lunedì 13 novembre 2017

P. Pasqualucci : Una scomunica invalida - Uno scisma inesistente, Solfanelli, 2017


 

 

Pubblico qui  la Presentazione di questo mio libro, appena uscito con l’editore Solfanelli, gentilmente fatta da Maria Guarini sul suo blog Chiesa e Postconcilio. spotblog.ie  il 31 ottobre 2017


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Una scomunica invalida - Uno scisma inesistente. Due studi sulle consacrazioni lefebvriane di Écône del 1988 - Paolo Pasqualucci


P. Pasqualucci : Una scomunica invalida - Uno scisma inesistente. Due studi sulle consacrazioni lefebvriane di Écône del 1988, Solfanelli, 2017, pp. 164, € 13 [qui]

Da parte di alcuni, comprese autorevoli personalità ecclesiastiche, si continua a ritenere in qualche modo “scismatica” la FSSPX. Che mons. Marcel Lefebvre non abbia mai attuato né voluto attuare scisma alcuno, viene ribadito con ricchezza di argomenti in questi due studi del 1999, pubblicati ora per la prima volta in volume da Paolo Pasqualucci, autore del secondo (Una scomunica invalida – Uno scisma inesistente), da lui ampiamente rielaborato per l’occasione. 

Si tratta di due lavori “tecnici”, come si suol dire, ma scritti in modo chiaro e semplice, alla portata di tutti. Questi studi hanno indubbiamente il merito di mettere nel dovuto rilievo un aspetto essenziale, in genere trascurato nelle discussioni e polemiche sulla FSSPX: l’esistenza effettiva dello “stato di necessità”, sempre invocato da mons. Lefebvre a giustificazione delle sue “resistenze”. Tale status, riconosciuto dal diritto canonico, viene indagato, come principio e concetto, sia nei suoi aspetti teologici (primo studio) che in quelli canonistici (secondo studio), con puntuale utilizzo della dottrina tradizionale e più autorevole in materia. 

Di particolare interesse mi sembra, nel secondo studio, l’esposizione della Tesi Murray. Nel luglio del 1995 una “tesina di licenza”in diritto canonico del sacerdote nordamericano P. Gerald Murray, discussa ed approvata con il massimo dei voti alla Pontificia Università Gregoriana, sosteneva (destando un certo scalpore) che la scomunica latae sententiae dichiarata a suo tempo a mons. Marcel Lefebvre, a mons. Antonio de Castro Mayer e ai quattro vescovi consacrati da mons. Lefebvre senza mandato pontificio, non sarebbe stata valida in punto di stretto diritto canonico né lo sarebbe stata la connessa imputazione di scisma in senso formale. Mons. Lefebvre avrebbe agito convinto (ancorché secondo P. Murray erroneamente) di trovarsi in grave stato di necessità e non avrebbe comunque effettuato uno scisma in senso formale, non dimostrando alcuna volontà né comportamento in questo senso.

La “tesina” non fu pubblicata ma se ne rese disponibile un sunto sufficientemente chiaro e preciso, con sufficienti citazioni di passi, apparso sulla rivista americana The Latin Mass, nel numero di autunno 1995, unitamente ad un’intervista con lo stesso P. Murray. 

Nel 1996 il P. Murray fece una ritrattazione parziale della sua tesi, per ciò che riguardava la presenza dello stato di necessità: ora egli affermava che tale situazione non si sarebbe verificata. Tuttavia, continuò a non attribuire a mons. Lefebvre atti dal significato scismatico.

Nell’incandescente temperie attuale, credo che questi due lavori offrano ampio ed utile materiale di riflessione sul tema sempre scottante della natura della FSSPX  e dei suoi rapporti con la Gerarchia, al fine di una visione dell’intera questione più equilibrata e più vicina al vero. 

