Sulla
definizione dell’Uno
Nota previa. Mi sono occupato in passato del concetto dell’Uno in quanto
problema filosofico tornato di attualità a causa del prevalere, nella nostra
cultura, degli immanentismi e dei panteismi a sfondo esistenzialistico: di una visione “monistica” della realtà,
completamente chiusa alla trascendenza, che mira a dissolvere l’uomo,
l’individuo concreto, nel Tutto inteso come l’Uno cosmico increato ed
eterno. Di contro a questa impostazione,
che si alimenta dell’immanentismo della “nuova immagine del mondo” propugnata
dai Fisici, ed è penetrata anche nella teologia e nella prassi liturgica
cattolica, propongo una definizione dell’Uno che ne riaffermi la assoluta
trascendenza nei confronti della realtà, facendo vedere come tale definizione contenga un
concetto dell’Uno che si può applicare soltanto all’essere di Dio e in modo
tale da risultare perfettamente compatibile con la Rivelazione di Dio nella
divina Monotriade.
Il
presente testo è quello di una “memoria” da me presentata sinteticamente alla
‘Accademia Pontaniana” in Napoli, nell’ormai lontano 1993. Il testo è stato da me appositamente riveduto
e ampliato con l’aggiunta del § 1.1 e
con due paragrafi finali (il 5
e il 6) più corposi. Sul
medesimo tema ho pubblicato, sempre in quegli anni, un saggio che riprendeva,
approfondiva e ampliava gli spunti presenti nella memoria pontaniana: P.
Pasqualucci, “Introduzione alla metafisica dell’Uno”, con Prefazione di Antimo
Negri, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1996, pp. 151. Il lavoro era diviso in
tre parti: Metafisica del Tutto; Metafisica della Parte; Analitica delle Parti
in nuce.
Ripropongo
dunque questo mio testo nella versione ampliata, convinto come sono che il
problema filosofico del vero significato e della vera natura dell’Uno sia
sempre attuale e meriti di esser nuovamente discusso.
* * *
ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ ἕν
ἐσμεν (Ioan., 10,30)
ἐσμεν (Ioan., 10,30)
1.
Se il Tutto è l’Uno. Concetto
tradizionale della metafisica è che il Cosmo, inteso come il Tutto, sia l’Uno perché, nonostante risulti di parti, né
può espandersi né può esser diviso, nello spazio e nel tempo. Infatti, se fosse
diviso nello spazio, il tutto e la grandezza da cui è diviso, sarebbero
contemporaneamente: allora il tutto esisterebbe accanto ad una grandezza minore
o maggiore od uguale e sarebbe parte, uguale o maggiore o minore, del tutto
formato da esso stesso e dalla grandezza dalla quale è diviso. Ma ciò è assurdo
perché il tutto non può essere parte del tutto.
Se
il tutto fosse diviso nel tempo bisognerebbe ammettere una realtà anteriore al
tutto, che era quando il tutto non era. Allora il tutto verrebbe da ciò che gli
è anteriore ed avrebbe avuto un’origine da qualcosa che non è il tutto perché è
ciò che è da esso diviso, venendo prima nel tempo. Ma anche questo è assurdo,
se il tutto costituisce il tutto, se è cioè la realtà con tutte le sue parti e
in tutta la sua estensione e durata, nello spazio e nel tempo. Se fosse diviso
nel tempo, bisognerebbe ammettere per il tutto un prima e un dopo e quindi un
tempo in cui il tutto stesso non era. Ma se il tutto non è per tutto il tempo,
allora non è più il Tutto, perché gli mancherebbe la parte di realtà che era
quando il tutto non era.
La
realtà non può come tale esser divisa. Diciamo infatti di dividere ciò che è nel
tutto ma non il tutto in quanto tale, poiché la durata e l’estensione
non sono divise in sé stesse né reciprocamente ma solo divisibili all’infinito.
Ma ciò che è divisibile senza per questo separarsi, dividersi effettivamente
(dividendo lo spazio abbiamo sempre lo spazio e dividendo il tempo sempre il
tempo né possiamo separare l’uno dall’altro) rimane ciò che è, senza mutarsi
mai nel suo opposto, nel non-essere del tempo e dello spazio. Se il tutto non
viene mai ad esser separato e diviso in sé stesso (pur essendo divisibile),
costituisce allora un’unità: l’indiviso non può che essere unitario in
sé stesso e il tutto è sempre l’essere perché dividendolo mediante
misurazione e separazione delle sue parti si procede all’infinito senza mai
giungere al nulla.
