martedì 17 aprile 2018

Storia: Settant'anni fa il durissimo Trattato di Pace, "l'infame Dictat" - Seconda parte


 

Storia:  Settant’anni fa il durissimo Trattato di Pace, “l’infame Dictat”, suggello alla nostra resa incondizionata dell’8 settembre 1943
- Seconda  parte

“Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna:  come per el contrario chi si truova dove si perde è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo”(Guicciardini, Ricordi, in: Opere, I, a cura di E. Lugnani Scarano, UTET, 1970, p. 779).

Seconda Parte :  il Trattato di Pace imposto all’Italia nemico “cobelligerante” ovvero:  Vae  Victis

Sommario : 
9.  Un Trattato imposto, un “Dictat”.  9.1  Il Preambolo del Trattato di Pace.  9.2 Non si trattava di ”questioni ancora pendenti” ma di condizioni di pace unilateralmente imposte.  9.3  Dovevamo subire questa pace anche da parte delle “Potenze Associate”cioè da chiunque volesse “associarsi”nel dichiararci guerra, anche a guerra finita.  9.4  Incongruenze del Trattato.   9.5  La nostra “cobelligeranza” non contava nulla.  10.  Un trattato “punitivo ma non eccessivo”?  11.  Gestazione del Dictat, all’insegna della volontà di punirci da parte dei Tre Grandi e della Francia.  11.1  Il complesso d’inferiorità dell’antifascismo e le pretese della Francia gollista:  il mito della “pugnalata alla schiena”. 11.2 Come effettivamente maturò “l’aggressione” dell’Italia fascista: il peso determinante del blocco navale inglese. 


* * *


9. Un Trattato imposto, un “Dictat”
Sottoscritto a Parigi il 10 febbraio 1947 alla Conferenza per la Pace dal nostro plenipotenziario, il diplomatico marchese Meli Lupi di Soragna, con la riserva che la firma era subordinata alla ratifica da parte della nostra Assemblea Costituente; ratificato da quest’ultima il 31 luglio dello stesso anno dopo un acceso dibattito di più giorni; entrato in vigore il 15 settembre successivo:  questo documento, del quale nessuno in pratica si ricorda oggi, provocò all’epoca una violenta emozione in un’Italia ancora pervasa da un forte sentimento patriottico nonostante i grandi traumi della disfatta, della doppia occupazione straniera, della guerra civile, del mutamento istituzionale[1].
All’inizio delle riunioni di Parigi la posizione dell’Italia poteva apparire ancora poco chiara.  Tant’è vero che un giornalista francese chiedeva ai colleghi:  “ma l’Italia compare come nemico o cobelligerante?”[2].  Evidentemente, egli riteneva che la nostra “cobelligeranza” fosse incompatibile con il mantenimento dello status di “nemico”.  Si sbagliava.  Finita la belligeranza da mal sopportati “co-belligeranti”, l’attributo temporaneo che ci aveva permesso di sopravvivere combattendo accanto ai vincitori contro il Reich che ci aveva aggredito l’8 settembre 1943, era riapparsa in tutta la sua spietata crudezza la sostanza della cosa, ossia la tremenda sconfitta, che ci spettava da nemici che si erano incondizionatamente arresi senza poi riuscire a riscattarsi come alleati, agli occhi (prevenuti) degli stessi Alleati. 

9.1 Il Preambolo del Trattato di Pace

Nel Trattato comparivamo in tutte e due le vesti. 
Infatti, nel Preambolo si affermava che l’Italia,
“sotto il regime fascista ha intrapreso una guerra di aggressione ed ha in tal modo provocato uno stato di guerra con tutte le Potenze Alleate ed Associate [controparti nel Trattato] e con altre fra le Nazioni Unite e ad essa spetta la sua parte di responsabilità nella guerra”. 
Pertanto, premesso che “a seguito delle vittorie delle Forze alleate e con l’aiuto degli elementi democratici del popolo italiano, il regime fascista venne rovesciato il 25 luglio 1943 e l’Italia, essendosi arresa senza condizioni, firmò i patti d’armistizio del 3 e del 29 settembre del medesimo anno”; 
premesso, postillo, che noi avevamo perso la guerra essendoci arresi senza condizioni e dovevamo presentarci a firmare il Trattato esattamente come chi ha perso una guerra ossia come nemico a tutti gli effetti vinto;
 premesso, continuava il testo, che “dopo l’armistizio suddetto, le Forze Armate italiane, sia quelle governative che quelle appartenenti al Movimento della Resistenza, presero parte attiva alla guerra contro la Germania, l’Italia dichiarò guerra alla Germania alla data del 13 ottobre 1943 e così divenne cobelligerante nella guerra contro la Germania stessa”;
premesso, pertanto, che, pur essendoci noi arresi senza condizioni, eravamo successivamente diventati attivi “cobelligeranti” nella guerra contro il Reich, con l’esercito regolare e il movimento partigiano;
premesso, in conseguenza, che “le Potenze Alleate e Associate e l’Italia desiderano concludere un trattato di pace che, conformandosi ai principi di giustizia, regoli le questioni che sono ancora pendenti a seguito degli avvenimenti di cui nelle premesse che precedono e che costituisca la base di amichevoli relazioni fra di esse, permettendo così alle Potenze Alleate e Associate di appoggiare le domande che l’Italia presenterà per entrare a far parte delle Nazioni Unite ed anche per aderire a qualsiasi convenzione stipulata sotto gli auspici delle predette Nazioni Unite”;
tutto ciò premesso, e facendo capire che, se non avesse accettato il Dictat che era il Trattato, l’Italia avrebbe potuto esser esclusa dal consesso delle Nazioni Unite, la cui Carta era stata approvata il 24 ottobre 1945 a S. Francisco, si concludeva affermando che le Potenze da un lato e l’Italia dall’altro, “hanno pertanto convenuto di dichiarare la cessazione dello stato di guerra e di concludere a tal fine il presente Trattato di Pace ed hanno di conseguenza nominato i plenipotenziari sottoscritti etc.”[3].

Lo stato di guerra con l’Italia era stato solamente sospeso dal concesso Armistizio, che, come risulta dal nome, è solo una tregua d’armi:  esso cessava solamente con l’entrata in vigore di un Trattato di Pace.  E lo “stato di guerra” era appunto quello di un nemico vinto e arresosi, rimasto immutato nonostante la cobelligeranza.  Finita la quale, con la cessazione della guerra guerreggiata, era rimasta solamente l’ostilità provocata dall’Italia, da sanare con il Trattato.
Che le “questioni ancora pendenti”, regolate nel Trattato, dovessero esser poi regolate in modo a noi sempre e comunque sfavorevole, ciò non si deduceva ovviamente dal Preambolo, che si limitava a specificare (ma non senza ambiguità, come vedremo)  l’evoluzione della nostra posizione: da aggressori a vinti, da vinti a cobelligeranti, trattati poi, come si sarebbe visto dal testo, sempre come nemici e vinti, nel modo più assoluto.
Una prima ambiguità, che nasconde una falsa rappresentazione dei fatti, si nota là ove si afferma che il regime fascista venne rovesciato, per ciò che riguarda l’apporto italiano, “con l’aiuto degli elementi democratici del popolo italiano”.  Ma quali sarebbero stati gli “elementi democratici”? I partiti antifascisti?  In realtà l’antifascismo organizzato politicamente non contava nulla, alla data del 25 luglio, non esisteva nemmeno.  Il regime fu rovesciato con un colpo di Stato (l’arresto di Mussolini, che decapitò il Partito Nazionale Fascista) organizzato dal Re e dalla cerchia che si rifaceva a lui (alti funzionari, generali come Badoglio).  Una congiura di palazzo, perpetrata da elementi tra i più conservatori della società del tempo, lontanissimi dalle “forze democratiche”di cui al citato Preambolo.  Le “forze democratiche”, ossia i partiti politici, cominciarono a farsi vive durante i 45 giorni di Badoglio (tra il 25 luglio e l’8 settembre) e poi ad operare nel Regno del Sud, nelle sue varie “capitali” (Brindisi, Salerno), distinguendosi subito per faziosità e incompetenza, fatta eccezione per alcune loro singole personalità. 
I politicanti di casa nostra posero subito all’ordine del giorno la questione istituzionale: si rifiutavano di collaborare con lo scheletro di governo messo in piedi dal Re con Badoglio presidente, volevano che Vittorio Emanuele III abdicasse, lo odiavano perché aveva appoggiato e così a lungo il fascismo. Ma il Re non ci pensava proprio a fare il bel gesto. In quel momento così tragico, schiacciati dalla ferrea dominazione angloamericana, la cosa essenziale era forse incancrenirsi in uno scontro frontale con la monarchia?   Mossa politicamente sensata fu quella di Togliatti, capo del Partito Comunista Italiano, appena arrivato da Mosca: bando alla faziosità, bisognava collaborare con la monarchia e con il governo Badoglio, la questione istituzionale andava rinviata a dopo la vittoria nella guerra.  Si è poi saputo che questa cosiddetta “svolta di Salerno” fu ordinata da Stalin a Togliatti, non era farina del sacco di quest’ultimo, del resto sempre  duttile strumento della politica staliniana, anche la più spietata. Stalin aveva capito che l’Italia, occupata dagli Anglo-Americani, rientrava nella sfera d’influenza occidentale ossia americana; perciò i comunisti, pur mantenendo sempre i loro obiettivi rivoluzionari, potevano (al momento) attuare la loro rivoluzione solo servendosi della via pacifica, ossia avanzando nelle istituzioni e nel sociale, in modo da conquistare  un’ampia egemonia politico-culturale ed anche economica, tramite i sindacati e le cooperative (giusta le teorie di Gramsci). 

9.2 Non si trattava di “questioni ancora pendenti” ma di condizioni di pace unilateralmente imposte.
Ma quali erano “le questioni ancora pendenti”? 
Le principali erano le seguenti, tutte vitali:  le riparazioni di guerra, in denaro e altro, nei confronti dei Paesi che avevamo aggredito o che ci avevano dichiarato unilateralmente guerra; l’assetto territoriale del nostro Paese, i cui confini i vincitori volevano ridisegnare;  la sua smilitarizzazione;  i principi ispiratori della sua “rieducazione” politica e civile, che dovevano ispirarsi alla democrazia parlamentare, cioè al sistema politico operante nella parte del mondo controllata dagli Stati Uniti, nella quale ci trovavamo. 
La formula: “le questioni ancora pendenti”(les questions demeurant en suspens) era in realtà ingannevole.  Non si trattava di questioni “ancora pendenti” rispetto ad una sistemazione generale già effettuatasi nei confronti dell’Italia:  si trattava, all’opposto, di questa stessa sistemazione, dell’intero assetto che l’Italia tornata alla democrazia avrebbe dovuto avere adesso che la guerra era finita;  intero, perché comprendente non solo i rapporti con le altre nazioni, a cominciare dalle profonde modifiche cui venivano sottoposti i nostri confini, ma anche l’articolazione interna del nostro Paese, sia civile che militare.  Il trattato incideva e voleva incidere pesantemente anche sul nostro futuro di nazione, oltre che di Stato.
E questo nuovo assetto non veniva negoziato con l’Italia, ci veniva dettato dai Quattro Grandi, sentito o meno il parere dei paesi minori coinvolti, compresi fra le potenze “associate”.  

9.3  Dovevamo far la pace anche con le “Potenze associate” cioè con chiunque volesse “associarsi” nel dichiararci guerra, anche a guerra finita
Il lettore avrà notato la  formula che compare nel trattato quando si indica la nostra controparte:  le “Potenze Alleate e Associate”.  Perché “associate”, chi erano questi “associati”?  Il Trattato ci fu alla fine imposto da ben venti Stati.  Mussolini aveva forse dichiarato guerra a venti nazioni?  Certo che no.  Alle Potenze Alleate si associarono o vennero fatte associare dai Grandi altre potenze, che il testo chiama “associate”.  Erano non solo gli Stati e imperi cui l’Italia fascista aveva dichiarato guerra ma anche quelli che l’avevano unilateralmente dichiarata all’Italia fascista pur nella mancanza di atti ostili di quest’ultima nei loro confronti.  

Il lettore resterà certamente sorpreso nell’apprendere che alla fine del conflitto l’Italia “cobelligerante” con le Nazioni Unite scoprì di trovarsi in guerra con il Belgio, l’Olanda, la Cecoslovacchia, la Polonia, Paesi cui mai l’Italia fascista aveva dichiarato guerra. Ci avevano anche dichiarato unilateralmente guerra la Cina e il Messico, quest’ultimo non ricompreso tra le venti nazioni, e un gran numero di nazioni dell’America Centrale, più il Brasile.

Questa la lista delle  v e n t i  Potenze.
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche [oggi estinta, in quanto impero comunista, ricostituitasi diminuita – ma sempre assai potente - come Federazione russa euroasiatica di religione cristiana-ortodossa, “Santa Russia”], il Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord [oggi non più “grande” e da tempo senza più impero, con la Scozia semiindipendente], gli Stati Uniti d’America, la Cina [nazionalista, ridottasi poi all’isola di Formosa o Tai-wan), la Francia [anch’essa da tempo vedova di tutte le sue colonie], l’Australia, il Belgio [anch’esso da tempo senza colonie e in precario equilibrio tra valloni e fiamminghi], la Repubblica Sovietica Socialista di Bielorussia [estinta, oggi Stato formalmente indipendente dalla Russia], il Brasile, il Canadà, la Cecoslovacchia [divisasi in due Stati, Repubblica Ceca e Slovacchia], l’Etiopia, la Grecia, l’India, i Paesi Bassi, la Nuova Zelanda, la Polonia, la Repubblica Sovietica Socialista d’Ucraina [estintasi, oggi devastato terreno di scontro tra Russia e Occidente], l’Unione del Sud Africa [Stato dovuto successivamente cedere ai nativi africani], la Repubblica Federale di Jugoslavia [dissoltasi meno di cinquant’anni dopo in un sanguinoso caos].
Noi italiani oggi non ci troviamo tanto bene, come nazione unitaria, per i noti motivi.  Ma a qualcuno l’accanimento contro di noi ha già portato male.

