Filosofia: P. Pasqualucci: Metafisica del Soggetto.
Cinque tesi preliminari – Prefazione, con le cinque tesi.
Nota previa.
Nel 2010 ho pubblicato con una piccola casa editrice romana il primo
volume di un’opera intitolata: Metafisica
del Soggetto. Cinque tesi preliminari[1]. L’opera è articolata nel seguente
modo: “Prefazione - Introduzione, ossia
la sinossi ragionata delle cinque tesi – Prima parte: Prima tesi. 1. Esposizione della Prima Tesi. 2. Obiezioni e risposte. 3. Precisazioni terminologiche e concettuali.” Questa Prima Tesi concerne i limiti del
pensiero, traendo le dovute conseguenze dalla sua incapacità a darsi simultaneamente
due o più contenuti diversi. Stabilisce
il principio che il nostro pensare ha sempre un contenuto discreto, costituito
dal singolo pensiero in atto, con un solo contenuto determinato, nella
successione irreversibile dei pensieri.
La Seconda Parte contiene
l’esposizione della seconda tesi, dedicata al concetto dello spazio, in un
volume di ben 648 pagine: Metafisica del soggetto II
: “Il concetto dello spazio”, Giuffrè editore, Milano, 2015, Quaderno n. 10
della ‘Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto’. Questo volume fa i conti non solo con
l’elaborazione di tale concetto da parte della fisica contemporanea (lo “spazio-tempo”
di Einstein) ma anche con il modo di concepire lo spazio da parte del pensiero
filosofico moderno e contemporaneo. Il discorso si è poi allargato: sempre tenendo presente il concetto dello
spazio come filo conduttore, ho sviluppato una critica circostanziata di
concetti e metodi elaborati dal pensiero moderno: dalla cartesiana e spinoziana
“sostanza” alla kantiana impostazione trascendentale del conoscere, alla
gnoseologia “esistenzialistica” di Heidegger. Una Terza Parte, dedicata
al concetto del tempo, è rimasta finora solo abbozzata.
Il mio discorso filosofico si situa tra quei pochi che mirano a
ristabilire una concezione realistica del mondo e dell’uomo, sulla scia della
metafisica classica, cioè di Aristotele e di san Tommaso d’Aquino. Nel panorama
attuale – dominato dagli irrazionalismi e dai sincretismi celebrati dal
cosiddetto “pensiero debole” nonché da uno scientismo radicale – tale discorso
resta fatalmente ai margini se non addirittura ignorato. Pubblicandone in rete degli estratti spero
di poter contribuire ad una proficua riflessione tra gli appassionati di
filosofia che benignamente mi seguono, tale da offrire spunti ed argomenti
utili al superamento dell’attuale impasse filosofico.
Edito dunque la Prefazione al suddetto
Primo Volume, corrispondente alle pagine 9-37 dell’originale, aggiungendovi
l’elenco delle Cinque Tesi. Il testo
è stato da me ritoccato e rielaborato in alcuni punti. Successivamente, cercherò di pubblicare anche
l’ Introduzione con la Sinossi delle Cinque Tesi, ossia con un
discorso più approfondito su di esse (pp. 40-64 dell’originale).
* * *
P r e f a z i o n e
[Pervestigavi
me ipsum -
Heraclitus]
Sommario
: a. Metafisica come conoscenza dell’essere. b. Lo scientismo
dominante rigetta la metafisica. c. Sette
argomenti contro l’ideologia neo-darwiniana.
d. Il disordine come principio,
divisa della modernità decadente. e. Struttura dell’opera.
Il soggetto
in generale, l’uomo, in quanto io pensante, ha coscienza della realtà
esteriore e di quella interiore, rappresentata dal proprio io ovvero dai suoi
stati d’animo, dalle sue sensazioni e dal suo pensiero. Il soggetto pensa ma non pensa mai in
generale, senza un contenuto specifico :
pensa sempre a questo o a quello, onde la sua capacità di pensare si può
considerare sempre concretamente in atto
: nell’atto di pensiero con un
contenuto determinato, specifico, quello
e non altro.
Quella che
noi chiamiamo metafisica era per
Aristotele la “filosofia prima”, i cui libri, già nell’alta antichità, furono
catalogati dagli editori come: “quelli che venivano dopo i libri sulla natura (tà
metà tà physikà). Il termine sembra
esser diventato di uso corrente ad opera di Averroè e quindi a partire dal XII
secolo solamente[2]. La metafisica concerne dunque la parte della
speculazione che ricerca i fondamenti ultimi della realtà esteriore ed
interiore al soggetto. Ultimi nel senso
di primi, i primi princìpi
all’origine del Tutto, che nello stesso tempo permettono di comprendere
l’ordine che appare nel Tutto.
L’indagine metafisica non scarta a priori il dato offerto
dall’esperienza sensibile; semplicemente, non si accontenta di esso e vuole
ricercarne il fondamento o, se si preferisce, la causa. E questo perché il dato dell’esperienza come
tale raramente ci illumina sulla causa o sul fondamento dell’esperienza stessa.
a. Metafisica
come conoscenza dell’essere. Possiamo affermare, quindi,
che la metafisica sia conoscenza dell’essere,
non dell’esistente così come appare
ai sensi. Per la conoscenza di ciò che
definiamo come l’esistente, è
sufficiente l’esperienza sensibile che il nostro intelletto elabora
quotidianamente. La metafisica, invece,
è quella conoscenza che si spinge oltre. Essa è conoscenza non intuitiva ma razionale
dei princìpi che àncorano l’esistente ad una realtà che non muta, la realtà
dell’essere, che non si lascia
ridurre alla sola dimensione dell’esperienza sensibile.
La
metafisica è quindi indagine o discorso
(logos) sull’essere che è e si mantiene
nel mutare del molteplice.
L’essere che è e si mantiene: un’immagine astratta, nebulosa? Che cos’è l’essere? Chi può rispondere a questa domanda? Nell’idea dell’essere si esprime quella della
realtà nel suo ordine immutabile, che
appare nel nostro mondo interiore e in quello esteriore, nell’ordine della
natura. Il concetto dell’essere esprime
la presenza senza soluzione di continuità di ciò che è, l’è di tutte
le cose, con esclusione del loro non-essere. Esso esclude pertanto il divenire in quanto
realtà fondata sul non-essere, in quanto realtà del Nulla, destinata a prevalere
sull’essere o dalla quale l’Essere possa (per assurdo) aver avuto origine. Ciò risulta già dalla pristina intuizione di Parmenide
(“l’essere è, il non-essere non è”), che tuttavia aveva immobilizzato l’essere
nell’identità con se stesso, dichiarando incomprensibile (e quindi mera
illusione) il divenire e postulando una coincidenza assoluta di essere e
pensare (“infatti lo stesso è pensare ed essere”).
Una
comprensione equilibrata dell’essere implica invece una corretta interpretazione
del divenire quale modo dell’essere,
costituito dal venire in essere e scomparire delle realtà singole che
costituiscono l’essere, secondo un ordine che si ripete nello spazio e nel
tempo. Implica anche una giusta
comprensione del rapporto tra essere e pensare.
Il pensiero e la materia (res
cogitans e res extensa) stanno entrambi
all’essere come la parte al tutto: nessuno dei due esaurisce la pienezza
dell’essere, che entrambi ricomprende.
Ed anzi va oltre, se si deve ammettere che la realtà, in ogni suo
aspetto, non può essersi fatta da sola ma implica la presenza di un Dio
Creatore, ossia dell’Essere perfettissimo,
come giustamente lo hanno sempre chiamato la teologia e la metafisica
cattoliche.
Dal punto
di vista più vicino a quello della speculazione rivolta all’essere del pensiero (rivolta alla
fondazione metafisica del soggetto in quanto io pensante), il senso dell’essere
come di quella realtà che, anche per ciò che riguarda lo Spirito, è e non muta, appare già nel fatto che il pensiero coglie sé
stesso e la realtà esteriore secondo princìpi che sono sempre gli stessi: di
causalità, di ragion sufficiente, di identità e non contraddizione. Tra l’interiorità e l’esteriorità non può
esserci uno iato, per il pensiero; nel senso che il pensiero potrà connettere
entrambe in un ordine che dipende sì dall’esercizio della ragione ma nello
stesso tempo deve corrispondere alla natura delle cose. Se non ci fosse questa natura delle cose che ricomprende anche il pensiero, quest’ultimo
non potrebbe stabilire alcuna connessione tra sé stesso e la realtà. E nemmeno tra sé stesso e sé stesso, quando si
pone come proprio oggetto, indagando il
suo proprio modo di essere. Infatti, il
pensiero non ha creato sé stesso.
