondo. Se il Vicario, se il garante terreno si
rifiuta di autorizzare un atto richiesto dalla pubblica e generale necessità e
del tutto consono alle intenzioni della Chiesa di sempre, come quello
rappresentato dalla consacrazione di quattro vescovi fedeli al dogma,
pienamente sottomessi alla Sede Apostolica e che vogliono essere in comunione
con il Papa, è lecito ritenere che Ecclesia supplet iurisdictionem.
4.2 Il vero significato dell’importante omelia
pronunciata da mons. Lefebvre in occasione delle Consacrazioni.
Ma Scrosati vuol aggiungere una nota di dileggio nelle
righe finali del suo articolo, riportando un altro commento offensivo di dom
Gérard, che avrebbe lasciato la cerimonia giudicandola “una commedia, un
comizio” [!], nel momento in cui mons. Lefebvre ricordava la figura del vescovo
combattente da solo (nella Gerarchia) contro la grande apostasia che avrebbe
devastato la Chiesa nel XX secolo, di cui alla profezia contenuta nella
rivelazione privata di Quito, in Ecuador, più di tre secoli fa. Con questa citazione e il relativo commento
di dom Gérard, l’Autrice sembra voler proporre al lettore l’immagine finale di
un mons. Lefebvre visionario megalomane, che si sentiva un sant’Atanasio mentre
invece entrava in scisma (crede lei) con la Chiesa! Il “buon Dio”, crede di sapere Scrosati, non
approvava l’azione di mons. Lefebvre mentre avrebbe benedetto quella di dom Gérard,
che si apprestava a “rientrare nella Chiesa”, per esser più precisi ad
accordarsi con quell’autorità romana che, a partire dal Vaticano II, aveva
fatto strame delle vera dottrina, pastorale e liturgia cattoliche!
La citazione estratta dal contesto getta una luce
falsa su tutta l’omelia di mons. Lefebvre. Questa Omelia delle Consacrazioni è un
testo importante, nel quale appaiono enunciati, con la chiarezza e lucidità
tipiche di mons. Lefebvre, i princìpi in base ai quali i cattolici devono
opporsi all’apostasia dilagante, senza timore di fronte alle false accuse di
coloro che tentano di intimidirli.
Innanzitutto, il pugnace presule ribadì fermamente che
non si stava attuando nessuno scisma.
“Non si tratta di separarci da Roma e di sottometterci
ad un qualche potere estraneo a Roma, né di costituire una sorta di chiesa
parallela come hanno fatto per esempio i vescovi di Palmar de Troya in Spagna,
i quali hanno nominato un papa ed hanno istituito un collegio di
cardinali. Per noi non si tratta affatto
di cose simili. Lungi da noi questo
miserabile pensiero di allontanarci da Roma.
Al contrario, è per manifestare il nostro attaccamento alla Chiesa di
sempre, al Papa e a tutti coloro che hanno preceduto questi Papi che
disgraziatamente dal Concilio Vaticano II hanno creduto di dover aderire ad
errori gravi che stanno demolendo la Chiesa e distruggendo il sacerdozio
cattolico. Voi troverete proprio in
questi fascicoli che mettiamo a vostra disposizione uno studio assolutamente
ammirevole fatto dal prof. Georg May, direttore del Seminario di Diritto
Canonico dell’Università di Magonza in Germania, che spiega meravigliosamente
perché ci troviamo nel caso di necessità per venire in aiuto alle vostre anime,
in vostro aiuto.
Il vostro applauso di poc’anzi [per il giuramento e la
professione di fede dei consacrandi] penso che non siano una manifestazione
puramente naturale, bensì una manifestazione spirituale che traduce la vostra
gioia di avere infine dei vescovi e dei sacerdoti cattolici che salvino le
vostre anime, che donino alle vostre anime la vita di NS Gesù Cristo, con la dottrina,
i sacramenti, il Santo Sacrificio della Messa.
Vita di Nostro Signore di cui avete bisogno per andare in Cielo e che
sta per scomparire dovunque in questa Chiesa conciliare. Essa segue sentieri che non sono sentieri
cattolici. Essi portano semplicemente all’apostasia. È per questo che noi procediamo a questa
cerimonia”[50].