Le venti nazioni aderenti al Trattato si ripartivano nel seguente modo:  due blocchi di tipo imperiale e una serie di nazioni a sè, alcune delle quali gravitanti tuttavia verso uno dei due o, a seconda delle circostanze, verso gli Stati Uniti.
Il primo blocco era costituito dall’impero britannico ossia dal Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord assieme ai suoi Dominions: Canadà, Nuova Zelanda, Australia, Unione Sudafricana.  Ad essi andava associata l’India, che sarebbe diventata indipendente il 15 agosto 1947, circa sei mesi dopo la firma del Trattato di Pace con l’Italia.  L’India non era ancora uno Stato a sé e non godeva delle autonomie dei Dominions, pur avendo ricevuto una certa autonomia politico-amministrativa. Nel 1947 la spinta verso l’indipendenza era entrata nel vivo, con proteste, dimostrazioni, ammutinamenti, incidenti.   Quando la Gran Bretagna dichiarò a sua volta guerra all’Italia, l’11 giugno 1940, il vicerè britannico dell’India stabilì che tale dichiarazione impegnava automaticamente anche l’India, suscitando l’ostilità della maggioritaria componente indù del Paese, che inizialmente non collaborò allo sforzo bellico.  Nell’orbita britannica gravitavano a quel tempo paesi come il Belgio, l’Olanda (ufficialmente: Paesi Bassi), l’Etiopia  (liberata dagli inglesi, che ne avevano fatto per alcuni anni una sorta di protettorato). 
L’altro blocco era costituito dall’Unione Sovietica, l’impero comunista, estesosi a Occidente e a Oriente più della Russia zarista.  Grazie a certi rimaneggiamenti costituzionali Stalin presentava due sue Repubbliche (Bielorussia e Ucraina) come se fossero Stati autonomi, guadagnando così due voti alle Nazioni Unite.  Stato formalmente indipendente ma nei fatti satellite dell’URSS era la Polonia comunista.  Di concerto con la Russia sovietica agiva poi la Jugoslavia, altro Stato comunista, preoccupato però di tutelare soprattutto i suoi specifici interessi e le sue ambizioni di potenza emergente e molto aggressiva.
 In posizione autonoma e del tutto indipendente si trovavano, ovviamente, Stati Uniti d’America, Cina, Francia.  I “Quattro Grandi”, USA, URSS, GB e Francia, erano gli effettivi registi del Trattato, coloro che ne avevano elaborato in più tappe il testo.      
L’elenco dei partecipanti al Trattato era comunque aperto, come risultava dall’art. 88.1 del Trattato stesso, che recitava:
“Ogni altro membro delle Nazioni Unite che sia in guerra con l’Italia e che non sia firmatario del presente Trattato, e l’Albania, potranno aderire al Trattato e, dal momento dell’adesione, saranno considerati come Potenze Associate ai fini del presente Trattato”.  L’Albania, ora comunista, non faceva ancora parte delle Nazione Unite. L’adesione al Trattato andava depositata presso il Governo francese, come pure la ratifica dello stesso, indispensabile per ottenere “diritto o beneficio” garantiti dal documento (art. 89).
Oltre alle venti potenze firmatarie del Trattato, ce n’erano dunque altre che si trovavano in guerra con l’Italia. Il Messico, dopo aver rotto i rapporti diplomatici, aveva dichiarato guerra a noi, alla Germania, al Giappone il 22 maggio 1942.  C’erano poi quasi tutte le nazioni centro-americane, allora legatissime agli Stati Uniti.  La posizione dell’Albania era giuridicamente diversa, dal momento che essa, già satellite dell’Italia, era stata annessa (da Mussolini) al Regno d’Italia nell’aprile del 1939 con un’occupazione sostanzialmente pacifica e la fuga del suo Re  (Re Zogu), sicché Vittorio Emanuele III, cui un consesso di notabili albanesi aveva offerto la corona, portava il titolo di “Re d’Italia e d’Albania, imperatore d’Etiopia”.  L’Albania non si trovava verso di noi in una posizione simile a quella dell’India nei confronti dell’Inghilterra?[4]
Ma procediamo con ordine.
L’Italia fece giungere la sua protesta, del resto inutilmente, per esser considerata in guerra con nazioni come l’Olanda, la Polonia, il Belgio, la Cescoslovacchia,  alle quali Mussolini non aveva mai dichiarato guerra.  Il fatto è che i governi in esilio di queste nazioni, tranne quello polacco, ci avevano dichiarato loro la guerra da dove si trovavano in esilio, a Londra.  Pure da Londra, il governo norvegese in esilio ruppe le relazioni diplomatiche con noi, ma senza dichiararci guerra.  Il 13 novembre 1940 il governo polacco ruppe le relazioni diplomatiche, ma non ci dichiarò mai guerra. Ci dichiararono guerra, invece, quello belga (23 nov 1940), quello olandese (11 dic 1941), quello cecoslovacco (16 dic 1941).  Questi governi dichiararono tutti guerra al Tripartito (Patto tra Germania, Giappone e Italia il 27 settembre 1940) e alle Potenze che avevano aderito all’Asse.  Un sottomarino olandese operò attivamente contro di noi nel Mediterraneo, inquadrato nella Royal Navy.  Naviglio mercantile olandese fu occasionalmente affondato da sottomarini dell’Asse.  In estremo oriente, l’Olanda perse inizialmente le sue colonie ricche di petrolio (e la relativa modesta flotta) in séguito all’attacco giapponese.
La nostra e tedesca dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, quattro giorni dopo Pearl Harbor, l’11 dicembre 1941, per onorare l’alleanza col Giappone, provocarono un’ondata di dichiarazioni di guerra contro di noi, Germania e Giappone, per solidarietà con gli Stati Uniti, alcune precedute dalla rottura dei rapporti diplomatici.   Lo stesso, fatale 11 dicembre, oltre agli Stati uniti, ci dichiararono guerra il Costa Rica, Cuba, la Repubblica Dominicana, il Guatemala, il Nicaragua, e appunto l’Olanda.  Il 12 fu la volta di Haiti, El Salvador, Panama.  Il 13 dell’Honduras.  Il 13 stesso, Mussolini replicò dichiarando guerra a Cuba e al Guatemala.  Il 16 si ebbe la già citata dichiarazione della Cecoslovacchia, governo in esilio.  Delle nazioni sudamericane più importanti, solo il Brasile dichiarò guerra all’Italia, oltre che alla Germania, il 22 agosto 1942, dopo aver in precedenza rotto le relazioni diplomatiche.  Mandò anche, come è noto, un piccolo corpo di spedizione in Italia, che per la verità non si distinse in modo particolare.  Venezuela, Perù, Uruguay, Paraguay, Ecuador, Cile, ruppero le relazioni diplomatiche con noi ma senza dichiararci guerra.  L’Argentina, allora peronista, dichiarò guerra a Germania e Giappone (il 27 marzo 1944) ma non all’Italia.  Mantenne relazioni ufficiose con la RSI, suscitando per questo atteggiamento la forte irritazione di Stati Uniti e Gran Bretagna[5].  Tutti questi eventi diplomatici si ebbero tra il 1942 e l’8 settembre 1943, con strascichi nel 1944.  Il Paraguay, il Perù, il Venezuela, l’Uruguay dichiararono guerra a Germania e Giappone nel mese di febbrario 1945.
Al Tripartito dichiarò guerra anche l’Etiopia, il 14 dic 1942, dopo che il 5 maggio 1941 l’esercito britannico aveva ultimato la riconquista del Paese al Negus, sconfiggendo in pochi mesi le nostre truppe.  Al Tripartito dichiarò guerra anche l’Iraq, protettorato inglese, il 17 gennaio 1943.
    Un caso a parte la Bolivia.  Dichiarò guerra alle potenze dell’Asse il 7 aprile 1943 con decreto presidenziale e rinnovò la cosa con dichiarazione del suo governo il 4 dicembre 1944.  A quale Italia, questa seconda dichiarazione di guerra? Dovrebbe trattarsi della Repubblica Sociale Italiana, la “Repubblica di Mussolini”, che però non era riconosciuta da nessuno Stato appartenente alle Nazioni Unite.  O forse si trattò di una reiterazione della dichiarazione precedente?
Il Regno dEgitto, formalmente monarchia indipendente dal 1922 ma di fatto protettorato inglese, ruppe i rapporti diplomatici con l’Italia il 12 giugno 1940 ma non ci dichiarò guerra; la dichiarò a Germania e Giappone il 24 febbraio 1945.
Ci furono anche casi di dichiarazioni di guerra retroattive.  Il 2 feb 1945 l’Ecuador annunziò di esser stato in guerra col Giappone sin dal 7 dic 1941, giorno di Pearl Harbor.  L’Iran dichiarò pur esso guerra al Giappone  l’1 marzo 1945, a partire dal 28 febbraio precedente; la Finlandia dichiarò guerra alla Germania il 3 marzo 1945  retrodatandola al 15 settembre 1944, data dell’entrata in vigore del suo armistizio con L’Unione Sovietica[6].

9.4 Incongruenze del Trattato
 Annotava Amedeo Giannini:  “molti dei venti Stati, come molte delle Nazioni Unite, furono esse a dichiarare guerra all’Italia, o la dichiararono soltanto a guerra finita, o ruppero con essa i rapporti diplomatici; ma la storia, nella sua realtà, non conta.  Quel che conta, giuridicamente, è la manifestazione di volontà di questi Stati di volersi considerare “nemici”dell’Italia, e partecipi, quindi, del trattato impostole, come vincitori”[7].  
La Polonia, ora comunista, di fronte alle nostre proteste nel dichiarare legittimo il suo “stato di guerra” contro di noi, insistette sulla validità della sua pretesa, anche se tale “stato di guerra” veniva in essere da parte sua a guerra finita e nei confronti dell’Italia postfascista e antifascista, avviata alla democrazia parlamentare.   Un fatto così assurdo, sia sul piano giuridico che su quello morale, è imputabile anche alla formulazione generica dell’art. 88.1 del Trattato:  “ogni altro membro delle Nazioni Unite che sia in guerra con l’Italia e che non sia firmatario del Trattato etc.”.  Generica, dal momento che non si precisava da quando tale “membro delle Nazioni Unite” poteva ritenersi in guerra con l’Italia. Non si indicava un termine a quo per determinare i limiti temporali della dichiarazione formale dello stato di guerra.  Poiché l’Italia “liberata” si trovava sempre in regime armistiziale, che non faceva venir meno lo stato di guerra, ne conseguiva che ogni nazione, tra quelle “unite”, poteva aderirvi con il dichiararci guerra, anche se la guerra effettiva, guerreggiata, era non solo finita da tempo ma ci aveva addirittura visto concorrere da attivi “cobelligeranti” alla vittoria delle stesse Nazioni Unite!
Un’ulteriore incongruenza va pertanto segnalata.  Il primo alinea del Preambolo affermava che l’Italia sotto il regime fascista aveva “provocato uno stato di guerra con tutte le Potenze Alleate e Associate [incluse nel Trattato] e con altre fra le Nazioni Unite”.  Ma, come si è visto, non potevamo aver provocato noi uno “stato di guerra” contro Belgio, Olanda, Cecoslovacchia, Polonia, visto che l’Italia fascista non aveva mai dichiarato loro guerra.  Quando entrammo in guerra, il 10 giugno del 1940, dichiarandola a Francia e Gran Bretagna, Belgio e Olanda erano già sotto il tallone tedesco, la Cecoslovacchia era scomparsa dal 15 marzo 1939, divisa da Hitler tra protettorato (tedesco) di Boemia e Moravia e Stato Slovacco; la Polonia pure, spartita tra Hitler e Stalin, nel tardo settembre di quell’anno infausto, nonostante i vani tentativi di Mussolini di convincere Hitler a mantenere uno Stato polacco ridotto ma formalmente indipendente, tra Germania e Russia[8].  Lo “stato di guerra”, casomai, erano state loro a provocarlo contro di noi, dichiarandocela unilateralmente.  Come la Cina, ad esempio, l’8 dic 1941, il giorno dopo Pearl Harbor o il Messico, il 22 maggio 1942, dopo aver rotto le relazioni diplomatiche l’11 dic 1941.  E come tutte le Repubbliche centroamericane e il Brasile.
Ma partecipare al Trattato dalla parte del vincitore voleva dire poter sequestrare i beni italiani sul territorio dello Stato partecipante, in modo da poterli successivamente incamerare  a titolo di compensazione.  Ciò si poteva comunque ottenere già con la semplice interruzione dei rapporti diplomatici, come nel caso dell’Egitto, che sequestrò tutti i beni degli italiani ivi residenti e poi si accordò separatamente con l’Italia per la compensazione che riteneva ad esso dovuta, per i danni risultanti dai  combattimenti con i britannici sul suolo egiziano.

9.5  La nostra “cobelligeranza” non contava nulla
Ogni membro delle Nazioni Unite, costituite in tempo di guerra anche per combattere e distruggere il Tripartito, poteva, dunque, considerarsi nemico dell’Italia nonostante l’avvenuta “cobelligeranza” dell’Italia a favore delle stesse Nazioni Unite:  ciò dimostra, per l’appunto, che l’Italia restava sempre un nemico delle Nazioni unite e che la cobelligeranza non era servita a nulla.  Il trattato non le attribuiva alcun valore, nominandola come un fatto di per sé isolato, privo di connessione con l’intero.  Il Preambolo, come si è visto, aveva dovuto riconoscere che l’Italia, fatto cadere il regime, dopo l’Armistizio, con le sue forze armate regolari e partigiane “prese parte attiva alla guerra alla Germania, dichiarò guerra alla Germania il 13 ottobre 1943 e così divenne cobelligerante nella guerra contro la Germania stessa”.  Ma questa “attiva partecipazione” sembrava essere un fatto privato dell’Italia nei suoi rapporti con la Germania, che non incideva più di tanto:  un semplice, ininfluente fatto di cronaca.
Notava, infatti, Amedeo Giannni, esperto diplomatico, a commento delle righe sopra riportate:  “Ma quel che più interessa è il sapore di ironia che accompagna l’evento della cobelligeranza, il quale sembra discendere automaticamente dalla volontà dell’Italia di entrare in guerra contro la Germania.  Il patto di cobelligeranza diventa così evanescente e perde ogni valore giuridico, onde, nel trattato, non si ricava da esso alcuna conseguenza”[9].  La nostra cobelligeranza, come si ricorderà (vedi la prima parte di questo saggio), fu dovuta soprattutto a pressioni alleate e si inquadrava nel discorso politico da loro sempre rivoltoci, secondo il quale l’alleggerimento delle durissime condizioni di armistizio sarebbe dipeso dal nostro contributo alla guerra contro il Reich, ora comune nemico (nemico anche nostro, dopo la feroce e devastante aggressione senza preavviso nei giorni tragici dell’Armistizio) – contributo che poteva esser dato solo nella forma di una attiva “cobelligeranza”.  In questo senso, credo, Giannini parlava di un “patto di cobelligeranza”, di un’intesa non formale ma sostanziale tra l’Italia e gli Alleati, di un patto tacitamente ammesso dagli stessi Alleati, ai quali, del resto, la nostra “cobelligeranza” premeva assai, anche se per ragioni soprattutto politiche:  nell’Italia “liberata” ci doveva essere un simulacro di Stato italiano (contraltare alla R.S.I.) che partecipava alla Crociata delle Nazioni Unite contro il “nazifascismo”.     
È però sicuro che gli Alleati non si sono mai sentiti moralmente vincolati da un “patto” del genere.  Non ci hanno mai considerato una controparte da trattare su di un piano di parità. Lo dimostra anche il fatto che non intendevano dare al nostro Governo del Sud alcun formale riconoscimento diplomatico.  Furono costretti a farlo dopo la mossa astuta di Stalin, che per primo riconobbe a sorpresa tale governo, con scambio di ambasciatori: iniziativa intesa soprattutto a favorire l’inserimento dei comunisti italiani nell’organismo politico nazionale[10].

10.  Un trattato “punitivo ma non eccessivo”?
Nella Introduzione al suo studio, Sara Lorenzini scrive, nella conclusione, che il trattato fu “certamente punitivo, ma non eccessivo”[11].
Non si trattò di una punizione “eccessiva”, come ritenuto dalla stragrande e indignata maggioranza degli italiani di allora?
Per l’Autrice, in linea con la “Scuola di Bologna”, sezione laica, rappresentata dagli intellettuali del gruppo de Il Mulino (Ernesto Galli della Loggia su tutti), il trattato avrebbe dovuto essere inteso in Italia, “in modo positivo, come nuovo inizio, come riproposizione dell’Italia in chiave europea”[12].
Si tratta di un’interpretazione, a mio modesto avviso, non solo antistorica ma anche del tutto astratta, frutto di libresche ideologie.  Prescinde completamente dalla considerazione sia dei rapporti di forza che dei valori nei quali credono i popoli, ben presenti nell’azione degli Stati.  Pone come criterio di giudizio un’idea di Europa che esiste solo nelle menti di certi ideologhi;  idea, comunque, che si è dimostrata del tutto negativa  implicando essa un “superamento” della nazionalità italiana equivalente, come stiamo vedendo con l’ultralaica e anticristiana Unione Europea, ad un suo vero e proprio annientamento.  
 Lorenzini accenna sinteticamente ai punti del Dictat che avevano causato  tanta indignazione nella nazione, una volta consegnato anche a noi il progetto di Trattato:  “Il paese aveva subito mutilazioni territoriali peggiori rispetto alle attese ed era obbligato alla smilitarizzazione unilaterale delle frontiere.  La flotta era divenuta bottino dei vincitori.  Le clausole economiche erano gravissime.  Imponevano il pagamento di riparazioni e nel contempo privavano l’Italia dei mezzi con cui pagarle: erano confiscati i beni italiani all’estero né si prevedeva la possibilità di recuperare investimenti e crediti, nemmeno quelli verso la Germania”[13].
Ulteriori recriminazioni, presenti persino nella stampa di partito comunista, sembrano a Lorenzini “sostanzialmente nazionaliste”, il che, nell’Italia di oggi, è considerato un grave errore e peccato.  E quali erano?
“La clausola che imponeva all’Italia il rispetto delle libertà fondamentali era un’umiliazione.  Le pretese francesi su Briga, Tenda e Moncenisio erano un’ingiustizia così come l’abbandono delle colonie imposto dagli anglo-sassoni che volevano dominare il Mediterraneo.  Era grave l’imposizione di rinunciare ai crediti verso la Germania, che pure aveva sottratto l’oro alla Banca d’Italia. L’unica differenza riguardava Trieste, per cui secondo i comunisti era indispensabile aprire un dialogo con la Jugoslavia”[14].