Ma
il tutto non può nemmeno accrescersi, in quanto tutto. Infatti, se aumentasse
in estensione, espandendosi come tutto, verrebbe ad occupare uno spazio in cui
esso stesso (il tutto) non era. Ma ciò significa che il tutto non era il tutto,
se accanto ad esso esisteva uno spazio da esso non occupato, che non era parte
del tutto (e nel quale il tutto ora si espande). Del resto, se si crede che il
tutto si espande, bisogna necessariamente ammettere l’esistenza (contemporanea
a quella del tutto) di uno spazio vuoto in cui il tutto possa espandersi,
poiché l’accrescersi e l’espandersi risultano da movimenti che per aver luogo
hanno bisogno di uno spazio. A meno che non si voglia sostenere che il corpo in
movimento crei il suo stesso spazio mentre si muove: ma questo è inconcepibile
perché, senza uno spazio preesistente, che quindi non sia esso stesso
movimento, come potrebbe aver luogo il movimento? In ogni caso, se il moto
non fosse concepibile come traiettoria di un corpo o di un quanto elementare di
energia nello spazio ma solo come il variare e quindi il diminuire o
l’accrescersi della densità di un’onda elettromagnetica, si dovrà pur sempre
ammettere che ciò che diminuisce o si accresce, quale che sia la sua dimensione
e densità, non è lo spazio ma qualcosa che è nello spazio: la supposta increspatura
di materia-energia che nello spazio trascorre, lascia subito il posto ad
una successiva, nello stesso spazio, che evidentemente non si è mosso,
così come – per restare nell’analogia – resta immobile il mare nel suo spazio
pur nell’incresparsi successivo delle sue onde.
Bisognerebbe
inoltre ammettere che, se lo spazio fosse creato dal corpo nel suo moto,
cessato il moto verrebbe meno anche lo spazio creato (cioè percorso), per cui
tra l’inizio e la fine del moto di un corpo ci sarebbe il nulla: infatti,
annichilendosi lo spazio stesso man mano che viene percorso, cosa resterebbe
alla fine se non il nulla? Ma anche questa conclusione, pur necessaria rispetto
alle premesse, è del tutto assurda perché lo spazio, sia quello percorso che da
percorrere, è una realtà fisica e quindi non può essere il nulla.
Poiché
dunque non possiamo ammettere che il tutto, nel suo supposto movimento, crei lo
spazio in cui si espande, dobbiamo dire che lo spazio in cui tale espandersi
avrebbe luogo deve concepirsi come contemporaneo al tutto, ossia contemporaeo a
questo tutto che deve ancora espandersi in esso. Ma se lo spazio in cui il
tutto ancora non è, è contemporaneamente al tutto, allora il tutto è separato
da questo spazio e pertanto diviso tra se stesso e lo spazio non ancora
occupato: e se è spazialmente diviso non è il tutto (come si è detto). Se il
tutto è veramente tale, non può dunque esservi alcuna realtà esteriore che non
sia ricompresa in esso, che non faccia parte del tutto. Ergo, il Tutto non ha
al di fuori di sé una realtà esteriore in cui possa espandersi come tutto e chi
afferma che l’universo, in quanto coincida con il tutto, «è in espansione»,
attribuisce al tutto un movimento che
può essere solo delle sue parti; movimento che non è del tutto ma nel
tutto, senza far muovere il tutto in quanto tale al di fuori di sé. Dovremmo
altrimenti affermare, come ulteriore, singolare conseguenza di questa dottrina,
che lo spazio si muove e si accresce allo stesso modo di ciò che è nello
spazio, come se lo spazio fosse un ente determinato, una c o s a , annullandosi la distinzione fra lo
spazio e ciò che è in esso, tra l’estensione priva di forma e l’ente o il corpo
che con la sua forma determinata la occupa. Del resto, perché diciamo che il
tutto «si espande»? Perché si ritiene aumentino le distanze fra le sue parti,
cioè tra gli enti che sono nel tutto, secondo una certa proporzione. Ma ciò in
nessun modo dimostra che sia il tutto stesso ad espandersi, dal momento che
l’aumento della distanza tra gli enti, non essendo essi corpi naturali
immobili, è provocato dal loro stesso moto. (L’espansione del tutto, se del
tutto in sé e non di una sua parte, dovrebbe poi aver luogo contemporaneamente
nella totalità del tutto, ossia dell’universo inteso come un tutto, rendendo
così problematica la percezione dell’espandersi stesso).
1.1 Se il Tutto è
sferoidale, come concepire il moto? L’odierna
Fisica, al pari di quella aristotelica e cartesiana, identifica spazio e
materia-energia, ossia, contro Newton, nega l’esistenza del v u o t o . Ma vuole anche conferire allo spazio in
quanto tale una f o r m a , quella della
sfera: increato sarebbe il Tutto
spaziale del cosmo ma finito perché coincidente con la curvatura illimitata
ma finita che gli sterminati campi cosmici dell’energia farebbero
assumere allo spazio, non distinguendosi da esso (“compiuto da ogni parte,
simile a massa di ben rotonda sfera”). Ogni moto nello spazio da parte dell’energia
ma anche dei corpi celesti sarebbe in realtà il risultato di una deformazione
ossia di una redistribuzione della curvatura dello spazio, una sua
“increspatura”, come dicono. Parliamo di
moto e non di forza ovvero di forza di gravità, la cui azione non
sembra potersi spiegare con le “increspature”dello spazio curvo.