Colui che è
considerato oggi il filosofo più importante del XX secolo, Martin Heidegger, ha
accusato, come sappiamo, l’intero pensiero occidentale di “oblio dell’essere”,
dandosi egli stesso il compito di ristabilire l’essere nel suo autentico
significato. Ma l’intera speculazione heideggeriana
sembra mirare ad una cosa sola: a
ridurre l’essere all’esistente, rinchiudendolo nell’ambito di un
esser-del-mondo e nel-mondo che si fonda sempre e solo su sé stesso, sul qui ed
ora del suo inspiegato esser-presente (Vorhandenheit). Pertanto, l’essere, per Heidegger, non è, ma impersonalmente ed assurdamente
“si dà” (es gibt). E si dà sempre come “l’essere di un essente”
(das Sein eines Seiendes), come la
presenza determinata e circoscritta di un’esistenza che non rinvia mai ad altro,
per essere ciò che è, ed appare teutonicamente dominata dalla tenebrosa “cura”
(Sorge). Così il concetto dell’essere viene ristretto
a quello dell’esistenza e la natura
dell’uomo, la sua autentica sostanza, si deve ricavare sempre e solo da quella
realtà finita che è la sua esistenza: “die Substanz des Menschen ist die Existenz”[3].
Al concetto
dell’essere Heidegger toglie qualsiasi fondamento metafisico aprendo la via a
quell’imbarbarimento dello stesso, caratteristico del nostro tempo, che è
quello della cosiddetta “postmodernità”.
Infatti, l’antimetafisica esistenziale di Heidegger è stata portata alle
estreme conseguenze dagli epigoni, per i quali, come si sa, l’essere appunto
“non è ma accade”. L’essere è
l’esistenza, nel senso del tutto erratico di un “accadere” affidato al caso, o,
il che è lo stesso, alla supposta possibilità infinita di progettarsi
liberamente da parte dell’indidivuo che sappia porsi in ascolto di sé stesso. La
verità, e quindi ogni principio, norma o valore, non risulterà pertanto dalla
“conformità” della proposizione posta dall’intelletto con la cosa. Risulterà,
invece dalla “libertà”, intesa “come apertura degli orizzonti entro cui ogni
conformità diventa possibile”[4]. Vale a dire: come “conformità” ad ogni
possibile “apertura di orizzonti”da parte del soggetto e quindi come
“conformità” ad ogni possibile opinione che il soggetto voglia avere. Onde il vero sarà nient’altro che
l’interpretazione che il soggetto darà di sé stesso, del mondo, della
vita. Soggettivismo radicale,
fondato su un altrettanto radicale nichilismo,
perché l’essere che semplicemente “accade”, senza un motivo, si risolve in quel
Nulla che rende impossibile dare un senso
non solo alla filosofia e alla morale, alla religione, a tutte le attività
spirituali dell’uomo, ma alla vita stessa in
quanto tale.
Oggi la
rappresentazione di sé del soggetto e quella del mondo sono perciò cadute in preda
all’anarchia più totale, nella quale appare una sorta di abdicazione dal pensare
stesso. Proclamando che si deve vivere
in ascolto del proprio dato esistenziale, progettandosi secondo la (supposta) illimitata possibilità di
essere che ci apparterrebbe, perché non esisterebbe l’essere immutabile (al di
là delle mutevoli apparenze) ma solamente il darsi inspiegabile ma immediato e corposo dell’esistente, nel qui e
nell’ora, siamo sprofondati nel carpe
diem speculativo e siamo costretti ad assistere all’ universale svendita
della ragione a tutti gli istinti, anche i peggiori.
b. Lo
scientismo dominante rigetta la metafisica. Non c’è perciò da stupirsi del fatto che, in questo clima, si proclami
l’inutilità di ogni metafisica. Se poi
guardiamo alla prevalente visione scientifica del mondo, non è che le cose
vadano meglio. L’anarchia domina sovrana
anche nell’immagine del mondo elaborata dalla scienza moderna, che ha diviso la
realtà in due dimensioni (macro e microfisica) che non comunicano tra di loro. Essa
si serve di concetti impenetrabili al senso comune, quali ad esempio l’universo
in espansione, lo spazio curvo, lo spazio-tempo (lo spazio cui deve aggiungersi
obbligatoriamente il tempo come quarta dimensione), lo spazio a n-dimensioni, senza mai riuscire a
fornirci una spiegazione accettabile di essi.
Una critica dettagliata della rappresentazione fisica del mondo,
articolata sull’idea dello spazio curvo e dello spazio-tempo, la sviluppo nel
II volume della Metafisica del Soggetto, ai capitoli da 7 a 9, pp.
333-537.
L’altro
grande feticcio della scienza moderna è rappresentato dall’evoluzionismo
darwiniano. Dovrei ricordare
anche la psicoanalisi, che è penetrata largamente nella mentalità
corrente con le sue accattivanti pseudo-categorie.
Sulla
psicoanalisi conto di soffermarmi nella quarta tesi di questo mio lavoro. In sede di Prefazione voglio invece accennare all’evoluzionismo, il cui argomento esula come tale dalla costruzione
preliminare della metafisica del soggetto.
L’ideologia evoluzionistica rappresenta
forse l’aspetto più pronunciato ed aggressivo dello scientismo oggi dominante. Che
l’evoluzionismo sia vera scienza è dubbio (Popper lo negava, anche se con
prudenza). Il suo ragionare, fatto di interpretazioni di minuti frammenti di
fossili e di monconi di (possibili) organi, che restano perennemente indiziari
quanto alla dimostrazione dell’evoluzione delle
specie l’una nell’altra, può tranquillamente inventarsi autentici romanzi
biologici, senza tema di smentita. Inoltre,
l’evoluzionismo poggia concettualmente sul seguente dogma: l’ordine che si vede nella natura è frutto del
caso. Come possa, però, grazie al caso
nascere l’ordine (e che ordine!) non si riesce a comprendere né gli scienziati
riescono a spiegare.
Su questo
argomento capitale, il testo più noto di filosofia della natura è tuttora
quello del biochimico francese Jacques Monod, intitolato Il caso e la necessità (1970), nel quale l’autore cerca di
dimostrare che ciò che esiste secondo un ordine (la natura, la vita) ha potuto effettivamente
nascere per caso. Mi chiedo: se la scelta che dà origine alla vita, per
esempio nella “ontogenesi di una proteina funzionale”, si dà esclusivamente per
caso, allora non ci dovrebbe mai essere una forma definita e definitiva come
punto d’approdo del processo ontogenetico.
Il “caso” dovrebbe continuare a regnare sovrano. Ogni crescita non potrebbe avvenire secondo
una forma, arrestandosi quando la raggiunge, ma dovrebbe essere sempre caotica,
sempre casuale, erratica. Appunto la
“geometria della natura” rivelata dal rapporto tra “crescita e forma”, impediva
a D’Arcy W. Thompson di accettare la casualità quale principio informatore del
vivente.
Quando la
biochimica ci insegna che l’energia di legame tra gli atomi nelle reazioni
biochimiche è sempre inferiore
all’energia necessaria alla rottura del legame stesso (energia di rottura),
onde la maggior parte delle reazioni chimiche, e soprattutto biochimiche, “consiste
in uno scambio di legami piuttosto che in una loro rottura pura e semplice”,
dobbiamo ritenere che questa regola ferrea esista per caso? La sua continua
esistenza non ci dimostra l’esistenza di una necessità inderogabile (quella di
una legge di natura) nell’accadere biomolecolare e quindi l’assenza di ciò che
chiamiamo “il caso”? Una necessità e
pertanto un orientamento indirizzato per natura secondo una forma determinata.
L’intervento
del “caso” non può esser naturalmente limitato all’origine della vita solamente, come se si fosse verificato una volta
sola. Il caso resta, esso coabita con la
necessità, tant’è vero che l’Evoluzione delle specie sarebbe avvenuta sotto la
spinta del caso, non ad opera di un “disegno intelligente”. Le mutazioni,
non sono forse alterazioni genetiche accidentali, del tutto imprevedibili? Non è allora giusto affermare che avvengono
per caso? Ma il fatto che un evento non
sia prevedibile non significa che esso avvenga per caso. Pensiamo al cancro,
che è forse la mutazione genetica più famosa.
Quali sono le cause del
cancro? Non si riesce a determinarle con
precisione. Accanto alle cause fisico-chimiche
(avvelenamenti ambientali, radiazioni) si ipotizzano anche possibili cause
morali (grandi afflizioni, grandi dolori, magari per un torto subito
ingiustamente). Ma, se la mutazione che
dà origine al processo cancerogeno ha una causa,
non può considerarsi accidentale.
Accidentale, sarà il suo manifestarsi genetico, ma solo dal nostro punto
di vista, che è quello di chi ignorava il lavorìo nascosto della causa non genetica (spirituale o
materiale) all’interno della struttura genetica.
Il caso,
dunque, spiegherebbe anche l’evoluzione e sarebbe all’origine della “pressione
selettiva” che orienterebbe l’evoluzione stessa, grazie ad una “scelta
iniziale”. L’applicazione di questa
filosofia del “caso” alla teoria dell’evoluzione delle specie, dà luogo, a mio
avviso, in Monod e in molti altri, a quelle che sembrano ricostruzioni di pura
fantasia.