Pura utopia, l’idea di un “dialogo” con la Jugoslavia, tuttavia assurdamente accarezzata a lungo dalle sinistre.  Ma per qual motivo tacciare di “nazionalismo” e quindi di ristrettezza mentale la protesta contro clausole che manifestavano palesemente l’avidità e l’ipocrisia dei nostri nemici nonché il desiderio di umiliarci?

Briga e Tenda i francesi le avrebbero volute già nel 1860 e vi aspiravano sin dai tempi del cardinal Mazzarino:  dal lato francese, erano posizioni assai più offensive che difensive.  Ci si imponeva di abbandonare le colonie dell’Italia prefascista, possessi internazionalmente riconosciuti, in nome dell’autodeterminazione dei popoli ma tutti sapevano delle aspirazioni inglesi sulla Cirenaica, russe sulla Tripolitania, francesi sul Fezzan cioè su metà della Libia, ancora inglesi su Eritrea e Somalia. Per alcuni anni gli inglesi coltivarono l’idea di creare una Grande Somalia sotto di loro. Era grave sì, che dovessimo rinunciare ai nostri crediti verso la Germania, visti i danni che ci aveva provocato dall’8 settembre ‘43 in poi, distruggendo a volte anche istituti o monumenti nazionali, obiettivi senza interesse militare; anche se, per la verità, gran parte dell’apparato industriale e agricolo al Nord si era conservato grazie all’interesse dei tedeschi stessi a farlo lavorare per loro (e in misura notevole). L’oro della Banca d’Italia si riuscì poi a ritrovarlo, ma il principio assurdo della inesigibilità dei nostri crediti verso i tedeschi fu proclamato e rimase, ponendoci in una posizione di evidente inferiorità, di Stato incapacitato ad agire.  Ed infine, dov’era il “nazionalismo”nel risentirsi vivamente per quegli articoli del Trattato che provvedevano alla nostra “rieducazione” in senso democratico, come se la nuova Italia non sapesse procedere per conto suo nel tutelare, anche per le minoranze, certe libertà fondamentali, conculcate dal fascismo? 

“L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ivi compresa la libertà d’espressione, di stampa e di diffusione, di culto, di opinione politica e di pubblica riunione”.

Così recitava l’odiato art. 15, nel quale già si presentiva quel deleterio ugualitarismo causa prima della decadenza delle democrazie.  Si trattava, anche qui, di far valere un minimo di dignità, in quanto nazione, in quanto popolo.  Che poi ci fossero anche l’Unione Sovietica di Stalin, i suoi satelliti, la Jugoslavia comunista e persino l’ Etiopia feudale, razzista e schiavista, tra quelli che ci imponevano la rieducazione ai valori della democrazia  liberale, farebbe solo ridere se non si fosse trattato, con il Dictat, di una tragica e ipocrita farsa, consumata sulla nostra pelle. 

11.  Gestazione del Dictat, all’insegna della volontà di punirci da parte dei Tre Grandi e della Francia.
Nel primo tra gli incontri dei Tre Grandi (Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito) durante la II guerra mondiale, a Teheran dal 28 novembre 1943 all’1 dicembre 1943, incontri nei quali si discusse e si decise circa l’assetto che il mondo avrebbe dovuto avere dopo la fine della guerra, si cominciò a parlare (a porte chiuse) del destino riservato all’Italia.  Se ne parlò anche a Jalta (11-14 febbraio 1945), dove gli inglesi già fecero vedere un atteggiamento a noi sfavorevole per la frontiera nostra con la Jugoslavia e l’Austria, cominciando a creare la questione dell’Alto Adige. Infine, a Potsdam, in Germania, poco dopo la fine della guerra, dal 17 luglio al 2 agosto 1945, si passò ai fatti concreti stabilendo un “Consiglio dei Ministri degli Affari Esteri”, avente il compito di predisporre un progetto di trattato di pace con noi e con gli altri ex-aderenti all’Asse. Il progetto, una volta approvato dal Consiglio, sarebbe stato sottoposto all’approvazione delle altre “Nazioni Unite” [15].
Tale Consiglio si riunì a Londra dall’11 settembre al 3 ottobre 1945 ed effettuò trentatre sedute.
“Secondo quanto stabilito a Potsdam, le decisioni dovevano essere prese dai firmatari della resa.  Faceva eccezione la pace con l’Italia, alla cui discussione era ammessa anche la Francia che pure non aveva firmato l’armistizio [concesso a noi, non essendo al tempo la gollista Francia Libera ancora riconosciuta come unico legittimo governo francese]. Nel Consiglio dei Cinque (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Cina, Francia) quattro governi partecipavano ai negoziati per l’Italia, tre a quelli per Romania, Bulgaria e Ungheria e due a quelli con la Finlandia […].  A decidere le sorti dell’Italia erano quindi tre personaggi chiave: l’americano James Byrnes, il sovietico Vjačeslav Molotov e il britannico Ernst Bevin.  Un ruolo minore, ma pure di rilievo, spettava al rappresentante francese, Georges Bidault[16].
I vari governi alleati interessati, tutti formalmente sempre in guerra con noi,  furono invitati a sottoporre per iscritto  suggerimenti e raccomandazioni. Il ministro australiano chiese anche “la partecipazione dei paesi minori alle deliberazioni del Consiglio” ma la proposta cadde nel vuoto[17].
Era evidente che i Quattro Grandi volevano decidere da soli, limitando l’apporto degli altri paesi ad un ruolo meramente consultivo o propositivo che dir si voglia.
“Un rappresentante dell’Italia e uno della Jugoslavia vennero invitati il 18 settembre ad esporre il rispettivo punto di vista sulla questione giuliana; il delegato jugoslavo Kardelj rivendicò il confine dell’Isonzo, mentre De Gasperi [allora ministro degli esteri] illustrò le concessioni che l’Italia era pronta a fare accettando come base di discussione la linea Wilson [sostenuta dal presidente americano Wilson nel 1918, che concedeva Fiume agli jugoslavi ed era al di qua del confine negoziato tra il 1920 e il ‘yu24 tra Italia e Jugoslavia, ma ci lasciava parte dell’Istria]. Il fatto nuovo della Conferenza si ebbe con la richiesta avanzata dalla Russia per una amministrazione fiduciaria collettiva su tutte le colonie italiane e sull’opposizione sovietica alla partecipazione della Francia e della Cina all’elaborazione dei trattati di pace con le nazioni balcaniche e la Finlandia”[18].   Inoltre, i sovietici riuscirono ad imporre il principio secondo il quale “i ministri degli esteri venivano dotati di poteri discrezionali amplissimi e legati all’osservanza degli impegni sottoscritti durante la guerra e a Potsdam.  In pratica esso esigeva l’unanimità delle [loro] decisioni e quindi la necessità del compromesso fra opposte tendenze.  Ma poiché la Russia aveva progetti nettamente contrastanti con quelli degli altri giudici, essa esercitò sistematicamente il suo diritto di veto per obbligare inglesi ed americani ad avvicinarsi il più possibile alle sue volontà”[19].
Già dalla Conferenza di Londra la diplomazia sovietica apparve capace di imporsi e manovrare a suo piacimento, giocando abilmente sui conflitti di interessi strategici che cominciavano ovviamente a manifestarsi fra i “Tre Grandi”.  Era rappresentata da un autentico mastino, l’esperto e abile Viačeslav Molotov (Scriabin, omonimo del compositore), ministro degli esteri, bolscevico della prima ora, uno degli uomini della cerchia intima di Stalin, fedelissimo esecutore della sua politica; esteriormente,  il tipico funzionario sovietico di dopo la vittoria nella Grande Guerra Patriottica:  negoziatore glaciale, spesso arrogante, cordiale o offensivo a seconda della convenienza. Proverbiale la sua capacità di sfinire le controparti in ore di interminabili negoziati a base di niet e pistolotti a sfondo ideologico.
Secondo Tomajuoli, russi e inglesi concordavano nell’ostilità verso l’Italia ovvero in una politica che mirava alla “permanente minorazione politica, strategica ed economica italiana nel Mediterraneo”[20].  Ma tale politica, a ben vedere, non era contraria al punto di vista americano, espresso in genere con alcuni distinguo (dovuti anche alla necessità di non irritare troppo l’elettorato italo-americano).  Insomma, quella era al tempo l’impostazione delle grandi Potenze verso di noi, Francia al seguito, ovviamente.  Così la possiamo riassumere, senza allontanarci molto dal vero:  “l’esclusione dell’Italia dal Mediterraneo e dall’Africa, la sua permanente minorazione nazionale [con le mutilazioni ai confini], la creazione di situazioni che le impedissero in avvenire ogni politica o atteggiamento autonomi e che la legassero permanentemente, per necessità difensive ed economiche, agli interessi angloamericani”[21].
  A causa delle ripetute dichiarazioni anglo-americane a favore di una “pace onorevole” nei nostri confronti se avessimo dato un valido contributo alla vittoria, l’opinione pubblica italiana ingenuamente sperava che, soprattutto da parte americana, ci sarebbero stati interventi a favore dell’eliminazione o comunque dell’attenuazione delle clausole più dure.  Ma quest’attesa andò delusa, a ben vedere, sin dalla Conferenza di Londra, anche se poi gli Stati Uniti furono più morbidi, ad esempio, sull’applicazione delle riparazioni e su questioni minori.  Secondo gli americani, avremmo dovuto pagare le riparazioni solo con la cessione di impianti bellici non trasformabili in industrie civili mentre inglesi e russi ci volevano imporre pagamenti per circa 600 milioni di dollari, di allora (si stabilì  poi una cifra sensibilmente inferiore anche perché l’Italia pagò in via di compensazione con i molti beni che aveva all’estero, soprattutto nelle colonie).

Ma già a Londra furono gli Stati Uniti ad imporre  all’Italia l’obbligo internazionalmente garantito di rispettare le libertà fondamentali (di poi tradotto nel detestato art. 15 del Trattato), cosa che, a parte altre considerazioni, “limitava i suoi diritti sovrani e creava un pericoloso appiglio per possibili interventi stranieri nei nostri affari interni”[22].
Gli americani ci volevano praticamente disarmati, affermando che, in caso di aggressione subíta, avremmo dovuto contare solo sull’aiuto delle Nazioni Unite. Furono d’accordo sulla “retrocessione” del Dodecanneso alla Grecia (termine improprio, nota Tomajuoli).  Infatti, aggiungo, il Dodecanneso con Rodi non era colonia ma possedimento, con un regime di discreta autonomia, venuto in parte meno solo nel 1938 quando Mussolini volle imporre l’italianizzazione dell’insegnamento. L’Italia aveva conquistato quelle isole nel 1912 ai turchi. Feudo veneziano dal 1204, poi genovese nel secolo successivo, erano passate ai Cavalieri Gerosolimitani (gli Ospedalieri), ai quali, dopo il lungo e famoso assedio di Rodi,  l’avevano tolte nel 1522 i turchi.  Parlare di “retrocessione”, come se noi le avessimo tolte ai greci, ai quali andavano ora restituite, era storicamente scorretto. Caso mai, avrebbero dovuto esser “retrocesse”ai turchi, che le detenevano da circa quattro secoli per diritto di conquista. Noi trovammo il Dodecaneso ottomano in uno stato a dir poco penoso di abbandono e desolazione; lo facemmo risorgere con grandi investimenti, lavori di pubblica utilità e l’instaurazione di un’amministrazione moderna[23].
E furono gli americani a far passare il principio del ritiro completo delle truppe straniere dall’Italia, solo dopo la ratifica del Trattato. Le truppe alleate se ne andarono del tutto entro la fine del 1947 ma (osservo) agli Stati Uniti restò la base di Camp Darby, nell’area Pisa-Livorno, zona strategica per l’Alto Tirreno, successivamente collegata al sistema delle basi Nato in Italia.  Questa base costituisce un’enclave americana nel nostro territorio, originatasi a quanto se ne sa di fatto, cioè senza alcun trattato ad hoc. Si può dire che gli americani la detengano per diritto di conquista[24].
Differenze notevoli si verificarono fra i Grandi sul destino delle colonie italiane e della Venezia Giulia, ove era in ballo l’appartenenza all’Italia di Trieste e Gorizia, Capodistria, Pola:  tutte città italiane o a gran maggioranza tali.
“Nei riguardi delle nostre colonie si giunse ad un accordo di principio, secondo il quale le Colonie dovevano essere sottoposte alle norme relative alle amministrazioni fiduciarie contenute nella Carta delle Nazioni Unite.  Ogni nazione avanzò proposte circa la migliore forma di amministrazione e fu in questa sede che la delegazione sovietica stupì le altre avanzando richiesta di ottenere direttamente il mandato su tutti i territori coloniali italiani.  Gli Stati Uniti proposero invece una amministrazione internazionale con il programma di raggiungere entro il minor tempo il maggior grado possibile di autonomia e di indipendenza:  dieci anni per la Libia ed Eritrea ed al più presto per la Somalia”[25].
Era evidente che Stalin voleva mettere le mani su tutte le nostre colonie,  sotto forma dell’URSS potenza “mandataria”, al fine di instradarle verso un’indipendenza che le avrebbe collocate nell’ambito dei satelliti di Mosca.  Era altresì evidente che gli Stati Uniti erano fermamente contrari a che noi mantenessimo anche solo un piccolo lembo del nostro modesto impero coloniale dell’epoca liberale.  Ciò sarebbe stato incompatibile con la loro ideologia democratica, codificata nella Carta delle Nazioni Unite (elaborata assieme agli imperialisti britannici!), e, nello stesso tempo, con la loro particolare forma di “espansione imperiale”, fatta di sfere di influenza economica e politica, innervate da catene di basi militari estendentisi in una fitta rete in tutto il mondo.  L’Italia, da loro e dai britannici conquistata, ancor prima dell’inizio della Guerra Fredda era evidentemente un anello di questa catena.
 Sulla questione della Venezia Giulia, data l’inconciliabilità delle posizioni italiana e jugoslava, fu stabilito di ricorrere al “criterio etnico”, che le tre potenze tuttavia interpretarono ognuna in modo diverso.  Si stabilì una commissione per appurare la composizione etnica locale, ispirata in sostanza alla tesi britannica ovvero “in modo da lasciar il minor numero possibile di slavi sotto l’Italia e di italiani sotto la Jugoslavia”.  Come ricorda Tomajuoli, non si tenne conto del fatto che nella zona occupata dagli angloamericani le popolazioni erano libere di esprimersi mentre in quella occupata da Tito era già all’opera il “terrorismo jugoslavo ai danni degli italiani”, con intimidazioni, sabotaggi e uccisioni; situazione  che impedì ogni seria indagine. E queste prevaricazioni erano praticate in una certa misura anche nella zona di competenza alleata[26].
Il risultato della Conferenza di Londra fu uno shock per il governo e l’opinione pubblica italiana, il primo di una serie:  si cominciava a capire che la nostra “cobelligeranza” non valeva assolutamente nulla agli occhi dei vincitori, che le promesse di una “pace onorevole” erano state solo aria fritta.  Sperando in una buona fede alleata in realtà del tutto aleatoria, il governo italiano si era inizialmente illuso di poter in qualche modo negoziare il Trattato; invece, a Londra potè solo presentare una memoria su elementi di fatto, senza poter interloquire su nulla di ciò che veniva deciso.  Si delineava lo schema che sarebbe stato applicato in seguito, nei nostri confronti.
Gli Alleati decisero, infatti, “di non accettare alcun emendamento italiano come base di discussione, ma di pregare la Commisione politica e territoriale di studiare, nel corso del suo lavoro di elaborazione, le proposte di emendamento italiane.  In realtà si verificò il caso che qualche emendamento italiano, dei meno importanti, venisse poi presentato, in seguito a pressioni esercitate per via diplomatica o personale, da altre delegazioni come proprie. Ma, in generale, le discussioni sul Preambolo misero in chiaro quanto fosse minima la possibilità di ottenere la modifica sostanziale degli accordi già raggiunti a porte chiuse dai Quattro…”[27].
Si fecero ovvi paragoni con il modo duro e sprezzante nel quale era stata trattata la Germania nel 1919. Lorenzini rileva che “l’Italia era stata trattata un po’ meglio. Era stata, per esempio, ammessa a difendere il proprio punto di vista sul confine orientale.  Nel complesso dei negoziati fu invitata quattro volte a parlare al Consiglio dei ministri, assieme alla Jugoslavia.  Sul confine settentrionale, poi, Italia e Austria avevano entrambe presentato un memorandum ed erano state sentite dal Consiglio dei sostituti [funzionari che sostituivano i rispettivi ministri degli esteri].  Il governo poté esporre le proprie argomentazioni in dettaglio sul confine franco-italiano, sulle riparazioni e i danni di guerra, sulle questioni militari.  Inoltre, commissioni speciali furono incaricate di indagini ad hoc sui confini occidentali e orientali.  Ungheria, Bulgaria, Romania e Finlandia, tenute alla larga dalla delegazione sovietica, non ebbero le stesse chance”[28].
Di cosa ci lamentavano, allora?  L’Autrice sembra dimenticare che la Germania, nel 1919, non si presentava a Versailles come “cobelligerante” cui era stata promessa la possibilità concreta di una “giusta pace”, ragion per cui il paragone di cui sopra non era del tutto campato in aria:  pur essendo stati “attivi cobelligeranti” nella seconda fase della guerra, venivamo di fatto trattati in modo simile ai tedeschi di un tempo, che si erano voluti punire (sbagliando) come vinti senza diritto di parlare, cui si imponeva per l’appunto un durissimo Dictat. 
E difatti, la stessa Lorenzini deve subito dopo ammettere che tutte queste apparenti concessioni sul piano procedurale erano del tutto occasionali ed illusorie.
“È vero però che le occasioni per sostenere le tesi italiane furono limitate e non seguite da forme di dibattito in cui fosse ammesso il diritto di replica.  È soprattutto vero che le richieste italiane furono tenute in nessun conto dai negoziatori, preoccupati di contemperare le proprie idee sul destino dell’Italia con la ricerca di un assetto internazionale stabile il più possibile a loro favorevole.  Le speranze per una “pace giusta” [alimentate inizialmente dagli stessi Alleati] furono deluse presto.  I presupposti da cui partiva la diplomazia italiana nell’elaborazione di piani, proposte e richieste erano illusori.  In verità l’Italia non aveva voce in capitolo né alcuno riteneva che l’avrebbe avuta.  De Gasperi se ne era già reso conto, anche se solo nel 1947, a firma avvenuta, avrebbe dichiarato che fin dall’inizio non c’era altro da aspettarsi, perché in fondo bisognava espiare il fascismo”[29].

