Filosofia del Diritto: Stato
e bene comune [I]
Sommario: 1. Lo Stato ha come fine precipuo il bene comune
di un popolo. 2. Il bene comune, fine
dello Stato, è sia materiale che spirituale.
3. La falsa contrapposizione della c.d. “nazionalità spontanea” allo
Stato. 4. Bene comune e bene del singolo. 5. Il
bene comune di un popolo è costituito innanzitutto dalla sua stessa esistenza e
sopravvivenza. 6. Bene comune materiale e bene comune in senso
spirituale.
1. Lo Stato ha come fine precipuo il bene comune di un popolo
Il bene comune e non la felicità individuale, il cui
perseguimento deve sempre accordarsi con le esigenze del bene comune. E nemmeno la giustizia in sé e per sé,
ideale del tutto astratto se inteso all’insegna del motto: fiat iustitia,
pereat mundus, inapplicabile allo Stato. Lo Stato, più realisticamente,
dovrà cercare sempre di perseguire il suo fine specifico senza violare i princìpi
fondamentali della giustizia, sia nel senso della giustizia conforme alle leggi
di natura e divine che nel senso di quella risultante dai rapporti di
correttezza tra gli uomini civili, nei rapporti con i singoli e con gli altri
Stati. Ma il suo fine specifico è il
bene comune, da perseguirsi per quanto possibile secondo giustizia. Il bene comune di un popolo non
quello degli altri popoli o dell’umanità nella sua totalità, prospettive
chimeriche e megalomani, oggi tornate di moda grazie alla crisi dei valori
dilagante.
Che la giustizia sia un principio da non applicarsi qui in modo
assoluto, a meno che non risultino violate la legge di natura o quella divina,
si ricava da queste semplici riflessioni.
La norma pacta sunt servanda è un principio cardine del diritto
internazionale, ma temperato dall’aggiunta: rebus sic stantibus, se si mantengono le condizioni presenti, quelle
che hanno condotto alla firma degli accordi.
Ora, è capitato che uno Stato si sia rifiutato di entrare in una guerra
considerata rovinosa, cosa che era obbligato a fare da un precedente trattato,
trovandosi così affibbiata la taccia di traditore dallo Stato suo partner, che
si attendeva l’entrata in guerra e negava l’applicabilità della clausola rebus
sic stantibus. Insomma: per salvare lo Stato, e mantenere in tal modo
al popolo il bene comune della pace, non si è a volte costretti a violare un
trattato, ossia ad andar contro il giusto principio del pacta sunt servanda in
nome di un principio ritenuto più alto, anch’esso giusto, quello del
mantenimento del bene comune di tutto un popolo, che non si vuole
mettere a repentaglio in una guerra che si presenta gravosa e rovinosa?
Pertanto, l’idea di giustizia cui fa riferimento sant’Agostino in
una sua famosa frase, va interpretata in modo appropriato. “Eliminata la giustizia – ha scritto –
cosa sono i regni se non grandi associazioni criminali?”[1].
Giusto. Ma di quale giustizia di
tratta? Di quella propria dello Stato,
si intende, secondo i fini naturali per i quali esiste l’autorità di
governo dello Stato, voluti e approvati da Dio (Rm 13, 1-7). I valori di questa giustizia possono confliggere,
dal punto di vista pratico, con il valore rappresentato dal bene comune del
popolo, da mantenere e difendere ad ogni costo.
Tale conflitto non ha, invece, luogo se uno Stato, per fare un esempio
riferito al nostro drammatico presente, si rifiuta di accogliere grandi quantità
di stranieri che arrivino clandestinamente sui suoi confini terrestri e marittimi,
con la motivazione di essere profughi o di fuggire dalla miseria. L’accoglienza di elementi estranei, e in gran
numero, non può certo essere un dovere per uno Stato, né in senso morale
né giuridico, proprio perché il dovere fondamentale dello Stato (che ne
giustifica l’esistenza) è esclusivamente quello di provvedere al bene dei
propri cittadini (o sudditi). Può naturalmente
soccorrere ed accogliere gli stranieri che arrivino illegalmente ma unicamente per
generosità, non perché sia obbligato, in quanto Stato.
