Crisi della Chiesa: la vera
nozione delle “buone opere”, contro l’eresia luterana di Papa Francesco –
Risposta ad una critica
Nota previa: Mi sono accorto solo il 9 marzo u.s. del cortese intervento critico del lettore
Giorgio Giacometti, “postato” il 25 febbraio precedente. Ho tentato di rispondere sul mio blog ma la
risposta la “macchina” non me l’ha passata, forse per mia imperizia. Rispondo
pertanto in maniera più articolata, con la presente replica, pubblicata come
articolo autonomo. Colgo l’occasione per
ringraziare il generoso apprezzamento di Gederson Falcometa, sempre a proposito
dello stesso articolo, sull’eresia luterana di Papa Francesco.
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L’intervento critico di Giorgio Giacometti.
“Apparentemente la Sua dimostrazione dell’eresia di Papa
Francesco (che coinvolge anche la celebre Dichiarazione congiunta di
cattolici e luterani) è ineccepibile.
Tuttavia, se i Suoi argomenti fossero validi (Lei ragiona su basi
decisamente “aristoteliche”, in termini per così dire, di “bianco e nero”),
l’ecumenismo a cui siamo chiamati dai tempi del Concilio Vaticano II sarebbe
vano. Non vi sarebbe alcuna possibilità
di “rivedere” i dettami del Concilio di Trento o di reinterpretarli in modo
tale da farli collimare, prima o poi, con la dottrina protestante, a sua volta
reinterpretata e approfondita.
È chiaro che,
se “dialogo” deve essere (e se così non dovesse essere, lo stesso Concilio e i
Papi che ne sono seguiti e hanno cercato di attuarlo dovrebbero essere
giudicati eretici), bisogna supporre che almeno alcune difficoltà e
incomprensioni siano “verbali”e non “sostanziali”. A leggere bene, in effetti, gli stessi
articoli del Concilio di Trento, quando parlano delle opere, mettono in luce
l’azione dello Spirito Santo (dunque una forma della grazia). E che significa che le opere “aumentano” la
giustificazione? O si è giustificati oppure no!
Forse significa che la rendono più “splendida”, ma allora non sono strettamente
essenziali…Insomma, non voglio fare il teologo, ma credo che se non si lavora
di fino sui singoli termini con apertura mentale, il dialogo diventa
impossibile e l’ecumenismo è affossato a priori”.
* * * * * *
Sommario : 1. L’ecumenismo
dell’attuale “dialogo”è incompatibile con la logica. 2. La critica di Giacometti al Tridentino non
coglie il senso autentico dei testi. 3.
Il rilievo sull’azione dello Spirito Santo appare ininfluente per la tesi
dell’Autore. 4. Uno pseudo-problema. 5. Nozione della giustificazione. 6. Cause delle giustificazione. 7. La giustizia di Dio si attua in noi
mediante lo Spirito Santo ma con la nostra cooperazione. 8. L’aumento della Grazia, la giustificazione
nell’accrescimento reciproco di fede e opere.
9. Le opere buone aumentano la
“giustizia ricevuta”, ossia la giustificazione.
10. Sembra essersi smarrito il senso del dogma, della verità di fede che
non si può cambiare, nel modo più assoluto.
REPLICA di PAOLO PASQUALUCCI.
[1. L’ecumenismo dell’attuale “dialogo” è
incompatibile con la logica] Dimostrare
in modo “ineccepibile”, dal punto di vista della logica, che Papa Francesco ha
fatto professione di eresia nel dichiarare (come “dottore privato”) che Lutero
non si era sbagliato nella sua eretica dottrina della giustificazione,
significa, dunque, mettersi in contraddizione con l’ecumenismo proposto dal
Vaticano II ed anzi “renderlo vano”?
Non c’è dubbio che sia così, se è vero che
l’ecumenismo proposto dal Concilio consente appunto ad esponenti della
Gerarchia dichiarazioni come quelle di Papa Francesco, legittimanti l’eresia e
quindi esse stesse eretiche. Nella
logica è come nella morale: non si
posson servire due padroni. Come non si possono servire nello stesso tempo Dio
e Mammona, così non si può affermare che la stessa cosa sia e non sia nello
stesso tempo. Vale a dire: che la dottrina luterana della
giustificazione sia eretica per il dogmatico Concilio di Trento ed invece
ortodossa per Papa Francesco (visto che “lui non si è sbagliato”). Se non si è sbagliato Lutero, allora si è
sbagliato il Concilio di Trento nel condannarne le dottrine. Questa alternativa radicale appare troppo “in
bianco e nero”, troppo “aristotelica” e quindi per ciò stesso da
rifiutarsi? Non vedo perché. Non è colpa mai se le categorie fondamentali
della logica delimitano la realtà “in bianco e nero”. Sono categorie che corrispondono al senso
comune e alla recta ratio, dai quali vengono il principio di identità e di non
contraddizione, di causalità e ragion sufficiente; principi che applichiamo
continuamente nella vita di tutti i giorni, anche senza rendercene conto.
Il fatto è, per l’appunto, che l’ecumenismo attuale
vuole, mediante il c.d dialogo, trovare una sintesi tra verità cattolica
ed errore protestante, e non solo protestante.
