Storia: novantanove anni fa il 4
novembre 1918, giorno della nostra Vittoria nella Grande Guerra
Quand’ero ragazzo,
negli anni Cinquanta del secolo scorso, il 4 di novembre era festa
nazionale. Allungava le festività
religiose di Ognissanti e del Giorno dei Morti.
Si celebrava la vittoria nella I guerra mondiale: correlativamente, il raggiungimento dell’Unità
nazionale e l’opera valorosa delle Forze Armate. Gran parte delle sinistre e parte consistente
del mondo cattolico non l’hanno mai amata, questa celebrazione, troppo patriottica
per i loro gusti. La svalutazione
progressiva, sul piano politico e culturale, dell’idea di Nazione, di Patria e
di Vittoria militare, portato della decadenza generale dei costumi che affligge
noi e tutto l’Occidente, fece sparire ogni riferimento alla Grande Guerra,
riducendo la festa a Giornata delle Forze Armate, ed infine a cancellare la
festività. Oggi, in questa data, si
rende omaggio, nelle dichiarazioni ufficiali, alle Forze Armate e all’Unità
nazionale. Della vittoria nella Grande
Guerra si è persa definitivamente ogni traccia.
Si è pertanto
avuta, in data odierna, giorno lavorativo, la consueta anonima cerimonia al
Vittoriano, condita dai consueti messaggi di routine delle Autorità costituite.
Il Presidente Mattarella ha ricordato “la conseguita completa Unità d’Italia” e
“l’onore” che si deve rendere alle Forze Armate, con un “commosso pensiero a
tutti coloro che si sono sacrificati sull’Altare della Patria e della nostra
libertà, per l’edificazione di uno Stato democratico ed unito” (Corriere
della Sera di oggi, 4 nov. 2017).
Il ministro della
difesa, on. Roberta Pinotti, colei che vorrebbe istituire il “servizio civile”
obbligatorio per tutti (sì, il servizio civile non quello militare) ha detto, sempre
nell’estratto del Corriere della Sera, che “la comemorazione di quel
doloroso periodo della nostra storia nazionale offre la possibilità per una
riflessione più profonda sul valore della pace, anelito insopprimibile di ogni
società civile, dovere ma anche diritto di ogni uomo, delle nuove generazioni,
dei deboli e indifesi, di coloro che scappano dalle guerre, dei tanti rifiutati
e oppressi. Ed è in momenti come questo
che dobbiamo rinnovare con forza il ricordo delle migliaia di Caduti sulle
pietraie del Carso, sull’Isonzo, sul Grappa, sul Piave e in tanti altri luoghi
entrati a far parte della nostra memoria collettiva”.
Avrà detto anche
altre cose, l’onorevole ministro, nel suo messaggio. Se questo ne è il nucleo, esso appare
abbastanza singolare per un ministro della Difesa, delle Forze Armate. Di quella terribile ma valorosa ed eroica
epopea che fu la nostra Grande Guerra, sa dire solo che è stato “un doloroso
periodo della nostra storia”. Il dolore,
dunque. La riflessione sul dolore
passato offre lo spunto per quella sul presente, rappresentato sempre dal dolore,
che sarebbe quello delle categorie consacrate dalla retorica politicamente
corretta dominante – le quali categorie si ritengono private del loro “diritto
alla pace”: ogni uomo in generale, i
giovani, i deboli e gli indifesi, i profughi, i rifiutati ed oppressi.
C’è un po’ di
tutto, nel materno abbraccio pinottiano, come si conviene ad una governante
intrisa di “pluralismo”, anche sul piano strettamente culturale. Un “diritto alla pace”, intrinseco ad ogni
essere umano, non sapremmo per la verità come concepirlo, in termini propri,
giuridici. Ma tant’è. Il nostro bravo
ministro, nel ricordare l’anniversario della Vittoria in una guerra mondiale di
fondamentale importanza per la nostra stessa esistenza di popolo – se,
nonostante tutto, esistiamo ancora come popolo e Stato unitario lo dobbiamo
alla vittoria in quella guerra – sa parlare solo di pace e nei termini di
quella retorica sentimentale ed
umanitaria con la quale si tentano oggi di occultare le gravi debolezze e
lacune della nostra attuale classe di governo, incapace di difendere il
territorio nazionale da una massiccia invasione afro-asiatica e musulmana, che
nessuna emergenza cosiddetta umanitaria giustifica, dal momento che, nella
massa che ci invade, i veri profughi sono solo una piccola minoranza.