Si trattava, dunque, di resistere all’apostasia
dilagante nella Chiesa visibile innanzitutto mantenendo la struttura gerarchica
improntata alla fedeltà alla Tradizione della Chiesa, al momento
obnubilata. L’apparente disobbedienza
non era dunque affatto una ribellione al papato: la cosa era ovvia ma bisognava
ribadirla.
“Lungi da me di erigermi a papa. Io non sono che un vescovo della Chiesa
cattolica che continua a trasmettere la dottrina. Io penso, e ciò senza dubbio non tarderà, che
si possano scrivere sulla mia tomba queste parole di san Paolo: “Vi ho trasmesso ciò che ho ricevuto”,
semplicemente. Sono il postino che porta
una lettera, questo messaggio, questa parola di Dio: è Dio stesso, è Nostro Signore Gesù Cristo
stesso. Noi abbiamo trasmesso ciò che
abbiamo ricevuto, tramite questi sacerdoti qui presenti e tramite tutti coloro
che hanno creduto di dover resistere a questa ondata di apostasia nella Chiesa,
conservando la fede di sempre e trasmettendola ai fedeli”[51].
Nel continuare a “trasmettere ciò che aveva ricevuto”
mons. Lefebvre si sentiva spiritualmente in comunione con tutti i Papi che
avevano preceduto il Vaticano II, ossia con tutto quello che era stato il
Magistero della Chiesa, l’elemento portante della sua Tradizione. Erano loro ad incitarlo moralmente.
“Mi sembra di sentire, miei carissimi fratelli, le
voci di tutti questi papi, da Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, San Pio X,
Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, che ci dicono:
Ma di grazia, di grazia, che state facendo dei nostri insegnamenti,
della nostra predicazione, della fede cattolica: volete abbandonarla? Volete lasciarla scomparire da questa terra?
Di grazia, di grazia, continuate a conservare questo tesoro che vi abbiamo
dato. Non abbandonate i fedeli, non
abbandonate la Chiesa! Continuate la
Chiesa! Poiché infatti dal Concilio,
ecco che le autorità romane adottano e professano ciò che noi abbiamo
condannato. Come è possibile questo? “[52].
Gli errori condannati erano così sintetizzati dall’indomito
presule: “liberalismo, comunismo, socialismo, modernismo, sillonismo
(democratismo cristiano)”. E come riapparivano ora? Sottolineo:
nell’adozione della laica “libertà religiosa” e nella separazione della
religione dallo Stato, ridotta a semplice sentire della coscienza individuale,
sociologicamente organizzato in gruppi che lo Stato deve riconoscere; nella
“teologia della liberazione”(oggi addirittura imperversante con Papa
Francesco); nella mentalità modernistica tutto pervadente che relativizza la
nozione stessa del vero distruggendo il concetto di verità rivelata;
nella commistione di cattolicesimo e democrazia cristallizzati nell’infausta esperienza storica dei partiti
democristiani: il tutto confluente nel
gran calderone dell’ecumenismo sincretistico che ci ammorba da più di
cinquant’anni. Esso ha azzerato la differenza tra il cattolicesimo e tutte le
altre religioni, e posto al centro dell’azione della Chiesa il dialogo interconfessionale e
interreligioso per tutelare la “dignità dell’uomo” e realizzare l’unità del
genere umano nella pace e nel progresso, nella democrazia, cioè in simbiosi con
le ideologie profane…Peggio di così…
Pertanto, precisava il Nostro, “abbiamo fatto di tutto, io stesso e mons. de
Castro Mayer” per convincere Roma a ritornare alla vera dottrina, con ogni
sorta di iniziative (colloqui, lettere aperte, interviste, opuscoli), a
rigettare “questo ecumenismo e tutti questi errori, questo collegialismo”,
tutte cose “contrarie alla fede della Chiesa e che sta distruggendo la
Chiesa. Tutto invano. “ È per questo che noi siamo persuasi che,
procedendo a queste consacrazioni, oggi obbediamo all’appello di questi papi
[preconciliari] e di conseguenza all’appello di Dio poiché essi rappresentano
NS Gesù Cristo nella Chiesa”[53].