Ma questa sintesi, come appare p.e. dalla Dichiarazione congiunta,
è impossibile, non regge. E che non si
regga, lo vediamo in primo luogo già dal fatto che essa si dimostra
inconciliabile con le categorie fondamentali della logica, come giustamente
rileva Giacometti. Ripudiando le quali,
l’ecumenismo, per intima sua necessità, porta a mettere in dubbio le verità di
fede dogmaticamente definite – in queste caso, quelle del Tridentino sulla
giustificazione.
Ciò risulta in modo chiarissimo dagli argomenti di Giacometti.
Egli critica la dottrina del Tridentino, affermando preliminarmente che le
differenze (dogmatiche) con i luterani sarebbero frutto soprattutto di
“incomprensioni verbali” assai più che “sostanziali”. Secondo la sua interpretazione, il Tridentino
si limiterebbe a dire che le opere “aumentano” la giustificazione. Se si limitano ad “aumentarla”, rendendola
forse “più splendida”, allora ne consegue che esse non sono “strettamente
essenziali”. Sarebbero comunque sempre
un’azione dello Spirito Santo, “dunque una forma della grazia”. E se “forma della Grazia”, da intendere in
sostanza allo stesso modo di Lutero?
Dal Concilio in poi numerosi teologi e saggisti ripetono
senza posa esser stati i gravi, plurisecolari contrasti di fede con scismatici
ed eretici, il frutto di semplici equivoci, malintesi, anche solo
verbali! Un “dialogo” opportunamento
calibrato e tutto andrà a posto, alla fine: scomparse le antiche diatribe ci
ritroveremo tutti assieme appassionatamente, a costruire la pace nel mondo,
dopo aver “reinterpretato” le nostre e le loro dottrine, realizzando di fatto
una nuova religione, deistico-umanitaria, planetaria, cosmica!
Ma non è far torto alla cultura teologica,
indubbiamente profonda e completa, all’intelligenza
dei Padri di Trento e allo stesso Lutero, voler ridurre il contrasto gravissimo
provocato dall’eresiarca a semplici “incomprensioni verbali”? Forse i Padri non
avevano capito di cosa si stesse discutendo, quale fosse l’effettiva posta in
gioco? Mi sembra che l’ecumenismo imposto dalla Gerarchia ai fedeli, non solo
li costringa a rinunziare alle categorie della logica ma ne svilisca anche la
capacità di comprendere il significato autentico delle verità di fede.
[2. La critica di Giacometti al Tridentino non
coglie il senso autentico dei testi]
Ma vediamo nel merito la critica di Giacometti, che credo esprima un
sentire abbastanza diffuso, tipico di tanti cattolici che in buona fede cercano
di reinterpretare il dogma secondo le direttive dell’ecumenismo, da loro
disciplinatamente (ma acriticamente) accettate.
La critica viene espressa nei seguenti passaggi: “[1] A leggere bene, in effetti, gli stessi
articoli del Concilio di Trento, quando parlano delle opere, mettono in luce
l’azione dello Spirito Santo (dunque una forma della grazia). [2] E
che significa che le opere “aumentano”la giustificazione? O si è giustificati
oppure no! Forse significano che la
rendono più “splendida”, ma allora non sono strettamente essenziali…Insomma,
non voglio fare il teologo etc.”.
Caro Giacometti, qui bisogna invece fare proprio i
teologi, altrimenti come facciamo ad inerpicarci su queste erte balze? Farlo, si intende, nel modo che è consentito
a noi fedeli, che non siamo teologi di professione: cominciando col ricostruire
il testo esattamente, rendendogli quel che è suo.
Veniamo alla Replica, dal n. [1].
[3. Il rilievo sull’azione dello Spirito Santo
appare ininfluente per la tesi dell’Autore] È ovvio che le nostre buone opere non possano
aver luogo senza l’aiuto dello Spirito Santo, che ci sorregge anche nella
nostra fede. Che fede ed opere buone non
possano esser indipendenti dall’azione dello Spirito Santo, viene ribadito più
volte dal Tridentino, in ultimo al canone n. 3, contro i semipelagiani (quel
Concilio non condannava solo gli errori dei luterani).
“Se qualcuno afferma che l’uomo, senza previa
ispirazione ed aiuto dello Spirito Santo, può credere, sperare ed amare o
pentirsi come si conviene, perché gli venga conferita la grazia della giustificazione:
sia anatema”
(G. Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili
Ecumenici, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, p. 552. Si tratta
del Decreto sulla giustificazione, sess. VI, 13.1.1547, pp. 536-557.
Tutte le mie citazione di quel Concilio provengono da questa traduzione. I brani delle Scritture da me citati,
provengono da La Sacra Bibbia, Ed. Paoline, 1963).
Affermare che, essendovi nelle opere anche
l’imprescindibile azione dello Spirito Santo, la giustificazione sarebbe allora
“una forma della grazia”, non dimostra nulla. Non dimostra, cioè, che la giustificazione
avvenga per sola grazia, ma unicamente che la Grazia si manifesta
ineffabilmente per noi e in noi grazie ad un’azione dello Spirito Santo che
influisce in modo decisivo anche sulle nostre opere, senza per ciò stesso far
venir meno la nostra libera volontà che le esegue.