Allora, perché il 4
novembre? Cos’è successo il 4
novembre? Lo sa l’on. Roberta Pinotti? Immagino
che siano in pochi a saperlo, visto che da anni non se ne parla mai, anche
perché si insegnano da tempo falsità di ogni tipo sulla nostra partecipazione
alla Grande Guerra. Per esempio, che per
noi essa sarebbe finita con la pesante sconfitta di Caporetto, dopo la quale
saremmo arrivati alla vittoria, un anno dopo, solo perché sorretti dai nostri
alleati franco-britannici, che ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco.
Invece, a due
settimane circa da Caporetto, il nostro esercito (allora Regio Esercito)
risuscitò sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, contenendo da solo gli
ultimi furiosi e decisivi assalti austro-tedeschi, sorretto alle spalle da
undici preziose divisioni franco-britanniche accorse in riserva strategica,
ridotte poi assai presto a cinque, le quali subentrarono in linea dopo circa un mese, quando avevamo
stabilizzato il fronte. Risuscitò, con
grande sorpresa del nemico, ma in realtà non era mai morto. Aveva incassato un colpo da K.O., portato con
estrema maestria dalle migliori divisioni tedesche e austro-ungariche, e
tuttavia era riuscito ad assorbirlo. Era
stata distrutta a Caporetto l’ala sinistra della II armata, mal schierata nelle
montagne isontine del Friuli del Nord-Est. Parte di quell’armata, dislocata più
a sud, si ritirò in ordine, assieme alle altre due armate nostre, la III e la
IV, non intralciate dalla marea dei profughi friulani. I circa trecentomila prigionieri e molti fra
gli altrettanti sbandati (poi recuperati) appartenevano in numero consistente
alle sterminate retrovie caratteristiche di tutti gli eserciti moderni.
Dalla nostra
vittoriosa “battaglia d’arresto” del novembre-dicemtre 1917, come si giunse al
4 novembre 1918? Nel giugno del 1918, la
Duplice Monarchia, uscita dalla guerra la Russia travolta nel gorgo della
rivoluzione, in appoggio alle poderose offensive con le quali i tedeschi
stavano tentando di vincere la guerra anche a Ovest, prima che si consolidasse
il sempre più massiccio apporto americano in Francia, tentò a sua volta di sfondare contro di noi, raccogliendo
le sue logorate forze per un ultimo formidabile sforzo. Si ebbe la grande Battaglia del Montello o
seconda del Piave, che si concluse con un completo insuccesso austro-ungarico. La testa di ponte larga 8 km e profonda 5 costituita
al di qua del Piave, sulle alture del Montello, fu da noi contenuta in aspri
combattimenti e l’Imperial-regio esercito fu costretto a ripassare il
Piave. Con quella fallita e sconsiderata
offensiva, per di più mal condotta dall’inesperto imperatore Carlo d’Asburgo,
l’Austria-Ungheria perse la guerra. Dopo
questa battaglia, cessarono del tutto i tentativi anglo-americani di indurre l’Austria-Ungheria
ad una pace separata. Gli Alleati
avevano ormai la sensazione netta del crollo imminente del nemico.