11.1  Il complesso d’inferiorità dell’antifascismo e le pretese della Francia gollista: il mito della “pugnalata alla schiena”.

Stando così le cose, verrebbe da chiedersi con il senno del poi, perché avevamo continuato ad andare alle conferenze successive, tenutesi a Parigi, e alla firma finale del febbraio del 1947: per puro masochismo?  Le cose non erano così semplici, ovviamente.  La nostra dirigenza era consapevole dell’ostilità preconcetta nei nostri confronti, tuttavia si impegnò come potè, pur con i suoi limiti, per salvare il salvabile.  Le accuse di pavidità e incapacità che le vennero rivolte sono, a mio avviso, ingenerose: elaborammo interventi lucidi e razionali; protestammo non poche volte; ci demmo da fare con le nazioni “piccole” per far presentare da loro i nostri desiderata; cercammo l’appoggio del Vaticano e di  quei filoni di opinione che, soprattutto negli Stati Uniti e nell’America del Sud, erano contrari ad una pace “punitiva” contro di noi.  Si ottenne pochissimo e a tanti nostri avversari sembrò anche troppo[30].  Si riuscì ad ottenere il principio che il Trattato potesse esser modificato con accordi bilaterali, cosa che avvenne con Stati Uniti e Gran Bretagna, i quali successivamente limitarono le loro richieste di riparazioni e rinunciarano ai compensi navali. Anche con i francesi ci furono rinegoziazioni su aspetti minori. Bidault, cattolico di sinistra, che si considerava amico dell’Italia, affermava che dovevamo essergli grati, invece di criticarlo sempre, perché era riuscito (sottolineava) a far desistere lo Stato Maggiore francese dal mantenere la pretesa di annettere alla Francia anche Ventimiglia e la Valle d’Aosta.  Ma l’aver ottenuto di compensare parte delle sanzioni pecuniarie con la cessione di nostri beni all’estero, fu un vantaggio relativo, dal momento che legittimò il saccheggio sistematico, in particolare da parte degli inglesi, di tante valide strutture civili create da noi nelle colonie e l’appropriazione straniera di tanti nostri beni all’estero.
A mio avviso, tra le tante critiche, d u e sembrano giustificate: ci sarebbe voluta da un lato maggior grinta, maggior “cattiveria”; dall’altro maggior freddezza, maggior lucidità.  Mi spiego.  I sostituti dei ministri degli esteri si riunirono a Londra nell’inverno del 1946 per una riunione di carattere “tecnico” sulla bozza di Trattato elaborata dai rispettivi ministri degli esteri.  Le ragioni italiane le rappresentò l’ammiraglio Ellery W. Stone, americano, capo della Commissione Alleata di Controllo, l’effettiva detentrice del potere esecutivo nell’Italia ancora occupata.  L’ammiraglio, a De Gasperi che gli prospettava le condizioni per noi irrinunciabili sui confini, disse che ”bisognava essere più minacciosi. Era l’unico modo per ottenere qualcosa.  Solo russi e francesi, che agivano così, avevano risultati significativi.  Gli altri, diceva Stone, si comportavano da stupidi. Si fece persino promettere che, in caso di risultato deludente, De Gasperi e il suo partito avrebbero dato le dimissioni dal governo.  Altrimenti le loro richieste da allora in poi sarebbero diventate indifendibili”[31].   
Bisognava minacciare, per la persona dell’ammiraglio Stone, una grave crisi di governo, cosa che né inglesi né americani certamente volevano, in quel momento, per sperare di ottenere qualcosa.  Quest’episodio mi sembra significativo. Un limite all’azione della nostra delegazione era il complesso d’inferiorità del quale sembrava vittima perché convinta che il Paese dovesse comunque “espiare le colpe del fascismo”.   E non solo presso i democristiani.
Che cosa non era capace di dire l’on. Saragat, socialista, alla Commissione politico-territoriale sulla frontiera italo-francese, il 28 agosto 1946? 
“Mi sia concesso di ringraziarvi per aver voluto, prima di prendere una decisione, ascoltare il Delegato dell’Italia.
Devo anzitutto farvi due dichiarazioni.  La prima è che il popolo italiano si sente storicamente responsabile dei delitti del fascismo, perché un popolo è sempre responsabile dei delitti del suo Governo anche se non è colpevole e anche se si è riscattato mediante una lotta di due anni a fianco delle nazioni libere come è il caso del mio paese…”[32].     
Erano soprattutto intellettuali e politici antifascisti a sentirsi “storicamente responsabili dei delitti del fascismo” non certo il popolo italiano, dato che Mussolini aveva sì le sue colpe ma non si era certo dimostrato un Hitler e tanto meno uno Stalin.
A parte il concetto incomprensibile di una “responsabilità” del popolo che resta tale anche se quel popolo “non è colpevole” delle azioni che farebbero venire in essere la suddetta responsabilità; e colpevole, per di più, anche se “si è riscattato mediante una lotta di due anni”; colpisce in Saragat l’atteggiamento di assurda sudditanza psicologica e morale nei confronti dei politici francesi, che cercavano di capitalizzare all’infinito sul mito della cosiddetta “pugnalata alla schiena”, che avrebbero ricevuta da noi con la  dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, quando la Wehrmacht li aveva già messi in ginocchio.
Dichiarazione indubbiamente odiosa per il momento particolare in cui avvenne.   Ma non fu una “pugnalata alla schiena”, frase subito utilizzata dal presidente del Consiglio francese di allora e da Roosevelt.  Cosa si deve intendere con “pugnalata alla schiena inferta nella schiena del vicino”, come disse enfaticamente Roosevelt?  Un attacco a tradimento in piena regola, portato all’improvviso, tale da cogliere il “vicino” alla sprovvista e in modo che non possa difendersi.  Nell’immagine c’è anche l’idea che il pugnalato sia già in difficoltà con il nemico che ha di fronte, sì che la “pugnalata” lo abbatta definitivamente, in modo da consentire rapidi, facili e ampi guadagni al pugnalatore.

Una vera e letale “pugnalata alla schiena” fu quella inferta da Stalin alla Polonia, il 17 settembre del 1939.  I polacchi erano in piena crisi, dopo diciassette giorni di disperati combattimenti contro la guerra-lampo della Wehrmacht.  Stalin, senza dichiarazione di guerra, col pretesto di proteggere le minoranze bielorusse e ucraine incorporate dai Polacchi nel 1920, li prese alle spalle, completamente di sorpresa, occupando comodamente più di un terzo del loro Stato, sottoposto poi al suo crudele dominio. Su quell’attacco proditorio, già previsto nel protocollo segreto del Patto di non aggressione stipulato con Hitler, forse Roosevelt disse qualcosa? E disse mai nulla sulla correità di Stalin nell’inizio della II guerra mondiale in Europa, grazie al suo, improvviso, incredibile accordo con Hitler?  Senza quell’accordo, che lo liberava dal pericolo di combattere su due fronti, Hitler difficilmente si sarebbe mosso.  Verso la fine del conflitto, Stalin attaccò il Giappone moribondo dichiarandogli guerra addirittura l’8 agosto 1945, due giorni dopo la bomba atomica di Hiroshima, e occupando senza problemi la Manciuria e la Corea del Nord. Questa volta la guerra la dichiarò ma al cadavere del Giappone.

