Centenario della Grande
Guerra: la Battaglia del Solstizio,
15-23 giugno 1918, canto del cigno della Duplice Monarchia.
Sommario : 1. I presupposti
dell’offensiva austro-ungarica. 2.
L’occasione mancata dagli Imperi Centrali per ottenere una pace in termini
favorevoli. 3. L’offensiva tedesca in
Francia nella primavera-estate del 1918.
4. Gli obiettivi e il piano di battaglia austro-ungarico. 5. La battaglia in sintesi.
In questi giorni, un secolo fa, si svolse sul nostro fronte una grande e
decisiva battaglia per le sorti nostre e, indirettamente, della Prima Guerra
Mondiale: la battaglia del Piave, detta
anche del Solstizio o del Montello o seconda del Piave. Per gli austriaci: la Battaglia del Piave (Piaveschlacht,
tecnicamente: Operazione Radetzky).
1. I presupposti dell’offensiva
austro-ungarica. L’Impero austro-ungarico era ormai alle strette, sempre più in crisi per
il blocco esterno e per le tensioni nazionali interne, i focolai di ribellione,
la grave situazione economica e alimentare, le diserzioni, i sabotaggi, gli
scioperi. Solo l’Imperial-Regio Esercito
(kaiserliche und königliche Armee) teneva ancora, anche se la
produzione delle munizioni era diminuita, il vitto era scarso, mancava persino il panno
per le uniformi. All’inizio del 1918, le
prospettive militari degli Imperi Centrali apparivano piuttosto favorevoli. La Romania era stata eliminata dalla guerra,
la Russia era alla fine crollata, i bolscevichi al potere avevano accettato le
dure condizione di pace tedesche. Gli austro-tedeschi controllavano un’area che
andava dai Paesi baltici al Piave, all’Albania del Nord, alla Bulgaria, alla
Romania, all’Ucraina, alla Crimea con Sebastopoli: un immenso quadrilatero tra
Baltico, Adriatico, Mar Nero, pianure russe, in preda a una spaventosa guerra
civile: territori in gran parte devastati
dalla guerra ma ricchi di capacità agricole e industriali. La stanchezza per lo spaventoso macello era
generale. Non sarebbe stato quello il
momento per una generosa e sincera offerta di pace? Gli Imperi Centrali avevano vinto la guerra
nell’Est europeo e avevano sfiorato una vittoria decisiva contro di noi, con lo sfondamento di
Caporetto (24-29 ottobre 1917). Tale
vittoria mancò, tuttavia, perché sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave, il Regio
Esercito, pur debilitato, resistette bravamente all’assalto finale. Dopo aver perso l’ala sinistra della II armata, triturata tra
le montagne dell’alto Isonzo dalla leggendaria 14a armata austro-tedesca,
composta da 7 sceltissime divisioni tedesche e 7 non meno scelte
austro-ungariche, sotto il comando del generale Otto von Below; costretto alla
ritirata generale dal resto della fronte isontina, dalla Carnia e dal Cadore,
per non esser accerchiato dal nemico che, superato l’Isonzo nella parte alta,
scendeva velocemente verso il mare da quelle stesse montagne per chiuderci in
una gigantesca sacca tra Isonzo e Tagliamento;
ritiratosi senza armamenti pesanti ma sempre combattendo e mantenendo la
coesione tra le truppe di prima linea mentre erano soprattutto le seconde
linee e le foltissime retrovie della II armata (una Grande Unità monstre
di circa 700.000 uomini) a perderla,
mischiandosi caoticamente nella ritirata a centinaia di migliaia di friulani in
fuga, verso la pianura veneta e oltre - il nostro esercito, pur dimezzato,
37-38 divisioni invece di 65, appena due settimane dopo la batosta era
resuscitato sugli Altipiani, sul Grappa e sul Piave, bloccando, su un fronte
assai più ridotto (da 328 km a 140), il forte nemico, logorato dalla rapida avanzata,
che lo aveva privato delle sue artiglierie pesanti, rimaste indietro, ma col morale
alle stelle e comunque deciso a chiudere la partita. La nostra “battaglia d’arresto” sul Grappa e
sul Piave, iniziatasi il 10 novembre, durò, con pochi intervalli, per quasi due
mesi di sanguinosi e feroci combattimenti.
Il suo esito a nostro favore si delineò già nella sua prima fase, quella
novembrina, dal 10 alla fine del mese, forse la più dura.
Se gli austro-tedeschi fossero riusciti a sfondare di nuovo, molto
probabilmente l’Italia avrebbe dovuto uscire dalla guerra, fatto che avrebbe
creato enormi problemi ai nostri alleati, che sarebbero stati costretti a
combattere su due fronti, ossia a schierare numerose divisioni sulle Alpi
francesi e relative retrovie, indebolendo pericolosamente il fronte principale,
contro l’esercito tedesco. Le truppe
americane erano ancora scarse in Francia, avevano in linea una sola divisione.
