venerdì 11 maggio 2018

Filosofia: Paolo Pasqualucci: "Sulla definizione dell'Uno".



Sulla definizione dellUno
Nota previa. Mi sono occupato in passato del concetto dell’Uno in quanto problema filosofico tornato di attualità a causa del prevalere, nella nostra cultura, degli immanentismi e dei panteismi a sfondo esistenzialistico:  di una visione “monistica” della realtà, completamente chiusa alla trascendenza, che mira a dissolvere l’uomo, l’individuo concreto, nel Tutto inteso come l’Uno cosmico increato ed eterno.  Di contro a questa impostazione, che si alimenta dell’immanentismo della “nuova immagine del mondo” propugnata dai Fisici, ed è penetrata anche nella teologia e nella prassi liturgica cattolica, propongo una definizione dell’Uno che ne riaffermi la assoluta trascendenza nei confronti della realtà, facendo  vedere come tale definizione contenga un concetto dell’Uno che si può applicare soltanto all’essere di Dio e in modo tale da risultare perfettamente compatibile con la Rivelazione di Dio nella divina Monotriade.
Il presente testo è quello di una “memoria” da me presentata sinteticamente alla ‘Accademia Pontaniana” in Napoli, nell’ormai lontano 1993.  Il testo è stato da me appositamente riveduto e ampliato con l’aggiunta del § 1.1 e con due paragrafi finali (il 5 e il  6) più corposi.  Sul medesimo tema ho pubblicato, sempre in quegli anni, un saggio che riprendeva, approfondiva e ampliava gli spunti presenti nella memoria pontaniana: P. Pasqualucci, “Introduzione alla metafisica dell’Uno”, con Prefazione di Antimo Negri, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1996, pp. 151. Il lavoro era diviso in tre parti: Metafisica del Tutto; Metafisica della Parte; Analitica delle Parti in nuce.
Ripropongo dunque questo mio testo nella versione ampliata, convinto come sono che il problema filosofico del vero significato e della vera natura dell’Uno sia sempre attuale e meriti di esser nuovamente discusso.     

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ἐγὼ καὶ πατὴρ ἕν
ἐσμεν  (Ioan., 10,30)

1. Se il Tutto è l’Uno.   Concetto tradizionale della metafisica è che il Cosmo, inteso come il Tutto, sia lUno perché, nonostante risulti di parti, né può espandersi né può esser diviso, nello spazio e nel tempo. Infatti, se fosse diviso nello spazio, il tutto e la grandezza da cui è diviso, sarebbero contemporaneamente: allora il tutto esisterebbe accanto ad una grandezza minore o maggiore od uguale e sarebbe parte, uguale o maggiore o minore, del tutto formato da esso stesso e dalla grandezza dalla quale è diviso. Ma ciò è assurdo perché il tutto non può essere parte del tutto.
Se il tutto fosse diviso nel tempo bisognerebbe ammettere una realtà anteriore al tutto, che era quando il tutto non era. Allora il tutto verrebbe da ciò che gli è anteriore ed avrebbe avuto un’origine da qualcosa che non è il tutto perché è ciò che è da esso diviso, venendo prima nel tempo. Ma anche questo è assurdo, se il tutto costituisce il tutto, se è cioè la realtà con tutte le sue parti e in tutta la sua estensione e durata, nello spazio e nel tempo. Se fosse diviso nel tempo, bisognerebbe ammettere per il tutto un prima e un dopo e quindi un tempo in cui il tutto stesso non era. Ma se il tutto non è per tutto il tempo, allora non è più il Tutto, perché gli mancherebbe la parte di realtà che era quando il tutto non era.
La realtà non può come tale esser divisa. Diciamo infatti di dividere ciò che è nel tutto ma non il tutto in quanto tale, poiché la durata e l’estensione non sono divise in sé stesse né reciprocamente ma solo divisibili all’infinito. Ma ciò che è divisibile senza per questo separarsi, dividersi effettivamente (dividendo lo spazio abbiamo sempre lo spazio e dividendo il tempo sempre il tempo né possiamo separare l’uno dall’altro) rimane ciò che è, senza mutarsi mai nel suo opposto, nel non-essere del tempo e dello spazio. Se il tutto non viene mai ad esser separato e diviso in sé stesso (pur essendo divisibile), costituisce allora un’unità: l’indiviso non può che essere unitario in sé stesso e il tutto è sempre l’essere perché dividendolo mediante misurazione e separazione delle sue parti si procede all’infinito senza mai giungere al nulla.