Il presente saggio, del quale riproduco, per gentile concessione dell’editore Solfanelli, la breve Nota introduttiva, si situa in continuità di studio e controversia con il precedente lavoro dell’Autore sulla soppressione illegale della FSSPX, effettuata dall’Ordinario locale nel 1975 senza la prescritta autorizzazione pontificia (P. Pasqualucci, La persecuzione dei “lefebvriani” ovvero l’illegale soppressione della Fraternità Sacerdotale San Pio X, Solfanelli, 2014, pp. 148 , € 12 - qui).   
Maria Guarini
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Nota  introduttiva

Potrebbe sembrare pleonastico occuparsi ancora, a ventinove anni di distanza, della vicenda delle consacrazioni di quattro vescovi effettuate ad Écône da mons. Marcel Lefebvre il 30 giugno del 1988, disattendendo l’ingiunzione del Papa a soprassedere ulteriormente; consacrazione con la quale l’anziano presule, invocando lo stato di necessità suo (in quanto vescovo) e della Chiesa universale devastata dalla crisi, troncò estenuanti ed inconcludenti trattative, trascinantesi da mesi, per stabilire la data della consacrazione di un vescovo da scegliere tra i sacerdoti della Fraternità Sacerdotale S. Pio X, da lui regolarmente eretta nel 1970, indispensabile per le future ordinazioni dei seminaristi della stessa Fraternità.  Le scomuniche allora applicate latae sententiae a mons. Lefebvre e ai quattro vescovi, non sono forse state rimesse a questi ultimi da Benedetto XVI nel 2007?  La questione non deve pertanto considerarsi chiusa?

In realtà, sulla Fraternità S.Pio X continuano a circolare pregiudizi di ogni tipo e c’è che continua a dipingere mons. Lefebvre come un “eretico” (?), uno “scomunicato”(?), uno “scismatico”(?).  Di costoro si può ben dire “non ragionar di loro ma guarda e passa”.  Più importante è invece applicare il principio secondo il quale bisogna sempre ricercare la verità, per quanto modeste siano le nostre  forze. Ora, nell’opinione dei più, l’atto di generosità con il quale Benedetto XVI ha rimesso le scomuniche ai quattro vescovi, è stato comunque applicato a scomuniche a suo tempo dichiarate validamente da Giovanni Paolo II. Ma bisognerebbe una buona volta render giustizia alla memoria di mons. Marcel Lefebvre, intrepido difensore della fede, e al vescovo brasiliano, mons. Antonio De Castro Meyer, l’unico vescovo che l’abbia per tanti anni affiancato nella lotta, presente nonostante l’età avanzata alle consacrazioni di Écône per testimoniare la sua solidarietà. Infatti, molti ritengono erroneamente che i due presuli siano morti validamente scomunicati e quindi fuori della Chiesa, da nemici della Chiesa, cosa falsissima.   

In realtà, vi sono più che fondati motivi per ritenere quelle scomuniche invalide sia dal  punto di vista teologico che del diritto canonico.

Mi sembra pertanto utile riproporre due studi del 1999, composti in occasione del decennale di consacrazioni e scomuniche, apparsi entrambi in quell’anno su sì sì no no, dal n. 1 al n. 9, tesi per l’appunto a dimostrare con accurata analisi  l’invalidità delle scomuniche stesse.  

Il primo inquadra la questione dal punto di vista teologico, il secondo da quello canonistico. Sono scritti entrambi sotto pseudonimo, come da prassi di quel periodico, tuttora vigente.  Io sono l’autore dello studio di taglio canonistico, sotto il nom de plume di CausidicusHirpinus è invece l’autore dello studio che esamina la questione teologica e che mi è sembrato opportuno riprodurre per primo, rispettando l’ordine di pubblicazione sulla rivista. Il suo autore preferisce mantenere a tutt’oggi l’anonimato. Il mio testo l’ho rivisto in diversi punti,  tenendo conto che sono passati diciannove anni dalla sua prima uscita, apportandovi sensibili modifiche, tagli e in sostanza miglioramenti.  L’altro è rimasto immutato.  Vi ho apportato solo qualche modifica di tipo redazionale, oltre ad aver corretto qualche refuso. Le parentesi quadre nelle citazioni sono di Hirpinus

Pubblico questi due studi anche perché mi sembra doveroso render giustizia a mons. Lefebvre in un altro e più ampio senso. Vale a dire: il perdurare e l’aggravarsi della crisi della Chiesa hanno dimostrato a fortiori che egli aveva ragione nell’agire come ha agito, invocando uno stato di necessità  che oggi continua più che mai ad esistere. Senza quella sua sofferta disobbedienza, imposta dalle gravi circostanze, sarebbe poi stato molto difficile e forse impossibile conservare i due beni preziosi e fondamentali rappresentati dal Seminario conforme alla Tradizione della Chiesa e dalla S. Messa di rito romano antico, per la cui salvaguardia è nata la Fraternità Sacerdotale S. Pio X.  Beni preziosissimi poiché è su di essi che, a Dio piacendo, si potrà procedere (speriamo presto) alla ricostruzione della Chiesa cattolica, devastata da un’apostasia quale mai si era vista nella sua bimillenaria storia.  

