Storia: Settant’anni fa il durissimo Trattato di
Pace, “l’infame Dictat”, suggello alla nostra resa incondizionata dell’8
settembre 1943
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Prima parte
“Ma,
come si viene alli eserciti, non compariscono.
E
tutto procede dalla debolezza de’ capi…”
(Machiavelli,
Il Principe, XXVI)
Prima parte: La
resa incondizionata (il bastone) e la falsa alleanza detta “cobelligeranza”(la
carota)
Sommario :
1. Nota previa:
fare per davvero i conti con la nostra storia.
2. Perdura l’equivoco sul vero significato del nostro Armistizio. 3. La nostra resa incondizionata fu sentita
dal popolo come un’onta cocente. 4.
L’Armistizio comportò una resa incondizionata, totale, spietata e senza
appello. 5. L’avversione profonda degli Inglesi nei nostri confronti; il disprezzo
degli americani, nel discorso di Roosevelt del 6 giugno 1944. 6. Arrendersi per
uscire dall’infausta “Guerra di Hitler” non era tradimento. 7. Tutti
i governi alleati di Hitler, tranne quello slovacco, cercarono di uscire dalla
guerra, ricorrendo a ripetuti contatti segreti con il nemico. 8. La risalita
dagli Inferi: grandi sacrifici ma un contributo forzatamente modesto alla
vittoria alleata, tuttavia ingiustamente misconosciuto al Tavolo della Pace.
1. Nota previa: far per davvero i conti con la nostra
storia.
Nel biennio apocalittico 1943-1945 noi italiani ci
siamo fatti la fama di vili e traditori, perché, quando le cose stavano
volgendo al peggio, saremmo passati dall’altra parte, subito dopo l’Armistizio
dell’8 settembre 1943, concessoci dagli Alleati. Ancora oggi c’è chi ama ricordare, con una
punta di disprezzo, che “l’Italia ha cominciato la guerra da una parte e l’ha
finita dall’altra”, dichiarando guerra alla Germania e al Giappone, suoi
precedenti alleati. Chi ama fare queste affermazioni in genere ignora l’esatto
svolgimento dei fatti o non ne sa cogliere il significato.
Innanzitutto, ignora il fatto macroscopico che
l’Armistizio ci fu concesso in cambio di una resa senza condizioni, i cui pesanti termini costituirono i
presupposti per il successivo, durissimo Trattato di pace del febbraio
del 1947, impostoci in quanto vinti. Ignora poi l’altrettanto macroscopico fatto
che l’Italia si divise in due Stati entrambi forzatamente satelliti
del rispettivo occupante e finì la
guerra da tutti e due i lati, l’un contro l’altro armati: 6 divisioni al Sud
e 4 al Nord, più tutto il resto, ampio e variegato. Ignora, inoltre, che l’Italia, cioè il
governo di “tecnici” con presidente il maresciallo Badoglio, formato dal Re subito
dopo il colpo di Stato con il quale il medesimo Re fece arbitrariamente arrestare
Mussolini (presentatosi a lui per dimettersi da Capo del Governo dopo il voto
di sfiducia ricevuto dal Gran Consiglio del Fascismo la notte precedente), e dissolse il regime fascista, non passò
dall’altra parte ma semplicemente si arrese senza condizioni allo
strapotere militare degli Alleati invasori, le cui forze aeree avevano
cominciato da quasi un anno a demolirci senza speranza mentre le nostre forze
armate, dopo 39 mesi di durissima e sfortunata guerra contro le maggiori
potenze mondiali, erano ormai stremate. Non è vero che non ci fosse più spirito
combattivo però le perdite di uomini e armamenti erano state enormi, mancavano
quadri e soldati ben addestrati, alcune importanti unità erano in ricostituzione
o in fase di addestramento. Costituiva,
comunque, una forza ancora in grado di combattere una battaglia strettamente difensiva,
almeno per un certo tempo.
Il superstite
governo, legale anche se
moralmente delegittimato dalla precipitosa e umiliante fuga dell’8 settembre,
con due soli ministri al séguito e un gruppo scalcagnato di collaboratori e
alti ufficiali, rimessosi alla protezione del nemico angloamericano cui si era
arreso da cinque giorni, dichiarò guerra ai tedeschi ben 35 giorni dopo la
capitolazione: il 13 ottobre, premuto
dagli Alleati, nonostante la dichiarazione fosse più che giustificata dal fatto
che, subito dopo l’annuncio della nostra resa, i tedeschi ci avevano aggredito
senza preavviso, in spregio al diritto internazionale e in certi casi con
estrema brutalità, proseguendo nell’occupazione dell’Italia messa in cantiere
da Hitler già all’indomani della caduta del fascismo (25 luglio 1943) ed
ininterrottamente proseguita con l’invio di sempre più numerose divisioni
(piano Alarich poi Achse). Da 4 che erano al 25 luglio, erano
diventate 17 alla vigilia dell’8 settembre, alcune delle quali molto
agguerrite. Che, in termini di Realpolitik, i tedeschi fossero legittimati ad
agire in quel modo, perché, come si suol dire, “la guerra è guerra” e le
esigenze strategiche imponevano loro di impadronirsi per quanto possibile della
penisola italiana che si era arresa -- ciò nulla toglie al fatto che il loro comportamento,
quello di un alleato che si impadroniva fulmineamente del nostro territorio con
la forza e senza dichiarazione di guerra, giustificava perfettamente la
dichiarazione di guerra da parte del maresciallo Badoglio, anche se il governo da
lui presieduto era all’epoca senza Stato e senza esercito. Solo dopo tale dichiarazione venimmo
promossi a “cobelligeranti”, pur restando nemici a tutti gli effetti sconfitti
e per di più arresisi incondizionatamente.
La BBC precisò immediatamente che i “cobelligeranti italiani” non
dovevano considerarsi alleati. Cos’erano, allora? Come dimostrò il successivo
Trattato di Pace, gli italiani restavano sempre nemici, però se ne accettava la
cobelligeranza contro il Reich, diventato comune nemico.
La dichiarazione
di guerra al Giappone (il 14 luglio del 1945) fu fatta nella previsione di un’ultima
sanguinosissima campagna sul territorio giapponese da parte degli americani,
cui faceva naturalmente comodo servirsi nell’occasione anche di truppe altrui,
alleate o cobelligeranti che fossero. Il
governo italiano, prevedendo le clausole armistiziali una pace durissima nei
nostri confronti, sperava in questo modo di guadagnarsi dei meriti sul campo, accanto
a quelli forzatamente modesti ottenuti sino a quel momento con la difficile
“cobelligeranza” sul fronte italiano.
Non si trattava di “machiavellismo” da parte nostra ma del legittimo
tentativo di migliorare in qualche modo la nostra situazione, estremamente
precaria. Ma poi le due bombe atomiche sganciate il 6 e il 9 agosto sul Giappone fecero concludere
rapidamente la guerra (il Giappone dichiarò di accettare la resa il 14 agosto e
capitolò formalmente il 2 settembre) e i paracadutisti, i bersaglieri e gli
alpini del piccolo esercito del Regno del Sud (che avevano dato buona prova
nella campagna d’Italia testé conclusa) restarono a casa. Col Giappone, del resto, l’alleanza (il c.d. Tripartito)
era sempre stata alquanto labile. Dopo
l’8 settembre, i giapponesi si erano impadroniti con la forza di alcuni nostri
sottomarini, dimostrandosi a noi ostili.
A tanti anni di distanza da quei tragici eventi, tra i
più drammatici della nostra plurimillenaria storia, si continua a non avere le
idee troppo chiare su quella che era la nostra effettiva condizione: vinti arresisi incondizionatamente e sottoposti ad una
dura occupazione militare da parte dei vincitori, i quali vinti divennero
per i casi fortuiti delle circostanze “cobelligeranti” pur restando sempre a
tutti gli effetti sia nemici che vinti.
Nemici cobelligeranti: sembra una
contraddizione in termini, una di quelle formule inventate dalla fertile mente
dei diplomatici per trovare una pezza d’appoggio giuridica a situazioni ambigue
o particolarmente ingarbugliate. Ma non
lo è, a ben vedere. Nemici sconfitti,
cui i vittoriosi Anglosassoni concedevano di combattere (inquadrati a certe
restrittive condizioni nelle loro armate) contro il Terzo Reich, ora nemico di
tutti e due, vincitori e vinti, quindi comune nemico. Pertanto, mai
alleati, nel modo più assoluto. Una
situazione paradossale, ma non più di tanto, nella quale si vennero a trovare anche altri ex-alleati di Hitler:
Bulgaria, Finlandia, Romania.
Re Michele di Romania fece il suo colpo di Stato
arrestando il dittatore, il Conducator
Ian Antonescu e obbligando le scarse forze degli alleati tedeschi a
ritirarsi, nell’agosto nel 1944. I nazisti, colti di sorpresa, reagirono solo
con un bombardamento aereo su Bucarest, in séguito al quale la Romania dichiarò guerra al Reich, cercando poi di
operare un immediato rovesciamento di fronte. Disponeva ancora di una
quindicina di divisioni in grado di combattere, nonostante le pesanti perdite sofferte
in precedenza sul fronte russo. Combatté i tedeschi unitamente a bulgari e
sovietici. Però non fu riconosciuta come
alleato bensì come “cobelligerante” e trattata alla fine come nemico vinto. Ma non esattamente come noi, bisogna dire,
perché Stalin, che poi (ovviamente) impose ai romeni uno spietato regime comunista,
in cambio di consistenti restituzioni territoriali consentì loro di togliere
agli ungheresi la Transilvania settentrionale, occupata alla fine della I
Guerra Mondiale e ridata forzatamente ai magiari nel 1940, con il secondo
Arbitrato di Vienna, imposto da Germania e Italia. Il fatto è che Stalin, pur
aderendo al principio della resa incondizionata, negoziò secondo convenienza ogni armistizio
con i Paesi dell’Europa Orientale e del Nord: Finlandia, Romania, Bulgaria,
Ungheria (ma quest’ultimo non potè essere applicato per la rapida e violenta
reazione di Hitler e il rifiuto della maggioranza dell’esercito ungherese di
arrendersi ai russi)[1].
Quello che indignò la gran parte degli italiani nella
faccenda del Trattato di Pace fu non solo il suo contenuto, persino offensivo
in certe clausole (ad esempio negli art. 15 e 16, nella sezione Clausole politiche), ma anche il modo sprezzante
con il quale ci fu imposto, vietandoci di presentare le nostre richieste ai
Quattro Grandi, e la nessuna considerazione dell’apporto militare che, anche se
modesto, avevamo pur dato alla vittoria alleata in Italia. I proclami americani iniziali (famoso quello
del generale Eisenhower, tre giorni dopo la caduta di Mussolini, nel quale
affermava “veniamo come liberatori”) e le allusioni private e pubbliche dei
loro rappresentanti ci promettevano una “pace onorevole”, che sarebbe naturalmente
dipesa dal nostro comportamento, se ci fossimo dimostrati capaci di “staccare
il biglietto di ritorno fra le democrazie” (Churchill), collaborando con loro
validamente alla lotta contro i tedeschi.
Roosevelt e Churchill avevano pubblicamente dichiarato, subito dopo l’Armistizio,
che, grazie ai loro eserciti, il “terrore tedesco” non sarebbe durato a lungo
in Italia: “I tedeschi saranno estirpati
dal vostro Paese e voi, porgendo il vostro aiuto in quest’ondata di
liberazione, vi porrete di nuovo tra i veri e lungamente provati amici del vostro
Paese, dal quale [dai quali] voi siete stati così a lungo ed a torto stranieri[estraneati]”[2]. Si capiva, da questa roboante dichiarazione,
che americani e inglesi dovevano esser considerati “i veri e provati amici
dell’Italia”, ai quali l’Italia derelitta poteva ora finalmente ritornare dopo
la parentesi della bieca dittatura, per esser protetta contro l’Orco nazista.
Ma questi erano manifesti per gli italiani, infiorati
di retorica, miranti a facilitare i fini politici e militari immediati di chi
li diffondeva: materiale per la propaganda di The Voice of America. Al proprio elettorato più selezionato,
invece, Roosevelt dichiarò più volte, in discorsi pubblici, che un popolo che
avesse appoggiato una dittatura doveva ritenersi responsabile degli errori di
quella e pagarne il fio sino in fondo. Noi italiani dovevamo pertanto espiare
tutti la colpa di esser stati fascisti. E Churchill non fu da meno, quando
disse: “Allorché una nazione si permette
di sottomettersi ad un regime tirannico, essa non può essere assolta dalle
colpe di cui questo regime si è reso colpevole”[3].
La doppiezza
di americani e inglesi derivava anche da un aspetto ambivalente del loro
carattere: da un lato utilitaristico e quindi pragmatico,
disponibile anche all’accordo spregiudicato purché vantaggioso, possibilmente
nel rispetto di certe forme; dall’altro intriso di moralismo e messianesimo democratici,
tali da trasformare ogni guerra in una crociata nella quale loro erano le forze
del Bene contro il Male assoluto.
Peccato che la necessità storica li obbligasse ad inghiottire un
cammello grande come una casa, rappresentato dall’alleato Giuseppe Stalin, che
in fatto di pratiche del Male assoluto non aveva niente da imparare da Hitler,
il quale anzi poteva considerarsi un suo imitatore tecnologicamente più
avanzato, se così posso dire[4].
Non si sa quanto gli italiani fossero al tempo
consapevoli della doppiezza di fondo degli Alleati nei loro confronti. Credo,
comunque, che nessuno si aspettasse di non dover pagare un dazio, anche elevato,
per le guerre di aggressione dell’Italia fascista. Il trattamento ricevuto andò tuttavia al di
là di ogni peggiore previsione e ferì profondamente anche sul piano morale, che
alla lunga risulta essere quello più importante, poiché l’uomo, come sappiamo, “non vive di solo
pane”.
Sulla ferita al nostro onore di nazione,
di popolo insistette Benedetto Croce.
All’Assemblea Costituente, fu tra i non pochi che votarono inutilmente contro
la ratifica di quello che fu chiamato un Dictat, cioè un’imposizione pura e
semplice poiché sarebbe entrato comunque in vigore, anche se non l’avessimo
approvato (su questo i Quattro Grandi erano stati espliciti). Ma perché andare a rivangare oggi fatti così
tristi, in apparenza completamente rimossi dalla memoria collettiva del popolo
italiano?
Per l’Italia la Campagna d’Italia del 1943-45,
“fu una catastrofe terrificante, la peggiore della sua storia, e bisogna
ritornare alle guerre gotiche del VI secolo per trovare un pari cataclisma. Sappiamo cosa accadde nel Dopoguerra: la ricostruzione, la democrazia, un benessere
mai sperimentato prima, l’ingresso dell’Italia fra i grandi Paesi
industrializzati. Ma quella guerra, oggi
più che mai è paradossalmente ignorata dalla gran parte dei giovani”. Infatti, “non abbiamo mai fatto i conti con
quel passato. Di quel dramma, oggi, in
Italia, si tende a ricordare solo il ruolo avuto dalla Resistenza, come se
tutti quegli eserciti fossero stati solo comparse”[5].
Si tende a ricordare, voglio
precisare, la versione degli eventi imposta in particolare dalla propaganda
comunista. Essa ha fatto della guerriglia partigiana una grande guerra di popolo
che, con l’appoggio degli Alleati sullo sfondo, avrebbe liberato l’Italia dal
“nazifascismo”. Peccato che una guerra
di popolo in questi termini non ci sia mai stata e che la Resistenza sia stata
un fenomeno militarmente secondario nel quadro generale di una guerra vinta
dall’antifascismo unicamente grazie alla vittoria finale riportata dalle
poderose armate messe in campo dagli Alleati.