Ma il tutto non può nemmeno accrescersi, in quanto tutto. Infatti, se aumentasse in estensione, espandendosi come tutto, verrebbe ad occupare uno spazio in cui esso stesso (il tutto) non era. Ma ciò significa che il tutto non era il tutto, se accanto ad esso esisteva uno spazio da esso non occupato, che non era parte del tutto (e nel quale il tutto ora si espande). Del resto, se si crede che il tutto si espande, bisogna necessariamente ammettere l’esistenza (contemporanea a quella del tutto) di uno spazio vuoto in cui il tutto possa espandersi, poiché l’accrescersi e l’espandersi risultano da movimenti che per aver luogo hanno bisogno di uno spazio. A meno che non si voglia sostenere che il corpo in movimento crei il suo stesso spazio mentre si muove: ma questo è inconcepibile perché, senza uno spazio preesistente, che quindi non sia esso stesso movimento, come potrebbe aver luogo il movimento? In ogni caso, se il moto non fosse concepibile come traiettoria di un corpo o di un quanto elementare di energia nello spazio ma solo come il variare e quindi il diminuire o l’accrescersi della densità di un’onda elettromagnetica, si dovrà pur sempre ammettere che ciò che diminuisce o si accresce, quale che sia la sua dimensione e densità, non è lo spazio ma qualcosa che è nello spazio: la supposta increspatura di materia-energia che nello spazio trascorre, lascia subito il posto ad una successiva, nello stesso spazio, che evidentemente non si è mosso, così come – per restare nell’analogia – resta immobile il mare nel suo spazio pur nell’incresparsi successivo delle sue onde.
Bisognerebbe inoltre ammettere che, se lo spazio fosse creato dal corpo nel suo moto, cessato il moto verrebbe meno anche lo spazio creato (cioè percorso), per cui tra l’inizio e la fine del moto di un corpo ci sarebbe il nulla: infatti, annichilendosi lo spazio stesso man mano che viene percorso, cosa resterebbe alla fine se non il nulla? Ma anche questa conclusione, pur necessaria rispetto alle premesse, è del tutto assurda perché lo spazio, sia quello percorso che da percorrere, è una realtà fisica e quindi non può essere il nulla.
Poiché dunque non possiamo ammettere che il tutto, nel suo supposto movimento, crei lo spazio in cui si espande, dobbiamo dire che lo spazio in cui tale espandersi avrebbe luogo deve concepirsi come contemporaneo al tutto, ossia contemporaeo a questo tutto che deve ancora espandersi in esso. Ma se lo spazio in cui il tutto ancora non è, è contemporaneamente al tutto, allora il tutto è separato da questo spazio e pertanto diviso tra se stesso e lo spazio non ancora occupato: e se è spazialmente diviso non è il tutto (come si è detto). Se il tutto è veramente tale, non può dunque esservi alcuna realtà esteriore che non sia ricompresa in esso, che non faccia parte del tutto. Ergo, il Tutto non ha al di fuori di sé una realtà esteriore in cui possa espandersi come tutto e chi afferma che l’universo, in quanto coincida con il tutto, «è in espansione», attribuisce  al tutto un movimento che può essere solo delle sue parti; movimento che non è del tutto ma nel tutto, senza far muovere il tutto in quanto tale al di fuori di sé. Dovremmo altrimenti affermare, come ulteriore, singolare conseguenza di questa dottrina, che lo spazio si muove e si accresce allo stesso modo di ciò che è nello spazio, come se lo spazio fosse un ente determinato, una  c o s a , annullandosi la distinzione fra lo spazio e ciò che è in esso, tra l’estensione priva di forma e l’ente o il corpo che con la sua forma determinata la occupa. Del resto, perché diciamo che il tutto «si espande»? Perché si ritiene aumentino le distanze fra le sue parti, cioè tra gli enti che sono nel tutto, secondo una certa proporzione. Ma ciò in nessun modo dimostra che sia il tutto stesso ad espandersi, dal momento che l’aumento della distanza tra gli enti, non essendo essi corpi naturali immobili, è provocato dal loro stesso moto. (L’espansione del tutto, se del tutto in sé e non di una sua parte, dovrebbe poi aver luogo contemporaneamente nella totalità del tutto, ossia dell’universo inteso come un tutto, rendendo così problematica la percezione dell’espandersi stesso).
1.1  Se il Tutto è sferoidale, come concepire il moto?  L’odierna Fisica, al pari di quella aristotelica e cartesiana, identifica spazio e materia-energia, ossia, contro Newton, nega l’esistenza del v u o t o .  Ma vuole anche conferire allo spazio in quanto tale una  f o r m a , quella della sfera:  increato sarebbe il Tutto spaziale del cosmo ma finito perché coincidente con la curvatura illimitata ma finita che gli sterminati campi cosmici dell’energia farebbero assumere allo spazio, non distinguendosi da esso (“compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera”). Ogni moto nello spazio da parte dell’energia ma anche dei corpi celesti sarebbe in realtà il risultato di una deformazione ossia di una redistribuzione della curvatura dello spazio, una sua “increspatura”, come dicono.  Parliamo di moto e non di forza ovvero di forza di gravità, la cui azione non sembra potersi spiegare con le “increspature”dello spazio curvo.