Inoltre, cosa che non viene mai ricordata, l’esercito francese era in fase di
profonda riorganizzazione e come strumento bellico in quel momento era di efficacia
alquanto dubbia. Dopo il fallimento
delle sanguinose offensive del generale Nivelle, erano scoppiati ammutinamenti
in decine di reggimenti, che si rifiutavano di tornare in linea, a partire
dalla primavera-estate del 1917. Si era imposto un cambiamento di mentalità:
sospensione delle offensive e ampia riorganizzazione, sotto la guida del generale Pétain, il vincitore di Verdun, nuovo comandante in capo[1]. In quella situazione, la tenuta del nostro fronte
fu essenziale anche per le sorti di tutta l’Intesa. Avevamo noi provocato il guaio, subendo la pesante
sconfitta di Caporetto, dovuta in primo luogo alla sorpresa e alle nuove
tattiche del nemico, basate sull’infiltrazione e l’aggiramento, e in secondo
alla cattiva organizzazione difensiva del settore attaccato nonché al cattivo
funzionamento del nostro Comando; ma poi noi stessi ci avevamo messo una
robusta pezza, con l’aiuto di 11 poi ridottesi a 5 divisioni franco-britanniche
dotate di numerosa artiglieria, che avevano costituito una preziosa riserva
strategica, mentre noi fermavamo da soli il nemico potendo impiegare in prima
linea tutte le truppe disponibili (da soli, checché ne dica una vulgata
che ancora si continua scorrettamente a ripetere, dal momento che i nostri
alleati cominciarono ad entrare in prima linea solo il 4 dicembre, dopo che
l’avevamo già stabilizzata con le nostre forze)[2].
Nel giugno del ’18 gli austriaci ci riprovarono. Anche questa volta si trattava di darci il
colpo di grazia. Il quadro generale era ora meno favorevole, per una vittoria
decisiva contro di noi e capace di incidere sull’esito della guerra. Il Regio Esercito aveva rimpiazzato i vuoti. Si
era ampiamente riorganizzato, migliorandosi. L’impiego della sua artiglieria
era ulteriormente progredito, essa sarebbe stata un vero tormento per il
nemico, nell’incipiente battaglia. Era ben armato e nutrito grazie ai crediti e
ai rifornimenti alleati (soprattutto americani) di viveri, materie prime,
materiali. Inoltre, le divisioni americane
in Francia erano ormai una ventina: ognuna di esse, potentemente armata, comprendeva
25.000 uomini, equivalendo a quasi due divisioni degli altri eserciti. I Comandi alleati pensavano tutti che la
guerra sarebbe finita nell’estate del 1919. Nel luglio di quell’anno, secondo i
piani, le divisioni statunitensi sarebbero salite addirittura a cento, da sole
superiori all’intero esercito tedesco[3].
Tuttavia, un nostro crollo avrebbe comunque costretto Foch a togliere di
colpo non poche divisioni dal fronte principale, dove i tedeschi stavano ancora
dando poderose spallate, per schierarle sulle Alpi: una prospettiva estremamente
sgradevole e gravida di pericoli.
2. L’occasione
mancata dagli Imperi Centrali per ottenere una pace in termini favorevoli. Questo dunque lo sfondo dell’offensiva
contro di noi, giudicata oggi dagli storici più perspicaci, come ad esempio
l’autorevole storico militare austriaco prof. Peter Fiala, una autentica
follia, date le condizioni generali dell’Impero e dello stesso esercito. Ad essa erano, in verità, contrari anche non
pochi autorevoli generali austro-ungarici, a cominciare dal prestigioso
maresciallo Boroević
(il barone Svetozar Borojević von Bojna, serbo di Croazia), che ci teneva testa da tre anni, sull’Isonzo
con la sua Isonzoarmee e poi sul Piave come comandante del Gruppo di
Armate del Piave: l’Imperial-Regio Esercito avrebbe dovuto osservare una stretta difensiva
per garantire alla monarchia una pace accettabile, essendo la vittoria ormai
impossibile e la situazione interna grave.
Ma altri la sostenevano, in particolare l’influente e superbo
maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf, quel nostro accanito nemico che avrebbe voluto
farci una guerra preventiva già nel 1908, nonostante fossimo alleati, fissato
con l’idea di sfondare il nostro fronte con un’offensiva dagli Altipiani per cadere
su Vicenza e annientarci da tergo, tentata e fallita da lui già due volte, nel
1916 e nel 1917.
L’ultima battaglia della Duplice Monarchia fu il frutto di pressioni
tedesche però la dirigenza austro-ungarica si lasciò al dunque sedurre
dall’illusione di vincere la guerra, convinta che la Germania ce la potesse
fare e che il Regio Esercito non costituisse un ostacolo degno di questo
nome. Ma l’offensiva fu concepita in
modo palesemente errato, sottovalutando il nemico e disperdendo pertanto le
forze in tre direttrici d’attacco; nonché all’insegna di un certo dilettantismo
da parte dell’imperatore Carlo, giovane ed inesperto. Buon comandante di corpo d’armata (aveva
combattuto contro di noi nel 1916), si dimostrò tuttavia non all’altezza (per
determinazione e visione) come comandante in capo dell’intero Imperial-Regio[4].