Non era una questione semplicemente disciplinare,
il conflitto che si era creato, non per colpa di mons. Lefebvre, tra la
Fraternità e la Roma “conciliare”. Le
questioni di competenza e di opportunità nascondevano, come spesso accade, un
profondo contrasto dottrinale, di fede : era la lotta tra chi voleva
rimanere fedele ad ogni costo al Deposito della Fede, fedele sino alla fine al
mandato ricevuto da Cristo come battezzato e miles Christi e come sacerdote (Ap
2, 10), e le forze deviate, prone agli errori del Secolo, che si erano impadronite
del governo della Chiesa col Concilio e dal Concilio in poi. Il contrasto dottrinale, che coinvolge
appunto la fede nel modo più profondo, emergeva continuamente come la
pietra d’inciampo che, al momento decisivo, faceva fallire ogni accordo con
la Roma “conciliare”, in teoria possibile a certe condizioni.
“E perché, monsignore – mi si dice – avete interrotto
questi colloqui che sembravano tuttavia avere un certo successo? --- Precisamente perché nello stesso momento in
cui firmavo il protocollo, nello stesso minuto, l’inviato del cardinale
Ratzinger, che mi portava questo protocollo da firmare, mi affidava in seguito
una lettera nella quale mi chiedeva di domandare perdono per gli errori
fatti. Ma se sono nell’errore, se
insegno degli errori, è chiaro che devo essere ricollocato nella verità. Nello spirito di quelli che mi hanno inviato
questo documento da firmare, attraverso cui riconosco i miei errori, questa
stessa proposta equivale a dire: se voi riconoscete i vostri errori, noi vi aiuteremo
a ritornare alla verità. Quale è questa
verità per loro se non la verità del Vaticano II, se non la verità di questa
Chiesa Conciliare?...”[54].
Si trattava quindi di realizzare “la sopravvivenza
della Tradizione”, cedere sarebbe stato un vero e proprio “suicidio”. Ma perché proprio lui stesso e mons. de
Castro Mayer artefici di questa “operazione sopravvivenza”?
“Ora, quali sono i vescovi che hanno conservato la
Tradizione, che hanno conservato i sacramenti tali e quali la Chiesa li ha
ammnistrati da venti secoli fino al Concilio Vaticano II? Ebbene siamo mons. de Castro Mayer e io
stesso. Io non posso farci nulla ma è
così. E dunque molti seminaristi si sono
affidati a noi, hanno sentito che qui c’era la continuità della Chiesa, la continuazione
della Tradizione. E dunque sono venuti
nei nostri seminari, malgrado le difficoltà che hanno incontrato, per ricevere
una vera ordinazione sacerdotale, e per poter offrire il vero Sacrificio del
Calvario, il vero Sacrificio della Messa e darvi i veri sacramenti, la vera
dottrina, il vero catechismo: ecco lo
scopo di questi seminari. E dunque non
posso in coscienza lasciar orfani questi seminaristi. Non posso lasciare anche voi [fedeli] orfani,
scomparendo senza fare niente per l’avvenire.
Non è possibile. Sarebbe
contrario al mio dovere…”[55].
Un fatto così straordinario e clamoroso, impossibile a
negarsi, che, dal Concilio in poi, la Tradizione della Chiesa fosse stata
conservata da due soli vescovi in tutto l’orbe cattolico, spingeva di per sé a
considerarlo in una prospettiva escatologica, come risultante da alcune
rivelazioni private ufficialmente riconosciute dalla Chiesa. Nel prosieguo del suo sermone, mons. Lefebvre
richiamava pertanto la famosa visione profetica di Leone XIII, secondo la quale
“un giorno la Sede di Pietro sarebbe stata la sede dell’iniquità”. E difatti, aggiungeva subito dopo: “E credo
veramente di poter dire che non c’è stata mai un’iniquità più grande nella
Chiesa della giornata di Assisi, la quale è contraria al primo Comandamento di
Dio ed è contraria al primo articolo del Credo! Non abbiamo mai subito una
umiliazione simile!”.