Ma allora, il moto in generale, non dovrebbe concepirsi secondo la figura dell’onda di energia che, invece di propagarsi nello spazio è lo spazio stesso che si deforma nell’alternarsi dei suoi campi gravitazionali ed elettromagnetici?  Se questo è vero, vale ancora la legge fisica secondo la quale la luce si propaga nel vuoto con moto rettilineo uniforme?  Come potrebbe ancora valere?  Il moto di quell’energia che chiamiamo  l u c e  dovrebbe anch’esso seguire la dinamica deformante dell’onda, propagarsi in infinite “increspature”  d e l l o  spazio.  Ma l’esperienza ci dimostra che i raggi del sole investono in linea retta i pianeti del sistema solare e i loro satelliti; che il punto luminoso corrispondente ad una stella da noi ben lontana, scorto a fianco del sole a causa del gravitational lensing provocato dai campi gravitazionali del sole, i quali arcuano la traiettoria altrimenti in linea retta di quella stessa luce, facendocela apparire appunto a fianco del sole – la luce di  q u e l  punto, dal sole a noi giunge sempre in linea retta. 
Se, come mostrano anche altre esperienze, la luce si propaga sempre in linea retta in uno spazio che sarebbe invece caratterizzato da una curvatura costante dell’energia che lo costituisce, ciò significa allora che lo spazio in sé , in quanto pura, tridimensionale estensione, ha la proprietà fisica di permettere sia il moto rettilineo uniforme che quello curvilineo, asimmetrico provocato dai campi gravitazionali; lo spazio contiene entrambi, dimostrandosi, nella sua natura fisica, indipendente da entrambi, come solo il v u o t o  può essere.
Né appare il Tutto, ossia lo spazio cosmico come tale, rinchiudibile in una forma determinata. Ogni forma è per definizione finita, realizzando essa in modo compiuto la determinazione dell’ e n t e del quale è la forma, quale esso sia.  Non esiste una forma infinita.  Rapportato allo spazio e quindi al Tutto del Cosmo in quanto spazio, lo sferoide non può coincidere con tutto lo spazio e quindi con il Tutto in quanto tale.  Infatti, da ogni punto di una sfera possiamo sempre condurre una linea che si incontra ad angolo retto con un’uguale retta condotta da un altro punto della stessa sfera, in modo da potersi alla fine inscrivere la suddetta sfera in un quadrato, il quale a sua volta può essere incluso in un’altra sfera, e così via.  Ogni figura geometrica, in quanto sempre finita, non coinciderà mai con tutto lo spazio, ne lascerà sempre al di fuori di sé; insomma, sarà sempre una forma nello spazio.
2. Se il Tutto è infinitamente grande e infinitamente piccolo.  Molti pensano poi che il tutto deve essere infinito perché, se fosse finito, sarebbe parte di qualcosa e non sarebbe più il tutto. Il concetto dell’infinito e quello della parte si escludono a vicenda, dal momento che tutto ciò che è parte di qualcosa è necessariamente finito. Infatti, se è parte, vuol dire che ha un inizio e una fine in un punto ed in un momento determinati, risulti ciò da divisione o accrescimento, vale a dire sottraendo da una quantità anteriore o aggiungendosi ad essa. L’impossibilità di dividere e di aumentare il tutto significa quindi impossibilità di determinare il suo inizio e la sua fine, che appaiono addirittura inconcepibili, e questo è proprio dell’infinito.
Se l’affermazione del carattere finito dell’accrescersi sembra poi ad alcuni meno dimostrabile del carattere finito della divisione (perché l’accrescersi non ha per noi un termine ad quem) va tuttavia considerato che ciò che si aggiunge a qualcosa è sempre parte del tutto e non è mai il tutto in quanto tale. Per cui, se il tutto potesse espandersi, ciò che vi si aggiungerebbe sarebbe (come si è detto) una quantità finita e il tutto finirebbe dove e quando essa finisse. Se il tutto è infinito, lo è dunque proprio perché non può dividersi e non può espandersi, perché nell’un caso e nell’altro verrebbe sempre ad esser parte di qualcosa, cioè di un tutto più ampio.
Se però alcuni ritengono che il carattere infinito del tutto debba intendersi nel senso che il tutto è nello stesso tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo, sì da rendere in tal modo impossibile la determinazione di una sua origine e di una sua fine, non potremmo allora avere un’idea dell’infinito che ammetta la divisione e l’accrescimento? Infatti, ciò che è «infinitamente grande» è la grandezza al di la della quale ne è concepibile una sempre maggiore, mentre «l’infinitamente piccolo» è la grandezza al di qua della quale se ne dà sempre una minore. Ora, l’idea dell’infinitamente grande sembra potersi applicare allo spazio in quanto pura estensione: dell’infinitamente piccolo, alla materia-energia in quanto sia nello spazio, abbia cioè un luogo. Ma l’infinitamente piccolo non rappresenta una contrazione o diminuzione dell’infinitamente grande poiché in esso non si mostra la divisione dello spazio ma di ciò che è in esso. Allora il tutto resterebbe indiviso, rimanendo indiviso lo spazio nel quale la materia-energia si divide in quantità infinitesimali e rimanendo indiviso il tempo, poiché il tempo dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo è necessariamente il medesimo (sono infatti contemporaneamente, senza potersi in alcun modo succedere).