Lo stesso Carlo aveva effettuato diversi sondaggi sotterranei per una
pace separata, nel ’16 e nel ’17, che lo avevano messo in cattiva luce presso i
tedeschi e non erano approdati a nulla, non solo per imperizia sua e malafede
altrui, ma anche (e forse soprattutto) per la tenace opposizione tedesca (impersonata
dal rigido ed ottuso annessionismo del generale Erich von Ludendorff, capo
dello Stato Maggiore dell’esercito imperiale tedesco) e di ambienti interni
alla monarchia. L’Austria-Ungheria dipendeva ormai dalla Germania per
importanti rifornimenti alimentari e ne subiva la guida e l’aiuto sul piano
militare generale: il giovane imperatore
non aveva o riteneva di non avere l’autorità per imporre uno sganciamento.
Ma finiti male, bisogna pur dirlo, quei tentativi, anche per il suo
tenace rifiuto a concedere qualcosa all’Italia, mai presa in considerazione né
prima di Caporetto né tantomeno dopo, talmente forte era l’avversione per noi,
“il nostro nemico ereditario”, come ci chiamava. Oltre ai francesi, inglesi e
americani fecero, a loro volta, diversi ed inutili tentativi diplomatici
segreti (in Isvizzera) per indurre l’Asburgo ad una pace separata, rinnovando
la tradizionale politica britannica di conservare la monarchia danubiana (anche
se ridimensionata) quale fattore di equilibrio nel Centro e SudEuropa. Tant’è
vero che Woodrow Wilson, il presidente americano, era entrato in guerra contro
la sola Germania il 2 aprile 1917, dichiarandola anche
all’Austria-Ungheria solamente il 7 dicembre di quell’anno, dopo che il
fronte sul Piave e sul Grappa si era stabilizzato. Ciò non gli impedì di continuare inutilmente
i sondaggi per una pace separata sino alla primavera del ’18, durante i quali,
alla richiesta di cosa fosse disposto a concedere all’Italia ad un ipotetico
tavolo della pace, l’Asburgo rispondeva sempre: “nulla”; al massimo, lo
sgombero del Veneto occupato. Nemmeno il solo Trentino, che forse sarebbe
bastato, agli occhi dei nostri alleati, e anche, a quanto sembra, a quelli
della Santa Sede, la quale, con Benedetto XV, si era attivamente impegnata per
convincere i belligeranti a concrete proposte e trattative di pace[5].
Una dignitosa e nient’affatto disprezzabile pace di compromesso
si sarebbe potuta ottenere, naturalmente solo facendo le inevitabili
concessioni ad Ovest: sgombero e indipendenza del Belgio, restituzione alla
Francia dell’Alsazia-Lorena, Trentino all’Italia oltre allo sgombero del Veneto
occupato, struttura federale dell’impero con riconoscimento di autonomie più o
meno ampie a certe nazionalità. In
compenso, gli austro-tedeschi avrebbero sicuramente avuto mano libera nel vasto
Oriente europeo e in parte nei Balcani.
E la Germania avrebbe potuto conservare, almeno parzialmente, il suo
impero coloniale. Né vi sarebbero state
pesantissime “riparazioni” da pagare. Se nella primavera del ’18 si fosse
giunti alla pace, non sarebbe stato poi difficile allo Stato Maggiore tedesco
schiacciare quella rivoluzione bolscevica che esso stesso aveva
irresponsabilmente contribuito a provocare, lasciando passare per la Germania
Lenin e il suo stato maggiore, nel famoso vagone piombato che dalla Svizzera li
portava in Svezia, da dove sarebbero via Finlandia giunti a Pietrogrado.
3. L’offensiva tedesca in Francia nella primavera-estate del 1918. Ma lo Stato
Maggiore tedesco, che decideva non solo della condotta della guerra ma anche di
quella politica, commise un errore fatale, quello di tentare di
vincere la partita anche a Ovest, prima che la formidabile macchina da guerra
americana si potesse dispiegare in tutta la sua potenza.
Il fronte russo, che non costituiva più una minaccia già dall’autunno
del 1916, assorbiva ancora 91 divisioni tedesche, non tutte di prima linea. “Le
prime quattro di queste, affluirono nelle retrovie della linea in Francia il 17
ottobre 1917 [una settimana prima dell’attacco a Caporetto e venti giorni prima
del colpo di Stato bolscevico]. Per
tutto l’inverno il movimento est-ovest continuò, tanto che, nel marzo
successivo, sul fronte romeno-russo non erano rimaste che settanta Grandi
Unità, delle quali diciotto austriache, una turca ed una bulgara. In compenso i tedeschi, ad ovest, ora
allineavano 181 divisioni, salite a 195 il mese successivo. L’Intesa ne oppone, in marzo 177, in aprile
188 [grazie agli americani]: hanno una
leggera inferiorità in cannoni (16.400 contro 15.700 tedeschi), ed una piccola
cresta in effettivi, nonostante il minor numero di divisioni. A tutti gli effetti si può considerare che il
grande sforzo tedesco abbia condotto ad una parità assoluta”[6].