Ma, anche a prescindere dalla manipolazione del ricordo messa in atto
dalla retorica resistenzial-comunista, non è forse istintivo nei popoli cercare
di dimenticare pagine tragiche e sconfortanti, come quelle di una fase storica
che, dopo momenti vissuti all’epoca come esaltanti, si è conclusa nel modo più
tragico: con una capitolazione umiliante, con una doppia e pesantissma
occupazione straniera, una guerra devastatrice, una guerra civile feroce,
grandi distruzioni di città e villaggi, di beni, di vite di civili oltre che di
militari, ed infine, come se non bastasse, con un Trattato di Pace che, oltre a
toglierci terre e possedimenti, a disarmarci, ad impoverirci, mirava anche a
toglierci l’onore?
Eppure, bisogna pur fare seriamente i
conti con il proprio passato. Soprattutto quando è amaro come il fiele. Bisogna farli nel modo giusto, cercando
innanzitutto di eliminare gli equivoci, le false rappresentazioni, a volte
anche inconsapevoli, per avvicinarsi il più possibile alla verità storica. Ciò è tanto più necessario oggi che
“l’identità italiana”, come si suol dire, è messa gravemente in crisi sia dalla
generale decadenza morale e civile (Chiesa cattolica compresa) di quello che
una volta si chiamava Occidente, del quale l’Italia fa parte; sia dall’azione
centrifuga esercitata all’unisono dall’infausta
Unione Europea, fondata sul peggior laicismo e sullo spirito mercantile più arido, sia dal riapparire dei regionalismi antiitaliani oltre che antiunitari,
di quell’antico particolarismo
gretto e ottuso che tanto male ci ha sempre fatto nei secoli. Ma l’attuale crisi dell’identità italiana
nasce, io credo, anche dal fatto che, per l’appunto, non c’è stato un valido
riesame del nostro recente, tragico passato.
*
* *
2. Perdura l’equivoco sul vero
significato del nostro Armistizio
In data 30
dicembre 2014 il giornalista e saggista Luciano Garibaldi ha presentato
sul sito ‘Riscossa Cristiana’ un saggio anticonformista: Massimo Filippini,
“I Caduti di Cefalonia: fine di un
mito”, IBN Editore, 2014. Il libro produce documenti nuovi su quella
tragedia. Da essi apprendiamo che i
soldati della Acqui caduti negli intensi combattimenti sarebbero stati
1600 e non 10.000, cioè quasi tutta la divisione. Una cifra comunque alta. I tedeschi non dichiararono le loro perdite. Ma quanti furono gli italiani morti in
combattimento e quanti i fucilati per
barbara rappresaglia? Forse è
impossibile accertarlo. Apprendiamo
inoltre che lo sfortunato generale Gandin, comandante della divisione, ebbe
nella notte del 13 settembre l’ordine di resistere con le armi “at intimazione
tedesca di disarmo at Cefalonia, Corfù et altre isole”. La resistenza non fu quindi decisa da
comitati di ufficiali e soldati che volevano combattere i tedeschi, come
sostiene la vulgata corrente. Infine
apprendiamo che gli Alleati non esitarono ad affondare le navi “Sinfra” e
“Petrella” che “come essi ben sapevano” erano salpate da quelle isole con a
bordo 1300 prigionieri italiani della Acqui. La sventurata divisione non fu dunque completamente
distrutta a Cefalonia: ebbe 1600 caduti
ad opera dei tedeschi, in parte fucilati
dopo la cattura assieme al generale Gandin, e 1300 ad opera degli Alleati,
freddamente mandati a picco con le navi che li trasportavano. Il resto deve esser stato preso prigioniero e
deportato dai tedeschi.
L’affondamento delle due navi cariche di prigionieri,
ignoto finora al grande pubblico, fa indubbiamente impressione. Nel commentarlo, Garibaldi riporta il
pensiero dell’Autore, in questo modo:
“Gli anglo-americani, che avrebbero dovuto essere nostri alleati,
invece non esitarono a colare a picco, il 18 ottobre 1943, le navi etc.”. Ho sottolineato la frase che mi ha
colpito. Che significa “avrebbero dovuto
essere nostri alleati”? Lo erano o non
lo erano? Non lo erano né avrebbero
potuto esserlo, né tantomeno “dovuto”, perché l’avere di fatto il nemico
improvvisamente in comune con noi (che gli avevamo combattuto contro tenacemente
per tre anni, “spalla a spalla” con quello stesso nemico), non poteva esser di per sé motivo
sufficiente per riconoscerci come “alleati”. Le navi al servizio dei tedeschi dovevano
esser affondate, quale che fosse il loro carico. L’affondamento avvenne cinque giorni dopo
che avevamo dichiarato guerra alla Germania, venendo incontro alle
pressanti richieste alleate e diventando “cobelligeranti”. Appare pertanto un atto abbastanza cinico. In
ogni caso, dimostra che noi “cobelligeranti” non eravamo considerati degli
alleati: restavamo sempre nemici arresisi a discrezione, dei quali si poteva disporre
come si voleva. E sempre come nemici
fummo trattati nel Dictat del 1947[6].
3. La
nostra resa incondizionata fu sentita dal popolo come un’onta cocente L’armistizio era stato firmato il 3
settembre in segreto a Cassibile in Sicilia,
presso Siracusa, dopo poco più di due settimane di contatti segreti
diretti, e reso noto all’improvviso alle 18.45 dell’8 settembre 1943 da Radio
Algeri, con qualche giorno di anticipo sulla data nella quale se lo aspettavano
gli italiani, ma senza alcun preavviso al nostro governo. Almeno, questo hanno sempre sostenuto alcuni
protagonisti nostrani della vicenda. Fu un comportamente sleale quello
degli Alleati, che non si fidavano di noi e non volevano mettere a repentaglio
il loro corpo di spedizione che si stava già dirigendo (con solo sette
divisioni) verso le spiagge salernitane, dove sarebbe sbarcato il 9 settembre? No, se è vero che il 6 settembre erano
stati inviati messaggi al governo italiano “avvertendo di mantenere continua
vigilanza ogni giorno per importantissimo messaggio [e quale avrebbe potuto mai
essere?]” che sarebbe stato inviato “il sette settembre o dopo” nonché altre
informazioni accessorie, concernenti “l’annuncio del grande (G) giorno”. E se è vero, com’è vero, che il Comando
italiano sapeva che lo sbarco alleato sarebbe avvenuto nell’area Salerno-Napoli[7].
Sì, se si ritiene che questi preavvisi
fossero comunque ancora troppo generici.
Ma, in ogni caso, l’informazione ancora criptica, che tuttavia faceva
pur capire esser imminente l’annuncio fatale, non può esser invocata come
giustificazione per l’atteggiamento inerte dei nostri vertici, culminato
poi nella vergognosa fuga da Roma. Del
resto, i nostri vertici dissero sempre di aspettarsi l’annuncio per il 12 settembre. Si verificò l’8 verso sera e a quella data
non erano ancora pronti per il 12?
Fu per tutti un fulmine a ciel sereno. Invece di organizzare e dirigere la
resistenza delle nostre forze armate contro l’inevitabile attacco tedesco, i
nostri capi fuggirono verso l’unica parte d’Italia ancora sgombra di nemici (il
tacco dello stivale) abbandonando l’esercito e il governo senza ordini, poiché
il vago e frettoloso proclama di Badoglio, diffuso alle 19.45, si limitava ad
esortare a “resistere ad attacchi da ogni provenienza”; e questo, dopo aver deposto
le armi, dato che per noi la guerra era di colpo finita con una evidente
sconfitta! Si sfasciò anche l’apparato statale, lasciato anch’esso senza
direttive. Particolarmente grave fu
l’abbandono al loro destino delle divisioni italiane operanti nei Balcani,
abbandonate senza un piano di ritirata e senza ordini alla mercé dei tedeschi e
dei partigiani jugoslavi, albanesi, greci (tant’è vero che parecchie migliaia
di nostri soldati, per salvarsi, entrarono nelle formazioni partigiane,
soprattutto in Jugoslavia, combattendo poi con loro sino alla fine della guerra,
in una difficile e ingrata alleanza o meglio “cobelligeranza”).
All’annuncio
dell’Armistizio ci furono delle manifestazioni
di esultanza per le strade, da parte di chi sul momento credette che la guerra
fosse finita, credette di essersi liberato dall’incubo dei bombardamenti e
mitragliamenti aerei che da quasi un anno imperversavano crudelmente sul
Paese. Il breve annunzio di Badoglio non
parlava di resa incondizionata.
Ma la gran maggioranza capì subito che la guerra era irrimediabilmente
perduta. E tanto più lo capì, allorché i tedeschi, spariti la sera dell’8
settembre, dall’alba del giorno successivo, cioè dopo poche ore, ci furono
addosso, con la loro quasi leggendaria rapidità di esecuzione in re militari
mentre Re, governo, comandi, ministeri, tutto sembrava essersi di colpo dissolto.
Dal Comando Supremo nessuno rispondeva ai comandi locali e periferici che
chiedevano disperatamente istruzioni. I tedeschi dilagavano, occupando tutti i
nodi stategici, l’esercito lasciato senz’ordini si sfasciava; la feccia della
popolazione, incoraggiata dagli stessi tedeschi, si dava assieme a loro al
saccheggio di caserme, magazzini e depositi militari, in gran parte abbandonati
dai soldati.
Nessuno sapeva dove fosse il Re. Riemerse dopo alcuni giorni, dalla lontana
Brindisi, con un breve e patetico proclama, nel quale affermava, tra
l’altro: “Italiani, per la salvezza
della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col
Governo e colle autorità militari, mi sono trasferito in altra parte del sacro
e libero suolo nazionale. Italiani, faccio sicuro affidamento su di voi per
ogni evento come voi potrete contare sino all’estremo sacrificio sul vostro Re”[8]. Non si capiva come mai, per “salvare la
Capitale”, avesse voluto abbandonarla invece di trincerarvisi a difesa
(disponendo di sei divisioni contro due tedesche, anche se queste ultime erano
superiori per armamento e qualità) e come potesse chiedere agli italiani di “contare
sul Re sino all’estremo sacrificio”, quando la sua fuga dimostrava che a
quell’estremo sacrificio egli si era appena sottratto.
Fu uno shock tremendo. Moriva la Patria, come
ha detto qualcuno? Personalmente, non
concordo con un’affermazione così radicale, anche se sul momento quella poteva esser
stata un’impressione diffusa. Moriva lo
Stato, quello Stato, non la Patria.
Si delegittimava la monarchia dei Savoia, l’artefice principale del
Risorgimento, dell’Unità d’Italia, per colpa della fuga non della resa in sé, e
si mostrava gravemente inetta la nostra classe dirigente militare, in
particolare i suoi vertici. Si è
coinvolto anche il fascismo tra i responsabili indiretti dell’8 settembre. Ma questo, a ben vedere, non è storicamente
esatto. Dopo la defenestrazione,
Mussolini, pur agli arresti, “si mise a disposizione” (con una ben nota lettera
a Badoglio) e con lui i vertici di quello che era rimasto del Partito Nazionale
Fascista; “a disposizione” nell’interesse supremo della Patria sull’orlo della
catastrofe. Ogni collaborazione fu
rifiutata, ovviamente, e si procedette al rapido smantellamento istituzionale
del regime, durante i famosi 45 giorni di Badoglio. La responsabilità del modo
imbelle nel quale i capi dell’esecutivo si comportarono nella vicenda
dell’armistizio ricade soprattutto sulle loro spalle, e in particolare su
quelle ormai gracili del Re, di Badoglio e di alcuni titolari di alti comandi.
Ma valga il
vero: la monarchia, come ogni forma di Stato, passa, la Patria resta. Finché
c’è un sentimento nazionale per il quale si trova la forza di battersi,
rischiando la vita, la Patria non muore, anche se a battersi sono delle
minoranze. E da entrambi le parti in lotta, nonostante la crisi morale e l’incertezza nella quale era caduto
il Paese e il conseguente attendismo, ci furono decine di migliaia di uomini,
con larga partecipazione di giovani e giovanissimi che andarono a combattere e
morirono, pur nell’opposta militanza ideologica, per il riscatto della Patria,
del suo onore calpestato. E ci furono
anche migliaia di donne che si impegnarono, anche senza combattere
direttamente, animate dal desiderio del riscatto della Patria. E ci furono,
accanto ai molti renitenti, tanti che, richiamati alle armi, al Nord e al Sud,
fecero il loro dovere perché quello si doveva fare. Riscatto, da un lato, contro il
tedesco brutale invasore, contro il vergognoso dissolvimento dell’esercito, per
dimostrare che gli italiani erano ancora capaci di battersi, e anche per
fedeltà al governo formalmente legittimo e al Re, nonostante tutto; dall’altro,
contro il modo disonorevole nel quale era avvenuta la resa, con lo
squagliamento dei capi, il collasso dell’esercito e l’apparente e improvviso
salto di campo, per continuare a battersi contro un invasore non meno spietato
del tedesco (basti pensare ai suoi criminali bombardamenti e mitragliamenti aerei
quasi quotidiani sulla popolazione civile)[9].
Fu una tragedia, che tanti valorosi italiani, per
riscattare l’onore del nome italiano, si siano trovati a battersi inquadrati in
due poderosi eserciti stranieri tra loro in guerra, entrambi padroni a casa
nostra e nemici del nome italiano. E ciò
accadde per il modo nefasto nel quale fu condotto l’Armistizio da parte del Re
e di Badoglio.
Però è sbagliato parlare di “morte della Patria”. Il sentimento patriottico era allora
assai diffuso in Italia, anche presso le classi popolari. A felicitarsi per il crollo dello Stato e
dell’esercito era solo l’antifascismo più fazioso, al tempo ancora piuttosto
minoritario. Ciò va ribadito contro una cosiddetta storiografia o meglio
saggistica “neoborbonica”, “neopapalina”, “leghista”, “venetista” e
quant’altro, oggi di moda, che pretende, ignorando i fatti, non esserci
mai stata un’Italia unita anche nei sentimenti e nel costume, nel patriottismo;
che l’Italia unita sarebbe stata una “invenzione” dei Savoia o della Massoneria[10].
Piero
Calamandrei, illustre giurista e poi famoso antifascista, annotava come proprio
in quei giorni anche le persone di umile condizione (ad esempio la domestica di
casa sua) provassero un grande senso di vergogna per l’evidente collasso del
Paese, la fuga del Re, la disfatta che, in quelle proporzioni, aveva colto
tutti di sorpresa. Studi recenti sulle
lettere dei prigionieri di guerra italiani trovate negli archivi hanno
dimostrato, con un certo stupore, che, fino appunto all’Armistizio, la gran
parte dei prigionieri (che scrivevano) speravano ancora nella vittoria
finale! Dopo l’8 settembre appaiono
invece nelle lettere sconforto, avvilimento e persino disperazione per le sorti
della Patria ormai irrimediabilmente sconfitta, distrutta e invasa da due
potenti eserciti nemici, in lotta per la supremazia europea e mondiale a casa
nostra, come era accaduto, fatte le debite proporzioni, quattro secoli prima al
tempo delle devastanti Guerre d’Italia[11].