La grave crisi
interna dell’Impero, economica e spirituale, aumentò sempre di più. L’esercito teneva ancora ma cominciò a
disgregarsi nelle retrovie quando il fronte balcanico, tenuto soprattutto dalla
Bulgaria, crollò all’improvviso alla fine del settembre 1918, aprendo agli
eserciti alleati (tra i quali anche un corpo di spedizione italiano) dalla
Grecia orientale la via verso Budapest, via che essi cominciarono ovviamente a
percorrere, non velocemente ma inesorabilmente. A quel punto le divisioni ungheresi sul
nostro fronte cominciarono ad agitarsi e a voler tornare a casa, per difendere
la Patria in pericolo.
Con il nemico in
crisi sempre più evidente, in condizioni di inferiorità anche per le munizioni
e il vettovagliamento, e i tedeschi ormai in ritirata in Francia, ordinata
anche se la loro linea non era più continua e mancavano riserve e munizioni, il
nostro Comando Supremo si decise alla fine ad attaccare, in ritardo, il 24
ottobre e con il Piave in piena! La
Terza Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto, durò cinque giorni effettivi,
dal 24 al 28 ottobre, giorno nel quale l’VIII armata italiana, comandata dal
generale Caviglia, appoggiata sulla destra dall’armata anglo-italiana del
generale Cavan e sulla sinistra da quella franco-italiana del generale còrso
Graziani, sfondò il centro dello schieramento nemico, puntando verso Vittorio
Veneto e dividendo in due tronconi l’Imperial-regio. Sul Grappa gli italiani non passarono e
subirono le consuete, ingenti perdite, nei ripetuti assalti e
contrassalti. Ci riuscirono sul Piave,
contro un nemico indubbiamente debilitato ma che si batté valorosamente sino
all’ultimo, nonostante le defezioni di diversi reparti della seconda linea, soprattutto ungheresi e cèchi, a partire dal terzo giorno della battaglia, e nonostante
la dissoluzione politico-amministrativa ormai inarrestabile dello Stato
austro-ungarico.
Ho ricordato
sinteticamente quei drammatici eventi, al fine di arrivare nel modo dovuto al
punto che ci interessa: solo alle 7 di mattina del 29 ottobre, quando l’esercito era ormai in rotta sul fronte del Piave, i dirigenti austriaci presero i primi contatti con il
Comando italiano, chiedendo un armistizio.
Precedentamente avevano tentato invano con gli americani, perdendo tempo prezioso. Iniziarono in tal modo convulsi negoziati che
si conclusero con la firma dell’armistizio a Villa Giusti, presso Padova, il
pomeriggio del 3 novembre, a valere dal pomeriggio (dalle 15) del 4 novembre
successivo. Ora, gli austriaci speravano
giustamente di poter negoziare con noi termini onorevoli. Ma non ci riuscirono. Le condizioni di armistizio non erano decise
dal Comando Supremo italiano o dai politici italiani isolatamente: erano prese
dal Consiglio di guerra interalleato che risiedeva a Parigi, in quei
drammatici frangenti riunito in seduta quasi permanente. Fu tale Consiglio, che ricomprendeva
le alte cariche politiche e militari dei ‘Quattro Grandi’, ad imporre la
resa incondizionata, poiché tale fu l’armistizio che l’Austria-Ungheria
dovette sottoscrivere. Certo, l’Italia
non si oppose. La Battaglia di Vittorio
Veneto portò alla dissoluzione dell’esercito austro-ungarico, in parte già iniziata: gli diede il colpo di grazia, impedendo il
disegno austriaco e tedesco di riportare la componente nazionale dell’esercito
sui confini naturali, cioè sulle Alpi da un lato e sul Reno dall’altro, per
cercare di resistere ancora e ottenere una resa meno dura. Sparendo l’Imperial-regio dalla scena, la via dell’invasione della
Germania da sud era aperta a noi e ai nostri alleati e i tedeschi non avevano
in pratica più truppe da opporre. In tal
modo, la Germania dovette anch’essa piegarsi ad accettare una resa
incondizionata, sottoscritta l’11 novembre 1918.
Questo dunque, in
estrema sintesi, ciò che accadde il 4 novembre 1918, data indubbiamente
significativa per noi italiani e che dovrebbe esser ricordata in modo degno. Senza retorica e senza animosità per i nemici
di un tempo ma con il pathos che la ricorrenza richiede, osando magari pronunciare
le parole probite di guerra e vittoria.