Subito dopo passava a quella di Quito, dove si parlava
per l’appunto di un prelato che si sarebbe opposto all’ondata dell’apostasia,
per salvare la Chiesa “da una situazione di assoluta catastrofe”; poi a La
Salette e infine a Fatima. Collegamenti
del tutto spontanei e naturali, imposti dalle circostanze eccezionali e,
bisogna pur dire, tragiche nelle quali si era venuta a trovare e tuttora si
trova la Chiesa. Perché mai il
riferimento a Quito avrebbe dovuto irritare dom Gérard e spingerlo a lasciare
la cerimonia? Era vero o non, che un
solo vescovo, con l’apporto di mons. de
Castro Mayer e di qualche altro coraggioso, si stava battendo con estrema (e
persino sorprendente) fermezza contro la catastrofica situazione nella Chiesa? O dobbiamo sempre fingere che la crisi nella
Chiesa non ci sia o che sia stata messa sotto controllo da Papi come Giovanni
Paolo II e Benedetto XVI, non meno devoti al Vaticano II dei loro immediati
predecessori e successori?
In conclusione, mons. Lefebvre si affidava alla
Provvidenza, “persuasi che Dio sa ciò che fa”.
La “disubbidenza” che stava per compiere era solo “apparente” mentre le
accuse “di cui noi siamo oggetto sono nulle, assolutamente nulle! È per questo che non ne teniamo assolutamente
conto. Così come non abbiamo tenuto
conto della sospensione e abbiamo finito per ricevere le felicitazioni della
Chiesa, della stessa Chiesa progressista…”.
Infatti, il cardinale Gagnon, come si ricorderà recente Visitatore
Apostolico, oltre ad essersi complimentato per l’eccellente livello del
Seminario assistè “in prima persona, secondo il cerimoniale pontificale”, alla
Messa celebrata dallo stesso mons. Lefebvre l’8 dicembre 1987 per il rinnovo
delle promesse dei seminaristi, nonostante il celebrante fosse dal 1976 sospeso
a divinis (per essersi rifiutato di chiudere il Seminario) e quindi (in teoria)
impossibilitato ad amministrare i sacramenti. Ciò dimostrava, sottolineava mons. Lefebvre,
che “avevamo fatto bene a restistere”. E tanto più si faceva bene a resistere oggi,
provvedendo con una apparente disubbidienza alla sopravvivenza della Tradizione
della Chiesa e, a ben vedere, della Chiesa cattolica stessa.
Paolo
Pasqualucci
Domenica, 22 luglio 2018.
[1] Vedi, per questi dettagli, l’articolo su
internet di Christian Bless, La biographie de Dom Gérard par Yves Chiron,
del 31 maggio 2018, su tradinews.blogspot/2018/06/christian-bless-la-biographie-de-dom.html. Inoltre: Bernard Tissier de Mallerais, Marcel
Lefebvre, une vie, Clovis, 2002, l’ormai classica biografia scritta da S.
E. mons. Tissier de Mallerais, della FSSPX, che resta il testo fondamentale per
la ricostruzione degli eventi che portarono alle famose Consacrazioni del
1988. Le Consacrazioni Episcopali,
preannunciate da tempo, ebbero luogo il 30 giugno di quell’anno. Dal 21 giugno dom Gérard aveva iniziato a
negoziare separatamente con Roma, dopo aver fatto capire a mons. Lefebvre che
si sarebbe sganciato dal patto d’azione comune (Tissier de Mallerais, op. cit.,
p. 589).
[2]
Sul punto, vedi l’articolo di
don Jean-Michel Gleize, Rivolto al Concilio.
Quando Dom Calvet abbandonò la via della Tradizione difesa da monsignor
Lefebvre, tr.it. apparsa sul sito Riscossa Cristiana il 6 luglio
corrente, pp. 4 di un articolo comparso inizialmene sul Courrier de Rome dell’aprile
2018.
[3]
Scrosati, op. cit., p. 3/5.
[4]
Tissier de Mallerais, op.
cit., p. 505.