Cosa fece, invece, Mussolini?  Un bel pasticcio, che ci attribuì la fama di una “pugnalata alla schiena” che in realtà non avevamo dato poiché la sua dichiarazione di guerra fu dimostrativa e politica, militare solo di facciata, abbondantememte anticipata ai diretti interessati.  Infatti, dopo esser stata nell’aria negli ultimi mesi di negoziati con loro, fu preannunciata diversi giorni prima a francesi e inglesi, dichiarata il pomeriggio del 10 giugno a partire dalla mezzanotte dello stesso giorno, seguita dalla difensiva su tutti i fronti!  Una dichiarazione di guerra “a termine”, cosa senza precedenti nella storia diplomatica, dichiarò Daladier, noto uomo politico francese[33]. 
Un roboante discorso per annunciare l’Intervento (“l’ora segnata dal destino scocca sul cielo della Patria…”) e poi calma assoluta, inazione totale. I francesi ci aspettavano da giorni,  con irata calma, nelle loro munite posizioni sulle Alpi, esattamente come gli austroungarici nel maggio del 1915 sulle loro.  Nessuna sorpresa ma soprattutto nessun combattimento di terra, nemmeno alla frontiera con la Tunisia, al tempo francese. Solo un paio di bombardamenti leggeri su basi francesi, il 13 e il 15.  Il 14 una modesta flotta francese aveva bombardato per breve tempo e con pochi danni la zona industriale di Genova, controbattuta da nostre batterie costiere e da unità siluranti. Come ha dimostrato da ultimo l’eccellente studio di Emilio Gin, Mussolini mirava con quella dichiarazione non a fare la guerra ma ad un risultato esclusivamente politico:  ottenere un visto per “giungere al soddisfacimento degli interessi italiani al tavolo della pace generale”, che riteneva ormai imminente dopo il crollo francese e la rotta inglese, insomma dopo le straordinarie vittorie di un Hitler che si stava dividendo l’Europa con Stalin; tavolo della pace al quale avrebbe sicuramente cercato di  “mediare” tra Hitler e gli sconfitti[34].   
Ma i tedeschi erano ormai a Parigi e l’armistizio francese incombeva: il maresciallo Pétain l’aveva chiesto il 17 giugno e solo ai tedeschi. Mussolini si rese pertanto conto che qualcosa doveva pur fare, sul piano militare.  Così, dopo ben otto giorni di inazione, il 19 giugno, il Regio Esercito ebbe all’improvviso l’ordine di passare immediatamente all’offensiva e su un fronte difficile come quello alpino. Cosa che avvenne inevitabilmente all’insegna dell’improvvisazione e con scarsi risultati. Si combattè solo per quattro giorni contro le ben munite posizioni francesi, mandando in fretta e in furia i soldati ad attaccare su ripidi e scoperti pendii  casematte e fortini irti di mitragliatrici e mortai, come nei peggiori momenti della Grande Guerra. La conquista nostra di territorio francese fu minima, non essendo riusciti ad avanzare che di pochi chilometri. Occupammo Mentone  e qualche km quadrato di prati alpini.  Tanto poco la nostra bislacca “guerra delle Alpi” fu una “pugnalata alla schiena” che il generale francese Hutzinger, plenipotenziario alle trattative di resa con i tedeschi, alle loro richieste di stipulare un armistizio con gli italiani prima che con loro stessi, rispondeva il 22 giugno che ciò non era necessario, perché con l’Italia nei fatti l’armistizio c’era già, nonostante la dichiarazione di guerra di Mussolini!  Infatti:
en réalité, l’Italie nous a déclaré la guerre, mais ne nous l’a pas faite:  la déclarer et la faire, ce n’est pas la même chose.  Nous n’avons pas besoin d’armistice avec l’Italie, parce que cet armistice a commencé le jour même de la déclaration de guerre[35].
Se la nostra è stata una pugnalata alla schiena, bisogna allora dire che il pugnale era di cartone! Due giorni dopo, il 24 giugno, si fece l’armistizio con noi, a quattro giorni dall’inizio effettivo dei combattimenti di terra. Parte dello   Stato Maggiore britannico era angosciata all’idea che bloccassimo all’improvviso il Canale di Suez facendovi autoaffondare qualche mercantile carico di cemento, nel momento stesso della dichiarazione di guerra.  Ma anche su quel fronte, calma assoluta da parte nostra[36].
Successivamente, non riuscimmo nemmeno a farci concedere dal regime di Vichy l’uso della base di Biserta, che sarebbe stato di grande importanza per il nostro traffico marittimo con la Libia, durante la campagna d’Africa, perché ci avrebbe consentito di accorciare di molto le distanze via mare,  transitando  lontano dal raggio d’azione di Malta. La Tunisia l’occupammo assieme ai tedeschi, alla fine del 1942, solo perché incalzati dalle armate alleate. L’occupazione pacifica della Corsica, di Nizza e Grenoble fu la conseguenza dello sbarco americano in Marocco e Algeria, nel novembre del 1942. Hitler diede l’ordine alle forze dell’Asse di occupare il territorio dello Stato Francese del maresciallo Pétain, le cui modeste forze in NordAfrica erano in sostanza passate agli Alleati, dopo brevi combattimenti iniziali.  Né risulta che l’occupazione italiana, prima come “sfera d’influenza” smilitarizzata sino a Nizza e Cannes, estesa poi come “sfera d’influenza” sino a Grenoble, Avignone, Marsiglia dopo il novembre 1942, per quanto ovviamente detestata e mal sopportata, sia stata particolarmente dura per la popolazione.  Vi trovarono rifugio molti ebrei. La discriminazione razziale mussoliniana, ingiusta e odiosa, aveva senza motivo rinchiuso per così dire gli ebrei di nuovo nel ghetto, facendone dei cittadini di serie B o C, che vivevano male ma potevano vivere e sopravvivere – assolutamente niente a che vedere con il puro e semplice sterminio totale dell’ebraismo europeo voluto e organizzato da Hitler a partire dall’estate del 1941, quando attaccò la Russia: questa è una verità storica che bisogna ribadire e tener ferma)[37].
Ma nelle vicende umane bisogna tener conto anche dei valori e dei pregiudizi nei quali un popolo crede.  E l’orgoglio nazionale, particolarmente forte nei francesi, per i quali la Patrie tende ad essere una nozione mistica, fu profondamente ferito dall’occupazione nostra, anche se all’atto pratico essa mostrava più l’intenzione di dichiarare la guerra che quella di farla; occupazione da parte di un popolo da loro sempre considerato inferiore e da loro tante volte invaso e anche in parte periodicamene dominato, sin dal tempo dei Franchi.  E che per di più aveva raggiunto la sua unità anche grazie all’aiuto malgré lui determinante di Napoleone III, nella seconda nostra guerra d’indipendenza.  Nell’accrescere il desiderio di farcela pagare con gli interessi, pesò certamente anche l’irritazione (e la preoccupazione) causata dalla roboante propaganda “irredentista” del regime fascista. 
I nostri rapporti con lo Stato francese (da non confondersi con quelli sul piano umano e culturale, intensi e spesso proficui) sono sempre stati difficili e raramente amichevoli.  All’epoca di Filippo il Bello e della “cattività avignonese” della Chiesa, si creò una forte ostilità a causa della politica, dato che la libellistica francese, volendo dimostrare la necessità per il papato di restarsene per sempre ad Avignone, dipingeva gli italiani come un popolo malvagio e pieno di difetti, che costringeva il Papa a scappare e a mettersi sotto la protezione del Re di Francia. Contemporaneamente, i reggitori ora quasi tutti francesi delle terre della Chiesa provocavano proteste e rivolte per il loro modo arrogante e vessatorio di procedere[38].
A prescindere dall’intermezzo angioino (una dinastia che si italianizzò rapidamente, tant’è vero che Roberto d’Angiò, Re di Napoli, aspirava - giustamente - a diventare Re d’Italia, limitata al tempo l’Italia a Lombardia e Toscana, a causa dell’esistenza dello Stato della Chiesa) - dalle sventurate per noi Guerre d’Italia (1494-1559), provocate dal Re di Francia, che finirono con la conquista spagnola di gran parte della Penisola, sino a Napoleone III (che voleva un’Italia divisa in tre Stati principali, controllati dalla Francia), ovvero per circa tre secoli e mezzo, l’Italia fu per lo Stato francese (come per quello spagnolo e austriaco) terreno di caccia per ogni tipo di intrigo, espansione e conquista, diretta e indiretta.  Al Regno d’Italia, fondato nel 1861, lo Stato francese fu sin dall’inizio tra i più ostili.  L’amicizia con la “sorella latina”, ritrovata sui campi di battaglia della Grande Guerra, si guastò subito  nel turbolento dopoguerra, con la questione fiumana e la tenace opposizione francese  ad ogni nostra possibile (anche solo economico-culturale) espansione nei Balcani. Nel fuoco delle polemiche, la libellistica francese giunse anche a negare, contro i fatti,  che noi avessimo dato un valido contributo alla comune vittoria.  La situazione si deteriorò ulteriormente, dopo alti e bassi, sotto il fascismo con il fallimento nel 1934-5 del c.d. “patto a quattro”, escogitato da Mussolini nel tentativo di fermare l’aggressività di Hitler; fallimento del quale Mussolini incolpava in gran parte Laval, da lui detestato e considerato uomo infido e traditore[39].  L’ostilità divenne praticamente insanabile con la Guerra d’Etiopia e soprattutto con la partecipazione italiana a quella di Spagna, contro la Francia del Fronte Popolare di Léon Blum, che sosteneva il regime repubblicano. 
 Gettavano ovviamente benzina sul fuoco le rivendicazioni “irredentiste” dell’Italia fascista, soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta e le aspirazioni sulla Tunisia.  Almeno a parole,  si manifestava la volontà di riaprire il discorso sulle passate cessioni della Savoia, di Nizza, della Corsica alla Francia.    
Erano pretese infondate.
È vero che la Corsica era ambita dai francesi sin dai tempi di Enrico II di Valois, nella prima metà del Cinquecento, e che Luigi XV era riuscito ad assicurarsela a corononamento di un’azione diplomatica e militare astuta e spregiudicata, che durava da più di un secolo, profittando abilmente e cinicamente della debolezza ma anche della dabbenaggine e della mentalità mercantilistica dell’oligarchia genovese legittimamente sovrana dell’Isola, tolta alcuni secoli prima ai pisani;  ed è vero che una propensione culturale e politica verso l’Italia, e in particolare verso la Toscana, si era sempre mantenuta in Corsica, terra italiana oltre che per la geografia per dialetto, lingua, legami culturali, familiari e di lavoro con noi.  Tuttavia, rivendicare la Corsica, di fatto acquisita dallo Stato francese a partire dal 1768 pagando una lauta cifra alla Repubblica di Genova, sia pure senza formale annessione ma sotto la forma ipocrita di una restituzione dell’isola in rivolta da decenni alla legittima sovranità genovese, grazie alle armi francesi, le cui spese il Banco di S. Giorgio appunto pagava; rivendicarla anche (e soprattutto) per il suo indubbio grande valore strategico difensivo per noi italiani;  questa  p r e t e s a  costituiva un grave errore politico.  Non solo per il suo valore strategico (“..car cette isle, bien munye et fortifiée, est un gran cavalyer sur toute l’Italy..”) ma anche per motivi di pretigio e orgoglio nazionale, mai i francesi avrebbero accettato la perdita della Corsica e a favore di un nemico che non li aveva vinti sul campo[40].       
La collaborazione sarebbe stata possibile solo se Mussolini avesse eliminato pubblicamente le assurde o improponibili richieste “irredentistiche” nei confronti della Francia, magari impegnandosi spontaneamente a  restituire la cittadina di Mentone subito o alla fine della guerra (che cosa se ne faceva l’Italia di Mentone?  Era indispensabile?); insomma, se avesse avuto il coraggio di abolire la parte gretta del suo programma di espansione, fare la pace con la Francia, por fine all’occupazione o ridurla al minimo,  associare infine quel Paese  ad una lotta comune di ampio respiro contro l’imperialismo britannico e le “plutocrazie” alleate del bolscevismo.  Dalle rivendicazioni italiane Mussolini tolse la Savoia “perché francese” e non italiana come Nizza e la Corsica. Giusto.  Ma allora perché, quando si organizzavano manifestazioni contro la politica francese, nella seconda metà degli anni Trenta, si lasciava che la gioventù fascista intonasse canzoni patriottiche tese alla rivendicazione di “Nizza, Savoia, Corsica fatal”?  Se poi non si voleva giustamente acquisire la Savoia, perché farlo scioccamente credere con le manifestazioni di piazza organizzate dallo stesso regime?  Sono i misteri di certi atteggiamenti tipici della prassi politica fascista, che sembrano esprimere tuttavia un difetto nazionale: il voler “assumere atteggiamenti”, minaccianti un’azione che non si farà mai; il voler “far credere”; il voler “dar l’impressione”;  l’agitarsi “parolaio e retorico” per chiedere cento già sapendo di esser pronti ad accontentarsi di meno della metà.
La Savoia (francese) e la contea di Nizza (prevalentemente ligure ossia italiana, patria di Garibaldi) le aveva cedute liberamente il Piemonte (il Re di Sardegna) per realizzare la nostra unità nazionale, in cambio dell’acquisizione della Lombardia (senza la fortezza di Mantova) e di parte dell’Italia centrale, previo plebiscito.  Non c’era pertanto nulla da reclamare, da quel lato, per quanto dolorosa si stata la perdita di una città in pratica italiana come Nizza, nella quale in realtà non si era sviluppata nessuna tendenza “irredentista” a favore dell’Italia[41].
Legittime apparivano invece le pretese di Mussolini, di rivedere a nostro favore il Trattato che regolava i diritti dei numerosi italiani di Tunisia, di essere l’Italia ammessa almeno ad una parte degli utili derivanti dalla gestione del Canale di Suez i cui pedaggi molto ci gravavano, di ottenere una sorta di internazionalizzazione di Gibilterra: insomma di rompere in qualche modo il nostro incapsulamento nel Mediterraneo.  La nostra partecipazione agli utili della gestione del Canale era prevista nella Convenzione di Costantinopoli del 1888[42].  Meno legittima, al contrario, la pretesa di “sostitursi politicamente alla Francia” in Tunisia, cioè in pratica di impadronirsi della Tunisia.  Saggezza avrebbe voluto che essa fosse lasciata cadere o ridotta ai minimi termini al fine di giungere rapidamente ad un accordo con Vichy per il pieno utilizzo di Biserta e di Tunisi, esigenza vitale per il rifornimento degli eserciti dell’Asse in NordAfrica. 
 Cose del passato, si dirà.  Ma, in un certo senso, è un passato che non passa mai. 
Voglio dire, con questo, che sarebbe ora di smetterla con il continuare a sentirsi in colpa per una “pugnalata alla schiena” che nei fatti non c’è stata. C’è stata una guerra  dichiarata pro forma alla Francia (e all’Inghilterra) solo per accorgersi che si doveva  combattere da subito sul serio, e nella scomoda posizione di chi aveva fatto la figura di dare una “pugnalata alla schiena”.  Ma non era certo questa l’intenzione di Mussolini, che ha dichiarato la guerra per non doverla fare, sbagliando clamorosamente.  Il cerino acceso gli è rimasto in mano, come si suol dire.  Invece di una partecipazione eminentemente politica ad una guerra già vinta da Hitler, l’Italia, che non era preparata ad un conflitto di quella portata, si è trovata immersa in una lotta all’ultimo sangue contro l’Impero Britannico e poi, trascinata da Hitler e dal Giappone, contro le due altre potenze mondiali, Unione Sovietica e Stati Uniti.  Tuttavia, con migliori comandi, si sarebbe potuto far meglio, soprattutto nella fase iniziale del conflitto, e perdere in ben altro modo[43].   