Quest’aspetto si chiarirà nella confutazione della
critica n. [2]
[4. Uno pseudo-problema] Qui abbiamo l’apparente problema rappresentato dalle opere che, secondo Giacometti, si
limiterebbero ad “aumentare” la giustificazione, venendo così a svolgere un
ruolo del tutto secondario. L’aumento
del quale parla il Tridentino (nel cap. IX del Decreto citato) si riferisce
innanzitutto alla grazia, con l’aiuto essenziale della quale otteniamo
la giustificazione, e non alle opere, come se esse contribuissero solo all’aumento
di una giustificazione già ottenuta sola Gratia. Successivamente, nel canone 24 del Decreto,
si afferma che le opere sono “anche causa dell’aumento [ipsius augendae
causam] della giustizia ricevuta” da Dio, ossia della giustificazione. Ma concorrono a questo “aumento” non perché siano il mero effetto di una giustificazione
già concessa per sola fede e sola grazia bensì perché operano attivamente al
venire in essere stesso della giustificazione, facendola crescere su se stessa.
[5. Nozione della giustificazione] Per comprender questo concetto nel
migliore dei modi, inquadriamolo nel suo vero contesto. Cos’è la giustificazione dell’empio?
“è il passaggio dallo stato, in cui l’uomo nasce
figlio del primo Adamo [stato influenzato dal peccato originale], allo stato di
grazia e di adozione dei figli di Dio [Rm 8, 23], per mezzo del secondo Adamo,
Gesù Cristo, nostro Salvatore.” (cap.
IV, Decreto – nel testo originale le indicazioni dei passi scritturali sono in
nota)
Ora, tale “passaggio” non può
avvenire se non rinascendo in Cristo [Gv 3, 5] (ivi). La giustificazione ha origine dalla grazia
preveniente di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, cioè dalla chiamata,
che gli uomini ricevono senza alcun merito, come avvenne emblematicamente agli
Apostoli, uomini semplici, ignoranti e di bassa condizione. Tale gratuita “chiamata” si rivolge a tutti,
in modo che tutti coloro che si erano allontanati da Dio
“siano disposti dalla sua grazia, che sollecita ed aiuta, ad
orientarsi verso la loro giustificazione, accettando e cooperando liberamente
alla stessa grazia, così che, toccando Dio il cuore dell’uomo con
l’illuminazione dello Spirito Santo, l’uomo non resti assolutamente inerte
subendo quella ispirazione, che egli può anche respingere, né senza la grazia
divina possa, con la sua libera volontà, rivolgersi alla giustizia dinanzi a
Dio”(cap V, Decreto).
È qui indicata esattamente la sinergia che si
viene a creare tra la nostra natura decaduta ma non integralmente corrotta
(come riteneva erroneamente Lutero) perché ancora capace di intelletto,
volontà, coscienza morale e l’azione dello Spirito Santo in noi; azione di
fronte alla quale non restiamo affatto passivi, mantenendo la capacità sia di
corrispondere che di non corrispondere.
Dopo aver spiegato la necessità di prepararsi
alla giustificazione, cosa che esige il contributo del nostro libero arbitrio,
e l’origine di essa, il Tridentino illustra “che cos’è la giustificazione e
quali siano le sue cause”, nel cap. VII.
Qui appare un’ulteriore nettissima distinzione rispetto ai luterani, ossia
la riaffermazione del fatto che la giustificazione non è solo “remissione
dei peccati” (perché la divina misericordia emanante dalla Croce si
limiterebbe a ricoprirli – dice l’eresiarca – come un mantello, senza voler
incidere sulla nostra intima natura peccatrice, lasciandoci così come siamo) ma
è anche
“santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore,
attraverso l’accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l’uomo da
ingiusto diviene giusto, e da nemico [di Dio] amico, così da essere ‘erede
secondo la speranza della vita eterna’[Tt 3, 7]” [cap. VII, Decreto]
[6. Cause della giustificazione] La giustificazione così intesa, è perfettamente
coerente alla Sacra Scrittura e alla Tradizione della Chiesa, poiché si vede da
tutto l’insegnamento di Nostro Signore e degli Apostoli, come essi mirino
sempre a promuovere la nostra santificazione e il nostro rinnovamento interiore,
senza i quali non diventiamo quell’uomo nuovo capace delle buone opere
gradite a Dio, esso stesso gradito a Dio e da Lui giustificato ossia trovato
giusto.
Le c a u s e della giustificazione sono le seguenti: finale, nella Gloria di Dio, di Cristo
e nella vita eterna; efficiente, nella misericordia di Dio, che
gratuitamente lava e santifica mediante lo Spirito Santo “pegno della nostra
eredità”[Ef 1, 13-14]; meritoria, Cristo stesso, che ci ha meritato la
giustificazione con la sua Passione, soddisfacendo Dio Padre; strumentale,
“il sacramento del battesimo, che è il sacramento della fede, senza la quale a
nessuno, mai, viene concessa la giustificazione”. Infine, la causa più importante, quella formale,
“è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli è giusto, ma quella per
cui ci rende giusti” (cap. VII, cit.).