Ma allora, il moto in generale, non dovrebbe concepirsi secondo la
figura dell’onda di energia che, invece di propagarsi nello spazio è lo spazio
stesso che si deforma nell’alternarsi dei suoi campi gravitazionali ed
elettromagnetici? Se questo è vero, vale
ancora la legge fisica secondo la quale la luce si propaga nel vuoto con moto
rettilineo uniforme? Come potrebbe
ancora valere? Il moto di quell’energia
che chiamiamo l u c e dovrebbe anch’esso seguire la dinamica
deformante dell’onda, propagarsi in infinite “increspature” d e l l o
spazio. Ma l’esperienza ci dimostra
che i raggi del sole investono in linea retta i pianeti del sistema solare e i
loro satelliti; che il punto luminoso corrispondente ad una stella da noi ben
lontana, scorto a fianco del sole a causa del gravitational lensing provocato
dai campi gravitazionali del sole, i quali arcuano la traiettoria altrimenti in
linea retta di quella stessa luce, facendocela apparire appunto a fianco del
sole – la luce di q u e l punto, dal sole a noi giunge sempre in
linea retta.
Se, come mostrano anche altre esperienze, la luce si propaga
sempre in linea retta in uno spazio che sarebbe invece caratterizzato da una
curvatura costante dell’energia che lo costituisce, ciò significa allora che lo
spazio in sé , in quanto pura, tridimensionale estensione, ha la proprietà
fisica di permettere sia il moto rettilineo uniforme che quello curvilineo,
asimmetrico provocato dai campi gravitazionali; lo spazio contiene entrambi,
dimostrandosi, nella sua natura fisica, indipendente da entrambi, come solo il
v u o t o può essere.
Né appare il Tutto, ossia lo spazio cosmico come tale,
rinchiudibile in una forma determinata. Ogni forma è per definizione finita,
realizzando essa in modo compiuto la determinazione dell’ e n t e del quale è
la forma, quale esso sia. Non esiste una
forma infinita. Rapportato allo spazio e
quindi al Tutto del Cosmo in quanto spazio, lo sferoide non può coincidere con
tutto lo spazio e quindi con il Tutto in quanto tale. Infatti, da ogni punto di una sfera possiamo
sempre condurre una linea che si incontra ad angolo retto con un’uguale retta
condotta da un altro punto della stessa sfera, in modo da potersi alla fine
inscrivere la suddetta sfera in un quadrato, il quale a sua volta può essere
incluso in un’altra sfera, e così via.
Ogni figura geometrica, in quanto sempre finita, non coinciderà mai con
tutto lo spazio, ne lascerà sempre al di fuori di sé; insomma, sarà sempre
una forma nello spazio.
2.
Se il Tutto è infinitamente grande e infinitamente piccolo. Molti pensano poi che il tutto deve essere
infinito perché, se fosse finito, sarebbe parte di qualcosa e non sarebbe più
il tutto. Il concetto dell’infinito e quello della parte si
escludono a vicenda, dal momento che tutto ciò che è parte di qualcosa è
necessariamente finito. Infatti, se è parte, vuol dire che ha un inizio
e una fine in un punto ed in un momento determinati, risulti ciò da divisione o
accrescimento, vale a dire sottraendo da una quantità anteriore o aggiungendosi
ad essa. L’impossibilità di dividere e di aumentare il tutto significa quindi
impossibilità di determinare il suo inizio e la sua fine, che appaiono
addirittura inconcepibili, e questo è proprio dell’infinito.
Se
l’affermazione del carattere finito dell’accrescersi sembra poi ad alcuni meno
dimostrabile del carattere finito della divisione (perché l’accrescersi non ha
per noi un termine ad quem) va tuttavia considerato che ciò che si
aggiunge a qualcosa è sempre parte del tutto e non è mai il tutto in quanto
tale. Per cui, se il tutto potesse espandersi, ciò che vi si aggiungerebbe
sarebbe (come si è detto) una quantità finita e il tutto finirebbe dove e
quando essa finisse. Se il tutto è infinito, lo è dunque proprio perché non può
dividersi e non può espandersi, perché nell’un caso e nell’altro verrebbe
sempre ad esser parte di qualcosa, cioè di un tutto più ampio.
Se
però alcuni ritengono che il carattere infinito del tutto debba intendersi nel
senso che il tutto è nello stesso tempo infinitamente grande ed
infinitamente piccolo, sì da rendere in tal modo impossibile la determinazione
di una sua origine e di una sua fine, non potremmo allora avere un’idea
dell’infinito che ammetta la divisione e l’accrescimento? Infatti, ciò che è
«infinitamente grande» è la grandezza al di la della quale ne è concepibile una
sempre maggiore, mentre «l’infinitamente piccolo» è la grandezza al di qua
della quale se ne dà sempre una minore. Ora, l’idea dell’infinitamente grande
sembra potersi applicare allo spazio in quanto pura estensione:
dell’infinitamente piccolo, alla materia-energia in quanto sia nello spazio,
abbia cioè un luogo. Ma l’infinitamente piccolo non rappresenta una
contrazione o diminuzione dell’infinitamente grande poiché in esso non si
mostra la divisione dello spazio ma di ciò che è in esso. Allora il tutto
resterebbe indiviso, rimanendo indiviso lo spazio nel quale la materia-energia
si divide in quantità infinitesimali e rimanendo indiviso il tempo, poiché il
tempo dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo è necessariamente
il medesimo (sono infatti contemporaneamente, senza potersi in alcun modo
succedere).