Quell’accoglienza può diventare un dovere giuridico, solo se lo
Stato si è impegnato con un trattato internazionale ad una accoglienza di
questo tipo. Si tratterebbe comunque di
un cattivo trattato, da ripudiare.
Infatti, il dovere elementare dello Stato è di provvedere in
primo luogo al bene comune dei suoi cittadini, il che implica la difesa
da ogni invasione, quali che siano le sue motivazioni. Una “accoglienza” di elementi stranieri per motivi umanitari può naturalmente aver
luogo ma non può comunque costituire un diritto (un “diritto umano”, che
obblighi lo Stato a tutelarlo) né tantomeno esser indiscriminata: deve esser discriminata
a seconda delle risorse a disposizione dello Stato e del calcolo delle
conseguenze che tale invasione comporterebbe sul piano dei valori (usi e
costumi, religione, qualità della vita).
1.2 Oggi lo Stato, innanzitutto
come valore, è contestato in gran parte di quello che si chiamava un tempo Occidente,
diventato una sorta di cosmopolita e nello stesso tempo atomistica, sfilacciata
comunità euro-americana pervasa dallo spirito mercantile e dall’edonismo più
sfrenati, senza morale e senza Dio. Da
più parti si auspica il superamento ed anzi la scomparsa dello Stato-nazione,
come dicono; accusato di provocare o
alimentare il nazionalismo, con i suoi passati disastri, e di non curarsi dei
c.d. “diritti umani” nel modo dovuto.
Accusa a ben vedere superficiale, dal momento che la I Guerra Mondiale,
sempre imputata agli sfrenati nazionalismi, ebbe come causa profonda la
lotta spietata che quattro grandi imperi europei, padroni di mezzo mondo, stavano
da anni conducendo, divisi in due alleanze, tra di loro e ai danni del
moribondo impero ottomano. Le
aspirazioni e i calcoli di dimensione imperiale furono assai più decisivi,
quale causa di guerra, degli impulsi nazionalistici di una Francia o di
un’Italia e perfino di una Serbia.
Di questi tempi, si vorrebbe che lo Stato si lasciasse “superare” da due
lati. Dall’esterno,
sottomettendosi alla sovranità di organizzazioni sovranazionali (ONU, UE,
WTO, OMS, etc), incluso il “mercato globale” dominato dalla finanza internazionale,
e ai loro enti; dall’interno,
frammentandosi in regioni o mini-stati sottoposti alle medesime organizzazioni
sovranazionali. Dall’interno e
dall’esterno è in azione un movimento a tenaglia contro lo Stato, il cui
diritto all’esistenza è simultaneamente negato in nome del particolarismo e
dell’universalismo, tra loro contraddittori ed ugualmente spuri perché
frutto di astratte e faziose ideologie assai più che dei bisogni reali dei
popoli.
Lo Stato però, come istituzione che realizza ancora in qualche modo il
prevalere del bene della nazione (del bene comune) sugli interessi individuali
o di parte, resiste e si mantiene rivelandosi ancora indispensabile per tanti
aspetti essenziali della vita in comune, in modo diretto ed indiretto: pensiamo all’ordine pubblico e alla difesa, all’amministrazione
della giustizia, al sistema sanitario, al sistema scolastico, agli interventi
nell’economia, allo sport. Ma il pensiero politico e giuridico attuale non
sembra trovare argomenti concettualmente validi per giustificare questa tenace
sopravvivenza; aiutato, in questa sua latitanza, da una concezione del diritto
che appare sempre più astratta ed utopistica. Infatti, si tende a far prevalere su tutto
l’idea dei “diritti umani” di ogni individuo, concepito atomisticamente come
entità completamente disancorata da ogni connessione territoriale, sociale,
culturale, ossia da una nazione che sia effettiva comunità di vita,
quale si esprime in un ordinamento giuridico statuale concreto, secondo il ben
noto rapporto ordinamento statale-territorio-popolo; per farne, del diritto, un attributo della
persona individuale, astrattamente intesa;
di un soggetto di diritti senza storia e senza individualità, nei fatti
inesistente; quell’autentica chimera che è il “cittadino del mondo” concepito
assurdamente, il mondo, come “villaggio globale”.