Ultimati i preparativi, “i tedeschi scatenarono in Francia cinque grandi
offensive, cinque titanici colpi di maglio, in marzo, aprile, maggio, giugno e
luglio, rispettivamente sui fronti di Piccardia, di Fiandra, di Soissons, di
Noyon e di Reims, con una netta preferenza per le armate inglesi o per la
giunzione tra queste e quelle francesi, secondo uno schema classico, che verrà
ripetuto, e con eccellenti risultati, anche nel 1940. Sotto i colpi di clava,
l’Intesa barcolla…”[7].
Il dramma inizia il 21 aprile.
“Tra apocalittiche nuvole di gas asfissianti ed il ruggito di cinquemila
cannoni, tre Armate tedesche passano all’attacco nel punto di giunzione tra
inglesi e francesi, all’incirca tra Arras e la Fère. L’urto sbilancia l’intera
V Armata britannica e coinvolge parte della III: camminando sul ventre di ventidue divisioni
distrutte, che hanno perso in 24 ore più di centomila uomini, i tedeschi
marciano per cinque giorni in direzione di Amiens, e riescono a separare
l’Esercito britannico e francese in due tronconi. Pétain butta nella fornace tutto quello che
può, cioè quarantacinque divisioni della riserva generale e riesce a fermare
Ludendorff per un capello”[8]. Fermatosi il 4 aprile, Ludendorff attacca di
nuovo il 9, il 17, il 25 e il 29 aprile, senza però ottenere lo sfondamento
decisivo. Ha perso quasi 350.000 uomini, i soli inglesi 300.000.
“La molla tedesca, sostenuta da sessanta divisioni, riparte il 27
maggio, dopo un brevissimo bombardamento:
la massa di rottura spezza il fronte, dilaga lungo la strada
Soissons-Laon, supera di slancio la Vesle, giunge a sessanta chilometri da
Parigi. Pétain contrattacca e con grande fatica riesce di nuovo a fermare il
nemico il 14 giugno”[9].
Gli Alleati si sentono sull’orlo del precipizio ma nel frattempo
Ludendorff sta consumando le sue riserve a ritmo vertiginoso, tanto che a fine
luglio, dopo altre tre offensive, tutte contenute, si troverà in pratica senza
riserve e dovrà cominciare a subire i contrattacchi dell’Intesa, sostenuta
dalle forze fresche americane.
4. Gli obiettivi e il piano di
battaglia austro-ungarico. Il momento che il Comando austriaco sceglie
per partecipare a sua volta all’offensiva, d’accordo con i tedeschi, che
avevano spinto in tal senso, cade nel mese di giugno. L’obiettivo, ricorda
sempre Bandini, “è il più ampio che un’operazione militare comporti, la distruzione
sul campo dell’esercito nemico, la resa totale.
Con ogni minuzia viene montata “l’operazione Radetzky”, il cui solo nome
deve ricordare agli italiani la durezza e il pericolo di un uomo micidiale. La posta austriaca viene affrancata con
francobolli sui quali si vede un erculeo guerriero seminudo che abbatte a colpi
di clava un gatto, che poi siamo noi, l’Italia.
Sulle nostre truppe piovono manifestini di intonazioni apocalittica ma
sottilmente subdoli: mille corone a chi
porterà, arrendendosi, una mitragliatrice funzionante, cinquemila per chi
consegnerà un cannone, diecimila per un aeroplano. Carlo I fa coniare la sua medaglia ricordo
per l’ingresso a Venezia, Conrad quella per Milano: la vecchia monarchia austro-ungarica intuisce
che tutto sta crollando, attorno, e che il giorno della fine è vicino. Ma alle tavole dell’esercito imperiale si
brinda al successo di questa “ultima carica”, e poi avvenga quel che deve: le truppe sono stanche, indifferenti, dilacerate
da mille contrasti. Ma su un punto sono
ferocemente concordi: nello spezzare la
schiena al gatto italiano”[10].
“Per l’offensiva, l’imperatore Carlo aveva radunato sotto le sue
bandiere il più alto numero di divisioni che mai il fronte italiano avesse
visto sino allora: 57 grandi unità, ripartite in quattro armate ed una riserva
generale. Gli obiettivi erano stati
fissati con chiarezza, anche se con la consueta, pericolosa incertezza su quale
dovesse essere l’attacco principale: dalla zona montana un forte gruppo di
divisioni avrebbe dovuto scardinare la cerniera del Grappa agli ordini del
nostro vecchio nemico, il Conrad. E da
quella di Valdobbiadene-Susegana una seconda massa, quella del Boroević, avrebbe puntato sul
Montello [alture fortificate sulla riva destra del medio Piave] per dilagare su Castelfranco e
Padova. Il concetto ispiratore del
Comando nemico era quello di attaccare praticamente dappertutto: ogni settore italiano avrebbe “pompato”riserve,
finché non ve ne fossero più a disposizione.