Era la fine della guerra in Italia, dopo tre
anni e mezzo di tremendi sacrifici umani e materiali. Soprattutto, era la Vittoria, conseguita con
l’eroico sacrificio di un’intera generazione.
Dopo Caporetto ci fu in tutto il Paese, anche nelle classi popolari, un grande slancio patriottico, per resistere all’invasione straniera e per
vincere. Come disse Benedetto Croce,
dopo quella cocente sconfitta, solo allora quella guerra diventava nostra. Combattevamo per la nostra terra, per
riconquistarla e per l’onore nazionale, ingiustamente infangato da uno
sciagurato Bollettino del Comando Supremo che, il giorno dopo lo sfondamento di
Caporetto, ancora mal informato su quello che stava succedendo, diede la colpa
del crollo locale ad una viltà dei soldati che in realtà non c’era stata
(episodi di rese locali senza combattere ci furono dopo lo sfondamento,
le cui cause furono soprattutto militari, nel clima di caos, di panico e di
abbattimento subito creatosi, anche a causa della rivoluzionaria tattica del
nemico, basata non più sui sanguinosi attacchi frontali ma sull’aggiramento
veloce dei caposaldi e l’attacco di lato o da tergo, di sorpresa, condotto da truppe scelte).
Ma non si trattava
solo della vittoria in quella guerra, fatto di per sé pur notevole per un
popolo ed uno Stato di recente e tormentata formazione come il nostro. Con quella durissima prova, con quel sacrificio,
riscattavamo moralmente noi stessi dalle dominazioni straniere che avevano
infierito su di noi per tre secoli e mezzo.
Da quando, nelle sciagurate e crudeli Guerre d’Italia (1498-1559),
Asburgo spagnoli e austriaci, francesi, svizzeri, da noi in nessun modo
provocati, avevano fatto a pezzi il sistema degli Stati italiani indipendenti
ma militarmente deboli e sempre divisi tra di loro. Fu una grande tragedia, che non dobbiamo
dimenticare. Riuscì a resistere solo la Repubblica di Venezia, spacciata alla
fine del Settecento da Napoleone, dopo una lunga decadenza. Le Guerre d’Italia le vinse su tutti
la Spagna asburgica e quando il suo dominio finalmente si allentò, dopo altre
guerre, si ebbe la prevalenza dell’Austria asburgica, rinnovatasi dopo l’intervallo
napoleonico, che aveva annesso all’Impero francese parti consistenti del nostro
Paese, riducendo le altre a piccoli Stati suoi satelliti. L’Impero austriaco mai ci volle riconoscere il
diritto ad essere non dico uno Stato indipendente suo alleato ma nemmeno un popolo degno di
essere preso in considerazione. Eravamo, per tutti, solo una espressione
geografica, "volgo disperso che nome non ha", pascolo ubertoso per le politiche di potenza dei grandi Stati. La lunga età delle “preponderanze straniere”
(Cesare Balbo) fu per noi un’età di ripetuto sfruttamento economico e militare,
di sudditanze umilianti, di umiliazioni a non finire.
Combattendo e vincendo la Grande Guerra, abbiamo
pagato il prezzo di sangue che il nostro riscatto esigeva. Perché quel sangue non sia stato versato
invano, dobbiamo ora resistere con tutte le nostre forze all’ondata nichilista
che vuole travolgerci, dall’interno e dall’esterno, ammantata di ipocrisie
pseudo-umanitarie. E tra i valori che
dobbiamo recuperare, per resistere, il patriottismo, la fede nell’Italia
patria comune e unitaria, da difendere in tutti i modi, occupa senz’altro un
posto eminente. In questo, ci ispiri,
dunque, e ci sostenga il ricordo di questa data gloriosa, il 4 novembre, giorno
della Vittoria della Patria, finalmente tutta unita nei suoi confini naturali.
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