“La
comparsa dei Vertebrati tetrapodi e la loro meravigliosa espansione, affermatasi
con gli Anfibi, i Rettili, gli Uccelli e i Mammiferi, trae proprio origine dal
fatto che un pesce primitivo ‘scelse’ di andare ad esplorare la terra, sulla quale
era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro e creando
così, come conseguenza di una modificazione di comportamento, la pressione
selettiva grazie alla quale si sarebbero sviluppati gli arti robusti dei
tetrapodi”[5].
Se il pesce
non poteva nemmeno respirare fuori dall’acqua, come ha fatto a “scegliere” di
trasferirsi sulla terra, sulla quale non era neanche capace di muoversi? E se ha “scelto”, allora “il caso” che fine
ha fatto? Se c’è una “scelta”, non c’è più “il caso”. Inoltre: forse che un
animale può “scegliere” di trasferirsi in un ambiente sconosciuto ed ostile,
quale la terra per un pesce, nel quale non sarebbe riuscito nemmeno a
camminare? Come si può poi applicare il
concetto della “scelta” ad un essere vivente non dotato del pensiero e della
ragione, ossia della facoltà di scegliere in senso proprio? Non si comprende, infine, come la “pressione
selettiva”, ossia la selezione naturale, sia potuta scaturire da un semplice
comportamento anomalo, frutto del caso.
Simile connessione postula evidentemente
un nesso causale tra “scelta”
e “pressione selettiva”, la quale ultima non verrebbe pertanto più a dipendere
dal caso, come richiesto invece dalla teoria evoluzionistica, che esclude per
principio il Creatore dalla natura e quindi il principio di causalità
universale. Come ha detto Aristotele,
tra “caso” e “causa” c’è incompatibilità assoluta: “le cause dalle quali per caso possono le
cose avvenire, sono infinite [perché sempre indeterminate ed
indeterminabili]. Perciò il caso è
oscuro al ragionamento umano ed è causa accidentale: anzi, in assoluto, non è causa di nulla”[6].
Le incongruenze concettuali cui danno
luogo certi teoremi della scienza moderna sembrano evidenti ad ogni analisi che
non voglia farsi intimidire dal terrorismo culturale e politicamente corretto
dominante. I neo-darwinisti, che
rappresentano ancora la parte prevalente dell’ufficialità scientifica, reagiscono
in genere malamente a chiunque tenti di
opporsi alle loro verità.
c. Sette
argomenti contro l’ideologia neo-darwiniana. Ma valga il vero. Manca da parte loro una
replica convincente e risolutiva alle numerose questioni sollevate dall’ipotesi
evoluzionista, la quale sta trovando un’opposizione sempre più forte in Europa
e soprattutto in America. All’interno
del campo scientifico, l’opposizione sembra concentrarsi in particolare sui
concetti-cardine di “selezione naturale” e di “progressivo adattamento all’ambiente”. Questi concetti appaiono sempre più incapaci
di giustificare l’evoluzione stessa, che come tale non viene ancora messa in
discussione ma piuttosto (par di capire) ridotta nella sua portata (per esempio
quale fenomeno all’interno delle singole specie)[7]. Riassumo qui di seguito le principali
critiche rivolte all’evoluzionismo.
1. -- Darwin teorizzò un’evoluzione lentissima e per
gradi, di specie in specie, prodotta dalla pressione dell’ambiente, che
imporrebbe una selezione naturale.
Invece le specie sembrano esser comparse all’improvviso, in un arco di
tempo relativamente limitato tra i seicento ed i cinquecento milioni di anni fa. L’evoluzione, per Darwin, avrebbe dovuto aver
luogo grazie a “variazioni” graduali, provocate dalla selezione naturale, sotto
la spinta di fattori ambientali, in quanto utili al mantenimento degli
individui e delle specie. La biochimica
ha invece scoperto le “mutazioni”, le quali sono variazioni genetiche
imprevedibili ed improvvise. Le “variazioni”
avvengono perciò in conseguenza di “mutazioni” improvvise, non
gradualmente. Inoltre, la teoria di
Darwin doveva ammettere come ereditarie le “variazioni” acquisite dagli
individui ad opera della supposta selezione naturale. Invece la genetica ha dimostrato che tali
“variazioni” acquisite non sono ereditarie, non si trasmettono
geneticamente.
2. -- L’evoluzione
sarebbe avvenuta in modo cieco,
all’insegna del caso, che presiederebbe alla selezione naturale, quale
criterio di guida intrinseco, immanente all’evoluzione stessa. Ma è stato rilevato che il calcolo statistico di una combinazione
meramente casuale delle proteine che hanno dato origine alla vita di una sola
cellula conduce a ciò che si chiama “inflazione statistica”, ossia a numeri
giganteschi, che, per attuarsi nel gioco delle probabilità, richiederebbero un
tempo superiore a quello che si suole oggi attribuire alla durata
dell’universo.
3. -- Le forme
intermedie (o missing links) del
processo evolutivo – a cominciare da quelle tra l’uomo e la scimmia – non risultano
affatto con chiarezza dalle complesse e problematiche analisi dei reperti fossili.
Su diversi reperti importanti, come quelli dell’uomo di Giava o di Pechino,
gravano fondati sospetti di faciloneria, per non dir di peggio. I cosiddetti sinantropi sembrano nient’altro
che scimmie, se si guarda senza pregiudizi alle “ricostruzioni” che li rappresentano. Che dire poi di quelle forme viventi (i fossili viventi) che, in base ai fossili
che conosciamo, non sembrano essersi mai evolute, come per esempio lo scorpione?
4. -- I calcoli dei tempi geologici, in base ai
quali si parla con disinvoltura di milioni e miliardi di anni, si basano su
cifre reali o presunte? Quali sono le
cifre sicuramente accertate, che funzionano cioè da unità di misura, non presunta? Come sono state ricavate? Gli esperti dicono che corrispondono ai fatti
della natura, per esempio in modo obiettivo agli indici di decadimento
radioattivo di certi minerali. Ma è vero
che i complessi metodi di datazione di rocce e reperti fossili, che si basano
rispettivamente sul decadimento radioattivo del Potassio 40/ Argon 40 e del
radiocarbonio C-14, non sono affidabili al di là di periodi che vadano oltre i
6000-7000 anni? [8].
5. -- È dimostrato che le mutazioni genetiche, grazie alle quali si deve ora concepire
l’evoluzione delle specie, o sono nocive
o sono neutrali. Dove sono quelle utili all’evoluzione stessa, utilizzabili pertanto dalla “pressione
selettiva” per favorire l’evoluzione delle specie? Gli scienziati le ipotizzano come esistenti
ma non sanno darcene un valido ed indiscutibile esempio concreto. Il già citato Monod mantiene al riguardo un
pudico silenzio, venato di ambiguità:
“Le sole mutazioni accettabili [per l’evoluzione] sono dunque quelle che
perlomeno non riducono la coerenza dell’apparato teleonomico [volto a
conservare la specie] ma piuttosto lo rafforzano ulteriormente
nell’orientamento già adottato oppure, certo molto più raramente, lo
arricchiscono di nuove possibilità”[9]. Se poi sfogliamo il più recente Oxford
Dictionary of Biology, alla voce Mutation,
forse la nostra sete di sapere viene soddisfatta? Per nulla.
Leggiamo, infatti : “La maggioranza
delle mutazioni sono dannose [sindrome di Down, cancro, emofilia, etc.] ma una
percentuale [proportion] molto piccola
può incrementare la condizione dell’organismo, espandendosi nella popolazione
per generazioni successive grazie alla selezione naturale. Le mutazioni sono pertanto essenziali
all’evoluzione, essendo la sorgente ultima delle variazioni genetiche”[10]. Quali sarebbero, queste mutazioni che
“possono incrementare le condizioni del nostro organismo”? Lo ODB non ne enumera alcuna. Se poi la maggioranza silenziosa, la quale
ancora non ha capito perché continuino ad esistere le scimmie, visto che sono
ritenute addirittura i nostri progenitori nel cosiddetto “albero della vita”,
ritiene che queste mutazioni “vantaggiose” non esistano e che l’evoluzionismo
sia in sostanza aria fritta, come darle torto?[11]
6. -- L’evoluzione
sarebbe, dunque, il risultato di una selezione
naturale o “pressione selettiva”, non diretta da alcuna mente o agente, frutto del caso. Tuttavia tale “selezione” viene quasi sempre personificata, rappresentata cioè come se fosse guidata da un’intenzione, quella di operare per l’utilità ed il mantenimento
delle specie. Sul piano del concetto,
non si comprende come la selezione naturale, per definizione cieca, sorda,
senz’anima e pensiero, possa tuttavia apparire dotata di un’intenzione:
l’intenzione benefica di realizzare l’utile di ogni singola specie. Ciò significa attribuirle uno scopo, come se
essa agisse finalisticamente, pensasse. E difatti è spesso rappresentata come un
agente che opera sapendo quello che fa, quasi fosse un surrogato della divina
Provvidenza. A me questo contraddittorio
modo di procedere fa l’impressione di una sorta di rinnovato “animismo”, frutto
decadente della mentalità positivistica che è alla radice del darwinismo. In ogni caso, dimostra che l’Episteme non può
privarsi del concetto di un Agente consapevole, creatore ed organizzatore
dell’ordine esistente nella natura[12].