Abituati ad una concezione della realtà che vuol far dipendere
sia la natura che la società dal caso e dalla volontà di potenza
esercitantisi erraticamente sotto la spinta degli istinti, ci fa sicuramente
difficoltà trovarci di fronte a quest’esempio di causalità aristotelo-tomistica
applicata alla spiegazione del dogma della fede. In particolare, credo, per ciò che riguarda la
causa formale. La forma,
per la nostra mentalità, riguarda soprattutto ciò che è formale nel senso di
meramente esteriore o nel senso di modo di essere di qualcosa, in sè non limitato
all’esteriorità ma comunque non coincidente con l’essere stesso, con la
sostanza o essenza della cosa. Nel senso
aristotelico classico, invece, la forma è proprio ciò che concerne l’essenza
stessa della cosa, la sua natura intrinseca o sostanza, che la fa essere
quello che è e giammai altro. Così, nel
celebre esempio, riportato nella Fisica e nella Metafisica, l’idea della coppa è la forma (la “forma”
e il “modello”, eidos e parádeigma, l’idea e il paradigma)
che l’argento, plasmato dall’artefice, verrà ad assumere. Ora, quest’idea possiamo considerarla causa
della forma che la materia viene concretamente ad assumere. La materia,
inoltre, si rivela a sua volta causa materiale. Infatti, anche della materia si può dire
che sia causa dell’oggetto perché senza di essa l’idea resterebbe in potenza:
non potrebbe tradursi mai in atto e nulla vi sarebbe nella realtà sensibile. La forma della coppa, causa del venire in
essere della coppa grazie all’attività dell’artefice (causa efficiente)
e sempre per un determinato fine, p.e. puramente estetico o conviviale o di
culto (causa finale), costituisce dunque la natura specifica della
coppa, la sua stessa essenza, quella forma che dà alla cosa il suo
stesso essere di realtà individuale particolare, completamente separato e
diverso da tutto il rimanente molteplice degli enti (forma dat esse rei).
La causa formale, per tradursi nella praxis, ha
bisogno dell’intervento di altre cause, dato che essa è l’idea o il modello
dell’ente che deve venire in essere. Esattissimo quindi dire che la causa
formale della giustificazione, cioè la
forma ad substantiam, poiché ne costituisce l’essenza stessa facendola essere
ciò che è già nella mente dell’Artefice sommo, è la giustizia ed anzi “è la
giustizia di Dio”. Ma non la giustizia di Dio in sé bensì quella che ci
giustifica, che si applica a noi rendendoci effettivamente giusti. Come dice per l’appunto S. Agostino, ripreso
dal Tridentino: “iustitia Dei, non qua
ipse iustus est, sed qua nos iustos facit” (DS 799/1529).
[7. La giustizia di Dio si attua in noi mediante lo
Spirito Santo ma con la nostra cooperazione] Ora, la giustizia divina che ci rende
giusti, come si attua? Prosegue il testo:
“con essa, cioè per suo dono, veniamo rinnovati
interiormente nello spirito [Ef 4,23], e non solo veniamo considerati giusti,
ma siamo chiamati tali e lo siamo di fatto [1 Gv 3, 1], ricevendo in noi
ciascuno la propria giustizia, nella misura in cui lo Spirito Santo la
distribuisce ai singoli come vuole [1 Cr 12, 11] e secondo la disposizione e la
cooperazione propria di ciascuno” (cap. VII, Decreto).
Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno di noi la sua
propria “giustizia”, che è un libero dono di Dio, dal momento che Dio non può
considerarsi obbligato a darcela. Ed
essa è pertanto parimenti un dono dello Spirito Santo, che ugualmente non ha
obblighi nei nostri confronti. Lo Spirito Santo viene dal Padre e dal Figlio (Filioque). Egli distribuisce la giustizia di Dio nel
modo che vuole, ma questo perché “a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo
la misura voluta dal beneplacito di Cristo”(Ef 4, 7). La distribuisce, quindi, secondo la
disposizione e la cooperazione propria di ciascuno e quindi non in modo
uguale per tutti e comunque sempre in relazione alla libertà di ognuno, libero
di disporsi o non disporsi alla grazia e di collaborare o meno con essa. L’
uomo non può considerarsi passivo, in quest’operare dello Spirito nei
suoi confronti, se si vogliono mantenere all’essere umano le caratteristiche
sue proprie, che non sono animali ma spirituali: intelletto, coscienza morale, volontà,
carattere.
La cooperazione del singolo credente all’azione della
grazia in noi (mediante lo Spirito Santo) fa crescere la nostra
santificazione quotidiana. In questa
crescita abbiamo l’aumento della grazia ricevuta, spiegato nel cap. X
del Decreto tridentino (“…ma professando la verità, noi cresceremo per mezzo
della carità sotto ogni aspetto in colui che è il capo, Cristo” – Ef 4, 15). A
questo aumento concorrono ovviamente le opere, rendendoci sempre più giusti
agli occhi di Dio ovvero perfezionando la nostra giustificazione, che si costruisce
giorno per giorno, nonostante le nostre cadute nel peccato, dalle quali
possiamo risollevarci mediante “il sacramento della penitenza, per merito di
Cristo”, recuperando così la grazia della giustificazione (cap. XIV).