Allora uno sfondamento locale, dovunque fosse avvenuto, avrebbe avuto
per risultato il crollo del fronte, poiché attraverso esso le riserve avrebbero
potuto dilagare alle sue spalle. Il piano era poco elegante, perché si basava,
in fondo, sul vecchio e usurato concetto del logoramento, sia pure limitato al
tempo di una grande battaglia: ma aveva
anche lo svantaggio di basarsi su una sopravvalutazione delle proprie
forze. Per quanto le truppe fossero
state puntigliosamente allenate alle lunghe marce, alla azione rapida e basata
sulle piccole unità [ben armate, per infiltrarsi, come a Caporetto] e per
quanto lo scontro fosse visto in funzione di uno spaventevole bombardamento
iniziale anche a gas, stava di fatto che la linea italiana, quanto a forze, era
all’incirca pari a quella austriaca: 56 divisioni contro 57. Anche a tener conto delle unità meno
impiegabili, come le divisioni di cavalleria e quelle in formazione, non ne
avremmo schierate mai meno di 51 o 52, appoggiate ad una linea sufficientemente
forte e che aveva avuto più di sette mesi di tempo per munirsi e
studiarsi. Poteva verificarsi il caso
che il maggior consumo di forze richiesto dall’attacco, portasse sì ad uno
sfondamento [locale], ma quando non ci sarebbero più state riserve per
sfruttarlo. Successe esattamente questo
[sul Piave, in particolare sul Montello]”[11].
Gli austro-ungarici avevano raschiato il fondo del barile, come si suol
dire. Si vide poi che, con la consueta superbia, ci avevano ampiamente sottovalutati,
convinti molti di loro di ripetere una Caporetto in grande stile. E si vide che la loro artiglieria non aveva munizioni
sufficienti per alimentare una grande battaglia che si prolungasse nel tempo mentre
l’impiego dei gas si rivelò fallimentare, a causa del carattere difettoso dei
proiettili[12]. La battaglia,
relativamente breve, fu tuttavia tremenda perché quel glorioso esercito
si gettò su di noi con il valore ma anche con l’odio e l’avversione di sempre,
un’ostilità che possiamo dire durasse da cinque secoli: dalle Guerre d’Italia, quando gli
Asburgo di Spagna e d’Austria avevano conquistato parte notevole della sempre
divisa Italia, rendendosi succube il resto, tranne la Repubblica di Venezia,
che resistè bravamente agli Asburgo d’Austria, in quelle stesse terre dove
stava ora resistendo tenacemente il Regno d’Italia.
5. La battaglia in sintesi. La battaglia si
iniziò sotto cattivi auspici per i nostri nemici. Un’importante azione diversiva sul Tonale, il
12 e il 13 giugno si risolse in un insuccesso perché i guadagni furono
insignificanti. Il 10 giugno il MAS del comandante Rizzo, presso l’isola di
Premuda, affondò con il siluro una corazzata austriaca, la nuovissima Santo
Stefano, di 21.500 tonnellate, che stava dirigendosi con l’intera flotta a
bombardare lo sbarramento del Canale d’Otranto e a provocare l’uscita in mare
della flotta alleata per attaccarla, causando l’annullamento dell’operazione.
Alle tre di notte del 15 giugno, l’Imperial-Regio iniziava il bombardamento
dall’Astico al mare, cioè su tutto il fronte. In diversi settori ci fu la replica
immediata della numerosa e ben provvista artiglieria italiana, micidiale sugli
Altipiani, tanto da scompaginare in diversi punti il dispositivo d’attacco del
nemico. Qui Conrad tentava per la terza
volta in tre anni di sfondare per prendere da tergo il nostro fronte sul Piave.
“Verso le nove [del mattino] si sferrava l’attacco nemico: sull’Altopiano di Asiago si trovavano
7 divisioni contro 9 austriache. Alla
sinistra e al centro, ove erano Inglesi e Francesi, l’offensiva procedé fino
alla linea di resistenza ad oltranza, ma già nel pomeriggio vigorosi
contrattacchi avevano ristabilito la situazione; alla destra la penetrazione fu
più accentuata; gli Italiani perdevano di nuovo il Valbella, Col del Rosso e
Col d’Echele, e gli Austriaci intaccano la retrostante linea, conquistando Cima
Echar e Busa del Termine; ne erano cacciati da furiosi contrattacchi, ma si
mantenevano sui “tre monti”[riconquistati in un secondo tempo dagli
italiani]. Resistevano invece
tenacemente gli sbarramenti di Val Frenzela e Val Brenta”[13]. La lezione di Caporetto era stata appresa: i
fondovalle mal difesi, nei quali si erano lanciate le truppe d’assalto nemiche,
furono questa volta ben muniti. Inoltre,
il Regio Esercito aveva finalmente messo in opera una difesa elastica, su più
linee di resistenza. L’offensiva del borioso Conrad si arenò sin dal primo giorno.