7. -- Concetto fondamentale dell’evoluzionismo è
quello di uno sviluppo dal più semplice
al più complesso ossia dalle forme organiche più elementari via via (sotto
la pressione della selezione naturale) sino a quelle più complesse. Questo canone è ora messo in discussione da
una parte degli scienziati. Mi riferisco
in particolare ai noti lavori del biochimico americano Michael J. Behe, il
quale ha sostenuto, sulla base di accurate analisi sperimentali, che questa
semplicità iniziale in realtà non esiste in natura. Anche ciò che a noi sembra estremamente
semplice nella sua struttura appare ad un più attento esame (quello
dell’odierna biochimica, dotata di strumenti in passato sconosciuti) già enormemente
complesso. Dobbiamo constatare “la
stupefacente complessità delle strutture organiche microcellulari [subcellular]”, una complessità che è
praticamente impossibile spiegare in termini di evoluzione, graduale e
casuale. Tra gli esempi apportati dall’autore,
ormai ben noti, ricordo qui: il flagello
dei batteri, il cilium di certe cellule, il sistema immunitario.
Il prof.
Behe non è antievoluzionista. Egli
considera ancora valido il neo-darwinismo (la versione aggiornata del
darwinismo) per ciò che si può definire “microevoluzione” (che avrebbe luogo
solo all’interno di una specie) e trova ancora “abbastanza convincente” (fairly convincing) il principio che
questa evoluzione abbia potuto originarsi da un “antenato comune”, la cui
esistenza si può ipotizzare come legittima considerando la grande comunanza di
materiale genetico comune fra esseri umani, animali, piante[13]. Tuttavia, osserva, “così come si dovette
reinterpretare la biologia dopo la scoperta della complessità degli organismi
microscopici [grazie appunto all’uso del microscopio], bisogna oggi riconsiderare
il neo-darwinismo alla luce delle scoperte della biochimica. Le discipline scientifiche sulle quali si è
costruita la “sintesi evoluzionistica”[l’aggiornamento novecentesco delle
teorie di Darwin] prescindevano completamente dalla biochimica [non ancora in
fulgore]. Ma la teoria darwiniana dell’evoluzione, per esser vera, deve
corrispondere alle strutture molecolari [rivelate dalla biochimica] che sono
alla base della vita. Scopo del mio libro
è dimostrare che essa non vi corrisponde”[14].
Infatti,
non sembra possibile che “sistemi biologici complessi” ed estremamente
raffinati possano esser il risultato di un’evoluzione graduale, basata sulle
“mutazioni casuali” e sulla “selezione naturale”; evoluzione della quale,
peraltro, i neo-darwiniani, utilizzando un linguaggio sempre evasivo nel quale
i condizionali abbondano, non sanno spiegare né “gli stadi” né i meccanismi di
passaggio “dall’uno all’altro”[15]. Secondo il prof. Behe, la complessità dei
sistemi biochimici elementari è “irriducibile”, costituisce un sistema che
appare già completo sin dall’inizio del suo essere e che postula, come unica
spiegazione razionale, l’esistenza di un “disegno intelligente”, da intendersi
come disegno “al di là delle leggi di natura” (beyond the laws of nature) e non immanente ad esse[16].
L’argomentazione
del prof. Behe è strettamente scientifica.
Si fonda su di un’interpretazione rigorosa dei dati offerti dalla
biochimica. La scientificità della
ricerca di Behe è stata contestata dal prof. Sean B. Carroll, secondo il
quale Behe avrebbe addirittura violato
“i fondamenti della genetica”, con l’affermare che i geni “possono esser
conservati mentre aspettano che nasca la necessità di usarli”, quando “la
regola della sequenza del DNA è ‘lo usi o lo perdi’”[17].
Si tratta, tuttavia, dei fondamenti
della genetica come intesi dai neo-darwiniani, già ampiamente contestati (per
esempio) da parte degli immunologhi.
“Que signifie, en effet, l’idée qu’un clone cellulaire produira un
anticorps protégeant l’organisme contre une toxine parce que ce clone
s’établira...”par pression de sélection” alors que l’individu n’a pratiquement
aucune chance de rencontrer cette toxine et que, de plus, il n’a aucune chance
de transmettre cette propension à ses descendants: à chaque génération l’horloge immunologique
est remise à zéro!”[18].
Ma biologi
e zoologi non si limitano oggi a propagandare la vulgata neo-darwiniana. Essi discettano anche di filosofia e
teologia, animati da uno spirito di crociata nei confronti della metafisica e
della religione, in particolare del Cattolicesimo, ed ovviamente nei confronti
della morale tradizionale. Penso alle
tristi pagine del celebre Richard Dawkins, noto biologo, ateo militante, contro
la religione, contro Dio, nel suo best-seller The God Delusion (2006). Per
capire di che inchiostro è scritto un libro del genere, che riprende gli schemi
più vieti della polemica antireligiosa d’antan, oggi ritornati prepotentemente
di moda, rinvio il lettore curioso alle tre smilze, inconsistenti e persino
blasfeme paginette con le quali egli pensa di poter liquidare le cinque Prove
di S. Tommaso d’Aquino sull’esistenza di Dio, teoresi quest’ultima che
rappresenta notoriamente la summa del discorso platonico-aristotelico ed
arabo-aristotelico sul tema[19]. I guasti provocati dall’evoluzionismo,
trasceso in ideologia che giustifica una concezione del mondo atea e
materialista, fornendo una giustificazione cosiddetta “scientifica” al
“relativismo” oggi dominante, non si limitano quindi al campo della scienza in
senso stretto, favorendone tra l’altro l’involuzione in una mera e sempre più
mostruosa tecnica di manipolazione della natura[20]. Essi travalicano anche in altri campi, senza
risparmiare la filosofia in senso proprio.
d. Il
disordine come principio, divisa della modernità decadente. In questa situazione, al fine di
ristabilire la metafisica nella sua propria dignità – oggi misconosciuta – di
discorso razionale sull’essere, mi è parso bene muovere dai fondamenti, dalla
riflessione sull’io pensante in quanto
tale. Metafisica del soggetto, dunque. Discorso razionale sul soggetto. Quale soggetto? L’uomo, noi stessi, il nostro io. L’io pensante, come si suol dire. Mi servo di una terminologia tradizionale, a
mio avviso sempre la più precisa ed efficace.
Ma come bisogna concepire il discorso razionale sul soggetto? Determinandone anzitutto il fine, che è quello della conoscenza di
noi stessi, per quanto possibile chiara e distinta, per usare le due celebri
categorie cartesiane. Oggi, nel
soggetto regna universale l’anarchia. Nel soggetto, intendo dire: nella sua coscienza di sé, il soggetto si
concepisce come semplice prodotto (e preda felice) degli istinti che albergano
in lui o che egli crede alberghino in lui.
E si lamenta che a questi suoi istinti o pulsioni non sia riconosciuta
sufficiente libertà, che vorrebbe illimitata.
Il soggetto non concepisce più se stesso come un ente dotato di ragione, che deve combattere le proprie
inclinazioni e passioni, il vasto e tenebroso regno dell’istinto, in lotta
perenne con la nostra ragione e la nostra volontà.
Il
disordine non si vede solo in campo morale, nella trasgressività che regna
incontrasta nei rapporti di relazione. È
in primis un disordine concettuale, che coinvolge la metafisica ossia il modo
di concepire i princìpi stessi del ragionamento, quei princìpi che regolano il
nostro modo di pensare e che riguardano la logica in senso stretto. Non si riconoscono oggi il principio di
causalità, di ragion sufficiente, di identità e di non-contraddizione, pur
applicandoli di fatto nella vita di tutti i giorni. In realtà, si nega tutto ciò che costituisce
da sempre la natura razionale dell’uomo.
Alla sfera della coscienza consapevole si contrappone con compiacimento
quella dell’inconscio, una struttura psichica nascosta, ricettacolo di ogni
nostro istinto e desiderio, che però ci guiderebbe nelle nostre azioni e alle
cui pulsioni non bisognerebbe resistere, se si vuole essere felici. In tal modo, alla volontà razionale e
consapevole del soggetto non viene più riconosciuto un ruolo effettivo. La scienza moderna proclama che la natura non
ha un fine e che, per comprenderla, bisogna eliminare l’idea di una causa
finale. Lo stesso principio vale oggi
per la comprensione della natura del soggetto:
bisognerebbe guardare al suo (supposto) inconscio, all’irrazionale che
gli abita dentro, non vincolato ad alcuna legge causale. La sfera dell’irrazionale, delle pulsioni
dell’inconscio, è quella che in passato si portava alla luce nell’analisi argomentata
delle passioni dell’animo umano.