Concepire
il tutto ad un tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo, significa
allora in realtà affermare che il tutto è misurabile secondo quantità che
possono essere tanto piccole e tanto grandi per quanto è possibile alle
capacità di calcolo della mente. E questa possibilità si estende all’infinito,
perché se ne dà sempre un’altra dopo ogni misurazione, ma secondo quantità che
sono finite (una misurazione con una quantità infinita non è infatti una
misurazione). Il che dimostra che non è possibile giungere alla fine e
all’inizio del tutto, e il tutto sarebbe per l’appunto infinito, però secondo
il concetto tradizionale dell’infinito: ciò che non ha né inizio né fine.
Del resto, la divisibilità all’infinito del tutto non ne dimostra come tale la
natura infinita, perché ogni grandezza è divisibile all’infinito, anche il
punto più piccolo, che è certamente finito. La divisibilità all’infinito non
dimostra dunque come tale la natura infinita della grandezza cui si applica ma
solo la possibilità che essa venga misurata in parti sempre più piccole, senza
che si possa giungere mai ad una parte così piccola da rappresentare l’ultima
quantità prima del nulla.
Ciò
che è allo stesso tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo non per
questo dunque si divide e si espande, perché qui il più piccolo e il più grande
non sono due grandezze ma due modi di misurare un’unica grandezza, in sé
indivisa ed immutabile, poiché in nessun punto è più piccola o più grande che
in qualsiasi altro punto, né sembra poterlo diventare in relazione alla sua
durata. E ciò, si ritiene, è proprio dell’Uno. Del resto, come capacità
di far percepire la grandezza reale, il rapporto fra l’infinitamente grande e
l’infinitamente piccolo resta indeterminato: infatti, noi non possiamo dire se
l’universo nel quale ci troviamo sia come tale infinitamente grande o
infinitamente piccolo, e quindi (il che è lo stesso) se il tutto sia finito o
infinito («un espace infini, égal au fini»).
3.
Il Tutto e le parti, loro contraddizione. I caratteri dell’infinitamente grande e
dell’infinitamente piccolo, se riferiti al tutto in sé e per sé, non dimostrano
quindi né che il tutto sia infinito né che sia finito. Non è infatti la
divisibilità all’infinito del tutto ma il suo esser indiviso a farlo
ritenere infinito, dato che questo esser indiviso risulta per noi dal
mantenersi inalterato del tutto nel continuo accrescersi e dividersi delle sue
parti, nel continuo nascere e perire di ciò che pur lo costituisce. Se il tutto
è l’uno, bisogna allora ammettere che il tutto è uno nonostante le parti
che lo costituiscono. Infatti, se è l’unità indivisa di tutto ciò che è, ed è
quindi l’uno, non può esserlo grazie alle parti, poiché queste ultime, nel loro
essere e nel loro divenire mostrano il continuo dividersi e riunirsi del
molteplice. Le parti sono e non sono mentre il tutto, invece, non
cessa mai di essere.
Esse
nascono e periscono secondo un ordine immutabile che è per l’appunto l’ordine
del tutto e non delle parti in quanto tali, che appaiono invece sottoposte a
quest’ordine e alle sue leggi. Il molteplice rispetto al tutto non può quindi
esser concepito che come parte poiché il molteplice è la semplice esteriorità
reciproca di ciò che è determinato e finito, l’esteriorità del numero o
dell’uno empirico, che non dà ragione della realtà come di un tutto ma
unicamente come somma o divisione di parti. Il molteplice è la totalità
di ciò che è diviso, in quanto effettivamente diviso, nell’estensione e nella
durata, nella quale l’ordine e il disordine coesistono.
Il
concetto del tutto come uno implica quindi un’antitesi fra il tutto e il
molteplice, dal momento che l’unità dell’uno non può essere quella della
semplice coesistenza degli enti che chiamiamo molteplicità. Siffatta antitesi
ripugna alla mente, che vorrebbe poter stabilire anche nel concetto
quell’armonia e quell’ordine che l’esperienza sembra mostrarci fra le parti e
il tutto della realtà. Ma il rigore del ragionamento non può sottrarci
all’antitesi ed anzi può imporci di condurla sino all’aporia vera e propria.
Infatti, perché si è costretti ad ammettere che il tutto, se è l’Uno, è
nonostante le sue parti? perché, se è indiviso nello spazio e nel tempo ed
infinito, non può essere la stessa cosa del molteplice, le cui parti sono
finite, nello spazio e nel tempo: sono sempre ciò che è stato diviso e che,
dopo essersi temporaneamente unito, tornerà a dividersi. Se il tutto è infinito
come può risultare di parti in sé finite? e se esprime l’ordine, come può contenere
il disordine?