Con questi rilievi non voglio certamente dire che sia
stato un errore uscire o comunque tentare di uscire da quella sciagurata guerra,
dalla quale, tuttavia, non uscimmo affatto, restandoci coinvolti più di
prima e anzi peggio di prima, con la guerra civile. I bombardamenti sulle
città continuarono anche se non con l’intensità dell’estate del ’43. Ma ciò
dipese dall’esserci noi arresi o dal fatto che il fronte italiano era diventato
secondario, cosa che comportò la diminuzione del numero di bombardieri pesanti
alleati?
Ad ogni modo, il nostro problema qual era, nell’estate
del ‘43, se non quello di perderla dignitosamente, quella guerra, salvando
l’onore ed evitando la guerra civile?
Invece la perdemmo nel modo peggiore e una grande responsabilità in
questo senso ce l’hanno il Re e Badoglio per il modo inetto nel quale hanno
condotto la vicenda armistiziale, soprattutto per quanto riguarda
l’atteggiamento da tenere nei confronti dei tedeschi. Fatti i suoi preparativi per forza di cose in
segreto (avendo a che fare con Hitler non era possibile agire diversamente), organizzato
l’esercito per quanto possibile sulla difensiva, il re avrebbe dovuto tenersi
pronto ed agire con estrema rapidità. Dovevamo render pubblico l’Armistizio
subito dopo l’annuncio dello stesso da parte di Eisenhower, non prima. Eravamo
tra l’incudine alleata e il maglio tedesco, pronto da tempo a colpire. Il
margine di manovra era ridottissimo. Ma
non nullo. Nessuno proibiva di parlare
subito alla Nazione, spiegare che dovevamo arrenderci, che i tedeschi si
stavano comportando da settimane come occupanti e invasori; denunciare il Patto
d’Acciaio, invitare i tedeschi ad andarsene indisturbati, restare al proprio
posto e tenersi pronti ad esser attaccati da loro, barricandosi dentro le basi
che erano sotto nostro controllo e soprattutto dare l’ordine di tenere Roma e
le sue installazioni militari a tutti i costi. Con gli Alleati avanzanti da Sud, la Wehrmacht, che non
era a pieno organico, non avrebbe potuto sostenere combattimenti prolungati
contro un Regio Esercito che si fosse tenacemente difeso: si sarebbe dovuta ritirare
sull’Appennino tosco-emiliano per fortificarvicisi (e difatti questa era la
previsione tedesca iniziale). In ogni
caso, comunque fosse andata a finire, un atteggiamento coraggioso da parte del
Re avrebbe permesso di salvare l’onore e quasi sicuramente impedito la spaccatura
morale del Paese e la successiva guerra civile.
Nei pochi casi
nei quali il Regio Esercito non si è lasciato prendere di sorpresa o ha comunque
avuto dei comandanti capaci di reagire e prendere l’iniziativa, i tedeschi si
sono trovati in difficoltà o hanno dovuto rinunciare alle programmate distruzioni. Questo è successo in Sardegna, in Corsica, a
Piombino, a Bari. A Roma, delle sei divisioni italiane schierate
a difesa, la metà solamente erano in efficienza e tuttavia avevano fermato i
tedeschi, che investivano la capitale con due delle loro migliori divisioni: la
3a Panzergrenadier da Nord, fanteria meccanizzata e
motorizzata con carri armati e semoventi; la 1a Divisione Paracadutisti, da Fregene e Ostia. La nostra gloriosa divisione corazzata Ariete,
immolatasi ad El Alamein, in ricostituzione e sotto organico ma già operativa,
bloccò presso Bracciano la fanteria meccanizzata tedesca in duri combattimenti,
mentre i Granatieri di Sardegna fermavano i paracadutisti a Porta S.
Paolo. Altri reparti tedeschi venivano bloccati dalla divisione Piave. Si era in
una situazione di stallo.
Bisognava, evidentemente, tener duro e dichiarar guerra al Reich che ci
aggrediva, anche per una questione di dignità.
Ma il governo era sparito. Cosa
fece il generale Carboni, comandante del corpo motocorazzato che si stava
appunto battendo? Prima fuggì da Roma in borghese, poi vi rientrò il 10 per decidere
di arrendersi ai tedeschi, dopo convulse trattative, facendo però firmare il
documento dal suo capo di Stato maggiore, forse per non compromettersi[12].
Questo è il
punto: il Re, Badoglio, generali come il suddetto Carboni non avevano nessuna
intenzione di continuare a battersi, nemmeno in chiave puramente difensiva:
volevano solo arrendersi. Inizialmente sembra si siano illusi con l’idea semplicistica
che i tedeschi avrebbero pensato solo a ritirarsi sotto l’incalzare dei
potentissimi Alleati, lasciandoci in pace.
Chiesero agli Alleati l’aiuto di una divisione di paracadutisti per
difendere Roma, l’ottennero, ma poi non ne fecero nulla. La trattativa armistiziale fu condotta in
modo confuso e dilettantesco: due generali mandati in successione dagli Alleati
ad insaputa l’uno dell’altro; il tentativo di rinviare l’annuncio
dell’armistizio dopo averlo firmato, con conseguenti minacce alleate di
apocalittiche distruzioni dall’aria se i patti non fossero stati rispettati; un
segreto così assoluto che sino alla sera dell’8 nemmeno il governo dei “tecnici” ne
sapeva nulla, tant’è vero che ci fu persino chi propose di respingerlo! I vertici italiani, soprattutto quelli più
elitari, sembravano in preda a un vero e proprio “marasma mentale e morale”, marasma
favorito anche (ma non è un’attenuante) dall’imposizione brutale di una
inappellabile resa incondizionata[13].
4. L’armistizio
comportò una resa incondizionata, totale, spietata e senza appello.
L’Armistizio,
come viene sempre chiamato in Italia, fu dunque una sospensione dei combattimenti
concessa in cambio non di una pace separata ma di una resa incondizionata in
piena regola, cioè di una resa i cui termini venivano accettati dal vinto
integralmente senza opporre condizioni di nessun tipo. Eravamo totalmente alla mercé del
vincitore. L’armistizio sarebbe bene
chiamarlo con il nome del suo vero contenuto:
“la resa, la capitolazione”. O comunque, esser ben consci di ciò che ci
preparava. All’estero, quando capita, è ricordato così nei media: “the
capitulation, the surrender of Italy, the inconditional surrender of
Italy”, la nostra “resa incondizionata”. Non lo chiamano mai armistice. Dargli il suo vero significato forse potrebbe
contribuire ad evitare gli equivoci che, a quanto sembra, continuano a pesare
sul significato di quegli eventi.
A Cassibile fu firmato in segreto il cosiddetto “armistizio
corto” perché di 12 articoli solamente; il 29 settembre a Malta quello “lungo”,
perché di 44 articoli. Questo testo, preannunciato nell’art. 12 dell’armistizio
corto, fu slealmente presentato solo d o
p o che avevamo firmato il corto. Molto più duro del precedente, sottometteva
in pratica l’Italia all’insindacabile controllo degli Angloamericani,
annullando la sovranità dello Stato italiano: controllo politico, militare,
economico e insomma civile in generale (dall’insegnamento alla stampa). L’Italia sarebbe stata governata da un AMGOT
ossia da un Allied Military Government of Occupied Territory, che
avrebbe stampato anche moneta, priva del tutto di copertura (le famose,
famigerate AM-Lire, quadrate), distruggendo in pratica la nostra economia. Noi diventavamo un semplice “territorio
occupato”, amministrato dai loro militari come volevano. Di “liberazione”
dell’Italia non si parlava affatto, anche se nel suo proclama, come si è visto,
Eisenhower si presentava come “liberatore”. Il concetto fu creato in un secondo
tempo, dopo la nascita della Repubblica Sociale Italiana, per ragioni di
propaganda. Si tolse la OT di Occupied
Territory dall’acronimo dell’autorità occupante, che diventò AMG, accanto
ad un neocostituito governo italiano presieduto da Badoglio, formalmente
sovrano sul tacco d’Italia: ma la sostanza non cambiò di molto, anche quando,
con il lento avanzare degli Alleati lungo la penisola, il Regno del Sud cominciò
ad acquisire via via nuove province[14].
Va ricordato, per la cronaca e senza spirito di
polemica, che la R.S.I. riuscì ad evitare il marco di occupazione (che i
generali tedeschi volevano imporci) e a mantenere la lira, dopo duri negoziati
con gli stessi tedeschi. Essa possedeva un governo indipendente, anche se,
soprattutto sul piano economico, le pretese naziste (quantitativi di produzione
rigidamente stabiliti per l’esercito tedesco e prodotti agricoli per la
Germania) pesavano notevolmente. La
R.S.I., come notò De Felice, era un vero Stato, non uno Stato-fantoccio, anche
se Stato per forza di cose satellite del Reich. Emanava le sue leggi e i suoi
regolamenti, senza dover chiedere l’assenso preventivo dei tedeschi, come
avveniva invece nel Regno del Sud sottoposto all’asfissiante controllo degli
Alleati. Dovette piegarsi a dolorose
mutilazioni territoriali e tuttavia cercò di proteggere come poté la popolazione
italiana dalle vessazioni e imposizioni germaniche nonché le frontiere dalle
mire francesi e slave[15].
“Ben pochi sanno, e ancor meno riconoscono, che le
forze armate della Repubblica Sociale difesero validamente il confine alpino occidentale
dall’agosto del 1944 alla fine della guerra”[16].
Nemmeno il Regno del Sud si può definire uno
Stato-fantoccio. Tuttavia aveva meno
libertà d’azione di quella dello Stato fascista repubblicano, per quanto la
cosa possa sembrare incredibile. Le
clausole dell’armistizio “lungo” erano così dure che Badoglio ottenne non
venissero pubblicate. Sembra che egli
abbia protestato, ovviamente invano, per questa durezza.
Il governo diretto del territorio era degli
Angloamericani. I francesi, che parteciparono
alla campagna d’Italia sino all’estate del 1944, ne erano fuori. De Gaulle del
resto, inflessibilmente ostile a noi italiani, non riconobbe mai l'autorità del governo
Badoglio. A guerra praticamente finita
occupò la Val d’Aosta, venendone prontamente cacciato con modi spicci dal presidente
americano Harry Truman, che non lo poteva sopportare. L’Italia occupata dagli
Alleati era in sostanza governata da una Commissione Alleata di Controllo (Allied
Control Commission), che esercitò il suo potere su tutto e su tutti sino al
31 dicembre 1945, mentre l’occupazione militare durò sino al novembre del 1947. Sembra che non tutte le clausole dell’armistizio
siano state applicate alla lettera, soprattutto sul piano economico (bisognava
pur evitare che la popolazione dell’Italia occupata morisse di fame) o lo siano
state allo stesso modo nel tempo ma questo incideva poco sul quadro politico-militare
generale. Si sono fatte documentate
ricerche sul “sacco d’Italia” messo in atto dall’occupante nazista. Quanto a saccheggio e sfruttamento senza
controllo delle nostre risorse, gli Alleati non sono stati da meno. Quest’aspetto della Guerra di Liberazione non
è stato mai indagato in modo sistematico, a quanto ne so[17].
L’esistenza di un governo italiano non era
inizialmente prevista, ma divenne politicamente necessaria (per gli Alleati)
dopo che Mussolini, “consigliato” fermamente da Hitler, fondò, come si è detto,
la Repubblica Sociale Italiana al Nord, il 23 settembre del ’43, Stato
poi formalmente dissolto dagli Alleati alla fine della guerra. Si poneva allora, per gli Alleati, l’esigenza
della dichiarazione di guerra del “Regno
del Sud” alla Germania[18].
Si poneva per ragioni soprattutto politiche,
ivi comprese quelle elettorali americane, poiché gli Alleati affermavano di non
aver bisogno di un nostro contributo militare regolare mentre tornava loro più utile
organizzare la guerriglia partigiana al Nord, in quanto fonte (in teoria) di grossi
grattacapi per i tedeschi (e sicuramente di ulteriori divisioni tra gli
italiani). Del resto, il nostro esercito
(quello che ne restava all’8 settembre) non si era malamente dissolto? Solo due
o tre divisioni ci erano rimaste. Anche
psicologicamente non potevano accettarci come alleati, così, di colpo, facevano
capire. E che alleati potevamo mai
essere, senza esercito e senza Stato? Per la verità, dai documenti oggi accessibili,
risulta che, a giudizio di Churchill, se, firmata la resa, avessimo resistito
ai tedeschi e ci fossimo poi fatti trovare con una dozzina di divisioni in grado
di combatterli, ci sarebbe stata la possibilità di considerarci di fatto come veri
alleati. Ma il nostro crollo diede
ragione al partito più ostile nei nostri confronti, rappresentato soprattutto
da sir Anthony Eden, ministro degli esteri inglese, che si auspicava sin
dall’inizio delle trattative di resa il collasso dell’Italia, della cui
alleanza militare, diceva, gli Alleati non avevano affatto bisogno: tale
collasso avrebbe costretto i tedeschi a dirottare un gran numero di divisioni
nel nostro Paese[19]. Eden fu anche colui che insistette nel mantenere
i massicci bombardamenti indiscriminati e terroristici sull’Italia. Quello che
Eden taceva riguardava il pervicace desiderio
inglese di schiacciare del tutto l’Italia, potenza coloniale vista quale
fastidiosa e alla fine anche pericolosa concorrente dell’impero britannico, sin
da quando si era installata a Tripoli, Tobruk e nell’Egeo orientale, scacciandone
i turchi nel 1911[20].
Con il dimostrarci noi del tutto nulli ed incapaci l’8
settembre, per colpa della “debolezza de’ capi”, era inevitabile prevalesse nei
nostri confronti l’atteggiamento più duro e vendicativo, ora per di più condito
di disprezzo. C’erano dei pesanti conti
da regolare, con tutti i fastidi che avevamo procurato alle grandi Potenze, a
partire dalla conquista dell’Etiopia e dall’intervento vittorioso nella Guerra
di Spagna. Le Potenze, la nostra unificazione non l’avevano mai veramente
digerita, avevano dovuto subirla, per una serie di circostanze. Ora era finalmente possibile impartirci una dura lezione, da non dimenticare (e ancor oggi non è
stata dimenticata, se pensiamo alla remissività per così dire patologica
delle nostre attuali classi dirigenti nei confronti degli stranieri;
remissività sulla quale devono certamente aver pesato i capillari e sistematici
massacri nelle “radiose giornate” del ’45, a guerra finita, attuati dai
partigiani, in particolare da quelli comunisti, massacri che gli Alleati non
fecero nulla per impedire)[21].
5. L’avversione profonda degli inglesi nei nostri
confronti; il disprezzo degli americani, nel discorso di Roosevelt del 6
giugno 1944.
Gli inglesi ci detestavano e non lo nascondevano. “Gli italiani erano convinti di aver
dimostrato il loro valore per il semplice fatto che avevano scaricato Mussolini
[con il quale gli Alleati non avrebbero mai trattato]. Ma ciò che gli emissari a quel tempo (e tutti
gli italiani che in seguito rimproverarono gli Alleati per la mancanza di
fiducia) non vollero capire, era l’antipatia che ispirava il loro paese,
soprattutto agli inglesi. Gli americani
erano forse un po’ più ambivalenti; dopotutto, in patria vi era un sostanzioso elettorato di origine italiana che avrebbe apprezzato di
avere l’Italia alleata anziché nemica.
Ma la considerazione fondamentale consisteva nel fatto che gli Alleati
non avrebbero digerito l’abbraccio immediato a un vecchio avversario […] In un
certo senso gli italiani cercavano di ripetere la capitolazione dei francesi di
Vichy nelle loro colonie in Africa settentrionale…”[22].