Ringrazio sentitamente il direttore responsabile di sì sì no no, Maria Caso, per aver gentilmente autorizzato la pubblicazione di questi due articoli.
Paolo Pasqualucci 


sabato 4 novembre 2017

Storia: novantanove anni fa il 4 novembre 1918, giorno della nostra Vittoria nella Grande Guerra

Storia:  novantanove anni fa il 4 novembre 1918, giorno della nostra Vittoria nella Grande Guerra

Quand’ero ragazzo, negli anni Cinquanta del secolo scorso, il 4 di novembre era festa nazionale.  Allungava le festività religiose di Ognissanti e del Giorno dei Morti.  Si celebrava la vittoria nella I guerra mondiale:  correlativamente, il raggiungimento dell’Unità nazionale e l’opera valorosa delle Forze Armate.  Gran parte delle sinistre e parte consistente del mondo cattolico non l’hanno mai amata, questa celebrazione, troppo patriottica per i loro gusti.  La svalutazione progressiva, sul piano politico e culturale, dell’idea di Nazione, di Patria e di Vittoria militare, portato della decadenza generale dei costumi che affligge noi e tutto l’Occidente, fece sparire ogni riferimento alla Grande Guerra, riducendo la festa a Giornata delle Forze Armate, ed infine a cancellare la festività.  Oggi, in questa data, si rende omaggio, nelle dichiarazioni ufficiali, alle Forze Armate e all’Unità nazionale.  Della vittoria nella Grande Guerra si è persa definitivamente ogni traccia.
Si è pertanto avuta, in data odierna, giorno lavorativo, la consueta anonima cerimonia al Vittoriano, condita dai consueti messaggi di routine delle Autorità costituite. Il Presidente Mattarella ha ricordato “la conseguita completa Unità d’Italia” e “l’onore” che si deve rendere alle Forze Armate, con un “commosso pensiero a tutti coloro che si sono sacrificati sull’Altare della Patria e della nostra libertà, per l’edificazione di uno Stato democratico ed unito” (Corriere della Sera di oggi, 4 nov. 2017).
Il ministro della difesa, on. Roberta Pinotti, colei che vorrebbe istituire il “servizio civile” obbligatorio per tutti (sì, il servizio civile non quello militare) ha detto, sempre nell’estratto del Corriere della Sera, che “la comemorazione di quel doloroso periodo della nostra storia nazionale offre la possibilità per una riflessione più profonda sul valore della pace, anelito insopprimibile di ogni società civile, dovere ma anche diritto di ogni uomo, delle nuove generazioni, dei deboli e indifesi, di coloro che scappano dalle guerre, dei tanti rifiutati e oppressi.  Ed è in momenti come questo che dobbiamo rinnovare con forza il ricordo delle migliaia di Caduti sulle pietraie del Carso, sull’Isonzo, sul Grappa, sul Piave e in tanti altri luoghi entrati a far parte della nostra memoria collettiva”.
Avrà detto anche altre cose, l’onorevole ministro, nel suo messaggio.  Se questo ne è il nucleo, esso appare abbastanza singolare per un ministro della Difesa, delle Forze Armate.  Di quella terribile ma valorosa ed eroica epopea che fu la nostra Grande Guerra, sa dire solo che è stato “un doloroso periodo della nostra storia”.  Il dolore, dunque.  La riflessione sul dolore passato offre lo spunto per quella sul presente, rappresentato sempre dal dolore, che sarebbe quello delle categorie consacrate dalla retorica politicamente corretta dominante – le quali categorie si ritengono private del loro “diritto alla pace”:   ogni uomo in generale, i giovani, i deboli e gli indifesi, i profughi, i rifiutati ed oppressi.
C’è un po’ di tutto, nel materno abbraccio pinottiano, come si conviene ad una governante intrisa di “pluralismo”, anche sul piano strettamente culturale.  Un “diritto alla pace”, intrinseco ad ogni essere umano, non sapremmo per la verità come concepirlo, in termini propri, giuridici.  Ma tant’è. Il nostro bravo ministro, nel ricordare l’anniversario della Vittoria in una guerra mondiale di fondamentale importanza per la nostra stessa esistenza di popolo – se, nonostante tutto, esistiamo ancora come popolo e Stato unitario lo dobbiamo alla vittoria in quella guerra – sa parlare solo di pace e nei termini di quella  retorica sentimentale ed umanitaria con la quale si tentano oggi di occultare le gravi debolezze e lacune della nostra attuale classe di governo, incapace di difendere il territorio nazionale da una massiccia invasione afro-asiatica e musulmana, che nessuna emergenza cosiddetta umanitaria giustifica, dal momento che, nella massa che ci invade, i veri profughi sono solo una piccola minoranza.