11.2  Come effettivamente maturò “l’aggressione” dell’Italia fascista: il peso determinante del blocco navale inglese.  
Ancor oggi Mussolini viene vilipeso per l’errore fatale dell’entrata in guerra e in quel modo singolare, frutto, si ripete, di dilettantismo, egocentrismo, megalomania, mancanza di scrupoli, sciacallaggio politico e chi più ne ha più ne metta: insomma, il colpo di testa di un minus habens, vittima della sua retorica imperial-guerrafondaia.  A questa semplicistica vulgata, bisogna opporre un’analisi documentata e razionale, come ha fatto Emilio Gin, secondo il metodo storiografico inaugurato dal compianto Renzo De Felice.  Errore certamente vi fu.  Tuttavia, sbagliano sicuramente tutti quelli che ritengono fosse possibile all’Italia poter godere di una sicura e tranquilla neutralità e magari arricchirsi con ogni sorta di traffici.  La nostra posizione geografica e le lotte reciproche delle Grandi Potenze, che sempre la coinvolgono, non ci lasciava e non ci lascia questa libertà.
Ha ragione, a mio avviso, chi ha sostenuto che sia nel 1914 che nel 1940 la nostra libertà di scelta era alquanto limitata.  Per restare neutrali e non soffrir danni bisogna essere forti militarmente ed economicamente mentre l’Italia era in entrambi i campi nettamente più debole degli altri contendenti.  
“La neutralità nelle guerre d’altri è buona a chi è potente in modo che non ha da temere di quello di loro che resterà superiore, perché si conserva senza travaglio e può sperare di guadagno de’ disordini d’altri:  fuori di questo è inconsiderata e dannosa, perché si resta in preda del vincitore e del vinto.  E piggiore di tutte è quella che si fa non per giudizio ma per irresoluzione cioè quan do, non ti risolvendo, se vuoi essere neutrale o no, ti governi in modo che non satisfai anche a chi per allora si contenterebbe che tu lo assicurassi di essere neutrale”[44].
Certamente, nel 1915 si poteva continuare a mantenere la neutralità a patto di rinunciare a compiere l’unità nazionale, ponendo finalmente termine a tre secoli e mezzo di dominazioni straniere, e sempre con l’incognita di quale sarebbe stato l’atteggiamento della Gran Bretagna, dominatrice del Mediterraneo mare fondamentale per la nostra sopravvivenza, ed anzi di tutti i mari.  Già a Cavour era chiaro che non avremmo mai dovuto entrare in guerra contro la potenza che per l’appunto dominava quel mare.  Ma quest’esigenza nostra fu sempre ignorata da tedeschi e austriaci, ai quali chiedemmo invano di far inserire nella Triplice la clausola (la c.d. Dichiarazione Mancini) nella quale si escludeva a priori ogni nostro impegno bellico contro gli inglesi[45].
Nel 1914, La Gran Bretagna, allora prima potenza mondiale, tenne un atteggiamento benevolo nei nostri confronti, cercando subito di attirarci dalla sua parte, anche perché tutti sapevano che la nostra alleanza con l’ Austria-Ungheria era solo di facciata, imposta dalle circostanze.  Ma nel 1939-1940 i rapporti si erano notevolmente deteriorati, dopo l’azzardata creazione dell’Impero o Africa Orientale Italiana, un territorio che avviluppava l’intero Corno d’Africa estendendosi addirittura a tutto l’altopiano etiopico; vicereame il quale, se libero di svilupparsi e rafforzarsi, avrebbe rappresentato un’indubbia minaccia non solo per la Somalia inglese e la vitale “via delle Indie” nel tratto Suez-Aden ma per tutta l’ampia fascia di dominio inglese dall’Egitto al Sudan al Kenia. È vero che l’Etiopia di Hailé Selassié si stava armando modernamente per riprendere la sua spinta di rullo compressore verso lo sbocco al mare, in Eritrea e Somalia, nostre colonie, certa di infliggerci una “seconda Adua”. C’erano stati alcuni tentativi di invasione locale piuttosto allarmanti. Ma Mussolini avrebbe dovuto prudentemente attenersi a quello che sembra esser stato il suo piano iniziale: conquistare un ampliamento nel Nord abissino, lasciando poi un ras nostro amico a capo di uno Stato etiopico ridotto e nostro alleato[46].  Nel governo di Sua Maestà prevalse pertanto la fazione che faceva capo a Eden, che non temeva una guerra con l’Italia, i cui problemi militari erano noti alle alte sfere britanniche grazie anche all’intercettazione del nostro sistema di comunicazioni militari messo in opera già a partire dalla Guerra di Etiopia, cioè dal 1935[47]. 
Venivamo da quattro impegnativi anni di guerra.  In Etiopia, dove, dopo la distruzione dell’esercito del Negus ancora continuava seppure in forma piuttosto ridotta una feroce guerriglia ampiamente sostenuta dagli stessi inglesi, e in Ispagna. Il tutto con grave dispendio  di materiali e scorte. Le perdite umane erano state contenute, tuttavia non trascurabili (In Ispagna, circa seimila caduti; circa la metà in Etiopia, considerando anche la guerriglia, ma cui andavano aggiunte alcune migliaia di africani combattenti per noi).  Diverse linee di armamento erano invecchiate e tardavano i mezzi più moderni, pur alla nostra portata (aerei da caccia di ultima generazione, anticarro più potenti, carri armati più moderni).  Hitler sapeva bene che l’Italia non era pronta ad una guerra europea. Nello stipulare il c.d. Patto d’Acciaio con la Germania, il 22 maggio 1939, gli italiani avevano detto (nel protocollo segreto) che non sarebbero stati pronti ad un’eventuale guerra in Europa prima del 1942.  Eppure Hitler non esitava a trascinarci slealmente nella guerra da lui iniziata il 1° settembre 1939, dopo essersi di sorpresa alleato con Stalin (con l’improvviso Patto di non aggressione del 23 agosto 1939, che violava il Patto Anticomintern con noi e il Giappone) e aver attaccato lui la Polonia, nonostante il Patto d’Acciaio fosse un’alleanza difensiva. Era una situazione simile a quella del 1914, allorché tedeschi e austriaci, nostri alleati, mandarono un irricevibile ultimatum alla Serbia senza consultarci.  Avremmo dovuto entrare in guerra contro i padroni del Mediterraneo per soddisfare gli obiettivi balcanici dell’Austria e senza nemmeno aver la sicurezza di ricevere le adeguate compensazioni, in caso di vittoria austriaca.
La mussoliniana dichiarazione di “non belligeranza” fu più che giusta.  Però la formula era ambigua perché non si trattava ancora di vera e propria neutralità, status che comporta tutta una serie di conseguenze più ampie sul piano politico-economico.  Essa irritava parecchio i tedeschi, i quali fecero capire che non avrebbero tollerato una nostra aperta, formale neutralità: le loro pressioni e minacce impedivano una dichiarazione italiana in tal senso[48]. Dopo l’Anschluss  avevamo il Reich ai confini e Hitler poteva sempre usare la questione altoatesina come pretesto per attaccarci.  Non per nulla Mussolini fece costruire alacremente proprio in quel torno di tempo il c.d. Vallo del Littorio, le cui fortificazioni residue furono completamente demolite solo poco tempo fa (un errore, a mio avviso)[49]. Ma irritava anche gli anglo-francesi, divisi tra il cercare un accordo con Mussolini e l’attacco, anche preventivo, all’irrequieta e fastidiosa Italia fascista, l’anello debole dello schieramento avversario, strategicamente rilevante per l’equilibrio del Mediterraneo. 
Come ben documenta Emilio Gin, dopo articolati dibattiti interni nel governo inglese prevalse la linea dura, una decisione che alla fine si rivelò deleteria per la stessa Gran Bretagna. Infatti, il blocco navale contribuì in misura determinante alla nostra entrata in guerra, col risultato che, dopo le nostre iniziali sconfitte in Cirenaica, i tedeschi vennero trasportati da noi in NordAfrica e  assieme a noi vi tennero impegnate le migliori forze britanniche, sino al maggio del 1943.  Il gravoso impegno impedì di difendere come dovuto l’impero in Oriente, dove subirono un vero e proprio tracollo ad opera dei giapponesi.  Persero clamorosamente la grande piazzaforte di Singapore, la Malesia, la Birmania e riuscirono con gran fatica a bloccarli ai confini orientali dell’India.  Successivamente recuperarono tutto ma solo dopo che il Giappone era stato messo in ginocchio dagli americani, senza il cui aiuto ed intervento i britannici non avrebbero vinto nemmeno in NordAfrica, dove si stava creando una situazione di stallo[50]. 
Al contrario di quanto accadde nel 1914, gli inglesi ci imposero dunque un pesante blocco economico, approvato anche dai francesi.  Fermavano  le nostre navi mercantili in mare aperto e poi sequestravano il carico, per controllare successivamente con calma se vi fossero merci incompatibili con la condizione nostra di “non belligeranza”.  Particolarmente grave il blocco sistematico delle nostre carboniere provenienti dai porti tedeschi: toglierci il carbone significava mettere in ginocchio l’industria italiana e per conseguenza le nostre forze armate.  Così Mussolini dovette accettare l’offerta di Hitler, di inviargli il carbone per ferrovia, legandosi ancor di più al carro tedesco.  Ma non si trattava solo del carbone: gli inglesi, per rimuovere il blocco, pretendevano ostinatamente che l’Italia vendesse loro materiale bellico, cosa per noi impossibile in quella situazione.  Se pensavano di indurre in tal modo Mussolini a rovesciare le alleanze, si sbagliarono grandemente perché il Duce  non pensò mai a un rovesciamento di fronte[51].
Mussolini doveva giocare su due tavoli: fare la faccia feroce, da cobelligerante pronto ad entrare in guerra a fianco dell’alleato tedesco, e nello stesso tempo far capire ai franco-inglesi, per vie più o meno indirette, che egli la guerra non la voleva e che sarebbe stato disposto ad un compromesso con loro, purché vantaggioso per l’Italia (modifiche allo statuto di Gibilterra, Suez, Tunisi).   Egli si trovava tra l’incudine del blocco economico, voluto soprattutto dagli inglesi, e il martello dell’ira tedesca, pronta  a colpire l’alleato “infedele”.
Se l’Italia avesse continuato nella “non belligeranza”, forse il blocco economico sarebbe cessato?  La cosa è molto dubbia, data l’evidente volontà inglese di imporci condizioni inaccettabili per la sua rimozione.  La prospettiva che si presentava concretamene ai governanti italiani del tempo era quella della p e n u r i a  industriale, della carestia, della  f a m e da blocco; di perdere comunque, per esaurimento, l’impero coloniale, e di trovarsi in aggiunta sempre più esposti ad un’aggressione tedesca.  Certo, Mussolini avrebbe dovuto continuare nella sua scelta iniziale, anche senza poter dichiarare formalmente la neutralità, attendere a pie’ fermo le eventuali ritorsioni di Hitler (che avrebbe potuto a sua volta toglierci o razionarci il prezioso carbone e portarci al collasso).  Se il Paese fosse stato in grado di affrontare l’isolamento e la carestia, nonché l’ostilità tedesca, si poteva tener duro e cercare di restare di fatto neutrali, affidandosi però in sostanza alla Provvidenza. 

Alcune critiche all’operato mussoliniano appaiono comunque non condizionate dal senno del poi: ad esempio, si poteva evitare di dichiarar guerra alla Francia ormai sconfitta (così pensava l’ambasciatore Pietromarchi, vedi supra) e dichiararla alla sola Inghilterra,  la vera responsabile del blocco economico che mirava ad abbatterci.  Va poi rilevato che la sfiducia che i franco-britannici nutrivano nei suoi confronti, Mussolini la doveva, oltre che ai loro disegni di dominio e ai loro sentimenti antiitaliani e non solo antifascisti, anche a ciò che egli stesso aveva incautamente seminato; ad esempio, con le esagerate e infondate richieste “irredentiste” nei confronti dei francesi (vedi supra); la creazione dell’Impero in Africa Orientale, che sembrava fatta apposta per metterci in irreparabile rotta di collisione con l’Impero Britannico e gli Stati Uniti, enormemente interessati alla sicurezza, ossia al mantenimento del controllo britannico della Via delle Indie.  Un impero, tra l’altro, che potevamo mantenere solo grazie alla benevolenza altrui, dovendo le nostre linee di comunicazione con l’A. O. I. passare per gli imbuti di Gibilterra e Suez, possessi britannici.  Tuttavia, nelle pretese di Mussolini a favore dell’Italia solo una parte era dovuta ad eccesso di ambizione, megalomania “imperiale”.  Per la politica estera fascista, come per quella dell’Italia liberale, bisogna distinguere le aspirazioni da Grande Potenza, che non eravamo e non potevamo essere, da quelle al contrario inerenti ad insopprimibili e fondamentali esigenze di sicurezza nazionale, connesse alla difesa dell’arco alpino, delle coste, delle nostre linee di comunicazione, del nostro commercio.  Cosa che mi sembra venga raramenrte fatta.
La mussoliniana entrata in guerra fu in realtà una decisione sofferta e calcolata.  Sapendo che non eravamo preparati e non credendo di poter restar fuori da una guerra del genere, il Duce si orientò nel senso di entrarvi se possibile quasi senza combattere, all’ultimo, poco prima che finisse (come riteneva o sperava, e non solo lui).  Questo, l’azzardo.  Fece di sicuro almeno due essenziali errori di valutazione.
1. Attribuì a Hitler una razionalità che “il diabolico Cancelliere” non possedeva.  Infatti, riteneva che Hitler avesse ormai compiuto la “revisione” di Versailles e conseguito tutti i suoi scopi di guerra. La Germania si era annessa l’Austria, i Sudeti, aveva fatto di Boemia e Moravia un protettorato, si era spartita la Polonia con la Russia; aveva occupato le neutrali Danimarca e Norvegia, anticipando di poche ore in quest’ultimo Paese i franco-britannici che stavano per fare la stessa cosa, alla faccia del rispetto dei neutrali; demolita in un solo mese addirittura la Francia e riannesse l’Alsazia e la Lorena.  Nel giudizio comune, Hitler non si sarebbe dovuto accontentare? Godersi l’incredibile serie di successi e vittorie e dare all’Europa continentale una solida pace, sia pure ovviamente sotto dominio tedesco? L’Inghilterra appariva del tutto fuori gioco: aveva salvato due terzi del corpo di spedizione a Dunkerque ma perso tutto l’armamento di terra.
2. L’errore di Mussolini fu quello di ritenere che Hitler fosse ormai soddisfatto delle sue grandi conquiste e che egli Mussolini (secondo errore) avrebbe potuto svolgere un proficuo ruolo di “mediazione” al tavolo di una pace ormai imminente. L’idea che l’Italia potesse mediare tra la Germania e i suoi conflitti con le potenze europee, era un’idea base della politica mussoliniana. Aveva dato qualche risultato a Monaco, nel 1938.  Non era un’idea peregrina.  Ma era ormai superata dagli eventi[52].  Lo si era visto nelle convulse giornate dell’inizio settembre 1939, quando non portarono ad alcun risultato gli intensi sforzi italiani per indurre i contendenti a negoziare e sospendere le ostilità.  Nell’estate del 1940 non c’era in realtà nessuna pace imminente da negoziare.  Bisognava battersi, e duramente. E non solo perché in Inghilterra era prevalsa la volontà di resistere ad ogni costo,  per temperamento e forti della garanzia del formidabile appoggio americano, già pienamente in atto (armamenti e navi di scorta in cambio dell’uso di basi inglesi).  La vera guerra per Hitler doveva ancora cominciare.  Non erano in molti ad aver capito che, nella mente esaltata del Führer, tutto questo era stato solo il preludio alla vera e decisiva guerra, quella apocalittica contro L’Unione Sovietica:  grande campagna di sottomissione degli slavi e di annientamento del bolscevismo “ebraico” nonché dello stesso ebraismo europeo (la soluzione finale cominciò infatti ad esser attuata non appena iniziato l’attacco all’Unione Sovietica). Hitler voleva mettere in pratica alla lettera il programma megalomane esposto nel Mein Kampf!
Nella situazione creatasi nella primavera-estate del 1940, restar fuori della sciagurata guerra mantenendosi di fatto neutrali e preparandosi ad affrontarne le dure conseguenze, che si prospettavano pesanti da entrambi i lati dello schieramento, era certamente la decisione da mantenere ma, checché ne pensi la vulgata dominante, non era una decisione per niente facile. Sia la Germania che l’Inghilterra ci avevano chiuso nell’angolo: fu la combinazione di blocco economico e di vittorie tedesche  a spingere il duce alla decisione fatale[53].  Ma in tal modo, Mussolini, sia pur premuto da difficili circostanze, non commise l’errore che non avremmo mai dovuto commettere, quello di schierarci contro la Potenza che dominava nel Mediterraneo?  Lo commise, ma solo in apparenza.  Infatti, la Gran Bretagna stava già usando il suo dominio dei mari contro di noi, per l’appunto con il blocco, come se fosse già in guerra contro di noi.  L’errore nostro era casomai anteriore, ed era stato quello di sfidare l’impero britannico (e non solo) con la conquista dell’Etiopia e la creazione dell’Africa Orientale Italiana.  Ma nel 1940 l’Inghilterra era di fatto già entrata in guerra non (ancora) guerreggiata contro di noi con un blocco navale che non ci lasciava scampo.  Una situazione simile, fatte salve le opportune differenze, a quella del Giappone messo alle strette dall’embargo petrolifero decretato da Roosevelt e dai suoi alleati.  Ma noi non avevamo la libertà d’azione del Giappone, che avrebbe ben potuto limitare la sua vasta e travolgente  avanzata in Cina e cercare un accordo  con l’espansionismo americano.  Mussolini era visto, agli occhi dell’establishment francese e inglese suo nemico, come il “cane idrofobo” (the mad dog) della politica internazionale, che bisognava abbattere[54]. 
L’inazione italiana durò alcuni mesi (come se ci si aspettasse di poter ancora trattare per una pace negoziata) e finì con inutili e macchinose avanzate in Africa, fatte in pratica a piedi, pochi mesi dopo travolte dalla ben condotta controffensiva della piccola ma tutta motorizzata e corazzata armata del generale O’Connor, contro i cui carri pesanti i nostri controcarro da 47 mm. semplicemente rimbalzavano.  Audacia avrebbe voluto, invece, che, dopo aver dichiarato guerra alla sola Gran Bretagna, avessimo subito sabotato il Canale di Suez e ci fossimo lanciati, anche con le modeste forze motorizzate e corazzate che avevamo, contro Suez e contro Port Sudan, sul Mar Rosso.  La divisione corazzata Ariete, gloriosa unità protagonista di tante battaglie, immolatasi ad El Alamein, fu trasportata al completo in Africa solo dopo la disfatta subita da Graziani, nell’inverno 1940-41.  Se fosse stata dislocata prima, come ha rilevato Bandini, assieme alle altre forze motorizzate che avevamo, nel giugno del 1940 non avrebbe trovato che un velo di truppe britanniche sulla strada per Alessandria. Occupata la quale, molto probabilmente l’Egitto sarebbe insorto contro gli inglesi.  Ma il nostro Comandante in capo era il Maresciallo Badoglio, impervio alla moderna strategia della guerra di movimento[55].


* * *

Tornando al Trattato di Pace. Gli errori del fascismo e l’inadeguatezza della vecchia classe dirigente militare, che il fascismo non era riuscito a riformare, non giustificavano i complessi d’inferiorità che affioravano nei dirigenti antifascisti, anche se non in tutti. Voglio dire, con ciò, che mancò nei nostri governanti di allora (e la cosa è stata rilevata) quella mentalità “right or wrong my country “, mirante con ogni mezzo a difendere le nostre legittime pretese: ad ogni costo, anche coi denti, per così dire, come in sostanza consigliava di fare l’ammiraglio Ellery Stone.  Mancò anche la necessaria lucidità.  Date le condizioni disastrose dell’Italia di allora, si aveva comprensibilmente fretta di voltar pagina, per poter entrare nelle Nazioni Unite, per poter ricevere i prestiti e gli aiuti americani, anche alimentari, per liberarsi infine della pesante e umiliante occupazione straniera, oltretutto sempre a nostre spese.   Tuttavia, come poi si vide abbastanza presto, i rapporti con l’Unione Sovietica si stavano già deteriorando e gli Stati Uniti non avrebbero potuto permettersi (e proprio in termini di Realpolitik) di vedere un’Italia abbandonata a se stessa cadere nelle mani dei comunisti, lasciandoci al nostro destino, qualora non avessimo firmato il Dictat.  La Germania non ha mai avuto un trattato di pace, eppure ha potuto ugualmente sopravvivere e riprendersi, e alla grande.  È pur vero che in quella nazione i vincitori avevano proibito la costituzione di un partito comunista, se ben mi rammento[56].  

