Forse si trattava allora di antipatia preconcetta
quando la loro propaganda di guerra non ci nominava mai durante la Campagna d’Africa,
se non quando ci arrendevamo? Aveva
creato lo stereotipo dell’italiano vigliacco, nascosto dietro ai tedeschi,
che non combatte mai, all’epoca delle loro iniziali grandi vittorie contro
Graziani (loro guerra di movimento nel deserto contro un pletorico, antiquato
esercito di semiappiedati e poco addestrati, che oltretutto aveva dimostrato di
non saper usare i pochi mezzi corazzati di cui disponeva – disperdendoli tra la
fanteria – e si trovava con anticarro (da 47 mm.) i cui proiettili rimbalzavano
sui lenti ma massicci e per noi invulnerabili carri inglesi, i famosi Matilda). La realtà era diversa: dopo il disastro iniziale, gli italiani si
erano ripresi e avevano partecipato attivamente alle vittorie dell’Afrika Korps
di Rommel, nonostante il loro armamento quasi sempre inferiore e l’inferiore
organizzazione, suonandogliele in diverse occasioni anche da soli, agli inglesi
(p.e. a Bir el Gobi, con i Giovani Fascisti, volontari inquadrati nei
bersaglieri; a Tobruk, ad opera dei marò del San Marco, nel settembre del
1942; nella battaglia di Ain Al Gazala, da parte della divisione corazzata Ariete). Qualcuno ha notato a ragione che, bloccandoli
assieme ai tedeschi per 35 mesi in Africa del Nord (campagna che comunque gli inglesi
non avrebbero vinto senza i rifornimenti americani e il massiccio intervento
americano dall’Algeria), gli avevamo impedito di soccorrere nel modo dovuto l’Estremo
Oriente, sommerso dall’offensiva giapponese.
Nel febbraio del 1942 avevano perso malamente la grande piazzaforte di
Singapore, cardine dell’impero in Oriente, cosa che aveva comportato
l’abbandono della Malesia e la perdita della Birmania (oggi Myanmar). Nel
giugno del ’42 i giapponesi erano ai confini orientali dell’India, dove successivamente furono fermati con la forza della disperazione. In India covava
la ribellione da parte della massa indù, mentre la strategica piazzaforte di
Tobruk in Cirenaica cadeva a sorpresa in soli tre giorni nelle mani degli
italo-tedeschi in piena offensiva, ai quali sembrava pertanto spalancarsi la
via verso il Canale di Suez. Per gli inglesi quell’estate, preceduta da pesanti
perdite navali ad opera di tedeschi e italiani, fu angosciosa, piena di sventure;
e non ci sarebbe stata se l’Italia non avesse dichiarato loro guerra,
costringendoli in tal modo a concentrare e logorare le loro risorse nel Mediterraneo,
appoggiandosi ancora di più all’America.
Alla conferenza di Casablanca, dell’1 gennaio 1943,
dove fu proclamato il principio della resa incondizionata, Roosevelt e Churchill
dichiararono di voler restituire l’indipendenza all’Austria. Era un
falso storico presentare quella nazione addirittura come una vittima
dell’austriaco Hitler. Furono gli
inglesi a sollevare poi a Jalta, nel 1945, il problema dell’Alto Adige: con
l’approvazione americana e francese, volevano un referendum che lo consegnasse
all’Austria ma Stalin (che pur appoggiava tutte le pretese di Tito contro gli
italiani) si oppose: i sovietici, fecero capire, non volevano premiare il
“revanscismo tedesco”. In effetti, il plebiscito popolare austriaco a favore
dell’unione con la Germania nazista (Anschluss) era stato addirittura del
99,78% e gli austriaci avevano partecipato con grande entusiasmo alle imprese
del Reich. Ma nel caso dell’Austria, che inglesi e americani volevano
giustamente indipendente ma sotto la loro influenza nell’ambito di un
ricostituito equilibrio europeo, non si applicava evidentemente il principio
secondo il quale i popoli che avevano approvato la dittatura erano colpevoli e
dovevano pagarne il fio sino in fondo!
Gli austriaci venivano ora addirittura premiati, non solo con la
riacquistata indipendenza (il che era giusto, a prescindere) ma anche con la promessa di acquisire nuovamente
l’Alto Adige (per loro, Tirolo del Sud, geograficamente in Italia, regione
dalla quale nei secoli precedenti, in competizione con i bavaresi, avevano
assorbito l’elemento italiano colà residente o l'avevano ricacciato via via giù per la valle
dell’Adige). Il referendum non si fece
ma l’Italia fu costretta a impegnarsi (con l’accordo De Gasperi-Gruber) a
riconoscere uno statuto speciale, di larga autonomia, sotto garanzia austriaca,
ai sudtirolesi, oneroso anche finanziariamente
[23].
Gli americani ci disprezzavano: come avevamo osato dichiarar loro guerra,
subito dopo il proditorio attacco giapponese?
Per l’autostima infinita della componente progressista di quel popolo,
convinta di essere L’Eletta della democrazia, che doveva insegnare ed imporre a
tutta la terra come forma di governo e di vita, la nostra sconsiderata audacia
andava duramente punita. In effetti, la
fretta di Mussolini nel dichiarar guerra all’America, unitamente a Hitler,
quattro giorni dopo Pearl Harbour (l’11 dicembre 1941), appare incomprensibile. Perché non aspettare che fosse stato
Roosevelt a dichiararla a noi? Non stava procedendo da mesi, a forza di embargo
contro di noi, in quella direzione? Poco
conta che la nostra dichiarazione di guerra fosse in sostanza teorica, poiché
l’Italia non aveva certo i mezzi per far male al gigante americano. L’offesa era stata fatta ed andava punita. Si presentava inoltre l’occasione di
cancellare l’Italia unita o comunque di ridimensionarla fortemente, farla
ritornare nella condizione degli ultimi secoli, quella che più piaceva e piace
alle Potenze straniere: un comodo sito,
economicamente subordinato, per una catena di basi, necessarie a chi voglia
installarsi nel Mediterraneo da padrone o cercare di farlo.
Quando Roma fu occupata dagli Alleati, Franklin D. Roosevelt
fece, il 6 giugno 1944, un discorso per celebrare l’evento, militarmente
secondario ma molto importante dal punto di vista politico-propagandistico. In esso, il presidente americano insegnava
all’Italia quale dovesse essere il suo giusto posto nel mondo.
“In Italia il popolo ha vissuto così a lungo sotto il
corrotto governo di Mussolini che, nonostante l’orpello, le condizioni
economiche del Paese erano andate gradatamente peggiorando. Le nostre truppe hanno trovato fame, denutrizione,
malattie. Il compito delle forze alleate
è stato tremendo. Noi abbiamo dovuto cominciare ad assistere le amministrazioni
locali a riformarsi su basi democratiche; noi abbiamo reso possibile agli
Italiani di coltivare ed usare il proprio raccolto. Noi dobbiamo ora aiutarli ad epurare le
scuole di tutte le cianfrusaglie fasciste”.
Che in Italia, soprattutto al Sud, ci fossero ancora
sacche di miseria, era vero. E vale sempre l’osservazione che Mussolini, invece
di inseguire le chimere imperiali (non occorreva conquistare tutta l’Etiopia
per eliminare le ripetute incursioni etiopiche nelle nostre colonie del Corno
d’Africa), avrebbe fatto molto meglio a investire nell’ammodernamento
dell’esercito e/o nel Meridione d’Italia i grandi capitali spesi per
conquistare e poi mantenere l’Impero.
Tuttavia, è anche vero che le condizioni disastrate e degradanti nelle
quali gli eserciti alleati invasori avevano trovato l’Italia, in particolare in
Sicilia o a Napoli, dipendevano soprattutto dalla micidiale campagna aerea
alleata, che aveva distrutto sistematicamente fognature, centrali elettriche e
del gas, distribuzione dell’acqua, attività produttive di ogni tipo, cose
uomini e animali, e rovinato la nostra economia con l’amministrazione militare
di tipo coloniale instaurata.
Tutto ciò Roosevelt non poteva ovviamente ammetterlo,
ammesso che se ne fosse reso conto. Lo
spietato martellamento aereo dell’Italia e la dura amministrazione militare impostale,
non rientravano nella “punizione” che il popolo italiano aveva meritato, in
quanto “complice” delle imprese e prevaricazioni mussoliniane? Ma ora l’esercito alleato invasore veniva
addirittura presentato come un’istituzione umanitaria e benefica, venuta a
“liberare” l’Italia dal fascismo per risollevare il popolo dalla miseria e
dalle malattie, riformare le amministrazioni locali in senso democratico, epurare
le scuole dalle “cianfrusaglie fasciste”, render possibile ai contadini
italiani la coltivazione e il consumo del proprio raccolto, cosa che, durante
il fascismo, non riuscivano evidentemente a fare! Insomma, gli eserciti alleati quali educatori,
pedagoghi e protettori, per insegnarci la democrazia, ossia la civiltà, e
il nostro giusto posto nel mondo. Una
visione per così dire hollywoodiana dell’invasione dell’Italia, creatrice di
uno stereotipo che più falso non avrebbe potuto essere, mantenutosi tuttavia
con pochi aggiustamenti sino ad oggi, anche presso gli italiani.
Ma quale doveva essere, questo posto? Dopo aver ricordato con qualche nome le
glorie passate degli italiani “alla testa delle arti e delle lettere, maestri a
tutta l’umanità” nel campo della cultura – nell’ordine Galileo, Raffaello, Michelangelo
e, naturalmente, Cristoforo Colombo – e concesso che “il popolo italiano è
capace di governarsi da sé” perché “conosciamo le sue virtù come un popolo
amante della pace”, Roosevelt arrivava
al punto essenziale:
“L’Italia non può, però, creare un grande impero
militarizzato. L’Italia è sovrappopolata,
ma gli Italiani non hanno bisogno di cercare la conquista delle terre d’altri
popoli per poter vivere. Altri popoli
non vogliono esser conquistati.
L’Italia dovrà continuare ad essere una grande Nazione
moderna, che contribuisca alla cultura, al progresso e all’affratellamento di
tutta l’umanità, gli sviluppi le sue speciali qualità nell’arte,
nell’artigianato e nelle scienze, conservi il suo patrimonio storico e
culturale per il bene di tutti i popoli.
Noi vogliamo instaurare una pace duratura. Tutte le altre Nazioni che sono contro fascismo
e nazismo dovrebbero concorrere nel dare all’Italia una possibilità di
rinascita”[24].
Certamente le aspirazioni e le conquiste imperiali
dell’Italia fascista, popolarissime anche tra molti antifascisti, con il
contorno razzista che ne era inopinatamente scaturito, erano state un grave errore
e fonte di molteplici ingiustizie. Messi
da parte i megalomani sogni di gloria, quale allora il compito dell’Italia per
l’attuazione del “progresso” e della “fratellanza” universali? Un compito esclusivamente culturale. Le “qualità” degli italiani si sono fatte e
si fanno valere “nell’arte, nell’artigianato e nelle scienze”: continui allora
l’Italia a coltivare quei campi, e “conservi il suo patrimonio storico-culturale
per il bene di tutti i popoli”. Insomma,
l’Italia torni ad essere il museo delle arti e delle lettere che è stata
per tanti secoli, così utile per la cultura dell’umanità, e non si faccia
venire in testa strane idee, come quella di essere una Potenza legittimata a conquistare
“altri popoli”. L’Italia deve essere
“aiutata”, ma prima ancora “educata”.
Educata alla democrazia, si capisce.
E questa “educazione” permetterà all’Italia di capire quale deve essere
il suo posto nel mondo, posto modesto ma giusto, che la farà benvolere; un posto
stabilito dalla Potenza egemone ma benefattrice.
Nonostante l’omaggio di facciata al genio italiano del
tempo che fu, un discorso umiliante per noi, non c’è che dire. Ma quest’umiliazione, non ce l’eravamo andata
a cercare? Avevamo voluto, con la fondazione dell'Impero, assumere il
ruolo della grande Potenza senza averne i mezzi materiali, la mentalità, l’effettiva
forza militare e una classe politica all’altezza (addirittura naufragata nella
sua componente politico-militare tradizionalmente di vertice al momento di
affrontare la tremenda realtà della sconfitta), finendo col pestare i piedi a
troppi Principi di questo mondo. Adesso
dovevamo pagare il conto. Da quando
esiste l’umanità, questo conto si riassume in due sole parole: Vae Victis! Guai ai vinti! Era questo, in realtà, il senso autentico
delle parole di Roosevelt, al di là della retorica sulla democrazia
benefattrice perché dispensatrice di aiuti economici e protezione ai popoli
deboli contro i forti. Questo ci gridava
in faccia la Voce della potentissima America: guai a voi, italiani, per aver preteso di
costruire un impero e osato sfidarci!
Adesso dovete esser rieducati e mettervi al posto che diciamo noi
vincitori, l’unico che vi competa, se volete sopravvivere ed esser accettati
nel concerto delle Nazioni Unite!
6. Arrendersi per uscire dalla nefasta “Guerra di
Hitler” non era tradimento.
La resa incondizionata non comportava ovviamente la cobelligeranza,
che fu riconosciuta all’Italia solo dopo che Badoglio dichiarò guerra alla
Germania, il 13 ottobre del 1943. Come ho ricordato, la BBC precisò lo stesso
giorno a tutto il mondo che “lo stato
dell’Italia sarebbe stato quello di un cobelligerante e non di un alleato”. La dichiarazione venne quando le pressioni
alleate in questo senso erano diventate assai forti, arrivando in pratica ad
una sorta di ultimatum. Sembra che fosse
soprattutto il re ad esser contrario: voleva che almeno fossimo riconosciuti
formalmente come alleati e in questo non aveva torto[25]. Subito dopo l’8 settembre, di fronte
all’assalto tedesco che si impossessava brutalmente del territorio italiano in spregio al
diritto internazionale, il governo italiano
superstite, pur ridottosi con esilissime strutture nelle quattro provincie del
tacco d’Italia, King’s Italy per gli Alleati e Regno del Sud per
noi, sarebbe stato perfettamente legittimato a dichiarare guerra alla
Germania. Sotto la spinta della
necessità, noi, allo stesso modo di tutti gli altri alleati di Hitler,
avevamo tradito l’alleato (però tradito un pazzo criminale come Hitler, che ci
stava già trattando da potenziali nemici, occupandoci, e teneva nell’armadio il
tremendo scheletro che poi venne alla luce e del quale i più informati
intuivano ormai l’esistenza), ma “tradito” solo per il fatto di aver trattato
segretamente con il nemico per arrendersi e uscire dalla guerra.