Allora, perché il 4 novembre?  Cos’è successo il 4 novembre?  Lo sa l’on. Roberta Pinotti? Immagino che siano in pochi a saperlo, visto che da anni non se ne parla mai, anche perché si insegnano da tempo falsità di ogni tipo sulla nostra partecipazione alla Grande Guerra.  Per esempio, che per noi essa sarebbe finita con la pesante sconfitta di Caporetto, dopo la quale saremmo arrivati alla vittoria, un anno dopo, solo perché sorretti dai nostri alleati franco-britannici, che ci avrebbero tolto le castagne dal fuoco.    
Invece, a due settimane circa da Caporetto, il nostro esercito (allora Regio Esercito) risuscitò sul Piave, sul Grappa e sugli Altipiani, contenendo da solo gli ultimi furiosi e decisivi assalti austro-tedeschi, sorretto alle spalle da undici preziose divisioni franco-britanniche accorse in riserva strategica, ridotte poi assai presto a cinque, le quali subentrarono  in linea dopo circa un mese, quando avevamo stabilizzato il fronte.  Risuscitò, con grande sorpresa del nemico, ma in realtà non era mai morto.  Aveva incassato un colpo da K.O., portato con estrema maestria dalle migliori divisioni tedesche e austro-ungariche, e tuttavia era riuscito ad assorbirlo.  Era stata distrutta a Caporetto l’ala sinistra della II armata, mal schierata nelle montagne isontine del Friuli del Nord-Est. Parte di quell’armata, dislocata più a sud, si ritirò in ordine, assieme alle altre due armate nostre, la III e la IV, non intralciate dalla marea dei profughi friulani.  I circa trecentomila prigionieri e molti fra gli altrettanti sbandati (poi recuperati) appartenevano in numero consistente alle sterminate retrovie caratteristiche di tutti gli eserciti moderni.
Dalla nostra vittoriosa “battaglia d’arresto” del novembre-dicemtre 1917, come si giunse al 4 novembre 1918?  Nel giugno del 1918, la Duplice Monarchia, uscita dalla guerra la Russia travolta nel gorgo della rivoluzione, in appoggio alle poderose offensive con le quali i tedeschi stavano tentando di vincere la guerra anche a Ovest, prima che si consolidasse il sempre più massiccio apporto americano in Francia,  tentò a sua volta di sfondare contro di noi, raccogliendo le sue logorate forze per un ultimo formidabile sforzo.  Si ebbe la grande Battaglia del Montello o seconda del Piave, che si concluse con un completo insuccesso austro-ungarico.  La testa di ponte larga 8 km e profonda 5 costituita al di qua del Piave, sulle alture del Montello, fu da noi contenuta in aspri combattimenti e l’Imperial-regio esercito fu costretto a ripassare il Piave.  Con quella fallita e sconsiderata offensiva, per di più mal condotta dall’inesperto imperatore Carlo d’Asburgo, l’Austria-Ungheria perse la guerra.  Dopo questa battaglia, cessarono del tutto i tentativi anglo-americani di indurre l’Austria-Ungheria ad una pace separata.  Gli Alleati avevano ormai la sensazione netta del crollo imminente del nemico.
La grave crisi interna dell’Impero, economica e spirituale, aumentò sempre di più.  L’esercito teneva ancora ma cominciò a disgregarsi nelle retrovie quando il fronte balcanico, tenuto soprattutto dalla Bulgaria, crollò all’improvviso alla fine del settembre 1918, aprendo agli eserciti alleati (tra i quali anche un corpo di spedizione italiano) dalla Grecia orientale la via verso Budapest, via che essi cominciarono ovviamente a percorrere,  non velocemente ma inesorabilmente.  A quel punto le divisioni ungheresi sul nostro fronte cominciarono ad agitarsi e a voler tornare a casa, per difendere la Patria in pericolo.
Con il nemico in crisi sempre più evidente, in condizioni di inferiorità anche per le munizioni e il vettovagliamento, e i tedeschi ormai in ritirata in Francia, ordinata anche se la loro linea non era più continua e mancavano riserve e munizioni, il nostro Comando Supremo si decise alla fine ad attaccare, in ritardo, il 24 ottobre e con il Piave in piena!  La Terza Battaglia del Piave o di Vittorio Veneto, durò cinque giorni effettivi, dal 24 al 28 ottobre, giorno nel quale l’VIII armata italiana, comandata dal generale Caviglia, appoggiata sulla destra dall’armata anglo-italiana del generale Cavan e sulla sinistra da quella franco-italiana del generale còrso Graziani, sfondò il centro dello schieramento nemico, puntando verso Vittorio Veneto e dividendo in due tronconi l’Imperial-regio.  Sul Grappa gli italiani non passarono e subirono le consuete, ingenti perdite, nei ripetuti assalti e contrassalti.  Ci riuscirono sul Piave, contro un nemico indubbiamente debilitato ma che si batté valorosamente sino all’ultimo, nonostante le defezioni di diversi reparti della seconda linea, soprattutto ungheresi e cèchi, a partire dal terzo giorno della battaglia, e nonostante la dissoluzione politico-amministrativa ormai inarrestabile dello Stato austro-ungarico.