Nella Prefazione alla prima
edizione della Scienza della logica,
Hegel scrisse che un popolo perde la sua metafisica quando lo Spirito non si
trova più presso di esso[21]. Lo Spirito se n’è andato, il popolo è
decaduto. Senza credere di diventare per
ciò stesso hegeliani, registriamo questo fatto presso tutto l’Occidente: lo “spirito” se n’è andato da tempo, non solo
lo spirito della metafisica ma anche quello del senso comune, lasciando le
masse abbandonate alla torbida presa dell’irrazionale. Del resto, di quale “metafisica” o autentica
“scienza” può esser più capace una cultura nella quale, grazie alle fantasie
dell’evoluzionismo, si crede che non ci sia differenza tra l’uomo e l’animale?
Volendo
vivere come se questa ovvia, naturale ed insuperabile differenza non ci fosse,
non sarà l’animale a comportarsi come l’uomo ma quest’ultimo come l’animale,
che anzi verrà elevato a modello, come accadde agli antichi Israeliti, quando
abbandonarono la legge rivelata da Dio per mettersi ad adorare il Vitello
d’Oro, finché Mosè non ritornò a ristabilire con la spada l’ordine
violato. La filosofia non avrebbe bisogno,
oggi, di un novello Mosè, che facesse piazza pulita degli idoli culturali
dominanti, con la spada affilata di ragionamenti inoppugnabili ed
inattaccabili? Mi presento forse io al pubblico come il Mosè della filosofia,
il Legislatore, che la filosofia attende da lungo tempo ormai? Non pretendo certo di essere da tanto. Più modestamente, sarei contento di essere
colui che può preparargli la strada, svolgendo l’indispensabile lavoro
preliminare.
e. Struttura
dell’opera. La metafisica del
soggetto o io pensante qui esposta è perciò ancora una metafisica in nuce o preliminare perché limitata
alla disamina della fondazione
dell’ordine che il pensiero, indagando sé stesso, individua nel soggetto
pensante, cioè in sé stesso : ordine preliminare ad ogni analisi delle categorie specifiche
mediante le quali opera il pensiero.
Questa
metafisica viene da me proposta in cinque tesi o proposizioni fondamentali, tra loro
strettamente connesse. Le tesi vengono
prima enunciate sinteticamente nel loro contenuto e successivamente esposte
analiticamente, una per una.
Cercherò di
esporre brevemente la struttura dell’opera, il senso delle cinque tesi. Il punto
di partenza, al fine di ristabilire l’ordine, mi è sembrato di averlo trovato
nel fatto
della successione dei nostri pensieri. Qui appare il rapporto tra il tempo e il
pensiero. Ma dall’indagine di questo
rapporto (nella prima
tesi) emerge subito un certo modo di intendere il concetto dello spazio.
Come si
giunge al concetto della successione? Dalla constatazione che il nostro pensiero
non può avere simultaneamente due o più contenuti diversi. Si intende, due o più contenuti dei quali sia
simultaneamente cosciente. Ciò di cui il pensiero ha coscienza deve
esser allora sempre anteriore all’atto stesso di pensiero
che risulta in questo prender
coscienza. E ciò, a prescindere dal
contenuto della presa di coscienza : si
tratti della sensazione (so di
vedere, di udire, di toccare, insomma di esercitare tutti i miei sensi) o di un
pensiero, dell’attività di pensiero cui mi sto dedicando (so di leggere, di essere capace di pensare e di pensare a una
determinata cosa). Per sapere di vedere
e per sapere di pensare ed infine per sapere di sapere, non devo prima vedere, pensare, esser cosciente
di ciò di cui voglio esser autocosciente
(se autocoscienza è sapere di sapere)?
Abbiamo
quindi il prima e il dopo, la successione quale modo di essere
dei nostri pensieri. Ma prima ancora di
soffermarci sul rapporto costituito dal sapere di sapere, sulla coscienza di sé
come autocoscienza, dobbiamo constatare che la nostra coscienza dell’immagine
(in noi) del mondo esteriore (quell’immagine che è formata dai nostri sensi)
deve ritenersi posteriore
all’immagine stessa, non può ritenersi ad essa simultanea. Infatti, quest’immagine non si è formata istantaneamente: essa ha richiesto un certo tempo, quello
impiegato dalle onde della luce diffusa
a raggiungere il fondo del nostro occhio per esser poi ricevute ed elaborate
nei centri della visione posti nel cervello.
Siffatta scansione temporale è dovuta perciò al fatto che la luce, al
contrario della forza di gravità, non si trasmette istantaneamente. La scansione temporale in questione
dimostra l’esistenza di un intervallo spaziale
tra noi e l’oggetto, di uno spazio fuori di noi che la luce deve percorrere. Lo deve percorrere impiegando necessariamente un
certo tempo: da questa semplice constatazione
risulta che spazio e tempo ci appaiono in un rapporto esterno a noi, come realtà obiettive che ci permettono l’esercizio
delle nostre sensazioni, il quale si traduce per noi nell’immagine del mondo.
Ecco che allora il tempo e lo spazio devono esser considerati una condizione
empirica (e non trascendentale) della nostra conoscenza. E lo spazio e il tempo, come realtà
oggettive, devono prendersi in considerazione anche nel percorso che l’input
dell’informazione portata dai fotoni compie dentro
la nostra testa, dal cristallino alla retina ai neuroni del nervo ottico, alla
corteccia cerebrale, sino a risolversi nell’immagine compiuta.
All’analisi
di questa fondamentale condizione
empirica, per quanto riguarda lo spazio, è dedicata la seconda tesi, che deve
confrontarsi inevitabilmente con le concezioni dello spazio che negano o diminuiscono
la realtà autonoma dello spazio in quanto tale.
Il testo sviluppa pertanto un confronto serrato con la filosofia di Kant
e con quelle che concepiscono lo spazio in un senso che si potrebbe dire immanentisico, ossia identificando
spazio e materia, secondo un filone che da Cartesio a Spinoza giunge, a mio
avviso, sino allo spinoziano Einstein, con la sua teoria dello “spazio curvo”,
condivisa dalla gran maggioranza dei Fisici odierni. L’esposizione di questa tesi terminava
inizialmente con il capitolo sulla deduzione empirica del concetto di spazio,
tesa a dimostrare che lo spazio in sé deve concepirsi come il vuoto, la
pura estensione tridimensionale. Vi
ho poi aggiunto un capitolo, l’ultimo, dedicato a: Dio e lo spazio.
La terza tesi sviluppa
il presupposto iniziale (della mia indagine) in relazione al concetto del
tempo. Poiché non possiamo mai darci due
diversi contenuti di pensiero nello stesso tempo, ne segue che i nostri
pensieri sono sempre in successione. Ed
inoltre, che il tempo è una dimensione reale,
così come lo sono i nostri pensieri, così come lo è la successione nella quale
essi sempre si trovano. Allora, senza il
soggetto che pensa, niente successione di pensieri e quindi estinzione del tempo? No, semplice impossibilità di percepire
interiormente la durata che è il tempo da parte del soggetto, una volta che
esso soggetto sia venuto meno. Il tempo
non può essere un semplice rapporto o ordine delle cose, che non esisterebbe se
non esistessero le cose. La terza tesi
attribuisce pertanto al tempo natura ontologica. Esiste sempre il qualcosa che sta e dura ed anche lo spazio vuoto è qualcosa, è una realtà fisica. Nella durata
è il tempo e la durata dell’Ente Perfettissimo che è Dio è l’eternità.
Anche in
questa tesi viene sviluppato un serrato dibattito con la kantiana concezione
trascendentale del tempo, che sembra riproporsi, fatte le debite differenze,
nella concezione einsteiniana dello spazio-tempo, del tempo ridotto a semplice
funzione dello spazio o meglio alla misurazione del moto.
La quarta tesi si oppone
esplicitamente ad uno dei dogmi fondamentali del pensiero moderno. Infatti, essa nega che la coscienza di sé debba ritenersi il presupposto stesso del
pensare come tale. Questa tesi si
ricollega sempre alle precedenti, poiché essa muove dalla convinzione che la
coscienza sia sempre posteriore a ciò di cui è coscienza. L’aver
coscienza si situa sempre nella successione temporale, non ne è un
presupposto. Ciò comporta l’impossibilità (per manifesta contraddittorietà)
dell’esistenza di una coscienza implicita
del nostro sentire e del nostro pensare.