 



[1] Vedi:  Sara Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, il Mulino, 2007, citato nella prima parte di quest’articolo;  in particolare, il cap. III: L’opinione pubblica e lo shock del trattato di pace, pp. 99-129.  L’obiettivo del libro “è mostrare quale fu il significato del trattato per l’Italia e per la sua identità nazionale”(op. cit., p. 14). 
[2] Lorenzini, op. cit., p. 74.
[3] Testo nell’Appendice a Lorenzini, op. cit., pp. 155-204; pp. 155-156. Quest’opera riporta il testo del Trattato senza i corposi diciassette allegati, definenti minutamente le varie “questioni”ossia le condizioni di pace che l’Italia doveva accettare senza discutere.  Ci sono state varie edizioni complete del Trattato, indicate da Lorenzini nell’apparato bibliografico del suo saggio. Sono riuscito a consultare solo una delle prime: Il Trattato di Pace con l’Italia, Introduzione e note di Amedeo Giannini e Gino Tomajuoli, Jandi Sapi, Milano-Roma, 1948.  Quest’edizione riporta anche il testo in francese del documento.  Le note sono minuziose e assai utili. Amedeo Giannini (1886-1960), fu eminente diplomatico e fine giurista, appartenente al liberalismo conservatore che collaborò con il fascismo; Tomajuoli, giornalista e saggista indipendente. Ambedue sottopongono a radicale critica il Trattato. Nonostante l’impostazione che risente nettamente del clima di indignazione dominante allora in Italia e il carattere nazionalista o datato di alcuni giudizi, quest’edizione appare ancora valida per la visione d’insieme del documento, la minuziosa analisi della sua elaborazione e per diverse notazioni critiche nella ricostruzione del lavoro delle varie commissioni.
[4] “L’Albania, come è noto, intendeva esser compresa nella schiera dei vincitori dell’Italia e fu ascoltata dalla Conferenza.  Praticamente, grazie alla clausola inserita nell’art. 88, può diventarlo, ma non si volle ammetterla alla Conferenza, più che per i suoi cattivi rapporti con la Grecia, per la preoccupazione che si aggiungesse ancora un altro voto a quelli di cui disponeva l’URSS” (Giannini, op. cit., p. 11 nota n. 7).  
[5] Relazioni ufficiose con la RSI ci furono anche da parte di Portogallo, Spagna, Svizzera.  Relazioni ufficiali con Germania e Giappone e una serie di Stati aderenti all’Asse o comunque satelliti.  Finlandia e Francia di Vichy non la riconobbero.  Sul punto:  Paolo Leone, I campi dei vinti.  Civili e militari nei campi di concentramento alleati in Italia (1943-46), con Prefazione  di Giuseppe Parlato, Cantagalli, 2012, p. 81.  Quest’ottimo studio mette bene in luce anche le complesse questioni giuridico-politiche inerenti al trattamento dei prigionieri di guerra fascisti repubblicani, sorgenti dal mancato riconoscimento della RSI come Stato autonomo rispetto al Reich, cosa che pur era, dal punto di vista istituzionale e sociale, non solo per De Felice ma anche per lo storico tedesco Lutz Klinkhammer (op. cit., p. 82).  Non bisogna confondere la condizione di un’autentica organizzazione statale che, per cause di forza maggiore, si trovi politicamente e militarmente come satellite di uno Stato più forte, con quella di chi è invece ridotto a Stato-fantoccio, cioè a mero simulacro di Stato, privo di ogni effettiva autonomia organizzativa decisionale.   
[6] Per tutti questi dati: The World at War. Chronology of World War II Diplomacy 1939-1945, by Richard Doody,  con estratti di alcune dichiarazioni, pp. 1/20 (worldatwar.net/timeline/other/diplomacy39-45.html).  Il 21 sett 1944 la Repubblica di S. Marino dichiarò guerra alla Germania mentre nel 1945 la dichiararono anche Libano, Arabia Saudita, Turchia.  Con tutte queste dichiarazioni di guerra si otteneva il biglietto d’ingresso alle Nazioni Unite.  
[7] A. Giannini, Il Trattato di Pace con l’Italia, cit., Introduzione al trattato di pace con l’Italia, pp. 7-60; p. 10.
[8] Sul punto:  Emilio Gin, L’ora segnata dal destino.  Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento. Settembre 1938-Giugno 1940, Edizioni Nuova Cultura, Roma/Fondazione U. Spirito e R. De Felice, 2012, p. 173; p. 179 ss.  Quest’opera, basata su un’attenta lettura e rilettura di praticamente tutta la vasta documentazione disponibile, costituisce il lavoro fondamentale sull’intervento del giugno 1940, da apprezzare anche per l’obiettività che l’ispira. 
[9] Giannini, op. cit., p. 10. 
[10] Anche quando i nostri soldati cominciarono a farsi valere sul fronte adriatico, dava fastidio il fatto che potessero dimostrarsi all’altezza di quelli alleati. Dopo la conquista di Ortona da parte dei gurkha della 4a  divisione indiana, ricorda Leoni, “l’inseguimento venne compiuto dai paracadutisti della Nembo e dai fanti del reggimento Palermo.  Il ritmo della marcia fu così elevato da permettere ai paracadutisti di irrompere in Chieti il 9 giugno [1944] prima che i tedeschi minassero i ponti, il sanatorio, il gasometro e il palazzo della Gioventù Italiana del Littorio.  La conquista di Chieti, che si trovava sulla linea di avanzata della 4a  divisione indiana, provocò qualche malumore in ambito alleato, ma convinse più d’uno che gli italiani possedevano insospettate doti di combattività e di celerità di manovra”(Alberto Leoni, Il Paradiso devastato.  Storia militare della Campagna d’Italia. 1943-1945, Ed. Ares, Milano, 2012, pp. 290-291).  Pur senza mai ammetterlo, faceva comodo agli Alleati, a corto di effettivi, poter ora disporre di alcune valide unità italiane da impiegare.
[11] Sara Lorenzini, op. cit., p. 15.
[12] Op. cit., p. 11.
[13] Op. cit., p. 69.
[14] Op. cit., p. 70.
[15] Mi sono basato, oltre che sui lavori di Giannini, Tomajuoli e Lorenzini citati, anche su:  Gianluigi Ugo, Il confine italo-francese.  Storia di una frontiera, Xenia Edizioni, Milano, 1989, già citato nella prima parte di questo lavoro;  Piero Craveri, De Gasperi, il Mulino, Bologna, 2006, specialmente pp. 246-260, dedicate alle Conferenza di Parigi e al Trattato di pace.
[16] Lorenzini, op. cit., p. 39.
[17] Op.cit., p. 41.
[18] Gino Tomajuoli, L’elaborazione del Trattato di Pace, in Il Trattato di pace con l’Italia, pp. 61-103; p. 86.
[19] Op. cit., pp. 86-87.
[20] Op. cit., p. 87.
[21] Op. cit., p. 90.  C’è da chiedersi se l’atteggiamento delle Potenze anglosassoni nei nostri riguardi sia effettivamente mutato, oggi AD 2018.   A ben vedere, si tratta della versione angloamericana del modo nel quale le Grandi Potenze europee hanno sempre concepito (almeno dalle Guerre d’Italia) il posto dell’Italia nel concerto delle nazioni, a cominciare dalla Francia.
[22] Op. cit., p. 91.
[23] Sul Dodecanneso italiano vedi il fondamentale studio di Luca Pignataro, Il Dodecaneso italiano.  1912-1947, Solfanelli, Chieti, in due volumi, 2011 e 2013.  Il primo va dall’occupazione al 1922, il secondo dal 1922 al 1936 e analizza a fondo l’opera di Mario Lago, l’illuminato governatore di quel periodo.  Vedi anche, ad un livello più generale e sintetico:  Ettore Vittorini, Isole dimenticate.  Il Dodecaneso da Giolitti al massacro del 1943, Nuova ediz. ampliata, Le Lettere, Firenze, 2004, p. 23 per le notizie storiche sopra riportate.  Lo studio di Pignataro dimostra l’inconsistenza delle tesi della storiografia di parte, in particolare quella di taglio veteromarxista e politicamente corretta, che vorrebbe esser stato il nostro governo del Dodecaneso nient’altro che colonialismo più o meno mascherato (tipico esponente: Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna, 2002, pp.  178-183).
[24] Per le proposte americane alla Conferenza di Londra, vedi Tomajuoli, op. cit., pp. 90-91.
[25] Tomajuoli, op. cit., pp. 91-92.   Stalin poi rinunciò al suo progetto, proponendo che fosse l’Italia ad avere l’amministrazione fiduciaria della Libia, ma alla vigilia delle decisive elezioni politiche italiane dell’Aprile del 1948, molto temute, che segnarono una grande vittoria della Democrazia Cristiana e un passo indietro del social-comunismo.
[26] Op. cit., pp. 92-93.  Secondo Attilio Tamaro, triestino e diplomatico, nonché storico (di taglio patriottico-conservatore) di quel periodo, il memoriale presentato a Londra per sostenere le nostre tesi sul confine orientale conteneva “molti errori di fatto” (Tomajuoli, cit., p. 95).
[27] Note al Trattato di Pace in Il Trattato di Pace con l’Italia, cit., pp. 225-265; p. 225.
[28] Lorenzini, op. cit., pp. 61-62.
[29] Op. cit., p. 62.
[30] Vedi Henri Azeu, La guerre franco-italienne.  Juin 1940, Presses de la Cité, Paris, 1967, un testo che risentiva ancora dell’acceso clima antiitaliano del dopoguerra.  Dopo aver affermato che la nostra “cobelligeranza” aveva giustificato "l'octroi de conditions de paix infiniment moins dures que celles, écrasantes, auxquelles le pays pouvait logiquement s’attendre après sa longue liste d’agressions:  Ethiopie, République espagnole [sic], Albanie, France, Grèce, Yougoslavie, Union Soviétique etc.”, questo Autore sottolineava quella che gli sembrava una grande generosità da parte della Francia: non aver chiesto compensazioni finanziarie [cioè direttamente in denaro], dato che i danni prodotti dall’occupazione italiana erano stati modesti rispetto a quelli provocati dai tedeschi e  limitarsi a pretendere delle “rettifiche di frontiera tuttavia moderate, motivate da considerazioni difensive”.  Si trattava di regioni in gran parte disabitate, tranne Briga e Tenda, “lasciate colpevolmente da Napoleone III al Re di Savoia [Re di Sardegna] e comprendenti 5000 abitanti, che divennero francesi di diritto dopo esserlo stati per così tanto tempo d’animo e di lingua, votando per il ritorno alla Francia quasi all’unanimità”(op. cit., pp. 354-355).  L’autore semplifica assai e non solo sulla composizione etnica di Briga e Tenda.  Le ambizioni territoriali di De Gaulle e dei militari francesi erano assai più ampie (includevano Val d’Aosta, Ventimiglia,  parte della provincia di Cuneo, Fezzan libico cioè metà della Libia) e non si limitavano affatto alla difensiva, non applicabile comunque alla richiesta di Briga e Tenda né al tentativo di toglierci il Brennero e Trieste con il “Territorio Libero”.  I desiderata gollisti  non si realizzarono per l’opposizione alleata, soprattutto americana, ad ulteriori guadagni sul nostro confine occidentale. La Francia, inoltre, appoggiò attivamente le pretese austriache e jugoslave contro di noi. Fu Bidault a venirsene fuori con l’idea di Trieste “Stato libero”, sotto l’egida dell’ONU, poi adottata.   Interessante l’inclusione della “Guerra di Spagna” tra le aggressioni da espiare.  La privazione delle colonie prefasciste fa vedere come il Trattato fosse in realtà visto quale occasione per regolare definitivamente i conti per tutto il passato dell’Italia unita, “potenza” grande o piccola che fosse, liberale o fascista, la cui unificazione era stata sempre mal digerita dalle Potenze.  Essa aveva di per sé modificato gli equilibri nel Mediterraneo e posto fine alla pentasecolare lotta tra la Francia e il mondo austrotedesco per il dominio dell’indifesa pianura padana. 

[31] Lorenzini, op. cit., pp. 46-47.
[32] Appendice documentata n. 13, in: Gianluigi Ugo, Il confine italo-francese, cit., p. 159.
[33] Gin, op. cit., p. 391.  Sono state trovate le prove, ma non i testi, dei telegrammi cifrati segreti scambiati nei giorni della nostra entrata in guerra tra Vittorio Emanuele III e Lebrun, Presidente della Repubblica Francese. I testi erano fra i documenti personali del Re, scomparsi misteriosamente assieme a molti altri dalla residenza di Cascais in Portogallo, il luogo d’esilio di Umberto II (op. cit., pp. 392-393).

[34] Gin, op. cit., p. 347 e ss.  Guariglia, nostro ambasciatore a Parigi, spiegava ai francesi, come risulta dal verbale francese dell’incontro, che “Mussolini, anche in caso di conflitto, non avrebbe mai aggredito la Francia augurandosi l’instaurazione di “climat de guerre modéré […] entre les deux pays” facendo capire in chiaro a Baudoin che a causa dei legami con la Germania “seulement quand l’Italie sera en guerre contre la France que des négociacions pourraient devenir possible”.  Come si vede il discorso di Guariglia, istruito o no, aderiva con naturalezza alle modalità con le quali l’Italia sarebbe scesa in guerra” (Gin, op. cit., pp. 393-394).  Mussolini e forse anche Guariglia non si rendevano evidentemente conto dell’assurdità del concetto di “clima di guerra moderato”, nella situazione nella quale si trovava la Francia.  Come notava giustamente nel suo diario l’ambasciatore Luca Pietromarchi, sarebbe stato meglio dichiarar guerra alla sola Inghilterra. Un nostro intervento, sia pure inteso come “moderato”, in sè e nella situazione esistente, scriveva, sarebbe privo di senso, “sarebbe la stilettata contro un cadavere e creerebbe tra la Francia e noi un abisso d’odio che nulla potrebbe in avvenire colmare più”(Gin, op. cit., p. 395).  E così poi è effettivamente successo, anche per gli ulteriori errori di Mussolini, che auspicava sì un recupero della Francia di Vichy all’alleanza con l’Italia e un suo ruolo positivo nel nuovo ordine europeo (se l’Asse avesse vinto la guerra) ma nello stesso tempo (irritando profondamente i francesi) manteneva per il dopoguerra i suoi progetti di annessione del Nizzardo, della Corsica, di Tunisi, di Gibuti, credendo di poterle compensare con l’attribuzione a Parigi della Vallonia (Hitler voleva smembrare il Belgio) e delle spoglie delle colonie inglesi (sul punto: Renzo De Felice, Mussolini l’alleato. I. L’Italia in guerra 1940-1943  1. Dalla guerra “breve” alla guerra lunga, Einaudi, Torino, 1990, pp. 88-94; pp. 131-170. De Felice ha trovato un appunto riservato per il Duce nel quale si riferiva l’impietosa critica (in privato) dei tedeschi (di Himmler) alla sua politica francese: “Esser [gli italiani] intervenuti frettolosamente ed inopportunamente contro la Francia, senza ottenere alcun risultato militare, ma creando un’atmosfera di rancore e di ostilità, che rese poi impossibile sia la conclusione della pace che ogni efficace collaborazione con i francesi” (p. 166, n. 1).  