(Sull’aumento della grazia della giustificazione
mediante le buone opere, prodotto ex opere operantis, e quindi non
uguale per tutti ma dipendente dal grado nostro di cooperazione all’azione
della Grazia, vedi: Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique,
tr. fr. M. Gautier, Salvator, Mulhouse, 1951, vol. II, § 132, L’inégalité de la mesure de la Grâce).
Ma vediamo il testo del cap. X.
“Gli uomini così giustificati e divenuti amici e
familiari di Dio [Ef 2, 19], progredendo di virtù in virtù [Sal 83, 8], si
rinnovano (come dice l’apostolo [2 Cr 4, 16]) di giorno in giorno,
mortificando, cioè, le membra del proprio corpo [Col 3, 5] e mostrandole come
armi di giustizia per la santificazione [Rm 6, 13 e 19], attraverso
l’osservanza dei comandamenti di Dio e della Chiesa: nella stessa giustizia ricevuta per la grazia
di Cristo, con la cooperazione della fede alle buone opere, essi crescono e
vengono resi sempre più giusti, come è scritto: Chi è giusto, continui a
compiere atti di giustizia [Ap 22, 11], ed ancora: Non aspettare sino alla
morte a giustificarti [Ecli (Sir) 18, 23], e di nuovo: Voi dunque vedete che l’uomo è giustificato
dalle opere e non dalla fede soltanto [Gc 2, 24]. Questo aumento della giustizia chiede la
santa Chiesa quando prega: Dacci, o Signore, un aumento di fede, di speranza e
di carità [Nella preghiera della XIII domenica tra l’anno]”
[8. L’aumento della Grazia, la
giustificazione nell’accrescimento reciproco di
fede e opere] Cosa risulta da
questo capitolo? Che la nostra giustificazione dura per tutta la durata della
nostra giornata terrena. Non è qualcosa
di statico e identico per tutti, perché predato, riconosciuto a priori
in cambio di un nostro semplice atto di fede nella Grazia che ce la
concederebbe a prescindere dalle opere e quindi dall’opera stessa della nostra
quotidiana santificazione interiore, come vorrebbero gli eretici. È un processo che si concluderà solo il
giorno della nostra morte. E fino al giudizio della nostra anima da parte del
Cristo Giudice non avremo mai la certezza di esser giustificati, anche
se la pratica delle tre virtù teologali e delle relative virtù, attuata con la
dovuta perseveranza, ci manterrà la fiducia in Dio evitandoci di cadere nella
disperazione esistenziale (cap. IX, XII, XIII). Proprio la pretesa, piena di
superbia, di avere la certezza assoluta della giustificazione qui e ora, in
questo mondo, è stato l’errore che ha condotto lo sventurato Lutero fuori
strada.
Bisogna quindi tenere a mente che la giustificazione
si attua mediante un rinnovamento costante del nostro vecchio uomo, il
figlio d’Adamo peccatore, gradualmente sostituito dall’uomo nuovo, rigenerato
in Cristo. Essa deve crescere su se stessa, e per tal motivo il cap. X ricorda
che la santa Chiesa chiede continuamente per noi tutti “un aumento della
giustizia” che ci giustifica (vedi supra), quando invoca l’aiuto di Dio
perché ci sia dato un aumento costante di “fede, speranza e carità”, sino alla
perseveranza finale, indispensabile per la salvezza (cap. XIII). E nella carità sono per l’appunto
ricomprese le opere che ci meritano la salvezza (Mt 25, 31 ss.).
Il fondamento scritturale primo della giustificazione
si trova, se non erro, nel discorso di Gesù al fariseo Nicodemo, quando gli
spiegò che, per entrare nel Regno dei Cieli, bisogna nascere di nuovo,
diventare un uomo nuovo in Dio tramite l’insegnamento di Cristo: proprio
quello che l’eretico Lutero nega, dichiarandolo impossibile. “In verità, in
verità ti dico: chi non rinascerà per acqua e Spirito [Santo]
non può entrare nel regno di Dio. Ciò
che è generato dalla carne è carne; e quel che nasce dallo Spirito, è spirito”
(Gv 3, 5-6).
La vita del cristiano è dunque posta dal Signore sotto
l’insegna della rinascita e del rinnovamento interiore: noi dobbiamo rinascere per opera dello
Spirito Santo, mediante il quale opera la Grazia che ci permette di osservare i
Comandamenti e tutti gli insegnamenti di Cristo ossia della Chiesa. Solo se ci rinnoviamo nel senso auspicato da
Cristo possiamo esser giustificati di fronte a Dio. L’idea della giustificazione, correttamente
intesa come attuantesi in un continuo processo di rinnovamento e
santificazione, esclude evidentemente che noi si possa continuare a fare le
“opere della carne” come se volessimo continuare ad esser “generati nella
carne”; gravata com’è, la carne, dalle conseguenze del peccato originale. Solo
la “mortificazione” delle “membra del nostro corpo” fa sì, ribadisce il cap. X,
che tali membra diventino “armi di giustizia per la santificazione”. Si tratta di un noto concetto della Lettera
ai Romani, particolarmente attuale oggi:
“Non abbandonate le vostre membra al peccato, sì che non diventino
strumento d’ingiustizia; ma offrite tutti voi stessi a Dio, come viventi, da
morti che eravate [nei confronti di Dio, per via dei vostri peccati], e fate
servire a Dio le vostre membra, come strumenti di giustizia. Il peccato allora non eserciterà più il suo
dominio su di voi…”(Rm 6, 13-14)
Mettere sotto controllo le nostre passioni, evitando
che il nostro corpo sia ancora strumento del peccato, non appartiene forse alle
opere buone che dobbiamo compiere nei confronti del prossimo e di noi
stessi? Chi è giusto, conferma l’Apocalisse, deve continuare a compiere
“atti di giustizia” ovvero le buone opere, le uniche gradite a Dio.