Concepire il tutto ad un tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo, significa allora in realtà affermare che il tutto è misurabile secondo quantità che possono essere tanto piccole e tanto grandi per quanto è possibile alle capacità di calcolo della mente. E questa possibilità si estende all’infinito, perché se ne dà sempre un’altra dopo ogni misurazione, ma secondo quantità che sono finite (una misurazione con una quantità infinita non è infatti una misurazione). Il che dimostra che non è possibile giungere alla fine e all’inizio del tutto, e il tutto sarebbe per l’appunto infinito, però secondo il concetto tradizionale dell’infinito: ciò che non ha né inizio né fine. Del resto, la divisibilità all’infinito del tutto non ne dimostra come tale la natura infinita, perché ogni grandezza è divisibile all’infinito, anche il punto più piccolo, che è certamente finito. La divisibilità all’infinito non dimostra dunque come tale la natura infinita della grandezza cui si applica ma solo la possibilità che essa venga misurata in parti sempre più piccole, senza che si possa giungere mai ad una parte così piccola da rappresentare l’ultima quantità prima del nulla.
Ciò che è allo stesso tempo infinitamente grande ed infinitamente piccolo non per questo dunque si divide e si espande, perché qui il più piccolo e il più grande non sono due grandezze ma due modi di misurare un’unica grandezza, in sé indivisa ed immutabile, poiché in nessun punto è più piccola o più grande che in qualsiasi altro punto, né sembra poterlo diventare in relazione alla sua durata. E ciò, si ritiene, è proprio dell’Uno. Del resto, come capacità di far percepire la grandezza reale, il rapporto fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo resta indeterminato: infatti, noi non possiamo dire se l’universo nel quale ci troviamo sia come tale infinitamente grande o infinitamente piccolo, e quindi (il che è lo stesso) se il tutto sia finito o infinito («un espace infini, égal au fini»).
3. Il Tutto e le parti, loro contraddizione.  I caratteri dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, se riferiti al tutto in sé e per sé, non dimostrano quindi né che il tutto sia infinito né che sia finito. Non è infatti la divisibilità all’infinito del tutto ma il suo esser indiviso a farlo ritenere infinito, dato che questo esser indiviso risulta per noi dal mantenersi inalterato del tutto nel continuo accrescersi e dividersi delle sue parti, nel continuo nascere e perire di ciò che pur lo costituisce. Se il tutto è l’uno, bisogna allora ammettere che il tutto è uno nonostante le parti che lo costituiscono. Infatti, se è l’unità indivisa di tutto ciò che è, ed è quindi l’uno, non può esserlo grazie alle parti, poiché queste ultime, nel loro essere e nel loro divenire mostrano il continuo dividersi e riunirsi del molteplice. Le parti sono e non sono mentre il tutto, invece, non cessa mai di essere.
Esse nascono e periscono secondo un ordine immutabile che è per l’appunto l’ordine del tutto e non delle parti in quanto tali, che appaiono invece sottoposte a quest’ordine e alle sue leggi. Il molteplice rispetto al tutto non può quindi esser concepito che come parte poiché il molteplice è la semplice esteriorità reciproca di ciò che è determinato e finito, l’esteriorità del numero o dell’uno empirico, che non dà ragione della realtà come di un tutto ma unicamente come somma o divisione di parti. Il molteplice è la totalità di ciò che è diviso, in quanto effettivamente diviso, nell’estensione e nella durata, nella quale l’ordine e il disordine coesistono.
Il concetto del tutto come uno implica quindi un’antitesi fra il tutto e il molteplice, dal momento che l’unità dell’uno non può essere quella della semplice coesistenza degli enti che chiamiamo molteplicità. Siffatta antitesi ripugna alla mente, che vorrebbe poter stabilire anche nel concetto quell’armonia e quell’ordine che l’esperienza sembra mostrarci fra le parti e il tutto della realtà. Ma il rigore del ragionamento non può sottrarci all’antitesi ed anzi può imporci di condurla sino all’aporia vera e propria. Infatti, perché si è costretti ad ammettere che il tutto, se è l’Uno, è nonostante le sue parti? perché, se è indiviso nello spazio e nel tempo ed infinito, non può essere la stessa cosa del molteplice, le cui parti sono finite, nello spazio e nel tempo: sono sempre ciò che è stato diviso e che, dopo essersi temporaneamente unito, tornerà a dividersi. Se il tutto è infinito come può risultare di parti in sé finite? e se esprime l’ordine, come può contenere il disordine?