Si ha qui certamente un uso
iperbolico della nozione dei “diritti umani”, nozione assai più ideologica che
giuridica, filosoficamente figlia del consunto, antropocentrico
“giusnaturalismo” degli “immortali princìpi” della Rivoluzione Francese. La negazione della validità dell’esigenza
posta dallo Stato, come istituzione concreta, ha contribuito pertanto ad
una concezione a mio avviso addirittura irreale del diritto. Il fenomeno giuridico non può, evidentemente,
identificarsi con il diritto posto dallo Stato (come ritenevano le vecchie
scuole positivistiche) ma nemmeno può esser disancorato dal “concreto”
rappresentato dal territorio di un determinato popolo, governato da un
ordinamento giuridico statuale specifico, quale che sia il suo grado di
sviluppo, sul quale incombe il dovere di mantenere integro il territorio con il
popolo che vi abita[2].
2. Il bene comune, fine dello
Stato, è sia materiale che spirituale
Un primo argomento da ribadire,
in sé non certo nuovo ma oggi del tutto dimenticato, è dunque il seguente: lo
Stato esiste per realizzare il bene comune dei suoi componenti, cittadini o
sudditi che siano. Concetto che si
può esprimere anche servendosi dell’antica, famosa massima dei Romani: Salus populi suprema lex esto: la salvezza del popolo sia la legge suprema,
per i magistrati o governanti, e quindi per lo Stato e le sue leggi[3].
La “salvezza” del popolo ne realizza il bene comune.
Il discorso sullo Stato va pertanto ripreso muovendo dalla considerazione
del fine, dalla sua causa finale, per esprimerci in termini
aristotelici.
A qual fine esiste lo Stato?
Per realizzare il bene comune di un determinato popolo. Questo popolo costituisce di per sé una società
i cui caratteri culturali, storici, estetici, linguistici, religiosi
l’individuano anche come nazione.
Popolo e nazione sono comunque termini usati come sinonimi.
Ma come qualificheremo il “bene comune” di un popolo, dal punto di vista
del suo contenuto? Quali ne sono gli
elementi costitutivi? Si intende qui,
ovviamente, sempre il bene comune dal punto di vista terreno, non di quello
della salvezza eterna delle anime, di competenza della Chiesa e non dello
Stato, che comunque, come si avrà modo di ribadire, deve anch’esso concorrervi,
sia pure senza uscire dalla sua sfera di competenza e quindi indirettamente.
Il bene comune di un popolo è sia materiale che spirituale,
attiene cioè a tutti gli aspetti giuridici, economici, politici della vita
quotidiana di un popolo, senza ovviamente poter escludere quelli spirituali
ad essi collegati nella forma di ciò che chiamiamo valori della morale, della
cultura, dello spirito in generale.
Nel bene comune in senso
“materiale” va anzitutto ricompreso il bene dell’esistenza stessa fisica
e sopravvivenza nelle generazioni di un popolo: ordinata,
pacifica e moralmente elevata, secondo i princìpi della laica virtù del
cittadino e dell’etica fondata sulla religione.
Per la realizzazione del bene comune così inteso, l’unità dello Stato
rappresenta un modo di essere imprescindibile, senza voler considerare la
forma più o meno rigida nella quale si attui, se cioè in forma
burocratico-centralizzatrice o che lasci spazi più o meno ampi all’autogoverno
locale (federalismo o confederazione).
3. La falsa contrapposizione
della c.d. “nazionalità spontanea” allo Stato unitario
Popolo, nazione, società sono elementi da considerare unitariamente, in
relazione alla forma-Stato che ne attua la sintesi e il superamento.
Essi costituiscono di per se stessi concetti portanti della filosofia politica
e del diritto moderna e contemporanea. E
spesso sono stati e sono visti in contrasto tra loro.