Ma ci eravamo appunto arresi e non avevamo rivolto le
armi contro i tedeschi; arresi per uscire dalla guerra non per farla alla
Germania. Fu tuttavia un errore
aspettare ben 35 giorni prima di dichiarar guerra a Hitler. Tale dichiarazione, poco importa se
inizialmente teorica, sarebbe stata utile anche per i numerosi soldati italiani
che i tedeschi avevano catturato dopo l’8 settembre, in quanto avrebbero dovuto
esser considerati subito come prigionieri di guerra (e non, come avvenne poi,
quali non meglio precisati internati militari italiani). Si sarebbe dovuta farla subito, quella
dichiarazione, appena messo piede a Brindisi, incitando le (poche) truppe
italiane (superstiti) ad attaccare ovunque i tedeschi aggressori! Hitler si rifiutò ostinatamente di
riconoscere ai soldati italiani catturati subito dopo l’8 settembre la
qualifica di prigionieri di guerra! Del
resto, la loro cattura era del tutto illegale dal punto di vista del diritto
internazionale: in mancanza di una
dichiarazione di guerra del Reich all’Italia o dell’Italia al Reich, a che
titolo i nostri soldati venivano aggrediti e presi prigionieri? E in quei casi, che pur ci furono anche se
slegati e isolati, nei quali si difesero con le armi, se catturati, fucilati? Fucilati, a che titolo? I
tedeschi consideravano tradimento, dicevano, già il semplice fatto di
arrendersi, uscendo dall’alleanza con l’accettare la sconfitta. Ma si tratta di un ragionamento del tutto
assurdo: voler uscire da una guerra
ormai persa e annientatrice con l’arrendersi al soverchiante nemico non può
costituire in alcun modo tradimento.
Si trattava di una scelta imposta dalla dura necessità al fine di salvare
il salvabile.
Un ordine segreto del Führer equiparava gli ufficiali, ma di fatto anche i soldati, che non si
fossero arresi e avessero resistito con le armi, a “franchi tiratori”, cioè a
civili passibili di fucilazione perché autori di atti ostili contro la Wehrmacht
– atti ostili contrari al diritto di guerra in quanto provenienti da individui non più combattenti (dopo
l’Armistizio), equiparati pertanto ai civili.
A parte il fatto che un armistizio non elimina lo
stato di guerra ma lo sospende provvisoriamente in attesa della sua
cessazione ad opera di un regolare trattato di pace, è giusto rilevare che, da
parte nazista, “si trattava di un’ineffabile ipocrisia, dato che non era stata
dichiarata la guerra [da parte di Hitler] nemmeno alla Polonia né alla Russia,
tanto per fare alcuni esempi; e profondamente
errata perché gli ufficiali italiani obbedivano ad ordini che, fin dall’inizio
(“resistere contro eventuali attacchi di qualsiasi provenienza”) erano inapplicabili
quanto inequivocabili. Gli ufficiali, in
altre parole, obbedivano agli ordini provenienti dal Re e dal Capo del Governo
e non li si poteva ritenere responsabili [cioè colpevoli] di adempiere doveri
che rientravano nell’onore militare. Va sottolineato che proprio gli ufficiali
tedeschi che si macchiarono di migliaia di crimini efferati in tutti i teatri
di guerra si giustificarono, alla fine del conflitto, dicendo di aver dovuto
‘obbedire agli ordini’”[26].
Le pesanti critiche che hanno sempre colpito l’armistizio ottenuto dal Re e da Badoglio,
riguardano soprattutto il modo confuso e drammaticamente inadeguato nel
quale l’operazione fu condotta, non il fatto in sé di averla voluta ed attuata. Anche il generale Frido Von Senger und Etterlin,
uno dei migliori generali tedeschi, che operò in Russia e in Italia, affiancando
Kesselring, riconobbe dopo la guerra che la nostra decisione di arrendersi era,
a quel punto, corretta.
7. Tutti i governi alleati di Hitler, tranne quello
slovacco, cercarono di uscire dalla
guerra, ricorrendo a ripetuti contatti segreti con il nemico.
Sulla dichiarazione
di guerra alla Germania nazista molti, anche in Italia, ironizzano ancor oggi,
traendone spunto per l’ennesima denigrazione del carattere italiano,
all’insegna del “solo da noi accadono certe cose”. Non sarebbe male ricordare cosa fecero gli
altri alleati di Hitler, trattandosi di fatti che credo noti oggi più che altro
agli studiosi.
Ho già accennato alla Romania (vedi supra,
§ 1). Vediamo
più in dettaglio. Dopo la disfatta di
Stalingrado, nella quale avevano subito pesanti perdite, i romeni cercarono
l’appoggio di Mussolini per attenuare i
vincoli che li legavano a Berlino, ma la caduta del Duce pose fine al
tentativo, peraltro velleitario. “Il 31
gennaio 1944 Mihai Antonescu, ministro degli esteri solo omonimo del Conducator
Ian Antonescu, con il suo consenso richiede [in segreto] un aiuto militare agli
anglosassoni per sganciarsi dall’alleanza con la Germania come aveva fatto
l’Italia. Gli Alleati rispondono che c’è una sola via d’uscita: l’insurrezione
del paese e la liberazione da parte dell’Armata Rossa”. Per contatti più incisivi con gli anglosassoni
viene inviato un ex-presidente del consiglio rumeno, il conte Stirbey, in
missione segreta al Cairo, ma la cosa si viene a sapere e Hitler convoca i due
Antonescu al suo quartier generale. Da parte loro, inglesi e americani ripetono
che la sorte della Romania “sarebbe dipesa in seguito dall’aiuto che avrebbe
prestato alle truppe sovietiche”.
Allora l’8 aprile 1944 Molotov, ministro degli esteri
sovietico, “rende noto che l’URSS avrebbe preteso la restituzione della
Bessarabia e della Bucovina, ma che in cambio era pronta a riconoscere i
diritti della Romania sulla Transilvania. I romeni avrebbero dovuto fiancheggiare
l’Armata rossa contro gli ungheresi e i tedeschi ma l’Urss non sarebbe intervenuta
negli affari interni romeni se le sue richieste fossero state rispettate. I partner occidentali di Mosca approvano e
convalidano le proposte sovietiche. A
Helsinki agenti sovietici e romeni cominciano a trattare in segreto”. Il 20 agosto l’Armata Rossa sfonda il fronte
tedesco-romeno sul fiume Prut e invade
la Bessarabia, zona di confine della Romania orientale. Allora re Michele fece arrestare i due
Antonescu e proclamare un governo di unità nazionale, dopo aver parlato alla Nazione
spiegando quanto stava succedendo. Dichiarò guerra alla Germania il 23 agosto
subito dopo il ricordato bombardamento aereo di Bucarest. Accettò il principio
della resa incondizionata, venendo accolto come “cobelligerante”, con le
quindici divisioni che gli erano rimaste[27].
Ma comunque, i
Romeni, pur se vinti e solo “cobelligeranti” e non alleati, sapevano di
combattere per qualcosa di concreto, dato che i Russi gli avevano promesso il
recupero di parte della Transilvania dagli ungheresi, loro nemici storici. Promessa che poi mantennero. Per fare un paragone con le vicende
dell’armistizio italiano, sarebbe come se gli Alleati, invece di dirci: voi vi
dovete arrendere e basta, per poi accettare senza discutere le condizioni che
vi detteremo - avessero invece detto: vi
consentiremo di mantenere la frontiera al Brennero e Trieste, per il resto del
territorio nazionale bisognerà accontentare le ambizioni di certe nazioni che
voi avete aggredito, circa le Alpi Occidentali, l’Alto Isonzo, Fiume, l’Istria,
la Dalmazia). Sarebbe stato pur
qualcosa, no? Forse il Re e Badoglio
avrebbero ritrovato di colpo la volontà di battersi.
L’Ungheria tentò disperatamente di uscire dalla
guerra con una serie di iniziative segrete, ma non vi riuscì.
Il Capo dello Stato, come Reggente al trono
d’Ungheria privo di monarca, era dal 1920 l’ammiraglio Miklós Horthy. Dopo il disastro toccato all’armata ungherese
in Russia all’inizio del 1943, il capo del governo, Miklós Kallay, “cominciò a
destreggiarsi tra i due opposti schieramenti, moltiplicando le dichiarazioni
antibolsceviche ma prendendo segretamente contatto con gli anglosassoni tramite
agenti a Lisbona, Istanbul, Berna e in altre città dove si stringevano allora
molti contatti di questo tipo. Kallay
offre ai suoi interlocutori di staccarsi progressivamente dal Reich, purché
fossero garantite al suo paese le posizioni acquisite nel bacino del Danubio,
all’interno del quale esso sarebbe divenuto la base di una futura politica
antisovietica. Il 9 settembre 1943,
all’indomani della capitolazione italiana, agenti ungheresi e inglesi firmano
un accordo segreto a Istanbul” [28].
Ma Hitler reagì occupando militarmente il paese,
dietro la finzione di una inesistente richiesta di Horthy in tal senso. Kallay riparò nella Legazione della Turchia,
mentre i nazisti imposero un nuovo capo del governo. Ma Horthy non si diede per vinto. Sostituì il
capo del governo e dichiarò guerra alla Romania che intanto aveva invaso la
Transilvania, forte dell’appoggio sovietico. “Nel frattempo, viene stabilito un
contatto [segreto] con gli anglosassoni in Italia, che fanno sapere agli
ungheresi che devono trattare con l’Urss.
Horthy invia allora una missione [segreta], la quale giunge nella
capitale sovietica e firma un accordo con i russi che prevede il ritiro delle
truppe ungheresi fino ai confini del 1938 [quindi senza la contestata
Transilvania e altre regioni], se necessario aprendosi la strada contro le
truppe tedesche. Il 15 ottobre 1944
Horthy annuncia alla radio di aver richiesto l’armistizio all’Urss, se non che
l’armistizio negoziato a Mosca non può essere applicato, perché la maggior
parte dei capi militari ungheresi resta fedele all’alleanza con la Germania”[29].
In effetti la presenza militare tedesca in Ungheria
era massiccia (così come lo era in Italia, nel 1943). La Wehrmacht, a causa dell’avanzata
russa e delle defezioni e voltafaccia dei suoi alleati balcanici, aveva dovuto
raccorciare alquanto il fronte, che ora andava dalla Polonia alla Slovacchia
all’Ungheria, con l’inserimento delle truppe (300.000 uomini) in contrastato ma riuscito ripiegamento dagli
scacchieri balcanico meridionale e mediterraneo. All’annunzio di Horthy seguì un periodo di
caos. L’ammiragio fu deportato in
Germania mentre i tedeschi favorivano la presa del potere da parte del partito
delle Croci Frecciate, i fanatici nazisti ungheresi. A Budapest accerchiata, tedeschi e ungheresi
avrebbero poi combattuto una disperata battaglia difensiva, casa per casa, durata
due mesi, finita il 13 febbraio 1945.
La Bulgaria, che, a causa dei suoi
forti ed antichi legami con la Russia, non aveva mai dichiarato guerra
all’Unione Sovietica, ma solo ad inglesi
e americani, vide la morte improvvisa del Re Boris III nell’agosto del 1943,
appena tornato da una visita ufficiale a Hitler, scopo (fallito) della quale
era stato ottenere un alleggerimento dei
vincoli che legavano il Paese al Reich.
Il “consiglio di reggenza” che lo sostituì cominciò a manovrare per il
disimpegno. Il 1° giugno 1944 una missione bulgara incontrò in segreto
gli angloamericani al Cairo al fine di negoziare un armistizio, ma fu invitata
da costoro a trattare con i russi, essendo la Bulgaria destinata alla zona di
influenza sovietica, come la Romania, l’Ungheria, la Polonia, i Paesi Baltici. L’Armata Rossa entrò in Bulgaria il 5
settembre 1944, preceduta da un’insurrezione nazionale il 26 agosto, dopo una
finta dichiarazione di guerra da parte russa.
Arrestati i membri del vecchio governo, poi “liquidati”, si costituì un
governo di unione nazionale sotto l’egida sovietica e l’armistizio fu firmato a
Mosca il 28 ottobre 1944. Poi la
Bulgaria dichiarò guerra alla Germania. Impiegò 450.000 uomini nella lotta, subendone
la perdita di 30.853[30]. Essa conseguì, alla fine del conflitto, la
Dobrugia meridionale, regione sul Mar Nero al confine con la Romania, pur
essendo cobelligerante e non alleata e quindi nazione vinta. Potè riprendersi una regione che Hitler
l’aveva costretta a cedere alla Romania.
In quella parte del mondo, a Hitler si sostituiva Stalin, quale arbitro
nella distribuzione di terre e popoli.
E veniamo, infine, alla Finlandia. Secondo un’opinione
più volte ripetuta, avrebbe firmato l’armistizio con la Russia solo dopo che il
Maresciallo Mannerheim aveva richiesto lealmente e ottenuto il permesso da
parte di Hitler. È un mito. I
finlandesi, come i romeni, erano entrati in guerra contro l’Unione Sovietica
per recuperare territori perduti: quelli sottratti dopo la guerra mossa a loro
da Mosca dal 30 novembre 1939 al 12 marzo 1940 (Guerra d’Inverno). La Bran Bretagna aveva dichiarato loro guerra
mentre gli americani si erano limitati a rompere i rapporti diplomatici. I finlandesi non affiancarono i tedeschi
nella conquista di territorio russo e non vollero partecipare all’assedio di Leningrado.
I primi contatti segreti con i sovietici erano stati stabiliti dai finlandesi a
Stoccolma addirittura all’inizio del 1942, dopo la sconfitta subita dai
tedeschi davanti a Mosca. Interrotti
dopo le vittorie tedesche dell’estate del 1942, erano ripresi dopo Stalingrado,
nella primavera del 1943, sempre in segreto.
Il partito socialdemocratico, facente parte della coalizione di governo,
spingeva per lo sganciamento. Ma il
governo finlandese respinse il 12 aprile 1944 le condizioni di Stalin,
giudicate troppo onerose. Il 14 giugno successivo
l’Armata Rossa sfondò il fronte finlandese.
“Ribbentrop giunge a Helsinki il 22 giugno e ottiene
un impegno scritto da parte di Ryti [presidente finlandese] che vincola la
Finlandia a restare al fianco dell’Asse (ma le truppe tedesche cominciano ad
evacuare il paese). Il 6 agosto il
maresciallo Mannerheim, l’uomo simbolo dell’unità nazionale – in qualsiasi
direzione intenda affermarsi – diviene presidente della repubblica e l’ex
ambasciatore a Mosca Hackzell è nominato capo del governo. Il 4 settembre 1944 una convenzione mette
fine alla guerra con l’Urss”[31].
La Finlandia, nella quale c’era stata negli anni venti
una feroce guerra civile tra Bianchi e Rossi conclusasi con la vittoria dei
primi, dovette fare sostanziali concessioni territoriali ai russi (nel Golfo di
Finlandia, in Carelia e a Nord nella zona delle miniere di nichel di Petsamo)
nonché impegnarsi a pagar loro 300 milioni di dollari (di allora) in riparazioni
di guerra. Ma non subì la temutissima occupazione
militare sovietica e restò indipendente, mantenendo il suo sistema politico, di
tipo parlamentare. Gli accordi armistiziali l’obbligavano a dichiarare la
guerra alla Germania, facendola però diventare “cobelligerante” e non alleata.
Il 15 settembre la Finlandia dichiarò guerra alla
Germania e le truppe finlandesi attaccarono quelle tedesche in ripiegamento dalla
Norvegia attraverso il Nord del paese, la Lapponia. Nonostante i tedeschi facessero terra
bruciata al loro passaggio, la campagna, alla quale parteciò anche qualche
formazione sovietica, fu condotta con poco mordente dai finlandesi, e i
tedeschi poterono ritirarsi in buon ordine e poche perdite verso Sud.
In Slovacchia, invece, il governo di mons.
Tiso, che doveva l’esistenza stessa del proprio Stato allo smembramento della
Cecoslovacchia effettuato da Hitler nel 1939, quando, in violazione degli
accordi di Monaco dell’anno prima, creò il Protettorato di Boemia e Moravia da
un lato e lo Stato slovacco dall’altro, non prese nessuna iniziativa per
sganciarsi dall’alleanza. Ci furono
rivolte e un’insurrezione nazionale organizzata dai partigiani comunisti. Ma i tedeschi, per i quali la Slovacchia era
diventata di vitale importanza strategica, repressero tutto rapidamente e con
la consueta spietatezza.