Il tutto è quindi qualcos’altro rispetto alla molteplicità delle sue parti, dalle quali però non può prescindere, altrimenti non sarebbe. Qui l’antitesi travalica per l’appunto nella insanabile aporia, sì da far apparire il concetto del tutto come intrinsecamente contraddittorio. Dobbiamo infatti ammettere che, se le parti non sono il tutto, sono però nel tutto. Esse non possono esser concepite come una realtà esterna al tutto, che invece costituiscono perché senza le sue parti il tutto non sarebbe. Infatti, di cosa sarebbe composto, da che cosa sarebbe costituito, se non avesse parti? Inoltre, non esiste uno spazio delle parti e uno del tutto: il tutto e le parti sono contemporaneamente nello stesso spazio, mentre sono, cioè sempre ed il tempo che le misura è il medesimo (se lo spazio è il medesimo, come può non esserlo anche il tempo?). Tra il tutto e le parti vi è dunque una reciproca interiorità (che è più dell’esser contiguo) occupando essi sempre il medesimo luogo, quando luogo vi è che sia stato occupato. Non possono esser esteriori l’uno alle altre più di quanto possano esserlo le parti della realtà alla realtà stessa. Quando le parti cessano di esser parti del tutto, scompaiono dal tutto: non sono più nel tutto solo a condizione di non esser più in quanto parti.
Se le parti sono dunque nel tutto possiamo dire che esse non facciano sì che il tutto sia ciò che è? Naturalmente, non in relazione all’origine del tutto ma alla sua durata e all’estensione, che sono quelle di un’unità di parti sempre rinnovantesi. La contraddittorietà con cui si presenta alla mente il concetto del tutto risulta dunque dal fatto che si è costretti ad ammettere che il tutto è contemporaneamente condizione dell’esserci delle parti (è loro «anteriore per natura») e da esse condizionato quanto al suo stesso essere. Ciò è come dire che il tutto è contemporaneamente l’uno e il molteplice, i quali si escludono a vicenda, secondo il loro concetto, poiché rappresentano il finito e l’infinito. Ma ciò è come dire che il tutto, se è nello stesso tempo l’uno e il molteplice, è e non è, poiché è nello stesso tempo in modo opposto. L’aporia cui il pensiero giunge nel determinare il concetto del tutto è dunque la seguente: che la proposizione «il tutto è grazie alle sue parti» è vera, per il concetto del tutto, allo stesso modo di quella ad essa opposta: «il tutto è nonostante le sue parti».
In ogni caso, quale che sia l’esatta determinazione della natura del tutto, è evidente che quest’ultima non può esser concepita secondo il concetto dell’Uno. Infatti, si è concepito il tutto come l’uno proprio per coglierne l’essere immutabile ed infinito al di là del divenire delle parti, mostrando di intendere l’uno come il concetto di quella realtà che in sé non dipende in alcun modo dall’esistenza di parti e dai loro reciproci rapporti. Se l’uno è il tutto in quanto immutabile nel divenire delle parti, non può essere anche il tutto delle parti che mutano: se l’uno indica il tutto nell’immutabilità del suo essere non può indicarlo contemporaneamente anche nel mutare delle sue parti. Allora il tutto, in quanto sia l’essere immutabile, è l’uno; in quanto il divenire delle sue parti, non è l’uno. L’essere immutabile e il divenire sono contemporaneamente, per cui, se l’essere immutabile è l’Uno, dovrebbe essere contemporaneamente il suo contrario, il che è assurdo. E se anche vogliamo dire che l’uno risulti dell’indeterminato compenetrarsi dell’essere e del divenire nel tutto, rendiamo comunque l’uno contraddittorio in sé stesso poiché l’unità dei contrari si scinde continuamente ed è in realtà, più che un’unione, una divisione che di continuo si rinnova. E l’uno che sia di continuo diviso in sé stesso non è più l’uno.
Se il tutto in sé e per sé non può esser concepito come l’Uno, bisogna allora ammettere, per logica conseguenza, che il concetto dell’uno non potrà determinarsi in relazione a quello del tutto. L’antica identificazione del tutto con l’uno, che puntualmente riappare in ogni forma di immanentismo e panteismo, non si può accettare, a causa della natura ambivalente del tutto, che permette di ricomprenderlo solo in parte nel concetto dell’uno. Ma il tutto non può essere l’uno solo a metà: o lo è o non lo è. Ne consegue che l’Uno dovrebbe definirsi solo in relazione a sé stesso, senza tentare di identificarlo con il tutto. 