[5] Il testo originale integrale l’ho ripreso
da: La condamnation sauvage de Mgr
Lefebvre, l’eccellente raccolta commentata di documenti sulla soppressione
illegale della FSSPX, curata da Jean Madiran, come numero della rivista
‘Itinéraires’ da lui diretta, numero speciale dell’aprile 1977, pp. 326; pp.
8-9; p. 8. Traduzione mia.
[7]
Scrosati, p. 3/5.
[8]
Op. cit., ivi.
[9] Vedi l’articolata analisi delle sue tre
Encicliche fondamentali costituenti una sorta di “trilogia trinitaria” – Redemptor
hominis, Dives in Misericordia, Dominum et Vivificantem – apparsa in tre
volumi nel 1990-94 e postuma in unico volume: Johannes Dörmann, Johannes
Paul II. Sein Theologischer Weg zum
Weltgebetstag der Religionen in Assisi, Sarto Verlag, 2011, pp. 858. Ne esistono una traduzione italiana e una
francese a cura della FSSPX, con il titolo: La strana teologia di Giovanni
Paolo II.
[10]
Tissier de Mallerais, op. cit., p. 557, anche per le due citazioni di mons.
Lefebvre. La frase di Giovanni Paolo II
risulta da: Documentation Catholique
1894 (15.3.1981) 281.
[11]
Op. cit., pp. 559-560.
[12] Quest’atteggiamento del Papa gli attirò il
plauso entusiastico di tutto lo schieramento laico. Vedi: Luigi Accattoli, Quando il Papa
chiede perdono. Tutti i mea culpa
di Giovanni Paolo II, Mondadori, 1997.
[13]
Op. cit., p. 564.
[14] Trattato e Concordato
costituiscono i Patti lateranensi , perché firmati nel Palazzo del
Laterano, a Roma. L’art. 1.2 del Concordato affidava allo
Stato italiano anche il compito di mantenere e tutelare “il carattere sacro
della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo
cattolico e meta di pellegrinaggi”.
Nell’accordo del 1984, sempre con la soddisfazione di Casaroli, invece,
all’art. 4 ci si limitava a dire che “La Repubblica italiana riconosce il
particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la
cattolicità”. (Fonti: Felice Battaglia
(a cura di), Le carte dei diritti. (Dalla Magna Charta alla Carta del
Lavoro), Sansoni, Firenze, 1934; Giovanni Barberini (a cura di), Raccolta
di fonti normative di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 1997, 4a
ed. riveduta ed ampliata).
[15] Op. cit., p. 513. Sul rifiuto di mons. Lefebvre di celebrare la
Messa Tridentina sulla base dell’Indulto, vedi: op. cit., pp. 561-562. Due giorni prima delle ordinazioni in
questione, giunse in loco, dopo altri, il P. Édouard Dhanis, autorevole
accademico, il quale, quasi supplicando, disse a mons. Lefebvre: “Monseigneur, si aujourd’hui même vous acceptez
de dire avec moi cette messe, tout est aplani avec Rome!”(op. cit., pp.
512-513). Mons. Lefebvre non ha mai celebrato la Nuova Messa. E ha fatto benissimo. Ora, svelando la sua
vera natura, essa è intesa soprattutto come l’atto di culto nel quale “la Chiesa
fa memoria del Signore Risorto mettendo in una comunione viva e reale i suoi
figli con Dio uno e trino” (Documenti chiese locali, 99, “Islam e Cristianesimo”,
Conf. Episc. dell’Emilia Romagna, EDB, 2000, p. 30). Il significato della Messa
ha subìto una profonda mutazione: dalla Passione alla Resurrezione; dal Cristo
crocifisso, per espiare l’ira divina e ottenerci misericordia per i nostri
peccati, al Cristo glorioso, la cui Resurrezione – avendo Egli già salvato
tutti unendosi a ogni uomo con l’Incarnazione ! – deve esser celebrata con una
Gioia cui possono partecipare anche i (già salvati!) non-cattolici e i
non-cristiani, come dimostrano le frequenti messe “ecumeniche”. Questo stravolgimento del senso autentico
della Messa, si è giovato anche delle visioni allucinate di un Teilhard de
Chardin, che farneticava sul significato “cosmico” della Messa, comportante la
santificazione della Natura. La Messa
era intesa anche da Giovanni Paolo II come atto di culto “cosmico”,
“sull’altare del mondo”, “per restituire tutto il creato, in un supremo atto di
lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla”, restituirlo “redento”! (Enciclica, Ecclesia
de Eucharistia, 8, del 2003).