Ora, di fronte a questi semplici f a t t i, esposti in
rapida carrellata, mi chiedo: per
qual motivo a noi italiani, per aver attuato, spinti dalla necessità e dal
timore, abboccamenti segreti col nemico, professando nello stesso tempo
immutata fedeltà all’alleanza; per aver, insomma, messo in atto gli stessi sotterfugi
di romeni, ungheresi, finnici, bulgari, al fine di uscire da una guerra
terrificante, che stava annientando il Paese e ormai persa, viene affibbiata la
nomèa di traditori e agli altri no? La
cattiva reputazione di quelli che non finiscono mai una guerra dalla parte
dell’alleato con il quale l’hanno cominciata ma dalla parte opposta? Finlandesi, romeni, bulgari, alleati
volontari dei tedeschi, da che parte l’hanno finita la guerra? Si trovavano con scarse truppe tedesche in
casa ma ai confini o già dentro avevano l’Armata Rossa. Anche gli ungheresi si
sarebbero comportati allo stesso modo, se fosse stata data loro la possibilità
di attuare l’armistizio già concordato in segreto, che conservava all’Ungheria
la sovranità nei confini del 1938, quelli più ristretti stabiliti dopo la fine
della Grande Guerra, evitandole però l’occupazione sovietica. E quali sarebbero le guerre nelle quali
l’Italia ha cominciato da una parte e finito dall’altra? L’unico esempio è proprio quello della nostra
disgraziata partecipazione alla II Guerra Mondiale; ma, come si è visto, si è
trattato di una situazione sui generis, simile a quella degli altri ex-alleati di Hitler.
Nel concedere i vari armistizi Stalin pretendeva che i
beneficiati attaccassero il loro ex-alleato, anche se così facendo diventavano
solo “cobelligeranti” e non alleati. Con
il Trattato di Pace, furono considerati anch’essi dei vinti: vale anche per loro la qualifica di “nemici
cobelligeranti”. Però ognuno di loro ottenne
qualcosa, in termini territoriali o politici, non uscì completamente a mani
vuote dalla cobelligeranza, come noi italiani. E perché l’ottenne? Perché riuscì a conservare un esercito o
quanto restava di esso in grado di combattere.
Contro di noi pesò la feroce determinazione inglese,
impersonata in particolare da Anthony Eden, condivisa con qualche attenuazione
da americani e francesi, di punirci come popolo e di cancellarci come Stato
capace di svolgere una qualsiasi politica indipendente. Pesò anche l’ostilità
sovietica, implacabile durante tutte le trattative tra le Potenze e alla
Conferenza per la Pace. Ma più ancora
congiurò l’incapacità dei nostri vertici del tempo di mantenere in piedi uno
strumento militare in grado di resistere all’inevitabile attacco
tedesco. Non dico in grado di vincere i
tedeschi, cosa impossibile data la differenza qualitativa tra i due eserciti e
lo stato di esaurimento del nostro, sparpagliato “da Grenoble a Creta” e
composto ormai in prevalenza da truppe sedentarie e poco armate; ma di
resistere almeno quel numero di giorni sufficienti al sopravvenire da Sud degli
Alleati (nolenti soccorritori) o comunque sufficienti a salvare l’onore e
mantenere unita la Nazione attorno alla persona del Re. E una resistenza di questo tipo era certamente
possibile. Andava comunque tentata. Mancò
la volontà, da parte dei capi supremi.
Questa fu la loro colpa.
Se ci fossero stati uomini dotati del necessario
carattere, avrebbero seguito il consiglio del generale Umberto Utili, capo del
reparto operativo presso lo Stato Maggiore e successivamente uno degli artefici
principali della “ricomposizione dell’Esercito” con il Regno del Sud. Utili “aveva suggerito di entrare in
conflitto con i tedeschi prima di cercare contatti con gli Alleati, per mettere
questi di fronte alla realtà di una scelta già compiuta e tale da far capire
come l’Italia non volesse solo arrendersi”[32]. Si intende, postillo: “entrare in conflitto”
dichiarando pubblicamente che la guerra era persa, che ci saremmo
arresi; che avremmo lasciato andar via indisturbati i tedeschi, pronti però a
resistere qualora ci avessero attaccato, ognuno al suo posto.
8. La risalita
dagli Inferi: grandi sacrifici ma un
contributo forzatamente modesto alla vittoria alleata, tuttavia ingiustamente
misconosciuto al Tavolo della Pace.
Con la cobelligeranza non diventammo, dunque, alleati
degli Angloamericani. Mai. Diventammo cobelligeranti, ossia autorizzati
da loro a combattere assieme lo stesso comune nemico, ma non alleati. Ci
sopportavano di mala grazia, lesinandoci gli armamenti e umiliandoci in tutti i
modi, soprattutto nella fase iniziale. Preferivano utilizzarci come lavoratori
militarizzati, a volte sotto graduati di colore, cosa che al tempo veniva sentita
come un’offesa particolamente grave. Comunque l’apporto logistico delle nostre
“divisioni ausiliarie” (180.000 uomini) fu notevole. In quel campo,
particolarmente apprezzato fu il contributo del nostro Genio, che è sempre
stato di ottimo livello (sin dall’epoca
rinascimentale, si potrebbe dire, pensando ai famosi ingegneri militari
italiani di quel tempo). Gli
Alleati non vollero mai un’armata
italiana unitaria, anche se poi, nel loro bollettino finale, riconobbero il
contributo delle nostre unità.
L’impressione che avevano gli ufficiali del Regno
del Sud era in sostanza quella espressa da un memorandum ad uso
interno: “Alle nostre truppe che devono
lasciare la Corsica dopo aver dato il loro efficace concorso alla cacciata dei
tedeschi dall’isola, viene imposto di lasciare ai Francesi il meglio del loro
armamento e materiale [imposizione legittima ai sensi dell’art. 11
dell’Armistizio corto]”. Da questo e
altri atteggiamenti si deduceva che: “Nell’atteggiamento anglo-americano si
conferma sempre più la tendenza, da un lato (propaganda) ad invitarci a
combattere ed a far dipendere la nostra sorte futura dalla entità del nostro
apporto bellico, dall’altro (fatti) a cercare di ridurre al minimo tale
apporto”[33].
In questi atteggiamenti, apparentemente contraddittori,
erano all’opera da un lato pregiudizio e avversione a collaborare con noi;
dall’altro, un sotteso calcolo politico, rivolto al nuovo ordine del
dopoguerra, che ci voleva deboli e puniti. Ma l’avversione, al di là dei motivi
di fondo, anche ipocriti, si autogiustificava con il disprezzo e la diffidenza
suscitati dall’indecoroso nostro collasso dell’8 settembre. Perché perder tempo e denaro e risorse per riequipaggiare
costoro (questi “bastardi” che fino a ieri ci sparavano addosso convinti e
senza problemi) – si saranno detti gli Alleati – per tirar su delle truppe che
magari si sarebbero squagliate di nuovo, come hanno fatto l’8 settembre?
La rinascita delle forze armate italiane fu un vero
calvario. Fu necessario ripartire da zero,
in un ambiente ostile, che ci trattava a calci sui denti, per così dire. Al
Nord, la situazione era simile. Anche
lì, i generali tedeschi inizialmente non volevano italiani tra i piedi, in
prima linea. Li volevano nell’esercito tedesco o nell’Organizzazione Todt,
a lavorare per la Germania. Poi accettarono la formazione di quattro divisioni,
addestrate in Germania.
La nostra co-belligeranza passò per tre fasi.
All’inizio, i circa seimila uomini del 1° Raggruppamento motorizzato, tale soprattutto sulla carta, che dovevano arrangiarsi con materiali del Regio
Esercito reperiti qua e là. Ancora a
corto di addestramento e male armati, attaccarono sotto la pioggia e senza
appoggio di artiglieria le assai munite postazioni tedesche sul brullo Monte
Lungo l’8 dicembre 1943, senza alcun aiuto da parte degli Alleati, i quali, nelle
parole del generale Utili, “ci usarono come cavie”(ossia, come carne da
cannone) per individuare al meglio le ben occultate postazioni nemiche
nella montagna, da attaccare circa una settimana dopo. Fu un massacro, un rotta
completa, nonostante un bello slancio iniziale.
Il 16 conquistammo la terribile quota ma nell’ambito di una poderosa
offensiva compiuta con tutti i crismi dall’intero settore, tenuto dagli
americani, che costrinse i tedeschi ad arretrare le loro linee.
Dopo un periodo di inevitabile crisi, il reparto si
riorganizzò, si migliorò, si ampliò.
Nacque così il Corpo Italiano di Liberazione, equivalente a due
divisioni leggere, cioè senza carri armati e artiglieria pesante, che cominciò
a distinguersi in alcuni severi combattimenti, della consistenza di circa
20.000 uomini.
A corto di divisioni, spedite in Francia, gli Alleati,
ora meno prevenuti, ci riorganizzarono in 6 divisioni leggere, articolate però
come Gruppi di combattimento separati tra loro (aggregati a polacchi e
britannici) per un totale di circa 50.000 uomini, con moderno equipaggiamento
britannico. Impegnate efficacemente in vari combattimenti, alcuni dei quali
molto duri, quattro di queste divisioni presero poi parte allo sfondamento
finale delle linee tedesche, nell’aprile del 1945. I commando dei paracadutisti della Nembo
(finalmente armati come si deve) si distinsero in particolare durante la
decisiva Battaglia di Argenta.
L’aviazione, inquadrata nella Balkan Air Force,
svolse un oscuro ma assai utile lavoro per il continuo rifornimento dei
partigiani di Tito nei Balcani e degli italiani che combattevano con loro;
partigiani cui fu destinato dagli Alleati anche molto materiale del Regio
Esercito. Effettuò anche ripetuti attacchi contro le lunghe colonne
motorizzate dei tedeschi in ritirata dai Balcani. Si meritò ampi elogi ufficiali da parte
alleata. La Marina, con il naviglio
minore, fu impiegata in un’intensa attività di dragaggio mine e logistica, di
scorta al traffico alleato e nazionale e nel trasporto veloce di truppe,
mantenendo sempre la bandiera italiana, come concesso dalle condizioni di armistizio[34].
L’apporto della Resistenza non modificò questa
situazione. Pur creando fastidi ai
tedeschi, non assunse mai una dimensione tale da impedire in modo decisivo
lo sforzo bellico germanico. L’insurrezione
finale del 25 aprile, previa autorizzazione degli Alleati, avvenne dopo
che il fronte tedesco era stato ampiamente sfondato da alcuni giorni e né
tedeschi né fascisti erano più in grado di opporre alcuna resistenza
organizzata. La Resistenza creò sì
problemi alle linee di comunicazione strategica del nemico ma solo per brevi
periodi e dovette subire rastrellamenti e controffensive “nazifasciste” che la
decimarono[35]. Mussolini potè emanare nel 1944 due bandi di
amnistia, il secondo dei quali comportò il disarmo volontario di circa 30.000
partigiani su 68.000 al tempo stimati dalla polizia di Salò. All’avvicinarsi del crollo finale, con i
russi dall’inizio di febbraio ormai vicini a Berlino e gli Alleati avanzanti
dal Reno, com’è noto la guerriglia riprese lena e negli ultimi giorni della guerra
il numero dei partigiani raddoppiò e triplicò, con l’incoraggiamento del
Partito Comunista, per evidenti ragioni politiche - cosa che provocò la nota
protesta di Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, uno dei capi partigiani più
prestigiosi, Presidente del primo breve governo del dopoguerra[36].
Ad una stima realistica, come quella dello stesso
Parri, le forze del movimento partigiano effettivamente combattente,
vanno da un minimo iniziale di 9000 uomini ad un massimo di circa 70.000. Ma, a mio avviso, per valutare la loro
efficacia non bisogna farne una questione di numeri, che pure hanno la loro
importanza. In genere, gli effettivi di
una guerriglia, sul campo, non sono mai molto numerosi. Si tratta di un tipo di guerra notoriamente
spietato (la sale guerre, la chiamano i francesi) perché combattuta nascondendosi
nella popolazione, che deve appoggiare i guerriglieri con le buone e spesso con
le cattive, o nei boschi e sulle montagne; le cui armi sono il sabotaggio, il
colpo di mano, l’imboscata, il terrorismo individuale e gli attentati, tutte cose
sleali, che richiedono strutture di comando e complicità segrete, reti di
informatori e complici; sul campo, unità
piccole e compatte estremamente mobili, vestite da civili, armate alla leggera
ma in grado di supplire alla scarsa potenza di fuoco con la conoscenza del
terreno, la sorpresa e l’audacia. Il suo
scopo non è la distruzione del nemico in campo aperto ma il suo graduale soffocamento
strategico, con il colpirne spesso e di sorpresa i centri vitali, in modo da
tagliargli le vie di comunicazione e costringerlo alla paralisi o indebolirlo
in maniera tale da renderlo incapace di sostenere l’offensiva di un esercito
regolare alleato, organizzatore e finanziatore della stessa guerriglia. Tale obiettivo strategico primario richiede
tuttavia la capacità di combattere, se si creano certe situazioni, come
esercito regolare al fine di poter controllare e difendere posizioni strategiche
vitali, almeno per un certo lasso di tempo.
L’obiettivo strategico primario non fu mai raggiunto dalla guerriglia in
Italia, come fa fede la vicenda di Monte Fiorino, tranne che in teatri secondari[37].
Ma, a ben vedere, non lo fu nemmeno dai movimenti
partigiani degli altri paesi, Francia e Jugoslavia incluse. La Wehrmacht si ritirò ordinatamente e
abilmente, con perdite relativamente basse di uomini e materiali, dalla Grecia
e dai Balcani solo dopo che l’Armata Rossa aveva sfondato il fronte tedesco-rumeno,
non certo sotto la spinta dell’armata partigiana greca (comunista) o di quella comunista
di Tito. Quest’ultimo liberò Belgrado (10-20 ottobre 1944) cogliendo
di sorpresa i tedeschi ma la “sopresa” fu costituita soprattutto dalla
massiccia e decisiva partecipazione a quella battaglia di imponenti forze
corazzate, meccanizzate, di artiglieria e aeree sovietiche, con aliquote
bulgare, liberate dalle defezioni romene e della stessa Bulgaria
dall’Asse.
Tuttavia, a mio avviso, la Resistenza italiana avrebbe
potuto fare di più contro un nemico pur formidabile come la Wehrmacht, e
acquistar sul campo meriti da spender per l’Italia al momento della pace, se fosse stata condotta con criteri
esclusivamente patriottici e militari; rivolta cioè soprattutto (per
quanto possibile) contro l’occupante nazista, secondo l’impostazione che
avevano cercato di darle gli ufficiali dello sbandato Regio Esercito nel
costituire le prime “bande” partigiane.