4. Definizione dell’Uno.  Ma come definiremo l’Uno? È possibile una sua definizione intrinseca? È possibile definire l’uno in sé? Una definizione dell’uno, che risulta per inferenza da quanto finora detto e nello stesso tempo si colloca nel solco della tradizione, è per noi la seguente: l’Uno è ciò che non ha parti e non è parte, eppure è. Se l’uno avesse parti sarebbe come il tutto ed il suo concetto incorrerebbe nella medesima aporia. E l’uno non può nemmeno esser parte di qualcosa altrimenti sarebbe finito e non sarebbe più l’uno ma parte, uno del numero o empirico, forma del molteplice. Del tutto, possiamo dire che non è parte di nulla, altrimenti non sarebbe il Tutto, mentre dobbiamo dire che consta necessariamente di parti, senza le quali non sarebbe. Si vede allora, di nuovo, come l’uno differisca dal tutto proprio in ordine alla necessità del risultare composto di parti, cosa che per l’uno deve esser negata per definizione. Ma tutto ciò che è, come può non esser parte di qualcosa? E quindi, se l’uno è, come può sfuggire all’esistenza delle parti? Non sembra infatti possibile che ciò che è, sia tale da non constare di parti o da non esser parte di qualcosa. La definizione dell’uno, quale si ricava per esclusione da quella del tutto, sembra quindi rendere l’uno incomprensibile perché vuol attribuire il predicato dell’essere a ciò che, non avendo parti e non essendo parte di nulla, sembra non potersi trovare in nessun luogo. E senza l’estensione, come possiamo concepire l’essere? Ché tutto ciò che esiste è parte della materia, dell’energia o dello spazio in quanto tale.
5. La definizione dell’Uno in sé si applica solo all’essere di Dio.    Ma l’idea dell’essere senza l’estensione si può applicare all’idea che noi abbiamo della Divinità: anzi, solo alla natura divina conviene l’essere prima ancora degli attributi dell’essere, quali l’estensione e la materia-energia, se Dio non può concepirsi che come «l’essere perfettissimo», cioè come l’essere, in quanto sia privo di limiti ed imperfezioni, a cominciare dalla finitezza delle parti, delle forme, delle sostanze, degli enti, degli attributi. Quindi, se Dio è l’essere nella pienezza della sua perfezione, si potrà ben dire che non solo non ha parti ma anche che non è parte di alcunché. Ora, l’essere di Dio, se è perfetto, e quindi indiviso e infinito, non può che concepirsi come anteriore all’estensione ossia alla realtà intesa nella sua determinazione fondamentale e primigenia, che è quella dello spazio. Se infatti l’estensione è una realtà fisica non può esser pensata che come successiva all’essere di Dio, poiché un Dio che non precedesse la realtà sarebbe la stessa cosa di quest’ultima, risolvendosi nel tutto composto di parti, nella natura e nel suo ordine-disordine, come ne fa fede il panteismo spinoziano.
La res extensa non può perciò concepirsi come predicato necessario all’essere di Dio: necessario, perché senza di esso Dio non sarebbe pensabile. Infatti, si verrebbe in tal modo a negare la perfezione dell’essere divino, poiché si concepirebbe come necessaria alla sua pensabilità da parte nostra, l’imperfezione rappresentata dall’esistenza spazio-temporale, ossia dall’esistenza di ciò che, come tutto, non può concepirsi uno perché dominato dalla contraddizione del contemporaneo essere e non-essere delle sue parti.
Se l’essere di Dio deve pensarsi come assolutamente primo rispetto all’universo, ciò non significa comunque separare Dio e mondo in modo da rendere impossibile il concetto di una libera creazione del mondo, di tutta la realtà da parte di Dio. La realtà è imperfetta poiché in essa nascita e morte di ciò che la compone si implicano a vicenda ovvero l’essere e il non-essere sono contemporaneamente, senza che la realtà dia in quanto tale ragione di tale contrapposto e contraddittorio permanere (onde essa ci appare allo stesso tempo finita ed infinita). Ma, se a causa della sua separatezza da Dio, diciamo che non è stata creata da Dio, come se Dio non potesse di per sé colmare l’abisso tra il suo essere e l’essere della realtà, le attribuiamo un’esistenza eterna: non potendo esser venuta dal nulla (poiché «dal nulla nulla viene») e non essendo stata creata, se ne deve concludere che esiste da sempre. Così però attribuiamo alla res extensa il carattere dell’infinito e la comprendiamo nel concetto di una realtà perfetta: l’infinito è infatti proprio di ciò che è perfetto, come l’uno, in quanto essere che è senza le parti e senza esser parte.
Ma come è possibile attribuire il carattere della perfezione a ciò che, pur manifestandosi  in un complesso e grandioso ordine, è in sé contraddittorio? E difatti, chi ha dichiarato «per realitatem et perfectionem idem intelligo», ha potuto farlo solo dopo aver identificato Dio con la natura, dopo aver attribuito alla sostanza divina la necessità intrinseca dell’attributo dell’esistenza del mondo, come se ciò che è causa sui potesse esser vincolato ad essere secondo ciò che per definizione non può mai esser causa sui.