“L’ingiusto continui pure a commettere l’ingiustizia,
l’immondo seguiti pure ad essere immondo; ma il giusto continui a compiere
nuovi atti di giustizia e il santo a santificarsi ancora. Sì, io vengo presto, portando con me la mia
ricompensa [merces mea], per darla a ciascuno secondo le sue opere [reddere
unicuique secundum opera sua]. Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e
l’ultimo, il principio e la fine”(Ap 22, 11-13).
Qui si vede a chiare lettere che la “ricompensa”,
rigorosamente individuale come il giudizio finale di ciascuno, è il corrispettivo
per le nostre opere, grazie alle quali sarà dimostrata la nostra fede o la sua
mancanza.
E in questo continuo compiere “atti di giustizia”,
attraverso una dura battaglia quotidiana contro noi stessi e il mondo, si ha il
continuo rinnovarsi in Cristo del nostro uomo interiore, più volte testimoniato
da S. Paolo: “Per questo non ci perdiamo
d’animo, e sebbene il nostro uomo esteriore deperisca, il nostro uomo interiore
si rinnova di giorno in giorno”(2 Cr, 4, 16).
Si rinnova nella fede e nelle opere, in stretta simbiosi tra di loro. E
si rinnova per l’appunto nell’accrescersi reciproco delle tre virtù
teologali, come ci spiega lo stesso S. Paolo, nella Lettera ai Romani:
“Essendo dunque giustificati per la fede, noi abbiamo
pace con Dio per mezzo di nostro Signor Gesù Cristo, mediante il quale, per la
fede abbiamo ottenuto l’accesso a questa grazia in cui siamo e ci gloriamo
nella speranza della gloria di Dio [cioè della vita eterna]. Non solo, ma ci gloriamo pure delle
tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce la perseveranza; la
perseveranza, solide virtù, e la virtù provata, la speranza. Or la speranza non inganna, perchè l’amore di
Dio è stato diffuso in abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è
stato dato” ( Rm 5, 5).
La giustificazione l’otteniamo innanzitutto per la
fede in Cristo Nostro Signore: è la fede ad ottenerci tale grazia poiché di
tale fede si compiace sommamente Iddio (“Questi è il mio figlio diletto.
Ascoltatelo!”, Mc 9, 7). Per effetto di questa grazia noi cresciamo
spiritualmente fino a “gloriarci nella speranza della vita eterna”, promessa da
Cristo a chi avrebbe creduto in Lui e osservato i suoi comandamenti. La
speranza della vita eterna diventa qualcosa di reale, una presa di coscienza
nella quale ci gloriamo, ci esaltiamo spiritualmente, ascendendo a gradi
più elevati del nostro interiore perfezionamento. Ma non possiamo “gloriarci” solo con la
speranza che viene dalla fede, dobbiamo “gloriarci” anche con le opere, la cui
necessità emerge nella nostra lotta contro “le tribolazioni”.
Infatti, le tribolazioni non vengono a costituire per
noi una pietra d’inciampo, tale da far naufragare la nostra fede al duro
contatto con la loro realtà? Gesù ci ha
messi in guardia, nella parabola del seminatore (Mt, 13). Ma se manteniamo la
fede possiamo trasformare le tribolazioni nel piedestallo della nostra
gloria. E la fede deve condurci ad
accettarle risolvendole in un momento transeunte ma decisivo del nostro
gloriarci nella speranza della vita
eterna. E come è possibile questo? Con la
consapevolezza che, solo affrontandole, l’uomo giunge alla virtù. La
tribolazione “produce la perseveranza”, virtù indispensabile per la salvezza,
e, in generale, “solide virtù”. La
“virtù provata” ossia messa alla prova, alimenta la nostra
speranza. La speranza nella vita
eterna risulta dalla fede ma viene confermata dalle “solide virtù” che
scaturiscono dalla perseveranza nella lotta contro le tribolazioni della vita
terrena. Confermata, quindi, dalle buone opere, poiché la “virtù messa
alla prova” altro non è che quella che si attua nel sano comportamento morale,
nei retti costumi, insomma nelle opere gradite a Dio, perché conformi ai
suoi comandamenti.
Non basta pertanto la fede, per la nostra
giustificazione. Essa è la prima virtù
teologale ma agisce sempre assieme alle altre due. Nella “virtù messa alla
prova” mediante le buone opere si attua la carità, senza la quale è vano gloriarsi “nella
speranza della gloria di Dio”, come spiegato in maniera esaustiva da S. Giacomo
nella sua celebre Epistola.