[35] Citato in Gin, op. cit., pp. 406-407.  L’armistizio franco-tedesco fu firmato il 22 giugno, in vigore dal 25 dello stesso mese.
[36] Lo slogan della “pugnalata alla schiena” utilizzato per tutta la guerra, e, in fondo, ancor oggi, ci veniva di continuo ripetuto dai militari francesi, in Africa e in Italia, con astio e disprezzo.  I 40.000 o 60.000 prigionieri italiani consegnati dagli Alleati ai gollisti in Africa del Nord, subirono notoriamente un trattamento durissimo, all’insegna di quello slogan (vedi: Federica Saini Fasanotti: La gioia violata. Crimini contro gli italiani 1940-1946, Edizioni Ares, 2006, pp. 97-131: cap. IV: Crimini del governo della Francia Libera). C’era anche il desiderio di vendicare l’onta dell’occupazione italiana del territorio nazionale francese. In Francia si era anche creata la falsa dicerìa della malvagità degli italiani, i cui aerei nel 1940 avrebbero criminalmente mitragliato i profughi in fuga sui ponti della Loira. Ma quegli aerei portavano sulle ali coccarde rosse e blu, erano dunque inglesi o francesi, sicuramente vittime di un tragico errore di valutazione.  Gli aerei italiani al tempo portavano come insegna due o tre fasci neri in campo bianco e non avevano l’autonomia per volare sino a quei ponti, dall’Italia.  Questo stereotipo negativo è stato smontato proprio da due storici francesi: Frédéric Le Moal - Max Schiavon, La guerra delle Alpi (Juin 1940).  La guerre des Alpes. Enjeux et strategies, Paris, Economica, 2010, che cito dalla recensione di Mariano Gabriele, La guerra delle Alpi, in: ‘Nuova Storia Contemporanea’, 4/2012, pp. 119-126.  Le missioni operative della Regia Aeronautica in territorio francese al di là delle Alpi, furono quattro: tre su basi militari e una sul porto di Marsiglia (recensione cit., p. 123). La prima, come ho ricordato, ebbe luogo il terzo giorno dalla dichiarazione di guerra. Ci furono anche alcuni bombardamenti di Biserta e basi all’intorno e di basi còrse.  Il bombardamento di Marsiglia aveva obiettivi militari, però vi morirono 143 civili e 136 furono feriti (Marco Mattioli, Savoia-Marchetti S. 79 Sparviero Bomber Units, Osprey, Combat Aircraft 122, 2018, p. 47).
[37] Henri Troyat, La rencontre, Plon, Paris, 1968, romanzo ambientato nella Francia di quel periodo:  “… Il paraît que les Allemands commenceront par bombarder Paris. A Megève, on risquera moins. Evidemment, la frontière italienne est à côté! Mais, comme dit papa, Mussolini n’est pas Hitler! Avec des Italiens, on peut toujours s’entendre”(op. cit., p. 122).  Il romanzo descrive poi la situazione in Savoia e nel Delfinato, il contrabbando soprattutto alimentare che vi si praticava, il mercato nero piaga di tutte le guerre, con i contadini che vi si arricchivano, sottolineando l’atteggiamento delle autorità italiane di occupazione, credo in modo abbastanza vicino al vero:  “Aucune uniforme ne venait troubler cette fête perpétuelle des coeurs et des estomacs:  les Italiens, qui contrôlaient depuis peu le secteur, ne se montraient que rarement, et, d’ordinnaire, en tenue civile. On disait d’eux qu’ils n’étaient pas “gênants”” (op. cit., p. 339).  Nell’occupare Mentone, poi di fatto annessa,  le truppe italiane (o meglio, gli operai al seguito, Azeau, cit., p. 378) eccedettero nel far bottino nelle abitazioni temporaneamente abbandonate da parte della popolazione o gravemente danneggiate, a causa dei combattimenti.  Riprovevole sì, ma di certo un peccatuccio da niente rispetto a quello che avrebbero fatto poi i francesi quando parteciparono alla “liberazione” dell’Italia (e dell’isola d’Elba) con il loro Corpo di Spedizione, comandato dall’abile, fortunato e spregiudicato generale Juin: dal saccheggio su scala industriale organizzato dall’ambasciata francese in Roma alle efferatezze innominabili compiute dalle loro truppe coloniali sulla popolazione italiana, in particolare ad opera dei selvaggi berberi musulmani delle montagne dell’Atlante marocchino e algerino,  utilizzati come truppe da montagna, genere di guerra nel quale eccellevano (vedi: Fabrizio Carloni, Il corpo di spedizione francese in Italia. 1943-1944, Mursia, Milano, 2006.  Il libro dà anche un’idea delle micidiali devastazioni e dei saccheggi compiuti spesso da bande di soldati alleati ubriachi, delle uccisioni di prigionieri, delle violenze carnali, argomenti ancora tabù in Italia perché contraddicono l’immagine ufficiale, alquanto edulcorata, della Guerra di Liberazione del 1943-45. I comandi alleati furono in genere poco sensibili alle proteste ufficiali italiane e vaticane per gli stupri e le sodomìe di massa dei “coloniali” arruolati dai francesi (arabi, berberi e senegalesi), limitandosi a fucilarne ogni tanto qualcuno, dopo fatti particolarmente gravi. In molti casi furono le truppe americane, quando erano in zona, a difendere di loro iniziativa la popolazione dai marocchini, semplicemente interponendosi.  Sembra che gli unici a comportarsi quasi sempre correttamente siano stati i polacchi del generale Anders – Carloni, op. cit., passim). Scontri fra la popolazione e i polacchi (fieramene anticomunisti) avvennero in Emilia subito dopo la fine della guerra, ma l’ostilità nei loro confronti era stata provocata dai comunisti italiani ( ciò si deduce da Saini Fasanotti, op. cit., pp. 267-275).
[38] Eugenio Duprè Theseider, I Papi di Avignone e la questione romana, Le Monnier, Firenze, 1939, p. 12; p. 125 ss. et passim.
[39] Sul punto, De Felice, op. cit., p. 131; p. 158.  Pierre Laval fu importante uomo politico francese e presidente del consiglio tra le due guerre.  Inizialmente socialista finì con il collaborare con il Maresciallo Pétain.  Fu fucilato per alto tradimento nel 1945, dopo un discutibile processo.
[40] Sulle vicende della Corsica:  Gioacchino Volpe, Europa e Mediterraneo nei secoli XVII-XVIII (Come la Corsica divenne francese), scritto negli anni Venti del XX secolo, ristampato in: ID., Pagine risorgimentali, Giovanni Volpe editore, Roma, 1967, pp. 95-143; p. 132, per la citazione in francese, da completarsi con quest’altra, di un difensore della politica del duca di Choiseul, mirante all’isola: ïl possesso della Corsica avrebbe dato alla Francia “les moyens faciles pour donner la loi à toutes les côtes d’Italie” (op. cit., ivi).
[41] Sul carattere artificioso del movimento filoitaliano a Nizza, messo in piedi dal regime fascista tramite il generale Ezio Garibaldi, che dirigeva il giornale Il Nizzardo, vedi De Felice, op. cit., p. 165, n. 3,  il quale nota invece come “l’irredentismo corso”, per quanto ovviamente sostenuto dal regime, avesse anche “una propria tradizione e legami più reali con la propria terra”(ivi).  
[42] Gin, op. cit., p. 338. Ma proprio questo non volevano le Grandi Potenze, che noi potessimo affacciarci alle entrate del nostro mare chiuso, anche solo come partecipazione politico-amministrativa minoritaria alla loro gestione.
[43] “Se ci avessero lasciato tre anni di tempo, avremmo potuto fare la guerra in condizioni ben differenti o forse non sarebbe stato affatto necessario farla”, ultimo sfogo di Mussolini registrato da Ciano nel suo diario, l’8 febbraio 1943 (Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943 a cura di Renzo De Felice, Ediz. integrale, BUR, 1998, p. 696).  Le analisi di Franco Bandini (1921- 2004), nonostante alcuni evidenti limiti (un eccesso di indagine sulla psicologia dei protagonisti e giudizi a volte di taglio moralistico sui politici italiani dell’epoca) sono state tra le poche che hanno cercato di spiegare le componenti militari e geostrategiche delle nostre guerre senza lasciarsi influenzare da verità ufficiali spesso di comodo.  Nel suo celebre studio: Tecnica della sconfitta. Storia dei quaranta giorni che precedettero e seguirono l’entrata dell’Italia in guerra, Sugar editore, Milano, 1963, egli ha dimostrato che l’impreparazione dell’Italia era in realtà relativa, nel senso che gli inglesi, per esempio, quando dichiarammo loro guerra avevano nel Mediterraneo ancor meno mezzi di noi.  Una condotta subito aggressiva, nel modo giusto, da parte nostra, avrebbe potuto conseguire qualche risultato in Nord Africa e nel Sudan (non tale da farci poi vincere la guerra contro Potenze di quel calibro, ma tale da consentirci di perderla meglio, dico io, magari con una pace separata, evitando l’invasione straniera dal mare e la guerra civile).  Bandini sottolineò più volte come abbia pesato negativamente nei primi mesi di guerra, l’idea, subito compresa, di entrare in guerra senza aver l’intenzione di farla.  A questo equivoco iniziale si aggiunsero poi certe tradizionali deficienze (di visione complessiva e preparazione) dei nostri comandi supremi, causa di lacune nell’addestramento, nell’armamento e nella condotta delle operazioni. 
[44] Francesco Guicciardini, Ricordi, in ID., Opere, I vol., a cura di Emanuela Lugnani Scarano, UTET, Torino, 1970, pp. 747-748.
[45] Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo, cit., p. 843.
[46] Franco Bandini, Gli italiani in Africa. Storia delle guerre coloniali  1882-1943, Longanesi, 1971, tutto il cap. XV, Il lupo e l’agnello, pp. 267-284.  Nell’estate del 1931 il fitaurari Gabremariam, ras di Harrar, era penetrato in Somalia con un esercito di circa 20.000 uomini, in zone affidate a noi  da un trattato del 1908. Sui 1200 km di frontiera, dai contorni spesso incerti, tra Somalia ed Etiopia, noi avevamo in tutto 1395 dubat, i soldati somali da noi inquadrati, l’equivalente degli ascari eritrei. L’invasore si ritirò solo dopo che Addis Abeba lo aveva sconfessato, dietro forti pressioni di Roma. Tra noi e l’Etiopia c’era il trattato di amicizia del 1928, ma la paura provata a Roma fu notevole e dal 1932 si cominciò a progettare di “mettere in sicurezza” le nostre colonie equatoriali, al momento praticament disarmate (op. cit., pp. 276-277).  
[47] Alberto Santoni, Il vero traditore.  Il ruolo documentato di ULTRA nella guerra del Mediterraneo, Mursia, Milano, 1981, p. 58.
[48] Gin, op. cit., pp. 154-155.
[49] Op. cit., p. 134.  Mussolini temeva di essere attaccato da Hitler.
[50] Gli eventi confermarono i timori espressi da un Memorandum dei capi di Stato maggiore britannici del 14 settembre 1938, secondo il quale l’intervento militare italiano unito a quello giapponese, comportando l’estensione del conflitto a tutto il bacino del Mediterraneo, avrebbe provocato un impegno (commitment) talmente ampio da essere del tutto insostenibile  per le forze dell’impero, se in guerra anche col Giappone (Gin, op. cit., p. 53). L’impero non aveva le forze per difendere simultaneamente  con successo il Mediterraneo e l’Estremo Oriente. Questa constatazione esprimeva le posizioni di coloro che insistevano (vanamente) sulla necessità di trovare un accordo con Mussolini, al fine di mantenerlo neutrale.  Il 16 febbraio 1942, dopo che una loro grande offensiva si era arenata in Cirenaica, gli inglesi fecero segretissime proposte di pace separata ai giapponesi, offrendo di riconoscere il loro dominio nella Cina settentrionale e di tentare di indurre gli Stati Uniti a fare altrettanto, chiedendo in cambio di riavere la sovranità sulla Malesia e su Singapore. Ma il primo ministro Tojo, nonostante un acceso dibattito interno, decise sfortunatamente per il Giappone di rifiutare la proposta (Bernard Millot, La guerra nel Pacifico, tr. it. di Bruno Oddera, Mondadori, Milano, 1972, pp. 119-120).
[51] Emilio Gin ha ricostruito con estrema accuratezza la vicenda, tanto decisiva per il nostro destino quanto completamente dimenticata in séguito, di questo capestro che gli inglesi ci misero al collo con il loro famigerato blocco: op. cit., pp. 243-272; p. 311; p. 313; p. 317.  Ci furono diversi avvertimenti privati di Ciano a non mettere l’Italia con le spalle al muro e  tanti segnali inviati da più fonti qualificate italiane a Londra sulla paura che Mussolini aveva dei tedeschi e sul suo desiderio di trovare un compromesso che tutelasse l’Italia in modo dignitoso. Ma questi segnali, recepiti e trasmessi dall’ambasciatore inglese a Roma, furono ignorati dalla maggioranza del Gabinetto inglese, sul giudizio del quale influiva anche l’avventata propaganda dell’antifascismo in esilio, che sproloquiva di una grave crisi interna del fascismo, politica ed economica, nei fatti inesistente.  I sostenitori della linea dura pensavano (Eden in testa) che mettendo il regime con le spalle al muro grazie al blocco, ci sarebbe potuto essere un suo crollo interno.  In ogni caso, non temevano una guerra contro di noi, anche se le forze britanniche erano inizialmente scarse nel Mediterraneo, considerando essi nullo il nostro potenziale militare; anzi, se la auguravano, al pari di alcuni generali francesi: un’Italia subito in (inevitabili) difficoltà sarebbe stata un grave peso economico e militare per la Germania.  Il crollo militare auspicato da Eden ci fu, ma con tre anni di ritardo, durante i quali la Regia Marina e la Regia Aereonautica riuscirono a tener chiuso il Mediterraneo e ad alimentare con successo quella campagna di Libia, tenacemente combattuta anche dal Regio Esercito accanto all’Afrika Korps, che si rivelò fatale per le sorti dell’impero britannico in Oriente (vedi nota precedente e recensione in questo blog al libro di James J. Sadkovich, La marina italiana nella seconda guerra mondiale, tr. it. di M. Pascolat, revis. Di A. de Toro, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2006).     
[52] Ha messo bene in rilievo quest’aspetto costante dell’azione politica mussoliniana (interessato ma convinto peace-maker tra le grandi potenze) Emilio Gin, op. cit., pp. 359-365.
[53] Sul punto, vedi Gin, op. cit., p. 125, p. 320, che riporta opinioni di alcuni protagonisti del tempo, come il ministro Raffaele Riccardi e altri.
[54] Sul punto, Gin, op. cit., p. 44.
[55] Come ho ricordato, questa tesi è stata sostenuta in modo assai convincente da Franco Bandini nel suo Tecnica della sconfitta, parte Terza e Quarta.  Non si tratta di argomenti scontati, tipici del senno del poi.  L’idea di una iniziale strategia d’attacco contro gli inglesi era sostenuta anche all’epoca, per esempio da  Italo Balbo, governatore della Libia e da qualche isolato generale italiano.  Purtroppo, come nota Bandini, le nostre forze armate “entrarono nel nuovo conflitto persuase di dover combattere una guerra del tutto simile a quella del 1914”(op. cit., p. 389). 
[56] In conseguenza della sconfitta, “l’Italia veniva così ricacciata nei suoi difficili problemi politici e sociali interni che il regime fascista aveva inteso dominare per vent’anni.  Diversamente dal Giappone, l’Italia non aveva un’importanza così centrale nel sistema clientelare americano da far ritenere il consolidamento della sua situazione interna – al di là dello stato d’emergenza – una questione vitale dell’egemonia americana nel Mediterraneo.  Di conseguenza essa si ritrovò a dover contare sulle proprie forze insufficienti, adattandosi al suo ruolo di potenza intermedia in cui era rimasta, in fondo, tra il 1861 e il 1943”(Andreas Hillgruber, Storia della seconda guerra mondiale.  Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenze, 1982, tr. it. di Enzo Grillo, Laterza, Bari, 1989, pp. 208-209).