[16]
Op. cit., pp.564-566; p. 565. E questo “orrendo peccato pubblico contro
l’unicità di Dio e il Verbo incarnato” hanno continuato a commetterlo sia
Benedetto XVI che Papa Francesco.
[17]
Op. cit., p. 564.
[18]
Scrosati, p. 3/5.
[19]
Op. cit., pp. 3-4/5.
[20]
Tissier de Mallerais, op.
cit., p. 568.
[21]
Per i particolari qui citati e
per l’intera vicenda delle Consacrazioni, la mia fonte principale è
sempre: Tissier de Mallerais, op. cit.,
pp. 566-595.
[22]
Op. cit., pp. 574-575.
[23]
Op. cit., p. 576.
[24]
Op. cit., pp. 577-579.
[25]
Op. cit., pp. 580-581.
[26]
Op. cit., p. 581.
[27]
Op. cit., p. 582.
[28]
Op. cit., pp. 583-584.
[29]
Op. cit., p. 584.
[30] Citato da: Francesco Spadafora, Araldo della
Fede cattolica. Sac. Don Francesco Maria Putti, fondatore di “sì sì no
no”(1909-1984), pro manuscripto, Velletri, 1993, p. 196. Si tratta di una biografia di don Putti
scritta da mons. Spadafora, edita da sì sì no no. Mons. Spadafora,
autorevole esegeta, subentrò di fatto a don Putti nella direzione della
Rivista.
[31]
Op. cit., pp. 584-585.
[32] Op. cit., pp. 585-587. Annota il suo biografo:
l’invito ad “aver fiducia” nel Papa non avrebbe potuto suonare più falso agli
orecchi di mons. Lefebvre, preccupato com’era di mantenere coesa e intatta la
“famiglia della Tradizione”, non inquinata dagli errori circolanti. In una nota
per la riunione del 30 maggio scriveva che tutto l’ambiente dei contatti e dei
colloqui con le autorità romane, i loro ragionamenti facevano chiaramente
capire “che il desiderio della Santa
Sede è quello di avvicinarci al Concilio e alle sue riforme, di riportarci
dentro la Chiesa conciliare” (op. cit., p. 586).
[33]
Op. cit., pp. 587-588.
[34]
Op. cit., p. 588.
[35] Op. cit., pp. 588-589. È anche vero che dom Gérard e i suoi
discepoli si mostravano già allora propensi ad accettare le novità dottrinali
del Concilio, liturgiche escluse. Secondo
mons. Lefebvre, dom Gérard “non vedeva con chiarezza i problemi teologici del
Concilio, della libertà religiosa. Non
vedeva con chiarezza la malizia di quegli errori”. Forse, azzardo, non aveva la necessaria
preparazione teologica. Un suo
discepolo, P. Basilio Valuet, pubblicò nel 1998 un’opera in sei volumi per
dimostrare la conformità della “libertà religiosa” con la Tradizione cattolica
(vedi l’articolo del P. Gleize in traduzione italiana, già citato). Scrosati ricorda, quasi fosse titolo di
merito, che dom Gérard inviò il 26 giugno, quattro giorni prima delle
Consacrazioni, il suddetto dom Basilio da mons. Lefebvre per convincerlo (5 ore
di infruttuoso colloquio) che il decreto conciliare sulla libertà religiosa era
dottrinalmente legittimo (Scrosati, op. cit., p. 4/5).
[36] Il testo si trova nell’articolo di P. Gleize
citato nella traduzione italiana. Risulta evidente che per mons. Lefebvre la
“famiglia della Tradizione” andava ben oltre la FSSPX, ricomprendendo essa
tutti gli ordini amici e alleati nella battaglia per la difesa della Fede e
implicitamente tutti i singoli cattolici ugualmente partecipanti a questa
battaglia.