Le buone opere concorrono anche alla nostra libertà,
consistente nel liberarsi della schiavitù del peccato. Obbedendo “di cuore”
alla “dottrina evangelica, nella quale siete stati istruiti”, voi, ci spiega
sempre S. Paolo, non siete più “schiavi del peccato”(Rm 6, 17). E che non lo siamo più, sottolineo, non
risulta forse dalle nostre opere, dal momento che non facciamo più del
nostro corpo “membra del peccato”?
Difatti, “come un tempo avete messo le vostre membra a servizio
dell’impurità e dell’iniquità, per soddisfare le concupiscenze [con le opere
cattive], così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per
raggiungere la santità”( Rm 6, 17-19).
Senza le opere rappresentate dal mettere ora “le nostre membra a
servizio della giustizia”, quella che ci giustifica di fronte a Dio, non
raggiungiamo “la santità” e quindi non siamo giustificati agli occhi di Dio.
[9. Le opere buone aumentano la “giustizia
ricevuta”, ossia la giustificazione]
Tutto ciò considerato, possiamo comprendere al meglio il canone 24 del Decreto
sulla giustificazione, che spiega l’aumento della giustizia ricevuta, grazie
anche alle opere buone, le quali sono dunque anche causa del suo aumento.
“Se qualcuno afferma che la giustizia ricevuta non
viene conservata ed anche aumentata dinanzi a Dio con le opere buone, ma che
queste sono solo frutto e segno della giustificazione conseguita, e non anche
causa del suo aumento: sia anatema” (c. 24, Decreto).
Perché mai dovrebbe sembrar strana l’idea delle opere
buone che “aumentano” la “giustizia ricevuta” ovvero la nostra giustificazione? E tale da suscitare l’impressione
sbagliatissima che tali opere non siano “strettamente essenziali” per la nostra
salvezza?
La “giustizia che riceviamo da Dio”, cioè il grado
della nostra giustificazione non è un dato statico ed immutabile, uguale per
tutti, come nell’ottica di Lutero, che vuole appunto separare erroneamente la
fede dalle opere e svincolare la salvezza dall’attuazione di queste ultime. Dio, ci ricorda il Salmista, vuole che
“procediamo di virtù in virtù”, ascendendo verso la perfezione morale (Gn 17,
1). Mediante lo Spirito Santo viene dato
un aumento della Grazia in modo che la “cooperazione della fede e delle buone
opere” necessaria a questa ascesa possa perfezionarsi senza posa e migliori esponenzialmente
la nostra “osservanza dei Comandamenti di Dio e della Chiesa”. La “giustizia ricevuta” ovvero la
giustificazione ottenuta viene dunque non solo “conservata” ma anche “aumentata
dinanzi a Dio con le opere buone”. Progredendo
sempre più nelle buone opere (e conseguentemente nella fede), aumentiano nei
nostri meriti di fronte a Dio, vedendo pertanto aumentata la nostra
giustificazione presso di Lui. In altri
termini, più progrediamo nelle opere buone, dimostrandoci sempre più forti
nella fede, tanto più siamo graditi agli occhi di Dio, siamo “giustificati” ai
suoi occhi.
È giusto pertanto affermare che con le nostre opere
buone la nostra giustificazione non solo viene “conservata” ma anche
“aumentata” poiché è l’incremento delle opere a farla aumentare. Ciò dimostra che le opere non sono concepite
in modo secondario rispetto ad una giustificazione già conseguita sola fide
et sola gratia, come sembra ritenere Giacometti, ma devono al contrario
concepirsi anche come “causa dell’aumento della giustificazione”. Quest’ultimo dipende sì da una maggior
effusione della grazia (cap X, vedi supra) ma sempre nell’ambito della
sinergia creata dall’azione sovrannaturale della Grazia con quella del nostro
libero arbitrio.
La Grazia agisce in noi che attivamente vi cooperiamo
(“Chiedete, e vi sarà dato; cercate e troverete…”Lc 11, 9) onde l’aumento delle
buone opere provoca un aumento della fede e dell’effusione della Grazia. L’aumento non è accidentale ma, per
così dire, strutturale, poiché il nostro perfezionamento morale al fine
di ottenere la giustificazione è, come si è visto, da intendersi come un
processo costante, che deve crescere su se stesso e arricchirsi, sia dal
lato della fede che da quello delle opere, provocando una contestuale crescita
nel gradimento di Dio verso di noi; gradimento che ci riconosce alla fine giusti
di fronte a Lui, per i nostri meriti,
nonostante le nostre cadute, se perseveriamo sino al momento della nostra morte
(“Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della vita” – Ap 2, 10). E questa crescita, nel che consiste
propriamente la rinascita nostra in Cristo richiesta dal Signore stesso (Gv 3,
cit.), con le buone opere ci ottiene (1) di meritare il necessario
aumento della Grazia e la vita eterna ed anzi (2) il conseguimento stesso
della vita eterna ed anche l’aumento della gloria, nella vita eterna:
“Se qualcuno afferma che le opere buone dell’uomo
giustificato sono doni di Dio, così da non esser anche meriti di colui che è
giustificato, o che questi con le buone opere da lui compiute per la grazia di
Dio e i meriti di Gesù Cristo (di cui è membro vivo), non merita realmente un
aumento di grazia, la vita eterna e il conseguimento della stessa vita eterna
(posto che muoia in grazia) ed anche l’aumento della gloria: sia anatema” (can. 32, Decreto).