Il
tutto è quindi qualcos’altro rispetto alla molteplicità delle sue parti, dalle
quali però non può prescindere, altrimenti non sarebbe. Qui l’antitesi
travalica per l’appunto nella insanabile aporia, sì da far apparire il concetto
del tutto come intrinsecamente contraddittorio. Dobbiamo infatti ammettere che,
se le parti non sono il tutto, sono però nel tutto. Esse non
possono esser concepite come una realtà esterna al tutto, che invece
costituiscono perché senza le sue parti il tutto non sarebbe. Infatti, di cosa
sarebbe composto, da che cosa sarebbe costituito, se non avesse parti? Inoltre,
non esiste uno spazio delle parti e uno del tutto: il tutto e le parti sono
contemporaneamente nello stesso spazio, mentre sono, cioè sempre ed il
tempo che le misura è il medesimo (se lo spazio è il medesimo, come può non
esserlo anche il tempo?). Tra il tutto e le parti vi è dunque una reciproca
interiorità (che è più dell’esser contiguo) occupando essi sempre il medesimo
luogo, quando luogo vi è che sia stato occupato. Non possono esser esteriori
l’uno alle altre più di quanto possano esserlo le parti della realtà alla
realtà stessa. Quando le parti cessano di esser parti del tutto,
scompaiono dal tutto: non sono più nel tutto solo a condizione di non
esser più in quanto parti.
Se
le parti sono dunque nel tutto possiamo dire che esse non facciano sì che il
tutto sia ciò che è? Naturalmente, non in relazione all’origine del tutto ma
alla sua durata e all’estensione, che sono quelle di un’unità di parti sempre
rinnovantesi. La contraddittorietà con cui si presenta alla mente il concetto
del tutto risulta dunque dal fatto che si è costretti ad ammettere che il tutto
è contemporaneamente condizione dell’esserci delle parti (è loro «anteriore per
natura») e da esse condizionato quanto al suo stesso essere. Ciò è come dire
che il tutto è contemporaneamente l’uno e il molteplice, i quali si escludono a
vicenda, secondo il loro concetto, poiché rappresentano il finito e l’infinito.
Ma ciò è come dire che il tutto, se è nello stesso tempo l’uno e il molteplice,
è e non è, poiché è nello stesso tempo in modo opposto. L’aporia cui il
pensiero giunge nel determinare il concetto del tutto è dunque la seguente: che
la proposizione «il tutto è grazie alle sue parti» è vera, per il concetto del
tutto, allo stesso modo di quella ad essa opposta: «il tutto è nonostante le
sue parti».
In
ogni caso, quale che sia l’esatta determinazione della natura del tutto, è
evidente che quest’ultima non può esser concepita secondo il concetto dell’Uno.
Infatti, si è concepito il tutto come l’uno proprio per coglierne l’essere
immutabile ed infinito al di là del divenire delle parti, mostrando di
intendere l’uno come il concetto di quella realtà che in sé non dipende in
alcun modo dall’esistenza di parti e dai loro reciproci rapporti. Se l’uno è il
tutto in quanto immutabile nel divenire delle parti, non può essere anche il
tutto delle parti che mutano: se l’uno indica il tutto nell’immutabilità del
suo essere non può indicarlo contemporaneamente anche nel mutare delle sue
parti. Allora il tutto, in quanto sia l’essere immutabile, è l’uno; in quanto
il divenire delle sue parti, non è l’uno. L’essere immutabile e il divenire
sono contemporaneamente, per cui, se l’essere immutabile è l’Uno, dovrebbe
essere contemporaneamente il suo contrario, il che è assurdo. E se anche
vogliamo dire che l’uno risulti dell’indeterminato compenetrarsi dell’essere e
del divenire nel tutto, rendiamo comunque l’uno contraddittorio in sé stesso
poiché l’unità dei contrari si scinde continuamente ed è in realtà, più che
un’unione, una divisione che di continuo si rinnova. E l’uno che sia di
continuo diviso in sé stesso non è più l’uno.
Se
il tutto in sé e per sé non può esser concepito come l’Uno, bisogna allora
ammettere, per logica conseguenza, che il concetto dell’uno non potrà
determinarsi in relazione a quello del tutto. L’antica identificazione del
tutto con l’uno, che puntualmente riappare in ogni forma di immanentismo e
panteismo, non si può accettare, a causa della natura ambivalente del tutto,
che permette di ricomprenderlo solo in parte nel concetto dell’uno. Ma il tutto
non può essere l’uno solo a metà: o lo è o non lo è. Ne consegue che l’Uno
dovrebbe definirsi solo in relazione a sé stesso, senza tentare di
identificarlo con il tutto.
4.