Diverso l’andamento sul Grappa, dove fummo costretti sull’ultima
linea di difesa.
“Sul Grappa l’attacco austriaco otteneva sulle prime notevoli risultati:
alla sinistra gl’Italiani perdevano il Col del Miglio, posizione avanzata,
quindi Col Moschin, Col Fenilon e Col Fagheron, caposaldi della linea di
resistenza, ed era minacciato il Col Raniero penultimo caposaldo della
marginale e appoggio d’ala della linea di massima [ultima] resistenza; e
questo, mentre al centro il famoso saliente era intaccato sul fianco colla
perdita di terreno sul Pertica e del Monte Coston, e al vertice con quella dei
Solaroli. Per di più le troppo scarse
riserve della 4a armata [che presidiava il Grappa] erano già esaurite,
e quelle del Comando supremo non abbastanza a portata di mano. Per fortuna il nemico difettava anch’egli di
riserve; la sua azione sul Grappa era complementare, e non sfruttò il
successo. Le schiere nemiche si
trovarono sotto un tremendo fuoco d’artiglieria, specialmente sulla linea
marginale presa d’infilata dalla base del saliente, cosí che l’attacco contro
il Tomba non era neppure sferrato. E
allora la situazione mutava: truppe
d’assalto riprendevano nel pomeriggio Col Fagheron e Col Fenilon, e il mattino
successivo anche Col Moschin. Al centro
erano pure riprese varie posizioni, sebbene non quelle del Pertica né i
Solaroli”[14].
In realtà la situazione sul
Grappa si era fatta piuttosto critica per noi. Fummo salvati dagli Arditi,
le “truppe d’assalto” italiane, risposta a quelle tedesche e austro-ungariche. Si trattò del IX reparto d’Assalto, seicento
uomini comandati dal maggiore Giovanni Messe, nella II guerra mondiale
sicuramente il miglior generale
italiano. Nel tardo pomeriggio del 15
giugno ripresero il Fagheron e con un successivo attacco notturno di sorpresa,
complice la nebbia, anche il Fenilon, catturando un centinaio di prigionieri,
quattro mitragliatrici e sette ufficiali.
Subito dopo ricevettero l’ordine di riprendere il Col Moschin, posizione
chiave di tutta la difesa. Con l’aiuto
del del 92° battaglione di fanteria, alle 6.30 del mattino si lanciarono all’attacco
incalzati per errore dal fuoco della propria artiglieria, che stava iniziando a
bombardare gli ungheresi trinceratisi nel colle appena conquistato. Con eccezionale sangue freddo Messe continuò
l’attacco, mantenendosi nel fuoco dell’artiglieria.
“Quando l’artiglieria allunga il tiro, le Fiamme Nere sono già sulle
posizioni austriache e le inondano di petardi Thévenot [che intontivano]. Gli ungheresi escono storditi dai rifugi e si
trovano addosso gli assaltatori, senza riuscire ad improvvisare una
reazione. In poco più di dieci minuti
vengon catturati 422 soldati, 25 ufficiali e 17 mitragliatrici”[15].
Anche sul Grappa, dunque,
l’attacco nemico, “secondario”, ma in realtà sempre poderoso, condotto con
l’idea di ottenere uno sfondamento decisivo, venne bloccato in due giorni. La “vera crisi”doveva manifestarsi sul Piave,
dove i nostri Comandi, per varie ragioni, non si aspettavano l’attacco principale.
“Ad onta del fiume gonfio, il ferreo generale Luigi Goiginger varcava il
fiume e penetrava profondamente nel Montello, facendo 10.000 prigionieri;
mentre sul medio Piave gli Austriaci passavano per largo tratto il fiume avendo
come direttrice Treviso, e sul basso Piave, a San Donà, costituivano una testa
di ponte che raggiungeva la profondità massima di sei km! Ma il netto arresto dell’offensiva sui monti,
con perdite gravissime per l’assalitore, faceva sì che il Comando supremo
italiano volgesse le sue numerose riserve dal lato del Piave. E questo mentre le riserve del Comando
supremo austriaco erano scarse e per di più in due gruppi separati, al monte e
al piano; così che le prime, mandate a rafforzare il Boroevič, non sarebbero giunte
in tempo”. Il Comando italiano inviò un
corpo d’armata (due divisioni) alla base del Grappa e tre divisioni verso il
Montello, dove la minaccia dello sfondamento era reale, a cui aggiunse altre
due all’8a armata e una alla 3a, cioè alle nostre due
armate schierate sul Piave.