Non mi sembra si possa ammettere l’idea di una coscienza non cosciente, quale sarebbe una coscienza implicita nelle nostre sensazioni e nei
nostri pensieri (se il pensiero pensa sempre sé stesso in tutto ciò che pensa,
questo pensar sé stesso deve ritenersi implicito
in tutto ciò che viene pensato, deve appunto ritenersi una sorta di
coscienza implicita, e quindi non cosciente).
La quinta ed ultima tesi, infine,
prende in considerazione il concetto dell’ordine,
in quanto ordine che emerge da quanto esposto nelle altre quattro. Quest’ordine non può considerarsi posto
dall’io, che deve invece riconoscerlo quale struttura portante della realtà
obiettiva.
Il mio
discorso tende perciò a rivalutare il principio dell’ordine, di contro al disordine oggi dominante, come si è
detto sopra. Esso rivaluta il principio
dell’ordine come realtà obiettiva che deve risultare già dal corretto modo di intendere
il rapporto del nostro pensiero con lo spazio e il tempo. Obiettiva,
questa realtà, perché non viene dedotta da un atto unilaterale del soggetto,
fondato unicamente sul pensiero del
soggetto stesso, del tipo del cogito
cartesiano o della categoria a priori kantiana, anteriore ad ogni
esperienza. Questa realtà viene invece
dedotta dall’esperienza, con una serie di ragionamenti che mettono in rapporto
il pensiero con la realtà esteriore e con quella interiore. Anche in quest’ultimo caso, la percezione del
nostro modo di pensare o del tempo in interiore homine viene indagata come oggetto di un’esperienza (quella
interiore appunto) che è a sua volta empirica, non come contenuto di
un’intuizione trascendentale, anteriore ad ogni esperienza.
L’accorto
lettore si chiederà, a questo punto, se sia legittimo definire “preliminare”
un’indagine che si sviluppa per centinaia di fitte pagine. Se questi sono i preliminari, cosa dobbiamo
aspettarci da un eventuale testo definitivo?
Cercherò allora di spiegare come sono giunto all’idea delle “tesi preliminari”.
Al fine di
ristabilire l’ordine nella speculazione, mi è sembrato opportuno ripartire da una determinazione interiore che
fosse assolutamente certa. Ma questa
assoluta certezza interiore non me la forniva già il “cogito ergo sum” ricavato
da Cartesio con il suo “dubbio metodico”?
Non poteva fornirmela, a causa delle aporie o difficoltà logiche insuperabili che, a mio avviso, affliggono il
“cogito” (sulle quali, vedi i §§ 2.6
e 2.6.1 del I volume della Metafisica del Soggetto). Né poteva fornirmela la coscienza di sé
trascendentale concepita da Kant, trapassata poi nell’autocoscienza assoluta
degli Idealisti. Essa vede il nostro io
come un soggetto che ritiene di avere l’intuizione a priori del tempo e dello spazio, ossia quali categorie mentali, anteriori
ad ogni nostra esperienza, che anzi sono esse stesse a rendere possibile. In conseguenza di ciò, la nostra “coscienza” costituirebbe sempre il sostrato delle nostre
sensazioni, sarebbe già dentro
l’apparato delle nostre percezioni sensoriali, come coscienza per così dire non cosciente. I motivi per i quali tutta questa costruzione
viene giudicata inaccettabile, sono esposti nell’elucidazione delle tesi seconda e terza (II e III
parte dell’opera).
Né questa
assoluta certezza poteva darmela la semplice constatazione del fatto in sé di pensare, per quanto
incontrovertibile esso sia e da assumersi come verità assoluta, allo stesso
modo dell’esistenza della nostra percezione
sensibile del mondo esterno. Non
poteva, appunto perché il fatto del percepire e del pensare viene sempre sottoposto,
nel pensiero moderno e contemporaneo, alla prova del “cogito” cartesiano,
riconosciuto tuttora come valido fondamento della modernità filosofica, o a
quella della supposta natura trascendentale delle categorie mediante le quali
la coscienza conosce il mondo e concepisce se stessa.
D’altro
canto, tutto il filone del pensiero moderno rappresentato da Schopenhauer e
Nietzsche, che si conclude nell’esistenzialismo heideggeriano, si incontra con
i filosofemi della psicoanalisi e dell’esoterismo ritornante, per giungere
addirittura (come si è detto) a dissolvere la nozione di “soggetto pensante” in
quella di un’entità “aperta” al “vissuto” di ogni esperienza e quindi alla fine
dominata dall’inconscio e dagli istinti.
Tale filone, del quale conto di occuparmi criticamente nell’esposizione
della quarta tesi, è
inutilizzabile per la ricerca razionale della certezza speculativa interiore
del soggetto, nonché per quella di una fondazione oggettiva della sua
conoscenza del mondo esteriore.
Perciò,
continuando a ricercare una prova o dimostrazione o forse semplicemente conferma del fatto di per sé
assolutamente certo che io sono un soggetto senziente e pensante, l’ho trovata
nella constatazione di un limite intrinseco al pensiero stesso, costituito
dall’impossibilità di darsi simultaneamente due o più contenuti diversi; di
potersi estendere a ricomprendere simultaneamente una molteplicità, finita
o addirittura infinita, di argomenti. Il pensabile è limitato ad un solo
argomento alla volta, quale contenuto concreto
del pensiero in atto.
Da siffatta
constatazione il discorso si è poi esteso immediatamente ai concetti dello
spazio e del tempo, che venivano ad esser interpretati in chiave realistica. E non per caso. Il soggettivismo distruttore affermatosi nel
pensiero moderno, ha preso le mosse proprio dalla trasformazione kantiana (anticipata
da Cartesio e Malebranche) dello spazio e del tempo in due categorie a priori
del soggetto, preliminari ad ogni ogni nostra conoscenza effettiva. In tal modo lo spazio e il tempo hanno
perduto per noi ogni significato obiettivo.
Questa loro riduzione alla nostra dimensione soggettiva si è perpetuata
anche nella fisica moderna e contemporanea: essa non riconosce allo spazio e al tempo
un’esistenza indipendente dalle nostre misurazioni, sempre sottoposte alla
relatività del punto di vista di chi misura, influenzato dal moto relativo del sistema di riferimento
nel quale si trova. Alla perdita di
oggettività del tempo e dello spazio, provocata anche dall’adozione di
geometrie non-euclidee, le quali, alle figure euclidee, rigorosamente confinate
alla tridimensionalità della realtà, sostituiscono arbitrariamente postulati
matematici che permettono di costruire come mero fatto di calcolo spazi a più
di tre dimensioni (a n-dimensioni),
spazi quindi immaginari; a questo scivolare
nell’irrealtà, intrapreso dalla scienza, come ha risposto la
filosofia? In modo assai deludente, a
mio avviso.
Il già
citato massimo pensatore del XX secolo, Martin Heidegger, propone una
concezione in sostanza esistenziale
dello spazio e del tempo. Il primo viene identificato con lo “in-essere” del
nostro esser-nel-mondo, dal quale non si può distinguere: “Va mostrato, in particolare, che il momento
‘circum’-stanziale del mondo-circostante [lo spazio attorno a noi (circum) come somma continua dei luoghi], la specifica spazialità
dell’ente [Seienden] incontrato nel
mondo-circostante, è esso stesso fondato sulla mondanità del mondo e non,
viceversa, che il mondo sia sottomano [vorhanden]
nello spazio [che il mondo sia presente a noi, accessibile, “sottomano”, in uno spazio da esso indipendente]”[22].
Il secondo viene assorbito nella nozione di “temporalità”, del tempo calato
nell’esser-qui del nostro esser-nel-mondo, del tempo che si fa storia
dell’esserci dell’Essere, cioè del “vissuto” (Erlebnis) che è la “storicità” dell’Essere, che tuttavia mai si
rivela compiutamente in essa (anche perché, come è noto, per Heidegger, “il
Nulla è qui”).
Simile
concezione, che sottopongo a critica nel cap. 6 del volume II della mia opera,
rifugge dal tentativo di cogliere lo spazio e il tempo nella loro intrinseca
natura e non è, a mio avviso, in grado di confrontarsi con lo spazio-tempo dei
Fisici e con il soggettivismo distruttore ad esso soggiacente, soggettivismo
che essa sembra peraltro mantenere, dal suo proprio punto di vista. Ristabilire il significato oggettivo dello spazio e del tempo mi
sembra perciò la prima tappa di ogni valido tentativo di ripristinare una
comprensione della realtà fondata sulla recta ratio e il senso comune. La prima tappa, la tappa preliminare ad ogni futura metafisica degna di questo nome. Questa prima tappa conduce ad una seconda,
che riguarda il concetto della coscienza,
che si dimostra essere un nostro contenuto di pensiero, un contenuto come un
altro, e non il presupposto stesso di
ogni nostro pensare. E anche questa, per
quanto di necessità articolata nelle sue dimostrazioni, è una proposizione che
possiamo considerare “preliminare” ad ogni autentica metafisica del soggetto. E lo stesso dicasi per il concetto dell’ordine, che emerge come logica conclusione
di tutto il discorso. Forse il termine
“preliminare” non rende al meglio il senso del mio discorso, dato che quel
termine sta qui soprattutto nel significato di fondativo, costitutivo; di ciò che stabilisce le basi della
metafisica e quindi non si limita ad essere una semplice introduzione, come tale tendenzialmente descrittiva. Le mie Cinque Tesi preliminari cercano
dunque di stabilire i princìpi primi dell’autentica metafisica del
soggetto, del nostro io in quanto ente razionale, dotato di pensiero e volontà,
considerato dal punto di vista della “filosofia prima”, quella che ricerca i
fondamenti immutabili dell’essere, al di là delle mutevoli apparenze delle cose.