Definizione dell’Uno. Ma
come definiremo l’Uno? È possibile una sua definizione intrinseca? È possibile
definire l’uno in sé? Una definizione dell’uno, che risulta per
inferenza da quanto finora detto e nello stesso tempo si colloca nel solco
della tradizione, è per noi la seguente: l’Uno è ciò che non ha parti e non
è parte, eppure è. Se l’uno avesse parti sarebbe come il tutto ed il suo
concetto incorrerebbe nella medesima aporia. E l’uno non può nemmeno esser parte
di qualcosa altrimenti sarebbe finito e non sarebbe più l’uno ma parte, uno del
numero o empirico, forma del molteplice. Del tutto, possiamo dire che non è
parte di nulla, altrimenti non sarebbe il Tutto, mentre dobbiamo dire che
consta necessariamente di parti, senza le quali non sarebbe. Si vede allora, di
nuovo, come l’uno differisca dal tutto proprio in ordine alla necessità del
risultare composto di parti, cosa che per l’uno deve esser negata per
definizione. Ma tutto ciò che è, come può non esser parte di qualcosa? E
quindi, se l’uno è, come può sfuggire all’esistenza delle parti? Non sembra
infatti possibile che ciò che è, sia tale da non constare di parti o da non
esser parte di qualcosa. La definizione dell’uno, quale si ricava per
esclusione da quella del tutto, sembra quindi rendere l’uno incomprensibile
perché vuol attribuire il predicato dell’essere a ciò che, non avendo parti e
non essendo parte di nulla, sembra non potersi trovare in nessun luogo. E senza
l’estensione, come possiamo concepire l’essere? Ché tutto ciò che esiste è
parte della materia, dell’energia o dello spazio in quanto tale.
5.
La definizione dell’Uno in sé si applica solo all’essere di Dio. Ma l’idea dell’essere senza l’estensione si
può applicare all’idea che noi abbiamo della Divinità: anzi, solo alla natura
divina conviene l’essere prima ancora degli attributi dell’essere, quali
l’estensione e la materia-energia, se Dio non può concepirsi che come «l’essere
perfettissimo», cioè come l’essere, in quanto sia privo di limiti ed
imperfezioni, a cominciare dalla finitezza delle parti, delle forme, delle
sostanze, degli enti, degli attributi. Quindi, se Dio è l’essere nella pienezza
della sua perfezione, si potrà ben dire che non solo non ha parti ma anche che
non è parte di alcunché. Ora, l’essere di Dio, se è perfetto, e quindi indiviso
e infinito, non può che concepirsi come anteriore all’estensione ossia alla
realtà intesa nella sua determinazione fondamentale e primigenia, che è quella
dello spazio. Se infatti l’estensione è una realtà fisica non può esser
pensata che come successiva all’essere di Dio, poiché un Dio che non precedesse
la realtà sarebbe la stessa cosa di quest’ultima, risolvendosi nel tutto
composto di parti, nella natura e nel suo ordine-disordine, come ne fa fede il
panteismo spinoziano.
La
res extensa non può perciò concepirsi come predicato necessario
all’essere di Dio: necessario, perché senza di esso Dio non sarebbe pensabile.
Infatti, si verrebbe in tal modo a negare la perfezione dell’essere divino, poiché
si concepirebbe come necessaria alla sua pensabilità da parte nostra,
l’imperfezione rappresentata dall’esistenza spazio-temporale, ossia
dall’esistenza di ciò che, come tutto, non può concepirsi uno perché dominato
dalla contraddizione del contemporaneo essere e non-essere delle sue parti.
Se
l’essere di Dio deve pensarsi come assolutamente primo rispetto
all’universo, ciò non significa comunque separare Dio e mondo in modo da
rendere impossibile il concetto di una libera creazione del mondo, di tutta la
realtà da parte di Dio. La realtà è imperfetta poiché in essa nascita e morte
di ciò che la compone si implicano a vicenda ovvero l’essere e il non-essere
sono contemporaneamente, senza che la realtà dia in quanto tale ragione di tale
contrapposto e contraddittorio permanere (onde essa ci appare allo stesso tempo
finita ed infinita). Ma, se a causa della sua separatezza da Dio, diciamo che
non è stata creata da Dio, come se Dio non potesse di per sé colmare l’abisso
tra il suo essere e l’essere della realtà, le attribuiamo un’esistenza eterna:
non potendo esser venuta dal nulla (poiché «dal nulla nulla viene») e non
essendo stata creata, se ne deve concludere che esiste da sempre. Così però
attribuiamo alla res extensa il carattere dell’infinito e la comprendiamo
nel concetto di una realtà perfetta: l’infinito è infatti proprio di ciò che è
perfetto, come l’uno, in quanto essere che è senza le parti e senza esser
parte.
Ma
come è possibile attribuire il carattere della perfezione a ciò che, pur manifestandosi in un complesso e grandioso ordine, è
in sé contraddittorio? E difatti, chi ha dichiarato «per realitatem et
perfectionem idem intelligo», ha potuto farlo solo dopo aver identificato Dio
con la natura, dopo aver attribuito alla sostanza divina la necessità
intrinseca dell’attributo dell’esistenza del mondo, come se ciò che è causa
sui potesse esser vincolato ad essere secondo ciò che per definizione non
può mai esser causa sui.