Se la definizione dell’uno in sé, che si ricava per esclusione da quella del tutto, sembra dunque oscura perché, escludendo le parti dall’uno sembra escludere quest’ultimo dall’essere, essa risulta tuttavia chiara e distinta se applicata alla definizione di Dio, come essere perfettissimo, la cui esistenza non può come tale esser quella della realtà spazio-temporale. Perciò, quando noi pensiamo il tutto come uno, pensiamo qualcosa di indistinto poiché il tutto contiene sia l’affermazione che la negazione dell’uno. Se invece separiamo il concetto dell’uno da quello del tutto e lo riferiamo a Dio, otteniamo una definizione chiara, in relazione alle premesse.
Tale chiarezza non sembra offuscata dalla constatazione che la definizione dell’uno, se è un concetto in senso proprio, ossia se esprime la natura o essenza della cosa, indipendentemente dalla rappresentazione della stessa, sembra contraddirsi nel momento in cui viene riferita a Dio. Infatti, mediante il concetto dell’uno definiamo l’essere di Dio ma non la Sua essenza o natura intrinseca : affermiamo che, mediante quel concetto abbiamo l’idea dell’esistenza di Dio, senza poter determinare come sia in se stesso. E quindi, il concetto non verrebbe qui a stabilire la natura della cosa (Dio nella Sua essenza) ma solo la Sua semplice esistenza, in quanto pensabile da parte della mente in un concetto che ad essa calzi. Ma un concetto che si limitasse a definire l’esistenza del proprio oggetto e non invece la sua essenza, non sarebbe veramente tale, perché per suo tramite verremmo semplicemente a sapere che una cosa è, senza sapere ancora cos’è.  Un tale concetto indicherebbe la pensabilità e quindi la possibilità della cosa, non ancora la sua realtà.
A questa difficoltà rispondiamo che non ci si propone qui di elaborare un surrogato della prova ontologica dell’esistenza di Dio, ma più semplicemente di mostrare come il concetto dell’Uno, rettamente inteso, non possa riferirsi ad altro che al concetto di Dio, concepito come essere perfettissimo.  Si tratta di delineare l’esatto ambito di applicazione di un concetto.  Quando affermiamo che il concetto dell’Uno può applicarsi solo all’essere di Dio, non intendiamo perciò sostenere che questa applicabilità (se così possiamo esprimerci) dimostra come tale l’esistenza di Dio; come se dicessimo:  poiché abbiamo il concetto dell’uno ed esso si può applicare solo all’essere di Dio, allora Dio esiste.  Noi abbiamo anche il concetto del nulla o del non-essere ma non per questo è dimostrato che il nulla o il non-essere esistano.  In realtà noi presupponiamo la definizione di Dio quale essere perfettissimo della tradizione metafisica cattolica, l’unica che, a nostro avviso, abbia sempre cercato – nei suoi rappresentanti più validi, dai Padri della Chiesa ortodossi a S. Tommaso – di definire la Divinità in se stessa, per ciò che essa è in sé e non per il suo rapporto con la cosa creata, con il mondo o con il pensiero dell’uomo elevatosi a nuovo ed immanente Logos.
E che quella tradizione sia giunta a pensare Dio come l’ente di necessità anteriore a tutta la realtà come tale, è fuor di dubbio.  S. Agostino scrive, a proposito della creazione: “necque in universo mundo fecisti universum mundum, quia non erat, ubi fieret, antequam fieret, ut esset”[1].  Dio non ha creato il mondo già dal mondo, ossia non ha creato l’universo da un dove che fosse già l’universo o nell’universo.  E quindi:  il “dove” di Dio è anteriore allo spazio e non lo si può concepire in altro modo.  Non ha avuto bisogno della spazio per creare lo spazio.  La nozione stessa di quantità, la quantità delle tre dimensioni, riferita a Dio, è quella di una quantitas virtualis, che non si lascia ridurre alle dimensioni dello spazio, in quanto realtà fisica[2].
Il concetto enunciato da S. Agostino sembra risentire del neoplatonismo, avendo Plotino detto che l’uno “non ha luogo, poiché non gli occorre un fondamento, come se non potesse sostenere se stesso”[3].  Tuttavia Plotino, non riconoscendo un Dio creatore dal nulla, non esce dall’ambiguità per ciò che riguarda il rapporto tra il concetto dell’uno e quello di Dio.  Se afferma che dell’uno si può dire solo che è, e se sembra  identificare l’uno con il divino, non esita del pari a sostenere che “l’uno è più di Dio”[4]. Ma l’Uno non può essere “più di Dio”, trascendere Dio.  Invece, il vero concetto dell’uno si applica senza contraddizione a quello dell’essere perfettissimo ed anzi  s o l o  a quello: tale è la nostra convinzione e con essa vorremmo riuscire a ribadire e, se possibile, ad arricchire (anche solo indirettamente) la definizione di Dio della vera tradizione cattolica.