Ho ricordato sinteticamente quei drammatici eventi, al fine di arrivare nel modo dovuto al punto che ci interessa: solo alle 7 di mattina del 29 ottobre, quando l’esercito era ormai in rotta sul fronte del Piave, i dirigenti austriaci presero i primi contatti con il Comando italiano, chiedendo un armistizio.  Precedentamente avevano tentato invano con gli americani, perdendo tempo prezioso.  Iniziarono in tal modo convulsi negoziati che si conclusero con la firma dell’armistizio a Villa Giusti, presso Padova, il pomeriggio del 3 novembre, a valere dal pomeriggio (dalle 15) del 4 novembre successivo.  Ora, gli austriaci speravano giustamente di poter negoziare con noi termini onorevoli.  Ma non ci riuscirono.  Le condizioni di armistizio non erano decise dal Comando Supremo italiano o dai politici italiani isolatamente: erano prese dal Consiglio di guerra interalleato che risiedeva a Parigi, in quei drammatici frangenti riunito in seduta quasi permanente.  Fu tale Consiglio, che ricomprendeva le alte cariche politiche e militari dei ‘Quattro Grandi’, ad imporre la resa incondizionata, poiché tale fu l’armistizio che l’Austria-Ungheria dovette sottoscrivere.  Certo, l’Italia non si oppose.  La Battaglia di Vittorio Veneto portò alla dissoluzione dell’esercito austro-ungarico, in parte già iniziata:  gli diede il colpo di grazia, impedendo il disegno austriaco e tedesco di riportare la componente nazionale dell’esercito sui confini naturali, cioè sulle Alpi da un lato e sul Reno dall’altro, per cercare di resistere ancora e ottenere una resa meno dura.  Sparendo l’Imperial-regio  dalla scena, la via dell’invasione della Germania da sud era aperta a noi e ai nostri alleati e i tedeschi non avevano in pratica più truppe da opporre.  In tal modo, la Germania dovette anch’essa piegarsi ad accettare una resa incondizionata, sottoscritta l’11 novembre 1918.  
Questo dunque, in estrema sintesi, ciò che accadde il 4 novembre 1918, data indubbiamente significativa per noi italiani e che dovrebbe esser ricordata in modo degno.  Senza retorica e senza animosità per i nemici di un tempo ma con il pathos che la ricorrenza richiede, osando magari pronunciare le parole probite di guerra e vittoria.  
 Era la fine della guerra in Italia, dopo tre anni e mezzo di tremendi sacrifici umani e materiali.  Soprattutto, era la Vittoria, conseguita con l’eroico sacrificio di un’intera generazione.  Dopo Caporetto ci fu in tutto il Paese, anche nelle classi popolari, un grande slancio patriottico, per resistere all’invasione straniera e per vincere.  Come disse Benedetto Croce, dopo quella cocente sconfitta, solo allora quella guerra diventava nostra.  