Se
la definizione dell’uno in sé, che si ricava per esclusione da quella del
tutto, sembra dunque oscura perché, escludendo le parti dall’uno sembra
escludere quest’ultimo dall’essere, essa risulta tuttavia chiara e distinta se
applicata alla definizione di Dio, come essere perfettissimo, la cui esistenza
non può come tale esser quella della realtà spazio-temporale. Perciò, quando
noi pensiamo il tutto come uno, pensiamo qualcosa di indistinto poiché il tutto
contiene sia l’affermazione che la negazione dell’uno. Se invece separiamo il
concetto dell’uno da quello del tutto e lo riferiamo a Dio, otteniamo una
definizione chiara, in relazione alle premesse.
Tale
chiarezza non sembra offuscata dalla constatazione che la definizione dell’uno,
se è un concetto in senso proprio, ossia se esprime la natura o essenza della
cosa, indipendentemente dalla rappresentazione della stessa, sembra
contraddirsi nel momento in cui viene riferita a Dio. Infatti, mediante il
concetto dell’uno definiamo l’essere di Dio ma non la Sua essenza o natura
intrinseca : affermiamo che, mediante quel concetto abbiamo l’idea
dell’esistenza di Dio, senza poter determinare come sia in se stesso. E quindi,
il concetto non verrebbe qui a stabilire la natura della cosa (Dio nella Sua
essenza) ma solo la Sua semplice esistenza, in quanto pensabile da parte della mente
in un concetto che ad essa calzi. Ma un concetto che si limitasse a definire
l’esistenza del proprio oggetto e non invece la sua essenza, non sarebbe
veramente tale, perché per suo tramite verremmo semplicemente a sapere che una
cosa è, senza sapere ancora cos’è. Un
tale concetto indicherebbe la pensabilità e quindi la possibilità della cosa,
non ancora la sua realtà.
A
questa difficoltà rispondiamo che non ci si propone qui di elaborare un
surrogato della prova ontologica dell’esistenza di Dio, ma più semplicemente
di mostrare come il concetto dell’Uno, rettamente inteso, non possa riferirsi
ad altro che al concetto di Dio, concepito come essere perfettissimo. Si tratta di delineare l’esatto ambito di
applicazione di un concetto. Quando
affermiamo che il concetto dell’Uno può applicarsi solo all’essere di Dio, non
intendiamo perciò sostenere che questa applicabilità (se così possiamo
esprimerci) dimostra come tale l’esistenza di Dio; come se dicessimo: poiché abbiamo il concetto
dell’uno ed esso si può applicare solo all’essere di Dio, allora Dio
esiste. Noi abbiamo anche il concetto
del nulla o del non-essere ma non per questo è dimostrato che il nulla o il
non-essere esistano. In realtà noi
presupponiamo la definizione di Dio quale essere perfettissimo della tradizione
metafisica cattolica, l’unica che, a nostro avviso, abbia sempre cercato – nei
suoi rappresentanti più validi, dai Padri della Chiesa ortodossi a S. Tommaso –
di definire la Divinità in se stessa, per ciò che essa è in sé e
non per il suo rapporto con la cosa creata, con il mondo o con il pensiero
dell’uomo elevatosi a nuovo ed immanente Logos.
E
che quella tradizione sia giunta a pensare Dio come l’ente di necessità anteriore
a tutta la realtà come tale, è fuor di dubbio. S. Agostino scrive, a proposito della
creazione: “necque in universo mundo fecisti universum mundum, quia non erat,
ubi fieret, antequam fieret, ut esset”[1].
Dio non ha creato il mondo già dal
mondo, ossia non ha creato l’universo da un dove che fosse già
l’universo o nell’universo. E
quindi: il “dove” di Dio è anteriore
allo spazio e non lo si può concepire in altro modo. Non ha avuto bisogno della spazio per creare
lo spazio. La nozione stessa di quantità,
la quantità delle tre dimensioni, riferita a Dio, è quella di una quantitas
virtualis, che non si lascia ridurre alle dimensioni dello spazio, in
quanto realtà fisica[2].
Il
concetto enunciato da S. Agostino sembra risentire del neoplatonismo, avendo
Plotino detto che l’uno “non ha luogo, poiché non gli occorre un fondamento,
come se non potesse sostenere se stesso”[3]. Tuttavia Plotino, non riconoscendo un Dio
creatore dal nulla, non esce dall’ambiguità per ciò che riguarda il rapporto
tra il concetto dell’uno e quello di Dio.
Se afferma che dell’uno si può dire solo che è, e se sembra identificare l’uno con il divino, non esita
del pari a sostenere che “l’uno è più di Dio”[4]. Ma
l’Uno non può essere “più di Dio”, trascendere Dio. Invece, il vero concetto dell’uno si applica
senza contraddizione a quello dell’essere perfettissimo ed anzi s o l o
a quello: tale è la nostra convinzione e con essa vorremmo riuscire a
ribadire e, se possibile, ad arricchire (anche solo indirettamente) la
definizione di Dio della vera tradizione cattolica.