“Per fortuna nostra il Boroevič dopo aver concesso, sul Montello, al generale Goiginger una divisione
delle sue 4 di riserva, ne negava una seconda! Ad onta di tutta questo la
situazione nei giorni 16 e 17 rimaneva molto grave sul Montello, tanto che il
generale Giardino vedeva molto minacciata alle spalle la sua armata [la 4a,
che difendeva il Grappa]; e anche sul Piave, attraverso combattimenti di
particolare violenza, il nemico continuava a progredire e raccordava le due
teste di ponte di Musile e di Fagaré. Ma
l’offensiva nemica era troppo scarsamente alimentata. Il passaggio attraverso
il fiume, divenuto sempre più gonfio, si faceva particolarmente difficile, ché
i ponti erano implacabilmente battuti dall’artiglieria e dall’aviazione, e
d’altra parte le truppe, ammassate in uno spazio ristretto col fiume alle
spalle, si trovavano in condizioni sempre peggiori, sotto il tormento
dell’artiglieria e dell’aviazione nostra, affamate, a corto di munizioni,
mentre i morti e i feriti aumentavano continuamente accrescendo l’orrore della
situazione. Del resto, una vera rottura
non c’era stata né sul Montello né sul Basso Piave; e ora il Comando supremo
italiano, contenuto il nemico, pensava alla controffensiva, cominciando dal Montello,
dove inviava tre nuove divisioni.
Sperava di poter quivi tagliar fuori le forze nemiche, ma queste
resistevano il 19 e il 20 tenacemente, disputando il terreno palmo a palmo;
tuttavia la loro situazione diveniva sempre piú critica, ché la piena del fiume
aumentava! Ormai la partita per gli
Austriaci era perduta anche sul Piave:
il loro Comando supremo il 21 ordinava la ritirata, che tra il 22 e il
23 avveniva con molto ordine; solo sul Montello erano rimasti 6000 prigionieri”[16].
Le perdite italiane nella battaglia furono di 8000 morti, 29.000 feriti
e 45.000 prigionieri; quelle austro-ungariche di 11.600 morti, 81.000 feriti,
25.000 prigionieri[17].
Il riattraversamento austriaco del Piave
avvenne prevalentemente di notte e fu condotto in modo esemplare. I nostri generali, a quanto sembra, non si
accorsero di nulla. Diaz, nostro
comandante in capo, fu criticato per non ver subito inseguito ed attaccato il
nemico al di là del fiume, infliggendogli una completa disfatta. Ma hanno sicuramente ragione coloro che
approvano la prudenza qui dimostrata da Diaz.
L’esercito italiano non era addestrato ad una guerra di movimento, quale
si sarebbe dovuta fare, attaccando subito il nemico in ritirata. L’esercito si era ben ripreso, anche nel
morale, dalla batosta di Caporetto.
Tuttavia deve far riflettere l’alto numero di prigionieri fatto dagli
austriaci. Sul Montello il comando non
fu inizialmente all’altezza e si fece sorprendere. Più giusto, forse, criticare
i nostri generali per non essersi accorti che il nemico stava ripassando in
fretta il fiume: in questa fase delicata non si sarebbe potuto tentare di infliggergli
un duro colpo?
Comunque, come notarono tutti, “la gravità della sconfitta non doveva
misurarsi dalle perdite! L’obiettivo
strategico era mancato e con ciò in misura anche maggiore lo scopo politico che
aveva determinato la grande offensiva! I
dirigenti della monarchia avevano ancora sperato di poter con essa afferrare la
tavola della salvezza e risolvere la sempre piú grave crisi interna: dopo il fallimento clamoroso del grande
sforzo la partita era perduta; non restava che cercare di guadagnar tempo,
giungere alla primavera del ’19 per ottenere una pace il meno possibile
gravosa…La vittoria italiana aveva un’eco clamorosa all’interno e
all’estero…All’estero, specie in Inghilterra, si era larghi di elogi e di riconoscimenti…”[18]. L’ombra sinistra di Caporetto sembrava dunque
esorcizzata.
Si continuò a combattere sino ai primi di luglio con azioni “di
rettifica”, che ci permisero di
riconquistare i c.d. “Tre Monti” sugli Altipiani e di espellere il nemico
dall’ansa che aveva conquistato sulla riva destra, alla foce del Piave, nel
novembre del 1917 e mantenuto sin allora.
Come contributo nostro diretto alla battaglia gigantesca che si stava
svolgendo sul fronte francese, demmo quello del nostro II corpo d’armata, del
generale Albricci, più di 40.000 uomini, che si comportarono molto bene durante
la seconda battaglia della Marna (15-26 luglio), lasciando in Francia ben 4375
caduti, quasi il triplo dei morti francesi a Solferino nel 1859[19].
Paolo Pasqualucci
Sabato 23 giugno 2018
[1] Gli ammutinamenti furono tenuti
segreti, se ne seppe in dettaglio solo parecchi anni dopo, nel 1965. Era una a ben vedere più che comprensibile
protesta contro una guerra condotta in quel modo, con assalti frontali
sanguinosi che non portavano ad alcun risultato. Non ci furono uccisioni di ufficiali, la
protesta non mostrò (per il momento) intenti rivoluzionari, come in
Russia. Le condanne leggere furono 1495,
quelle gravi 1383 (da cinque anni all’ergastolo), quelle a morte 554, delle
quali solo 49 eseguite. Sul punto: Mario
Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra. 1914-1918, il Mulino, 2008,
pp. 367-372. La repressione fu il più
possibile moderata e badò soprattutto a ricostruire il morale dei soldati,
sotto l’abile regia del generale Pétain, nominato maresciallo nel dicembre del 1918: egli migliorò il trattamento della
truppa, soppresse le inutili azioni locali e mise tutto l’esercito sulla
difensiva.