Prevalse, invece, l’impostazione comunista, mirante, secondo il canone
leninista, soprattutto alla guerra civile, di classe e antipatriottica. La lotta partigiana fu pertanto diretta in
prevalenza contro lo schieramento più debole (quello fascista) con l’uso
sistematico di un capillare e spesso anonimo terrorismo individuale e di
efferati attentati, cui seguivano fatalmente (anche se non automaticamente)
esecuzioni sommarie e rappresaglie spietate, esercitate dai tedeschi anche
indiscriminatamente sulla popolazione, con la ben nota ferocia (rappresaglie
cui Mussolini e diversi esponenti fascisti sempre si opposero)[38]. La guerra civile era per i comunisti
l’obiettivo primario: la condussero senza scrupoli anche contro le formazioni
partigiane non comuniste (i c.d. autonomi), quando non si prestavano ai
loro ordini (come fa fede il famoso massacro di Porzûs, in Friuli, perpetrato a tradimento contro una
formazione delle Osoppo, brigate appunto autonome, che si
rifiutava di mettersi alle dipendenze dei partigiani comunisti sloveni ed anzi
accettava di collaborare con i fascisti per respingere i loro sconfinamenti). I confini orientali e occidentali d’Italia,
per quanto riguarda i partigiani, furono difesi soprattutto dalle formazioni
autonome, non da quelle comuniste, ligie agli ordini di Mosca. Sul confine orientale, Mosca addirittura impose
a Togliatti, capo del PCI, di subordinarsi esplicitamente a Tito e alle sue
pretese antiitaliane.
Contributo dunque limitato, nel quadro
generale, quello nostro alla vittoria delle Nazioni Unite nella campagna
d’Italia. Ma non invisibile e da
potersi considerare come inesistente.
Per limitarci all’elenco dei caduti, tralasciando i feriti, i mutilati e
i dispersi, quelli dell’Esercito Regio durante la Campagna d’Italia furono
tremila, mentre quarantamila furono quelli partigiani. Altri diecimila partigiani italiani perirono
nella guerriglia balcanica. I civili
uccisi dalle rappresaglie nazi-fascite furono diecimila, mentre ben
quarantamila furono i morti tra i prigionieri italiani in Germania, cui vanno
aggiunti tredicimila di loro annegati
nelle navi che li trasportavano (vedi supra, § 2)[39].
Paolo Pasqualucci, venerdì 29 dicembre 2017
[1]
Vedi Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le
sue conseguenze, il Mulino, Bologna, 20032, p. 50. I tre Paesi Baltici, occupati nel 1940,
occupati poi dai nazisti e collaborazionisti, infine da lui rioccupati, furono
semplicemente annessi da Stalin nel 1944-45.
[2]
Silvio Bertoldi, Il Regno del Sud, 1984, BUR, 2003, pp. 18-19. Le parentesi quadre sono mie, per correggere
quella che sembra essere una cattiva traduzione. Nelle citazioni le parentesi quadre sono
sempre mie.
[3]
Citato in: Renzo De Felice, Rosso e
Nero, a cura di Pasquale Chessa, Baldini & Castoldi, 19952,
p. 83. Chiosa mia: perché il principio
della responsabilità collettiva di un popolo per i crimini dei suoi governanti
dovrebbe applicarsi solo ai misfatti di un regime tirannico?
[4] In
questi ultimi anni è stato dimostrato che Roosevelt e Churchill sapevano che
erano stati i sovietici a far uccidere con un colpo alla nuca nelle foreste di
Katyn in Bielorussia 21.857 prigionieri polacchi, fra i quali 8000 ufficiali,
crimine scoperto nella primavera del 1943 dai tedeschi, che avevano occupato la
zona: sapevano ma insabbiarono la
verità, lasciando che la propaganda continuasse a dar la colpa ai tedeschi.
[5]
Alberto Leoni, Il Paradiso devastato.
Storia militare della Campagna d’Italia.
1943-1945, Ares, Milano, 2012, p. 9.
Le Guerre Gotiche del VI secolo furono provocate dall’imperatore romano
(d’Oriente) Giustiniano, che cercò di riconquistare anche l’Occidente, ormai
suddivisosi in Stati romano-barbarici. Per noi fu una catastrofe. I Goti
tenevano unita l’Italia in una salda monarchia, i cui quadri civili erano
composti dagli ancor validi residui della classe dirigente romana. Erano ariani
(eresia del prete libico Ario, che negava la divinità di Cristo) ma stavano
convertendosi lentamente al cattolicesimo.
Col tempo si sarebbero assimilati. La lotta contro i bizantini durò più
di vent’anni e terminò con la disfatta dei Goti e il sostanziale annientamento
dell’Italia, in tutti i sensi. Poco dopo, in un Paese spopolato, devastato e impoverito
arrivarono i Longobardi, popolazione germanica estremamente primitiva e
feroce. Si installarono nella parte
dell’Italia che i bizantini, piazzati lungo le coste, non riuscivano a
controllare, quella appenninica e padana, iniziando così la funesta divisione
del Paese, che sarebbe durata sino all’Ottocento, quando il Risorgimento prima
e lo Stato liberale poi finalmente lo riunificarono, completando la frontiera
alpina naturale nel 1918, con la vittoria nella Grande Guerra. Va aggiunto che la
seconda catastrofe, anche se assai meno imponente sul piano materiale, fu
quella delle Guerre d’Italia (1498-1559) che distrussero l’indipendenza
dei deboli Stati Italiani ponendoli quasi tutti, tranne la Repubblica di
Venezia, sotto la dominazione diretta e indiretta della monarchia spagnola
asburgica, vincitrice contro quella francese nella accanita lotta per la
spartizione della Penisola, alla quale parteciparono anche gli Svizzeri,
incamerandosi il Ticino, sottratto con il tradimento al Ducato di Milano.
[6]
Sara Lorenzini, L’Italia e il Trattato di Pace del 1947, il Mulino,
Bologna, 2007, p. 24: “Nonostante la
dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943 e le promesse
propagandate dalle trasmissioni di Voice of America, l’Italia rimaneva
un paese nemico, amministrato dal governo militare. Il generale [britannico] Harold Alexander,
comandante supremo delle forze anglo-americane in Italia, l’aveva detto: una
vera alleanza era improponibile”. Il
libro riporta in appendice il testo dei 90 articoli del Trattato e l’elenco dei
diciassette Allegati, non ovviamente i loro testi, essendo dedicato non
all’analisi del Trattato ma del modo nel quale lo vissero la classe politica e
la pubblica opinione del nostro Paese.
[7] La
relativa documentazione è stata rintracciata da Aga Rossi, op. cit., pp.
103-105.
[8]
Bertoldi, op. cit., p. 18.
[9]
Subito dopo l’8 settembre regnavano lo smarrimento e la confusione tra gli
italiani, su quale dovesse essere la scelta giusta da fare, per chi sentiva il
dovere di scegliere (vedi, tra tante altre testimonianze: Giulio Lazzati, Ali nella tragedia. Gli aviatori italiani dopo l’8 settembre,
rist. 1992, Mursia, Milano, rist. 1992, p. 35, 50, 64, 85; Eugenio Corti, Gli
ultimi soldati del re. Romanzo,
Ares, Milano, 1994, p. 39 ss. – si tratta in realtà di una sorta di diario
della partecipazione di Corti all’esercito del Regno del Sud; Carlo Mazzantini, L’ultimo repubblichino.
Sessant’anni sono passati, Marsilio, 2005: l’Autore, allora ragazzo, fu testimone
dello smarrimento che si diffuse tra la popolazione romana all’annuncio
dell’armistizio e al successivo panico, una volta appresa la fuga del re:
“Dov’era allora un punto di riferimento sicuro?
Dov’era qualcuno che avesse conservato stima e dignità e conoscenza che
potesse dare una direzione alle emozioni che ci squassavano?...Una ventata di
fughe, di sparizioni, di diserzioni…”(p. 51-55). Ancor più dettagliatamente documenta l’autore
l’agitazione che angosciava gli animi sia di fascisti che di antifascisti in
quel periodo, nell’altro suo saggio: Carlo Mazzantini, I balilla andarono a
Salò, rist. 1997, Marsilio, Venezia, rist. 1997. C’era, diffuso soprattutto tra giovani e
giovanissimi, “un sentimento di non accettazione della miseria morale in cui
era sprofondato il paese, il bisogno di dissociarsi dalle viltà, le fughe,
l’abbandono..”(op. cit., p. 35). Nessuno
sapeva esattamente cosa fare, tranne i quadri comunisti clandestini, che
diedero inizio con estrema freddezza alla guerra civile cominciando ad assassinare
uno ad uno gli esponenti fascisti moderati e fra i più stimati, anche dagli
avversari (op. cit., pp. 105-128).
[10]
Si veda il cap. I del libro di Alberto Leoni, sopra citato: Come eravamo. L’Italia e gli italiani prima dell’estate del
1943, la parte intitolata: Origini e fondamenti di un sentimento
nazionale condiviso-La sintonia del Paese con il regime: Etiopia e Spagna,
pp.11-23. Nelle pagine successive
l’Autore analizza gli elementi di crisi che si cominciarono a manifestare nei
confronti dell’evidente involuzione del regime
a partire dalla seconda metà degli anni Trenta (nei confronti di certi
aspetti negativi del regime non della Patria).
Egli ricorda la soddisfazione patriottica del padre, prima fascista, poi
antifascista dichiarato dopo il delitto Matteotti e malvisto dal regime, quando
le truppe italiane entrarono in Madrid, il 28 marzo 1939, alla conclusione
vittoriosa della Guerra di Spagna (op. cit., p. 11). Contro la tesi della “morte della Patria”,
vedi anche: Aga Rossi, op. cit., p. 203: “l’affievolirsi della nostra identità
nazionale iniziò con la fondazione della democrazia post-fascista”, dominata
dal partito cattolico e da quello comunista, nati come “forze di opposizione
allo Stato italiano, che non avevano condiviso gli ideale del Risorgimento su
cui era stato fondato”.
[11]
Mario Avagliano, Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al
fronte, 1940-1943, il Mulino, Bologna 2014.
Dalla recensione di Paolo Mieli sul Corriere della Sera dell’11 novembre 2014, risulta che, secondo la
ricostruzione dei due Autori, la gran maggioranza dei soldati prigionieri che
scrivevano appoggiò la guerra sino all’ultimo.
Ci sarebbe dunque stato nel Paese un consenso “di lunga durata” al fascismo?
Non credo, persa la guerra in Africa, si trattasse tanto di consenso al
fascismo quanto, al di là dell’impiego del frasario nazionalista tipico del
regime e divenuto abituale, del desiderio di vincere per puro patriottismo, per
la salvezza della Patria invasa.
[12]
Per i dettagli, vedi da ultimo il già citato Alberto Leoni, pp. 94-99. È da notare che a reagire con determinazione all’attacco
tedesco furono, per esempio, generali come Solinas, comandante dei Granatieri
di Sardegna, e Magli, in Corsica, entrambi di provata fede fascista. Gli episodi di restistenza devono comunque
esser stati più di quanti si creda, anche se una documentazione ragionata e attendibile
è praticamente impossibile. Sui combattimenti di unità italiane contro i
tedeschi subito dopo l’Armistizio, vedi inoltre: Carlo Vallauri, Soldati. Le forze armate italiane dall’armistizio alla
Liberazione, UTET, Torino, 2003, i capitoli dal VI al XV.
[13]
Leoni, op. cit., p. 87. I particolari di cui al testo provengono dallo studio
di Elena Aga Rossi, allo stato sicuramente il migliore sull’argomento, il quale
ben documenta l’atteggiamento passivo e fatalistico, ma anche confuso, del Re e
di Badoglio e dei generali loro collaboratori più stretti in tutta la
vicenda. Anche le famose direttive
emanate a voce o in codice subito dopo la firma dell’Armistizio per resistere
ai tedeschi e però mai attuate, mostravano sempre un atteggiamento cauto e reticente. Si invitava a
contrattaccare dopo aver soppesato bene il da farsi; insomma, solo se i
tedeschi, invece di andarsene in tutta calma, si fossero messi a sparare contro di noi e (sic) con azione
concertata (vedi Aga Rossi, op. cit., cap. 2, Dal 25 luglio all’8 settembre,
pp. 71-110). Per me, c’è una frase
rivelatrice della mens di Badoglio, nel proclama che egli pure lanciò da
Brindisi, subito dopo quello del Re, senza comunque spiegare gli eventi al
popolo: “La prepotenza tedesca ci toglie
perfino la libertà di dichiararci vinti…” (Bertoldi, op. cit., p. 18). A questo avevano sempre pensato lui e il Re:
a dichiararsi vinti, ad uscire
comunque dalla guerra, e che al
resto pensassero gli Alleati. Il Re
aveva 74 anni, Badoglio 72. Né il
sovrano né Badoglio né gli alti ufficiali dei quali si servirono dettero mai
l’impressione di esser disposti a rischiare la vita pur di salvare valori
fondamentali per la futura rinascita della nazione, al momento irrimediabilmente
sconfitta e invasa (anche per colpa loro, visto che nulla avevano fatto, a
quanto si sa, per impedire a Mussolini di cacciarsi in quella guerra). Non si
trattava di aggredire i tedeschi all’improvviso, cosa che a quasi tutti i
nostri soldati sarebbe apparsa inconcepile dopo tre anni di guerra combattuta
assieme, ma di preparare un’efficace,
motivata difesa al loro prevedibile assalto.
[14]
Bertoldi, op. cit., p. 44.
[15]
Sulla R.S.I. come vero Stato, anche se satellite (ma non fantoccio) dei
tedeschi, vedi: Renzo De Felice, Rosso
e Nero a cura di Pasquale Chessa,
Baldini & Castoldi, 19952, pp.
116-120. Le autorità della R.S.I.
cercarono anche di mitigare la condizione dei soldati italiani deportati dai tedeschi.
[16]
Leoni, op. cit., p. 429 (e pp. 429-431 per i dettagli). Difese anche sino all’ultimo il confine
orientale che Tito avrebbe voluto portare addirittura al Tagliamento (era
l’antico programma espansionistico della c.d. Grande Serbia), anche se con
minor successo, soprattutto a causa
dell’ostilità degli stessi tedeschi (che si erano annessi parte consistente del
Friuli e della Venezia Giulia) e di sloveni e croati collaborazionisti.
Comunque, le formazioni comuniste jugoslave (cui si erano subordinati i
partigiani comunisti italiani), grazie anche alla resistenza fascista
repubblicana, riuscirono ad occupare Trieste e Gorizia solo ai primi di maggio,
mentre la guerra stava finendo (finì il 2 del mese in Italia). A Udine
arrivarono per primi i valorosi partigiani autonomi (non comunisti) delle
brigate Osoppo, che liberarono per primi anche Cividale (e ad essi si
unì in combattimento un reparto di Camicie Nere) difendendo così le due città
da tedeschi in ritirata e da slavi in avanzata.
[17]
Ho trovato riferimenti isolati di questo tipo: i neozelandesi abbatterono per
tutta l’estate del 1944 boschi interi sulla Sila, portando poi via il legname
via mare, da Crotone, verso il Medio Oriente, si diceva (Ugo De Lorenzis, Dal
primo all’ultimo giorno. Ricordi di guerra, 1939-1945, Longanesi, Milano,
1971, p. 308). Oltre ai prelievi per le
necessità militari, le truppe alleate effettuarono un saccheggio sistematico,
semiprivato per così dire, tipico degli eserciti di occupazione: De Lorenzis, op.
cit., p. 333, per gli inglesi a Siracusa; nonché Eric Morris, La guerra
inutile. La Campagna d’Italia 1943-1945,
tr. it. di Roberta Rambelli, revis. e consulenza tecnico-militare di Maurizio
Pagliano, Longanesi, Milano, 1993, p. 396 sul gigantesco traffico di merci e
beni rubati messo in piedi dai francesi.