Combattevamo per la nostra terra, per riconquistarla e per l’onore nazionale, ingiustamente infangato da uno sciagurato Bollettino del Comando Supremo che, il giorno dopo lo sfondamento di Caporetto, ancora mal informato su quello che stava succedendo, diede la colpa del crollo locale ad una viltà dei soldati che in realtà non c’era stata (episodi di rese locali senza combattere ci furono dopo lo sfondamento, le cui cause furono soprattutto militari, nel clima di caos, di panico e di abbattimento subito creatosi, anche a causa della rivoluzionaria tattica del nemico, basata non più sui sanguinosi attacchi frontali ma sull’aggiramento veloce dei caposaldi e l’attacco di lato o da tergo, di sorpresa, condotto da truppe scelte).
Ma non si trattava solo della vittoria in quella guerra, fatto di per sé pur notevole per un popolo ed uno Stato di recente e tormentata formazione come il nostro.  Con quella durissima prova, con quel sacrificio, riscattavamo moralmente noi stessi dalle dominazioni straniere che avevano infierito su di noi per tre secoli e mezzo.  Da quando, nelle sciagurate e crudeli Guerre d’Italia (1498-1559), Asburgo spagnoli e austriaci, francesi, svizzeri, da noi in nessun modo provocati, avevano fatto a pezzi il sistema degli Stati italiani indipendenti ma militarmente deboli e sempre divisi tra di loro.  Fu una grande tragedia, che non dobbiamo dimenticare. Riuscì a resistere solo la Repubblica di Venezia, spacciata alla fine del Settecento da Napoleone, dopo una lunga decadenza.  Le Guerre d’Italia le vinse su tutti la Spagna asburgica e quando il suo dominio finalmente si allentò, dopo altre guerre, si ebbe la prevalenza dell’Austria asburgica, rinnovatasi dopo l’intervallo napoleonico, che aveva annesso all’Impero francese parti consistenti del nostro Paese, riducendo le altre a piccoli Stati suoi satelliti.  L’Impero austriaco mai ci volle riconoscere il diritto ad essere non dico uno Stato indipendente suo alleato ma nemmeno un popolo degno di essere preso in considerazione. Eravamo, per tutti, solo una espressione geografica, "volgo disperso che nome non ha",  pascolo ubertoso per le politiche di potenza dei grandi Stati.   La lunga età delle “preponderanze straniere” (Cesare Balbo) fu per noi un’età di ripetuto sfruttamento economico e militare, di sudditanze umilianti, di umiliazioni a non finire. 
 Combattendo e vincendo la Grande Guerra, abbiamo pagato il prezzo di sangue che il nostro riscatto esigeva.  Perché quel sangue non sia stato versato invano, dobbiamo ora resistere con tutte le nostre forze all’ondata nichilista che vuole travolgerci, dall’interno e dall’esterno, ammantata di ipocrisie pseudo-umanitarie.  E tra i valori che dobbiamo recuperare, per resistere, il patriottismo, la fede nell’Italia patria comune e unitaria, da difendere in tutti i modi, occupa senz’altro un posto eminente.  In questo, ci ispiri, dunque, e ci sostenga il ricordo di questa data gloriosa, il 4 novembre, giorno della Vittoria della Patria, finalmente tutta unita nei suoi confini naturali.




Paolo  Pasqualucci,  sabato 4 novembre 2017