[2]
Poiché si continua ancor oggi
a ritenere scorrettamente irrilevante, se non peggio, il contributo italiano
alla vittoria dell’Intesa, è doveroso ribadire l’importanza non solo locale del
mantenimento del nostro fronte, in particolare nella situazione creatasi nell’autunno
del 1917. “Il fatto che la guerra era stata vinta solo
perché nel 1917 il fronte italiano non aveva ceduto mentre tutta l’Europa
orientale era invasa dalle truppe tedesche e le divisioni francesi si
ribellavano in armi, non sfiorava il pensiero del presidente degli Stati Uniti
[Wilson, a noi sempre ostile, nelle discussioni sul Trattato di Pace]. Quanto agli altri, inglesi e francesi, cercavano
proprio di cancellare questo episodio che è ben presente nelle memorie del
generale Foch [francese, coordinatore di tutti gli eserciti alleati] il quale
più degli altri si era reso conto del disastro che sarebbe subentrato a un cedimento
del fronte italiano. Foch conosceva bene
la debolezza dell’esercito francese in gran parte composto da truppe coloniali
sulle quali si poteva fare poco affidamento e conosceva anche le condizioni
psicologiche e politiche delle truppe dopo tre anni di guerra massacrante,
nella quale i migliori e più coraggiosi erano caduti. Sapeva che il fronte delle Alpi Marittime e
Occidentali era un fronte difficilmente superabile ma che bisognava spostare
lì, per tenerlo, truppe che la Francia non aveva più”(Giacomo Properzj, Breve
storia di Caporetto, Mursia, Milano, 2017, pp. 86-87).
[3] Franco Bandini, Il Piave
mormorava. Longanesi, Milano, 1965, p. 231.
[4]
Per le critiche a Carlo in quanto comandante in capo, cfr.: Peter Fiala, 1918.
Il Piave. L’ultima offensiva della Duplice Monarchia, a cura di
Giulio Primicerj, con annessa Relazione Ufficiale Austriaca, Arcana
Editrice, Milano, 1982, pp. 69-76. Il
titolo originale è: L’ultima offensiva della vecchia Austria. Soprattutto a causa del carattere
influenzabile dell’imperatore, circondato da adulatori, che non consentì al
Comando Supremo di lavorare con la necessaria professionalità, si giunse alla fine “a far accettare
contemporaneamente i due opposti pareri sull’asse di gravitazione [sui monti e
sul Piave] dello sforzo nel corso dell’offensiva e di disperdere ulteriormente
le forze per svolgere tutta una serie di attacchi secondari. Ogni comandante ebbe così la possibilità di
condurre “la propria offensiva”. Il
risultato fu a dir poco mostruoso. Il
piano definitivo venne elaborato fra continue trattative, ricerche di
compromessi, assicurazioni reciproche e ripetuti tentativi di placare gli animi
dei comandanti maggiormente interessati”(op. cit., p. 76).
[5]
Per un quadro, anche se
parziale, di queste trattative, vedi:
Leo Valiani, Documenti tedeschi ed inglesi sui tentativi di pace fra
l’Intesa e l’Austria-Ungheria, in ‘Rivista Storica Italiana’, LXXX, fasc.
III, ESI, Napoli, 1968, pp. 670-680.
[6] Bandini, op. cit., pp. 232-233.
[7] Op. cit., p. 233.
[8] Op. cit., pp. 233-234. Le cifre delle perdite sono globali, nel
senso che includono morti, feriti e dispersi, senza distinguere.
[9] Op. cit., pp. 234-235.
[10]
Op. cit., pp. 235-236. Per le affamate scolte austro-ungariche c’era
anche il forte desiderio di conquistare la ricca pianura padana e i ben forniti
magazzini del Regio Esercito, come era successo dopo lo sfondamento di
Caporetto.
[11] Op. cit., pp. 239-240.
[12] Relazione
Ufficiale Austriaca, in Fiala, op. cit., pp. 241-242.
[13] Piero Pieri, L’Italia nella Prima
Guerra Mondiale, Einaudi, Torino, 1965, pp. 182-183.
[14] Op. cit., p. 183.
[15]
Andrea Augello, Arditi
contro. I primi anni di piombo a
Roma: 1919-1923, Prefazione di
Gianluca Di Feo, Mursia, Milano, 2017, pp. 13; 18-19. Le perdite degli Arditi in quei due giorni furono: 2 ufficiali e 5 soldati caduti, 80 feriti,
nessun disperso.
[16] Pieri, op. cit., pp. 183-185.
[17] Op. cit., p. 185. Vedi anche Relazione Ufficiale Austriaca,
in Fiala, op. cit., p. 349.
[18] Op. cit., pp. 185-186.
[19] Pieri, op. cit., p. 186.