  Il concetto cui la mente giunge, partendo dall’analisi della definizione del tutto come uno, non è dunque quello di Dio ma dell’uno, definito nella sua essenza come ciò che è, senza aver parti né esser parte. Ma questo essere è nello stesso tempo pensabile come l’essere di Dio, dal momento che la  definizione di tale essere esclude a priori l’attributo dell’esistenza sensibile, spazio-temporale. Nel concetto dell’uno troviamo allora una definizione di Dio, che però non può ancora darci il concetto. Infatti non sappiamo ancora come sia Dio in sé (quid sit), nella Sua essenza, ma solo che Egli è (an sit), in quanto pensabile come l’essere perfettissimo[5].  Nel concetto dell’uno abbiamo un concetto che ci offre la pensabilità dell’essere di Dio, come qualcosa di legittimo. E oggi si nega anche questa pensabilità perché si ritiene che l’esistenza di Dio sia indimostrabile, sia cioè impossibile a determinarsi come esistenza necessaria da parte della recta ratio – e questo lo si pensa perché in realtà si nega l’esistenza della recta ratio, equiparando stoltamente l’uomo all’animale.
Al compiuto concetto di Dio possiamo giungere solo mediante l’apporto di Dio stesso (se così possiamo esprimerci) che integra con la Rivelazione la nostra definizione metafisica, limitata alla pensabilità del Suo essere: infatti la natura di Dio può esserci fatta conoscere solo da Dio, anche se di per sé non si distingue e non si separa in alcun modo dall’essere di Dio[6].
6.  Dire che il concetto dell’Uno si applica solo a Dio non significa affermare che Dio è unico.  Dobbiamo poi chiarire un altro punto.  Quando diciamo che il concetto dell’Uno si applica solo all’essere di Dio, nel senso fin qui illustrato, non intendiamo certamente affermare che Dio è «uno» nel senso di «unico», così come sostengono i monoteismi non cristiani, dal momento che quest’ultima affermazione ha, come è noto, un significato non metafisico ma teologico, poiché con essa non si vuol esprimere l’esistenza ma il quid sit, la natura di Dio, così come Egli ce l’avrebbe rivelata, vale a dire in modo da escluderVi la possibilità stessa della Sua Trinità. Con quella affermazione, al contrario, si vuole mostrare che l’unico significato che il concetto dell’uno in sé può avere per la mente, in quanto puro concetto, è quello di contenere la definizione dell’essere perfettissimo di Dio e proprio a causa dell’impossibilità di applicarlo all’essere in quanto determinato nell’estensione e nella materia, ovvero al tutto in quanto composto di parti. Tale concetto esprime quindi la pensabilità dell’essere di Dio senza dirci ancora nulla sul mistero numinoso della Sua natura, che possiamo conoscere solo per quanto di esso sia piaciuto a Lui rivelarci, e in definitiva non contraddice in nulla una Rivelazione in cui la natura di Dio sia stata testimoniata nella Santissima Monotriade.
La disputa circa la vera natura o essenza di Dio è quindi un confronto tra vera e falsa rivelazione:  è una disputa religiosa e teologica, nella quale la metafisica può solo stabilire determinati presupposti teoretici.  Così essa potrà senz’altro ribadire la distinzione tra metafisica e teologia, indispendabile alla chiarezza delle definizioni e dei concetti, e cercare di mostrare fin dove il pensiero possa spingersi per stabilire l’esistenza di Dio, in quanto contenuto necessario di un determinato concetto, cioè in quanto pensabile.  Infatti, la convinzione che la natura unica di Dio sia tale da escludere a priori la trinità consustanziale delle persone divine non può esser dedotta dal concetto di Dio come lo può concepire la ragione, se è vero che con questo concetto non possiamo far altro che dimostrare l’esistenza di Dio quale esistenza necessaria dell’ente perfettissimo.  Il rigetto della natura trinitaria del vero Dio a noi rivelatosi, non può pertanto avvenire per via metafisica.
Paolo  Pasqualucci  -  iterpaolopasqualucci.blogspot.ie
11 maggio 2018


[1]  Aug., Confess., XI, V.  In tal modo si risponde alla domanda:  “E allora dove si trovava Dio prima che esistesse l’universo?”(Gregorio Nazianzeno, Oraz. 27,9 ne ID., I cinque discorsi teologici, tr. it. C. Moreschini, Roma, 1986, p. 68). Si trovava presso di sé senza bisogno di uno spazio fisico, come se questl’ultimo fosse da ritenersi necessario alla sua esistenza di essere perfettissimo.    
[2] Summa Theologiae, Ia, q. 3, a.1.
[3] Cfr. Plot., Enn. VI, 9, 6, tr. it.  con testo a fronte nell’ediz. Faggin, Reale, Radice, Rusconi, Milano, 19923, p. 1351.
[4] Op. cit., p. 1349:  pléon estí”; nonché Enn. V, 3, 14; 5,6.
[5] Summa Theol., Ia, q. 2, a. 2.
[6] Op. cit., ivi, q. 3, a. 4.