Il generale De Lorenzis, combatté nei carristi e poi fu dislocato presso
lo Stato Maggiore. Aderì al Regno del
Sud. Dal saccheggio vero e proprio
va distinto il gigantesco traffico di viveri, benzina e attrezzature provenienti
(con la complicità di parte del personale) dai gigantestchi depositi militari
alleati, durato per tutta la guerra e in tutta l’Europa liberata o
occupata.
[18]
La Repubblica Sociale Italiana fu formalmente soppressa dai vincitori
unitamente allo Stato Prussiano, inquadrato nel Terzo Reich, allo
Stato Slovacco, all’État Français del Maresciallo Pétain, al Regno
di Croazia. Dopo l’8 settembre, fu emanata l’Ordinanza Kesselring
l’11 settembre successivo, che assoggettava il territorio italiano alle ferree
leggi tedesche (di occupazione). Tale
ordinanza cessò di avere efficacia già dal 23 settembre, con la nascita della
R.S.I. o Stato Nazionale Repubblicano, la cui data di nascita ufficiale
fu il 25 novembre 1943. Il Reich si annettè
subito le provincie di Udine, Trieste, Gorizia, Lubiana, Fiume, Pola,
riunendole nella Zona di operazioni costiera dell’Adriatico; e le
provincie di Bolzano, Trento, Belluno, riunite nel Territorio delle Prealpi.
[19]
Per questo aspetto, vedi ancora Aga Rossi, op. cit., cap. I, Gli alleati e
l’Italia. Dalla pace separata alla resa
senza condizioni, pp. 33-70; specialmente pp. 39-47. Dai documenti inglesi pubblicati a suo tempo
dalla contessa Vanna Vailati, biografa di Badoglio, risulta che Eden e il suo
entourage progettassero, nel novembre 1943, addirittura di smembrare territorialmente
lo Stato italiano (Vailati, 1943-1944: La storia nascosta. Documenti
inglesi segreti che non sono mai stati pubblicati, G.C.C., Torino, 1986, p. 279: “ La Sardegna, la
Sicilia e forse la Calabria sarebbero spettate alla Gran Bretagna; la Puglia,
con gran parte dell’Italia meridionale, alla Grecia; il centro, a una sorta di
ricostituendo Stato Pontificio; il Nord-Est alla Jugoslavia; la Francia avrebbe
dovuto giungere alle porte di Milano, inglobando nel suo territorio l’intero
Piemonte, la Liguria e l’isola d’Elba”, cit. in Gianluigi Ugo, Il confine
italo-francese. Storia di una frontiera, Xenia Ed., Milano, 1989, p. 24).
[20]
Questa nostra espansione era stata vista a Londra come “una seria minaccia agli
interessi e comunicazioni inglesi nel Mediterraneo” sì da indurre il Governo di
Sua Maestà dell’epoca ad ammonire l’Italia a non allestire alcuna base navale
nell’Egeo. Vedi: Richard Hough, The
Great War at Sea. 1914-1918, Oxford University Press, 1985, p. 42. La conquista dell’Etiopia, rafforzando
enormemente la presenza italiana nel Corno d’Africa, rendeva per gli inglesi
potenzialmente insicura la vena iugulare dell’Impero rappresentata dalla rotta
Suez-Aden-Oceano Indiano-Colombo-Singapore. Rappresentava inoltre una minaccia per il Sudan e l'Egitto.
[21]
“Nella primavera 1945, dopo la breve e drammatica fase della resa dei conti
insurrezionale che gli anglo-americani hanno previsto e in buona sostanza
avallato (il colonnello John Melior Stevens, rappresentante degli Alleati in
Piemonte, dice esplicitamente al presidente del Cln regionale Franco Antonicelli
– Fate pulizia in due, tre giorni, ma al terzo giorno non voglio più vedere
morti per le strade), i termini politici del problema [della c.d. epurazione]
si ripropongono nella stessa forma in cui si sono posti nel Regno del
Sud…”(Gianni Oliva, L’alibi della Resistenza, ovvero come abbiamo
vinto la Seconda Guerra Mondiale, Mondadori, Milano, 2003, pp. 75-76, con
le fonti ivi citate). C’è una vulgata
tuttora diffusa secondo la quale i massacri e le uccisioni dell’aprile-maggio
1945 (e oltre, in certe zone) sarebbero stati solo una incontrollata resa di
conti per le atrocità compiute dai fascisti durante la guerra civile. Ma si dimentica che le fucilazioni e le
esecuzioni sommarie dei fascisti erano quasi sempre rappresaglie provocate dal
modo di combattere “spregiudicato” dei
partigiani; che lo spietato terrorismo messo in opera dai comunisti perpetrava
bolscevicamente l’eccidio sistematico dei quadri, in alto e in basso, dello
Stato fascista repubblicano, che era quanto rimaneva di un ceto politico
patriottico e nazionalista il quale, pur commettendo gravi errori, aveva sempre
lottato per l’indipendenza e la grandezza dell’Italia. Nelle “radiose giornate” l’eccidio divenne di
massa, fu il festival della barbarie, erano tornati elevati al cubo i tempi bui
delle lotte feroci tra Guelfi e Ghibellini, la fazione vincitrice grazie
all’aiuto dello straniero sterminava l’altra.
[22]
Eric Morris, op. cit., pp. 119-120.
Quando gli americani sbarcarono con poderose forze in Marocco e in
Algeria nel novembre del 1942, l’ammiraglio François Darlan, che era il
comandante delle forze di Vichy in loco, dopo alcuni brevi e modesti
combattimenti iniziali, si arrese e venne nominato dal generale Eisenhower Alto
Commissario degli Alleati per quelle regioni. Questo voltafaccia fu clamoroso,
dato che Darlan era apparso sino a poco tempo prima il più filotedesco dei
membri del governo di Vichy.
L’ammiraglio, inviso ai gollisti, fu poi assassinato ad Algeri poco
tempo dopo da un giovane gollista, rapidamente giustiziato.
[23]
Sull’iniziativa inglese favorevole all’ Austria a Jalta, vedi: Arthur Conte, Jalta
o la spartizione del mondo, tr. it. di Maria Sgarzi, Gherardo Casini ed.,
Roma, 1968, p. 225. Nella citata
intervista, De Felice ricorda la durissima lettera dell’agosto 1944 di John
McCaffery, capo dei Servizi segreti inglesi in Italia, a Parri, che si
lamentava di scarsi aiuti alla Resistenza; lettera nella quale appare il vero
motivo dell’astio contro di noi:
“L’Italia ha subìto il fascismo?
Va bene. L’Italia è entrata in
guerra contro di noi? Va bene. Malgrado
tutta la buona volontà di Lei e dei Suoi amici sappiamo benissimo quanto ci è
costato in uomini, in materiali e in sforzi quell’entrata in guerra dell’Italia
[…] Adesso avete avuto la possibilità di ritrovarVi e di finire accanto a
quelli a cui l’Italia ha causato così gravi danni […] Ma, diamine, non pretenderrete Voi adesso di
dirigere le operazioni militari invece di Eisenhower o di Alexander” (Rosso
e Nero, cit., pp. 83-84). Gli
apprezzamenti del McCaffery stridono
alquanto con lo stereotipo dell’italiano codardo, che si sconfigge sempre e
senza sforzo, creato dalla propaganda inglese e a tutt’oggi mantenuto nei
media. Lo stereotipo risale in realtà
alla Grande Guerra, dopo la sconfitta di Caporetto, riproposto tenacemente
ancor oggi, nella pubblicistica sul Centenario (vedi in questo blog, P.
Pasqualucci, L’Italia e la Grande Guerra:
dalla vittoria “mutilata” alla
“vittoria negata”).
[24]
Dal quotidiano romano Il Tempo del 7 giugno 1944, riedito diversi anni
fa in una serie di reprints dedicati a quel periodo, sospesi poi
unilateralmente a causa delle vivaci polemiche scatenatesi fra i lettori del
giornale sul significato di quegli eventi calamitosi. La ristampa era identica all’originale, di
sole due pagine (un foglio). Il testo
citato contiene estratti di una legnosa traduzione italiana, forse fornita
dagli stessi americani.
[25]
Sul punto, vedi: Bertoldi, op. cit., pp. 65-79.
[26]
Leoni, op. cit., p. 100.
[27]
Yves Durand, Il nuovo ordine europeo.
La collaborazione nell’Europa tedesca (1938-1945), 1990, tr. it. di
Alessandro Romanello, il Mulino, Bologna, 2002, pp. 199-201. Si vedano soprattutto il cap. V Evoluzioni
e il VI Il 1945. Uscite di scena, pp. 171-249. L’Autore elabora un apprezzabile quadro
d’insieme anche se diversi suoi giudizi e interpretazioni sono di tipo
ideologico più che storico. Sulle
vicende italiane non è sempre preciso: scrive ad esempio che, il 25 luglio, il
Re, “facendo mostra di adeguarsi alle decisioni prese in quella sede [nel Gran
Consiglio], lo obbliga a dimettersi. Lo
fa poi arrestare etc.”(op. cit., p. 196).
Ma Mussolini andava spontaneamente a Villa Ada, residenza privata del
Re, per “dimettersi”, dopo la “sfiducia” avuta dal Gran Consiglio, agendo con
correttezza costituzionale. Il Re ne
prese atto e non gli rinnovò l’incarico di Capo del Governo, in tal modo agendo
nell’ambito dei suoi poteri. Il Colpo di
Stato avvenne nel momento in cui, subito dopo averlo congedato, sempre nella
sua residenza fece arrestare Mussolini che si avviava all’uscita, dai
carabinieri già nascostamente predisposti a Villa Ada, una cinquantina, che lo
portarono via in un’autoambulanza. Colpo
di Stato, perché l’arresto del Capo del Governo era un atto solo politico, e
per di più illegale mancando esso di qualsiasi base giuridica. Infatti, quale sarebbe stato il reato per il
quale il Re faceva arrestare Mussolini?
[28]
Durand, op. cit., p. 201. Firmarono il
giorno dopo la nostra capitolazione ma le trattative segrete andavano avanti da
parecchi mesi.
[29]
Op. cit., pp. 201-202.
[30]
Op. cit., pp. 198-199; p. 217. La cifra
dovrebbe ricomprendere, come d’uso, morti, feriti e dispersi.
[31]
Op. cit., p. 198.
[32]
Vallauri, op. cit., p. 274.
[33]
Citato in: Antonio e Giulio Ricchezza, L’esercito
del Sud. Il Corpo italiano di
Liberazione dopo l’8 settembre,
Mursia, Milano, 1973, pp. 209-210.
L’armamento di produzione nazionale (quello che ne era rimasto), era
antiquato o superato; l’industria nazionale era soprattutto al Nord e comunque
in condizioni pietose al Sud; per contribuire efficacemente alla guerra
dovevamo esser riarmati dagli Alleati, che avevano altre priorità. Per esempio, equipaggiare modernamente alcune
divisioni francesi, rifornire abbondantemente di armi e materiali i partigiani
di Tito.
[34]
Vedi: Leoni, op. cit, passim; Vallauri,
op. cit., capitoli da 24 a 28. Per
l’odissea della rinascita delle forze armate: Antonio e Giulio Ricchezza, op.
cit., passim, con la documentazione allegata.
Per le forze aeree dei due Stati italiani: Giulio Lazzati, op. cit.,
passim. Dato l’argomento di questo mio intervento,
non mi occupo delle forze armate della RSI e quindi della memorialistica di
parte fascista repubblicana. Per l’attività
della Marina: Giorgio Giorgerini, Da
Matapan al Golfo Persico. La Marina
militare italiana dal Fascismo alla Repubblica, 1989, Oscar Mondadori
storia, 2003, p. 563. Fu anche ricostituito
il Battaglione S. Marco (op. cit., ivi).
[35]
Emblematico il caso della c.d. Repubblica di Montefiorino, territorio a
sudovest di Modena, costituente una testa di ponte strategica alle spalle della
linea gotica, controllato da circa 5000 partigiani comunisti bene armati dagli
Alleati. Nell’imminenza dell’offensiva alleata, opportunamente rinforzata da
circa 400 paracadutisti della Nembo, avrebbe potuto contribuire
efficacemente a rompere il fronte tedesco.
Ma tedeschi e fascisti l’eliminarono con un massiccio rastrellamento in
soli tre giorni, alla fine di luglio del 1944 (Leoni, op. cit., p. 359). Le formazioni partigiane in loco non si
dimostrarono capaci di tenere la posizione alla maniera di un esercito
regolare, anche solo per i giorni necessari a consentire l’arrivo degli
Alleati.
[36]
Per l’esame critico delle diverse valutazioni numeriche, cfr. De Felice, op.
cit., pp. 48-54.
[37]
Si veda tutto il capitolo dedicato ad una obiettiva analisi dell’aspetto
strettamente militare della Resistenza, in Leoni, op. cit.: Fra Repubblica e Resistenza, pp.
251-333. In questo innovativo e
coraggioso saggio, l’Autore, facendo giustizia di alcuni luoghi comuni, da un
lato rivaluta giustamente (oltre alla lotta del Regio Esercito cobelligerante)
l’azione strettamente militare della Resistenza, mostrando l’importanza del
contributo delle formazioni non comuniste; dall’altro ne ridimensiona la
portata, nel senso che l’onestà stessa della ricerca lo costringe ad ammettere
che le controffensive tedesche, con l’aiuto spesso determinante dei fascisti
repubblicani (op. cit., pp. 312-313), riuscirono sempre a tener sgombre le zone
strategicamente rilevanti per lo sforzo bellico germanico. Fornisce così spunti assai validi per la
revisione del mito dell'efficacia determinante della lotta partigiana, capace da
sola di vincere le guerre. Questo
mito trovò la sua massima celebrazione, se non erro, al tempo della guerra del
Viet-Nam, allorché si disse che la teorie del leggendario generale Giap avevano
trovato piena applicazione sul terreno; ossia, che il movimento partigiano
Viet-Cong si era trasformato gradualmente in esercito popolare regolare,
costringendo prima gli americani ad andarsene e poi sconfiggendo completamente
l’esercito regolare sud-vietnamita.
Un mito, appunto, dal momento che l’elemento decisivo fu rappresentato
sempre dall’esercito regolare del Viet-Nam del Nord, appoggiato dalla Russia
e dalla Cina, sia nelle offensive contro gli americani che nella conquista
finale del sud del Paese, in violazione del trattato che impegnava il Nord a
rispettarne l’indipendenza, dopo la partenza degli americani. Il movimento partigiano svolse un ruolo del
tutto sussidiario, di supporto logistico e appoggio tattico, via via più esteso
ma sempre subordinato all’azione dell’esercito regolare.
[38] È
noto e documentato, anche se poco ricordato, che Mussolini cercò sempre di
limitare la violenza della guerra fratricida, intervenendo per impedire o
attenuare le rappresaglie e le vendette, e per far metter da parte o punire gli
elementi fascisti più estremisti (cfr. Vincenzo Costa, L’ultimo federale. Memorie
della guerra civile 1943-1945, il Mulino, 1997, con Introduzione di
Giuseppe Parlato, p. 48, 51, 52, 62, 105-109).
In ciò era sostenuto dalla non piccola componente moderata del fascismo
repubblicano. In diverse occasioni le
rappresaglie furono effettivamente impedite o attenuate. Anche nella Resistenza c’era una componente
moderata riconducibile soprattutto ai partigiani autonomi di matrice cattolica
(Fiamme Verdi, Osovani, comandanti come Bisagno) e, in
generale, agli autonomi di fede monarchica.
[39]
Leoni, op. cit., p. 433.