* * *
Le
Cinque Tesi preliminari della metafisica del soggetto
I.
Il pensiero
in atto non può mai darsi simultaneamente due o più contenuti diversi. Il contenuto delle nostre operazioni mentali è
sempre discreto poiché consiste sempre di una irreversibile successione
dei pensieri nel tempo, uno per uno, uno dopo l’altro.
II.
La spazio è
condizione empirica (e non trascendentale) della possibilità della nostra
conoscenza. Esso è la dimensione
intrinsecamente vuota, continua, omogenea, identica in tutte le direzioni
(isotropa), immobile, infinita, che permette alla materia e all’energia di
avere luogo e moto (spazio assoluto).
III.
Il succedersi
del contenuto (sempre singolo ed individuale) del nostro pensiero in atto
(nel linguaggio comune, il succedersi dei nostri pensieri) non può aver luogo
altro che nel tempo. Il tempo
costituisce allora una dimensione reale, senza la quale i nostri
pensieri non potrebbero essere: non è
creato dai nostri pensieri più di quanto lo sia lo spazio dal nostro movimento.
IV.
Il pensiero
non può identificarsi tout court con la coscienza, che è solo un determinato
contenuto del pensiero in atto, non il presupposto stesso del pensare. L’idea di una consapevolezza implicita è
inaccettabile.
V.
Esiste un ordine
a fondamento della nostra conoscenza, che si rivela già nell’ordine
temporale (la successione, come tale irreversibile) del contenuto dei nostri
pensieri in atto. Quest’ordine non è
posto dal soggetto pensante ma deve esser da esso riconosciuto. L’ordine che compare nell’Io partecipa dell’Ordine
che governa il Tutto.
Paolo Pasqualucci, domenica 3 giugno 2018
[1] Paolo Pasqualucci, Metafisica del Soggetto. Cinque tesi preliminari, Volume primo,
Edizioni Spes - Fondazione Capograssi, Roma, 2010, p. 188, € 20,00. Fondazione
G. Capograssi, Via Savoia 86, 00198 Roma, tel. 06.855.80.65, email: fond.capograssi@tiscali.it. Ringrazio la Fondazione e in particolare il
presidente, prof. Francesco Mercadante, per aver gentilmente acconsentito alla pubblicazione
dei presenti estratti dell’opera.
[2] ARIST.,
La métaphysique, tr. fr. e comm. di J. Tricot, Vrin, Paris, 1991, I,
Introduction, pp. XVI-XVII.
[3] M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, 1963, (§ 43) p. 212. La citazione precedente,
si trova a p. 7 (§ 2). Vedi anche la tr. it. con testo tedesco a fronte
di A. Marini : M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Mondadori, Milano, 2007,
p. 35 e p. 603.
[4] G. VATTIMO, Dialettica, differenza, pensiero debole,
in G. VATTIMO e P. A. ROVATTI (a cura di), Il
pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1985 3a ed., pp. 12-28; p. 24 e p.
19.
[5] J.
MONOD, Il caso e la necessità. Saggio
sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it. di A. Busi,
Mondadori, Milano, 1970, p. 105. Le
altre citazioni dall’opera si trovano alle pp. 54 ss., 73 ss. della stessa.
[6] ARIST.,
Met., K, 8, 1065a, tr. it. e note a
cura di A. Carlini, Laterza, Bari, 1965, 11, 8 (1065 a), pp. 380-382. Qui come altrove le parole tra parentesi
quadre sono mie.
[7] L’ultimo testo
che in ambito scientifico (al di fuori di ogni tesi “creazionistica”) attacca
il neo-darwinismo è: M. PIATTELLI
PALMARINI-J. FODOR, Gli errori di Darwin,
tr. it. di V. B. Sala, Feltrinelli, Milano, 2010. Ha destato forti reazioni polemiche anche la
recente pubblicazione degli atti di un convegno di scienziati e filosofi, in
prevalenza cattolici, nel quale l’evoluzionismo – accusato di essere una
“cosmogonia” più che una concezione scientifica – è sottoposto a critiche
radicali: ROBERTO DE MATTEI (a cura di),
Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, Cantagalli,
Siena, 2009. Mi permetto anche di
rinviare alla mia recensione ad un noto
libro del citologo prof. Antonio Lima-de-Faria, intitolata: Evoluzione
senza selezione naturale? Qualche
riflessione sulla crisi dell’evoluzionismo, in ‘Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto’, LXXXIV (2007) 4, pp. 501-546.
[8] Vedi
l’interessante studio critico di questi metodi, compresi i più recenti
(termoluminescenza, risonanza con spin elettronico etc.) di F. CATALANO, S.
MARINARO, Insegnaci a contare i nostri
giorni. La cosmologia moderna e i metodi di datazione hanno smentito la Bibbia?,
Tecnograff, Bergamo, 1992, pp. 73 – 146 (e in modo più approfondito i due
contributi sul tema ricompresi in: Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi, cit., pp.
109-124 e 125-155). I criteri adottati al presente per stabilire l’unità di
misura di ogni accettabile geocronologia (cronostratigrafia) sono assai
complessi e praticamente inaccessibili a noi del pubblico. Per quello che si può capire, si resta
perplessi nel constatare che il criterio principale consiste nel datare
mediante il fossile lo strato che contiene il fossile e non viceversa, come ci
si sarebbe aspettato: datare cioè il
fossile in base all’antichità dello strato che lo contiene. “Molti sistemi
geologici contengono fossili unici, ed è la natura caratteristica degli insiemi
fossili che costituisce il criterio principale per identificare gli strati
appartenenti a ciascun sistema, serie o fase, cioè per datarli in rapporto alla
scala temporale geologica” (Enciclopedia
Cambridge – Scienze della terra, tr. it. di S. Pozio e L. Gaia, Laterza,
Bari, 1982, II, p. 446). E l’antichità del fossile da cosa la si ricava? Dalla
sua “unicità”, par di capire, ovvero dalla sua complessità, che (darwinianamente) si presume risultare da
un’Evoluzione durata (per forza di cose) milioni e milioni di anni?
[11] Un’indicazione
di supposte “mutazioni utili”, si trova per esempio nel libro del biologo S. B.
CARROLL, Al di là di ogni ragionevole
dubbio. La teoria dell’evoluzione alla
prova dell’esperienza, tr. it. di S. Boi, Le Scienze, Roma, 2008, recente e
perentorio saggio in difesa del neo-darwinismo.
Le “prove” di queste mutazioni si prestano, a mio modesto avviso, anche
a diverse interpretazioni e non possono ritenersi conclusive. Leggiamo di un pesce chiamato “spinarello”
che, negli Stati Uniti, trasportato dall’Oceano all’acqua dolce dei laghi,
mostra di aver ridotto in pochi anni il numero delle placche, sceso da trenta a
nove. Ecco la prova di una “mutazione utile” all’evoluzione, esclama l’autore!
Infatti, “il vantaggio selettivo della riduzione del numero di placche nei
laghi e nei corsi d’acqua può essere dovuto a una maggiore flessibilità del
corpo che conferisce una maggiore agilità nel nuoto” (p. 38). “Può essere dovuto”, afferma l’autore. Ma ne siamo sicuri? No, ovviamente. Ma si può
sostenere che il numero delle placche
possa incidere in maniera significativa sull’agilità di un pesce? Lo “spinarello” d’acqua dolce sarebbe più agile di quello che vive
nell’Oceano? E chi può dimostrare una
cosa del genere? In realtà, questo non
sembra un ennesimo caso di mutazione “neutrale”? E perché sarebbe avvenuta, allora, a qual
fine? Non lo sappiamo. Non sarebbe più semplice ammettere che è
impossibile sapere il perché di tutto?
Un esempio più valido sembra
esser quello del colore scuro del mantello dei topolini del deserto
(dell’Arizona) che vivono sulle rocce laviche del deserto stesso (pp. 42-46).
Quelli che vivono in ambiente sabbioso sono invece chiari di pelo. Perché questa mutazione? Perché il colore scuro proteggerebbe al
meglio il roditore dai suoi predatori, mimetizzandolo contro lo sfondo scuro
della roccia di lava, afferma il Nostro.