[37]
Cito dal medesimo articolo.
[38]
Op. cit., p. 590.
[39]
Tissier de Mallerais, op.
cit., p. 590.
[40]
Per tutti questi dettagli,
Tissier de Mallerais, op. cit., pp. 592-593.
[42]
Citato in DTC, voce: schisme,
col. 1301.
[43]
Op. cit., ivi, col. 1304.
[44]
Tissier de Mallerais, op.
cit., p. 573.
[45] Op. cit., ivi. Mons. Lefebvre incaricò i suoi
teologi di studiare il caso della “azione straordinaria” di un vescovo e la
portata della “giurisdizione supplita” dalla Chiesa, nel caso di stato di
necessità (op. cit., ivi). Fu influenzato
soprattutto dal breve ma fondamentale studio dell’illustre canonista tedesco,
prof. Georg Mai, sullo stato di necessità: Notwehr, Widerstand, Notstand [legittima
difesa, resistenza, necessità], del 1984 (op. cit., p. 591).
[46] Nel 1951 fu introdotta la scomunica riservata
alla S. Sede per le ordinazioni senza mandato pontificio, con Decreto del
Sant’Uffizio del 9 agosto, dopo le drammatiche vicende della Chiesa nella Cina
comunista. Mons. Lefebvre sarebbe morto 33 mesi dopo le Consacrazioni, il 25
marzo 1991, Lunedì Santo, dopo esser stato operato di un vasto cancro allo
stomaco l’11 dello stesso mese. Ne soffriva da tempo. Si mantenne sempre lucido
sino agli ultimissimi giorni, accettando con cristiana umiltà e rassegnazione
le sofferenze inflittegli dalla dolorosa malattia (Tissier de Mallerais, op.
cit., pp. 636-645).
[47]
I riferimenti alle questioni
dello scisma e della scomunica in senso stretto, li ho tratti da miei due
saggi, ai quali mi permetto di rimandare (unitamente alla letteratura ivi
citata) chi volesse eventualmente approfondire:
P. Pasqualucci, La persecuzione dei “lefebvriani” ovvero l’illegale soppressione
della Fraternità Sacerdotale San Pio X, Solfanelli, 2014, in particolare l’Appendice,
pp. 127-143; P. Pasqualucci, Una
scomunica invalida-Uno scisma inesistente.
Due studi sulle consacrazioni lefebvriane di Ecône del
1988, Solfanelli,
2017, specialmente la parte: 2. I termini giuridici della questione, p.
75 ss., nel saggio che costituisce il mio contributo. Il cardinale Gerhard Müller, che ha
sempre avuto scarsa simpatia per la FSSPX, ha sostenuto nel 2013 che,
nonostante la remissione della scomunica da parte di Benedetto XVI, la
Fraternità si troverebbe comunque di fatto in una situazione di “scisma
sacramentale”, nozione inusuale ed oscura, che critico nella citata Appendice
del primo mio saggio citato, pp. 135-143.
[48]
Scrosati, op. cit., p. 4/5.
[49]
Cfr.: Fideliter, 65, sept.-oct.
1988, p. 11. Per il testo in
latino: “Fraternité St Pie X, Bulletin
Officiel du District de France, 10, 13 luglio 1988, p. 2.
[50] Traduzione italiana dell’omelia apparsa in un
numero speciale de La Tradizione Cattolica, IX, n. 37, 1998, contenente
la traduzione degli interventi essenziali con i quali mons. Lefebvre e mons. de
Castro Mayer si sono pubblicamente opposti alla deriva in corso nella Chiesa
(vedi supra). Titolo: Omelia delle consacrazioni episcopali, Ecône, 30
giugno 1988, pp.
43-48, testo su due colonne; pp. 44-45.
[51]
Op. cit., p. 45.
[52]
Op. cit., ivi.
[53]
Op. cit., p. 45.
[54]
Op. cit., ivi.
[55]
Op. cit., p. 46.
2 commenti:
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