Il concetto cui la mente giunge, partendo
dall’analisi della definizione del tutto come uno, non è dunque quello di Dio
ma dell’uno, definito nella sua essenza come ciò che è, senza aver parti né
esser parte. Ma questo essere è nello stesso tempo pensabile come l’essere di
Dio, dal momento che la definizione di
tale essere esclude a priori l’attributo dell’esistenza sensibile,
spazio-temporale. Nel concetto dell’uno troviamo allora una definizione di Dio,
che però non può ancora darci il concetto. Infatti non sappiamo ancora come sia
Dio in sé (quid sit), nella Sua essenza, ma solo che Egli è (an sit),
in quanto pensabile come l’essere perfettissimo[5]. Nel concetto dell’uno abbiamo un concetto che
ci offre la pensabilità dell’essere di Dio, come qualcosa di legittimo. E oggi
si nega anche questa pensabilità perché si ritiene che l’esistenza di Dio sia
indimostrabile, sia cioè impossibile a determinarsi come esistenza necessaria
da parte della recta ratio – e questo lo si pensa perché in realtà si nega
l’esistenza della recta ratio, equiparando stoltamente l’uomo all’animale.
Al compiuto concetto di Dio possiamo giungere solo mediante
l’apporto di Dio stesso (se così possiamo esprimerci) che integra con la
Rivelazione la nostra definizione metafisica, limitata alla pensabilità del Suo
essere: infatti la natura di Dio può esserci fatta conoscere solo da Dio, anche
se di per sé non si distingue e non si separa in alcun modo dall’essere di Dio[6].
6. Dire che il concetto dell’Uno si applica
solo a Dio non significa affermare che Dio è unico. Dobbiamo poi chiarire un altro punto. Quando diciamo che il concetto dell’Uno si
applica solo all’essere di Dio, nel senso fin qui illustrato, non intendiamo
certamente affermare che Dio è «uno» nel senso di «unico», così come sostengono
i monoteismi non cristiani, dal momento che quest’ultima affermazione ha, come
è noto, un significato non metafisico ma teologico, poiché con essa non si vuol
esprimere l’esistenza ma il quid sit, la natura di Dio, così come Egli
ce l’avrebbe rivelata, vale a dire in modo da escluderVi la possibilità stessa
della Sua Trinità. Con quella affermazione, al contrario, si vuole mostrare che
l’unico significato che il concetto dell’uno in sé può avere per la mente, in
quanto puro concetto, è quello di contenere la definizione dell’essere
perfettissimo di Dio e proprio a causa dell’impossibilità di applicarlo
all’essere in quanto determinato nell’estensione e nella materia, ovvero al
tutto in quanto composto di parti. Tale concetto esprime quindi la pensabilità
dell’essere di Dio senza dirci ancora nulla sul mistero numinoso della Sua
natura, che possiamo conoscere solo per quanto di esso sia piaciuto a Lui
rivelarci, e in definitiva non contraddice in nulla una Rivelazione in cui la
natura di Dio sia stata testimoniata nella Santissima Monotriade.
La
disputa circa la vera natura o essenza di Dio è quindi un confronto tra vera e
falsa rivelazione: è una disputa
religiosa e teologica, nella quale la metafisica può solo stabilire determinati presupposti
teoretici. Così essa potrà senz’altro ribadire
la distinzione tra metafisica e teologia, indispendabile alla chiarezza delle
definizioni e dei concetti, e cercare di mostrare fin dove il pensiero possa
spingersi per stabilire l’esistenza di Dio, in quanto contenuto necessario di
un determinato concetto, cioè in quanto pensabile. Infatti, la convinzione che la natura unica
di Dio sia tale da escludere a priori la trinità consustanziale delle persone
divine non può esser dedotta dal concetto di Dio come lo può concepire la
ragione, se è vero che con questo concetto non possiamo far altro che
dimostrare l’esistenza di Dio quale esistenza necessaria dell’ente
perfettissimo. Il rigetto della natura
trinitaria del vero Dio a noi rivelatosi, non può pertanto avvenire per via
metafisica.
Paolo Pasqualucci
-
iterpaolopasqualucci.blogspot.ie
11
maggio 2018
[1] Aug., Confess., XI, V. In tal modo si risponde alla domanda: “E allora dove si trovava Dio prima che
esistesse l’universo?”(Gregorio Nazianzeno, Oraz. 27,9 ne ID., I
cinque discorsi teologici, tr. it. C. Moreschini, Roma, 1986, p. 68). Si
trovava presso di sé senza bisogno di uno spazio fisico, come se questl’ultimo
fosse da ritenersi necessario alla sua esistenza di essere perfettissimo.
[3] Cfr. Plot.,
Enn. VI, 9, 6, tr. it. con testo
a fronte nell’ediz. Faggin, Reale, Radice, Rusconi, Milano, 19923,
p. 1351.