Argomento classico. E i topi di
fogna di colore scuro (quelli che a Roma chiamano “zoccole”), grandi e grossi sì da mettere in
fuga anche gatti da combattimento, da quale predatore devono difendersi? Perché
sono scuri in modo simile a quelli che vivono sulle rocce dei deserti
dell’Arizona? Non lo sappiamo, non lo sapremo mai. Ma vogliamo davvero credere che il suddetto
mimetismo impedisca a falchi, aquile, serpenti, volpi di scorgere o di
“sentire” i topi del deserto e di piombare su di essi? I falchi, che possiedono una vista a raggi
UV, non scorgono forse l’urina dei topi, che li guida sulla preda? E il
mimetismo non favorisce spesso il predatore, come nel caso di certi serpenti,
nascondendolo alla preda ignara? A chi è
“utile”, allora? Se permette ai serpenti
di mimetizzarsi per sfuggire al falco ma nello stesso tempo consente loro di
tendere meglio l’agguato alla preda, allora la finalità selettiva si rivela
ambivalente (e contraddittoria) perché il favorire l’uno significa
automaticamente sfavorire l’altro.
[12] Si consideri la
voce polymorphism del citato ODB, la
quale si occupa delle differenti forme che si possono riscontrare in una specie
vegetale o animale. Esiste un
“poliformismo genetico”, che può essere “transitorio” o “equilibrato” (balanced). In quest’ultimo, “due o più
forme [di polimorfismo genetico] coesistono in rapporto stabile all’interno di
una popolazione, possedendo ciascuna di
esse caratteristiche sia vantaggiose che svantaggiose”. Un esempio di tale “polimorfismo equilibrato”
è costituito dall’anemia falciforme (sickle-cell
disease). “Questa malattia genetica
che si trova principalmente tra le popolazioni dell’Africa centrale, è
caratterizzata da una forma anomala dell’emoglobina [Haemoglobin S] e da globuli rossi falciformi. In queste popolazioni si riscontrano tre
differenti tipi: coloro che possiedono
due geni per l’emoglobina normale (AA) e non sono affetti dalla malattia; coloro che ne possiedono uno normale ed uno
anomalo (AS), e sono portatori dell’anemia ma senza averne i sintomi; coloro infine che li hanno tutti e due
anomali (SS) e soffrono di una forma cronica ed alla fine fatale della
malattia”. Ciò premesso, vengo al
punto. Il testo, infatti, così prosegue. “Di norma, un gene così nocivo [come quello
di siffatta anemia] sarebbe stato eliminato dalla popolazione ad opera del
processo di selezione naturale, ma in questo caso viene mantenuto dato che
individui semplici portatori dei globuli rossi falciformi sono resistenti ad
una severa forma di malaria, endemica in Africa centrale”. Si noti bene:
chi è che in questo caso mantiene operante la componente genetica AS, quella
dei portatori sani dell’anemia in questione?
La popolazione indigena stessa?
Il senso della frase lo esclude.
È la “selezione naturale” a mantenerla.
E perché? Perché la selezione
evidentemente sa che questi portatori
sani possono resistere a malattie peggiori, come la malaria. Eterogenesi dei fini messa in opera dalla
Selezione Naturale, madre saggia e benefica dei popoli! Essa lascia sopravvivere una malattia allo
stato latente al fine di combatterne con successo una ben peggiore! Dell’azione del “caso” qui, ovviamente, si è
persa ogni traccia. La Selezione
Naturale, travestita da divina Provvidenza, sceglie, scarta, dispone, agisce
oculatamente per un fine, quello della sanità di individui e popoli.
[13] M.J.
BEHE, The Edge of Evolution. The Search for the Limits of Darwinism,
Free Press, New York London Toronto Sidney, 2008, p. 64 ss. Naturalmente, la teoria dello “antenato
comune” deve esser separata da quelle (insostenibili) dell’evoluzione casuale
per selezione naturale (ivi). Mi chiedo
però se la (relativa) comunanza di materiale genetico che si riscontra nei
viventi non si spieghi in modo più semplice ed elegante ricorrendo all’ipotesi
di un Creatore comune, l’Autore,
appunto, del “disegno intelligente”, Dio Onnipotente.
[14] M.
J. BEHE, Darwin’s Black Box. The
Biochemical Challenge to Evolution, 1996,
Free Press, New York, London, Toronto, Sidney, rist. 2006, con una Postfazione, pp. 24-25. Le precedenti citazioni si trovano alle pp.
15 e 5.
[18] A.
BUSSARD, Darwinisme et immunologie,
in ‘Bulletin de la Société française de Philosophie’, 77 (1983) 1, p. 19.
[19] R.
DAWKINS, The God Delusion, Bantam
Press, London etc., 2006, pp. 77-79. Il
prof. Dawkins non si esime anche dal compiere escursioni nell’esegesi biblica,
affidandosi ai fallaci luoghi comuni della odierna “scienza biblica”
liberal-protestante. In un suo noto
volume, The Selfish Gene, OUP (1976),
1999, rappresentandosi con la fantasia addirittura l’origine della vita, parla
dell’esistenza di un supposto “errore” nella duplicazione iniziale delle
molecole del DNA, errore che, dando inizio alle mutazioni, ha comportato conseguenze fondamentali ed
ineliminabili nello sviluppo della vita.
Del tutto a sproposito, cita come esempio convalidante la sua tesi,
l’errore utile, perché gravido di conseguenze, che, dice, avrebbero compiuto gli autori della
Septuaginta, nel rendere la parola ebraica “giovane donna” (almah) con “vergine”, che invece in
ebraico si dice (bethulah), rendendo
in questo modo la profezia contenuta in Isaia, 7, 14 : “Ecco, una vergine concepirà e partorirà un
figlio etc.” E difatti la profezia fu
ripresa nel Vangelo di S. Matteo (1, 23), acquistando così senso messianico
compiuto. Costretto dalle proteste di
alcuni lettori a precisare, egli scrisse in una nota ad hoc della 2a edizione
del suo libro, che l’errore di traduzione viene ormai considerato come
acquisito “dagli studiosi cristiani”, che considererebbero il Vangelo di S.
Matteo un tardo prodotto non si sa di chi ed il passo in questione
un’interpolazione. La traduzione moderna
in inglese ha infatti eliminato “virgin”, sostituendolo con “young woman” (The Selfish Gene, cit., p. 16 e
270). Se invece di affidarsi alle
chimeriche discettazioni dell’esegesi liberal-modernista, predominante nel
Protestantesimo attuale (e non solo), si fosse meglio documentato, scorrendo
per esempio l’esegesi o la dogmatica cattoliche di un tempo, il prof. Dawkins
avrebbe scoperto che, oltre a bhetulah,
anche almah designa più volte nell’Antico Testamento una “vergine”; per esempio in: Gen., 24, 43; Exod., 22, 8; Cant., 6,7; Sal.,
67, 26 (vedi: B. BARTMANN, Précis de
théologie dogmatique (1926), tr. fr. di M. Gautier, Salvator, Mulhouse,
1951, I, pp. 462-463).
[20] Un esempio di queste tecniche di manipolazione
lo si è avuto con la “creazione di una cellula batterica controllata da un
genoma sintetizzato chimicamente”, presentata con gran clamore dai media internazionali
(nel maggio del 2010) come se si fosse realizzata la creazione artificiale
della vita, in laboratorio. In realtà,
come ha precisato la microbiologa, dr.ssa
Alessandra Polissi, si è copiata in laboratorio la sequenza di un genoma
di un batterio già noto e lo si è “introdotto in un altro batterio simile, che
in precedenza era stato privato del suo corredo genetico” (Corr. d. Sera, 9.6.2010, p. 36).
E quest’altro batterio doveva essere ancora vivo, sembra di capire. Elementi creati in laboratorio (ad imitazione
di quelli esistenti in natura) sono stati innestati in una cellula vivente,
opportunamente modificata. Stando così
le cose, non si può certo dire che l’assioma fondamentale della biologia “omne
vivum e vivo” sia stato violato. In
realtà, come precisava nell’occasione il più noto mensile di divulgazione
scientifica, la “biologia sintetica” lavora “modificando organismi esistenti” e
non siamo affatto giunti alla “ri-creazione della vita”, da intendersi nel
senso di “creare la vita da ciò che è inanimato”. La verità è che “i processi di base” che potrebbero
permettere a “componenti inerti e vaganti di riunirsi in cellule viventi,
capaci di moltiplicarsi, restano tuttora sconosciuti alla scienza” (Scientific American, 302 (2010) 6, p.
26).
[22] M. HEIDEGGER, Sein und Zeit , tr. it. cit., p. 299 (§ 21). Inoltre :
“Raum kann erst im Rückgang auf die Welt begriffen werden”(ivi, p. 330,
§ 24). Lo spazio può esser compreso solo
“riconducendolo al mondo” (p. 331), non in sé, come realtà autonoma assoluta ed
indipendente, che rende concretamente possibile l’esistenza fisica del mondo e
dell’universo.
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