Nelle nostre opere buone dobbiamo pertanto essere generosi
perché dobbiamo rispondere generosamente al Signore che ci chiama. Esse devono sovrabbondare, secondo
l’esortazione vibrante di S. Paolo, richiamata nel capitoletto XVI, conclusivo
del Decreto sulla giustificazione. “Abbondate in ogni opera buona,
sapendo che il vostro lavoro nel Signore non è vano”(1 Cr 15, 58). Non è inane il “lavoro” delle nostre buone
opere perché sarà ricompensato con la vita eterna. Il principio luterano (condannato nel c. 25
del Decreto), assolutamente anticristiano, secondo il quale il giusto
nel far le opere buone pecca (di superbia) venialmente o mortalmente, è
insostenibile innanzitutto sul piano logico. Infatti, queste “opere” Dio
stesso le vuole da noi, collegandole al conseguimento nostro della vita
eterna. I due Testamenti risuonano da cima a fondo dei comandi e delle
esortazioni a farle; esse altro non sono, a ben vedere, che l’osservanza
scrupolosa dei divini Comandamenti, accompagnata da tutte le pratiche devote
per prepararla e favorirla, insegnateci anche da Nostro Signore. Il principio
luterano conduce illogicamente a credere, all’opposto, che tale osservanza non sia
agli occhi di Dio determinante per la vita eterna di ciascuno di noi,
mettendo così Dio in contraddizione con se stesso!
Nostro Signore, in quanto “il capo nelle membra e la
vite nei tralci [Gv 15, 1], trasfonde continuamente la sua virtù in quelli che
sono giustificati, virtù che sempre accompagna e segue le loro opere buone, e
senza la quale non potrebbero in alcun modo piacere a Dio ed esser
meritorie”. Per questo motivo, per
essere i giustificati sempre tralci della vite che è Cristo, si deve ritenere
che essi “con le opere che hanno compiuto in Dio [Gv 3, 21], hanno pienamente
soddisfatto alla legge divina, per quanto possibile in questa vita, e che hanno
veramente meritato di ottenere a suo tempo la vita eterna (se tuttavia
moriranno in grazia). Dice, infatti, il
Cristo, nostro Salvatore: ‘Chi berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più
sete in eterno; ma l’acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua
zampillante per la vita eterna”[Gv 4, 13-14]”.( Cap. XVI, op. cit.).
[10. Sembra essersi smarrito il senso del dogma,
della verità di fede che non si può cambiare, nel modo più assoluto] Nella conclusione del suo intervento,
Giorgio Giacometti scrive, come si è visto:
“Insomma, non voglio fare il teologo, ma credo che se non si lavora di
fino sui singoli termini con apertura mentale, il dialogo diventa impossibile e
l’ecumenismo è affossato a priori”.
Ciò che colpisce qui, in primo luogo, è il fatto che
si ritenga possibile “lavorare sui singoli termini con apertura mentale” per
poter realizzare il dialogo ecumenico, che altrimenti verrebbe
“affossato”. Secondo la mia modesta
opinione, quando la Gerarchia lo “affosserà”, questo sciagurato dialogo,
tornando finalmente a predicare la retta dottrina e a vivere secondo essa, sarà
davvero un bel giorno per la Chiesa e tutti noi. Ma, a parte quest’augurio, che
al momento appare utopistico, va sottolineato come e qualmente si ritenga
possibile modificare il significato dei “singoli termini” degli articoli di
fede contenuti nei Decreti del Tridentino, quasi fossero semplici opinioni di
coloro che le hanno votate in quel Concilio e non dogmi solennemente definiti,
che tutti dobbiamo scrupolosamente credere e osservare, se vogliamo conseguire
la giustificazione ossia salvarci l’anima.
Si è smarrita questa
nozione elementare, per noi cattolici:
che le verità di fede sulla fede e sui costumi solennemente definite in
un Concilio dogmatico come il Tridentino, non possono esser modificate, o
comunque sottoposte ad un lavoro di intarsio, all’insegna della necessaria
“apertura mentale”, per poterle adattare al modo di pensare di eretici e
scismatici, nemici immutabili e accaniti di quelle stesse verità, da loro
negate in tutti i modi. Tra la concezione
della giustificazione della Chiesa cattolica e quella di Lutero, negatrice
dell’importanza fondamentale delle buone opere per la salvezza, improntata
al sola Fide e al sola Gratia, non può esserci, come si è visto,
compromesso alcuno: si escludono
a vicenda, così come si escludono reciprocamente ed irrimediabilmente la verità e l’errore.
Di questo smarrimento la colpa non va data tanto ai
singoli fedeli quanto al clero “riformato” secondo le direttive del pastorale e
non dogmatico Concilio Ecumenico Vaticano II, poiché già nei testi di quel
Concilio, volto all’aggiornamento della dottrina e della pastorale della
Chiesa e alla riforma di tutti i suoi istituti, compare l’oscuramento della
verità di fede fondamentale, che solo la Chiesa cattolica è l’unica
vera Chiesa di Cristo, l’unica che salvi, grazie al suo insegnamento
mantenutosi nei secoli fedele al Deposito.
Paolo Pasqualucci, sabato 17 marzo 2018