Ricordiamo la marxistica contrapposizione
tra società e Stato: quest’ultimo
sarebbe solo la sovrastruttura politica dei rapporti materiali di produzione
che nella società si innervano ai rapporti e alla lotta di classe;
sovrastruttura destinata a sparire una volta realizzatasi la rivoluzione proletaria
e comunista, che avrebbe socializzato completamente i rapporti di produzione,
abolendo la proprietà privata e dando il potere ai proletari. Ciò avrebbe comportato l’estinzione dello
Stato.
L’utopia marxiana contrapponeva la società allo Stato, attribuendo al
comunismo, sua forma del tutto idealizzata (profetizzata, anche se in termini
necessariamente vaghi, quale inevitabile stadio finale e definitivo della
storia), la capacità di sostituirsi completamente allo Stato. Mai profezia si rivelò più tragicamente fallace, come sappiamo.
Ma esiste anche il filone che contrappone la nazione allo Stato. Così si
tende oggi a contrapporre allo Stato nazionale, unitario, burocratizzato, la
c.d. “nazionalità spontanea”. La
polemica antiunitaria italiana attuale (e non solo italiana) contrappone allo
Stato unitario democratico-parlamentare centralizzato l’esigenza del
riconoscimento delle diverse “nazionalità spontanee” che si troverebbero diffuse
per l’Italia. Cosa significa ciò? L’alternativa istituzionale concreta proposta
da questi polemisti resta sempre nel vago ma la si può facilmente
immaginare: dar vita ad un sistema di
autonomie locali ancorate alle attuali Regioni, che sia ancora più sviluppato
dell’attuale, pur ampio. Ma bisogna
chiedersi: quali “nazionalità” dovrebbe
riconoscere lo Stato italiano?
3.1 Dal punto di vista della
lingua, della cultura, della religione – elementi tipici dell’entità che si suol
chiamare “nazione” – lo Stato italiano non ha da riconoscere una “nazionalità”
diversa da quella italiana, diffusa in maniera uniforme in tutto il Paese, caratterizzante
lo Stato e la società come italiani.
L’elemento cosiddetto “spontaneo” nella cultura e nella lingua è costituito
in Italia, come nelle altre nazioni, dal
sostrato dialettale e dal folklore, tratti tipici in senso
popolare di regioni e città, in ogni Stato. Il teatro e la letteratura dialettale
esistono da sempre in Italia e nessuno li ha mai toccati, nemmeno durante il
fascismo. Si tratta di una cultura popolare “spontanea” che ha sempre
convissuto pacificamente con quella italiana nel senso proprio ed elevato del
termine. Riconoscere adesso questa
cultura a livello della forma istituzionale dello Stato, in quanto espressione
di una “nazionalità spontanea” che imporrebbe la suddivisione del nostro Stato
in tante piccole “nazionalità” istituzionalmente separate e protette da una
normativa nazionale-internazionale, ciò significherebbe regredire a livelli addirittura grotteschi di
organizzazione politica e subcultura, come fanno fede i dilettanteschi tentativi
della Lega Nord, qualche anno fa, di istituire una scuola leghista
(accanto al “matrimonio celtico”) in sostituzione della scuola italiana, con
l’insegnamento di dialetti lombardi o veneti al posto dell’italiano e di autori
dialettali al posto delle opere dei nostri
classici, di un Foscolo, un Leopardi, un Manzoni! Per non parlare di Dante…
Culturalmente, nel senso ampio ed elevato del termine, l’Italia è sempre
stata una e lo è tuttora. Inoltre, dal punto di vista qualitativo, dei contenuti,
è sempre esistita una cultura italiana “nazionale” dall’ampio respiro ben
distinta dalla cultura “regionale” del nostro Paese, esprimentesi in italiano
ma di mentalità ristretta ed incapace di approfondire[4]. Ed è
sempre stata u n a l’Italia anche dal punto di vista religioso,
cioè cattolica. Forse le “diversità spontanee” da riconoscere sarebbero quelle
delle tradizioni amministrative ed economiche degli Stati prenunitari? Ma sono scomparse da centocinquant’anni,
spazzate via per l’appunto dal centralismo sabaudo. E il vigente sistema economico-politico
consentirebbe forse di riprodurle? L’attuale Regione, ricettacolo della supposta
“nazionalità spontanea” riproduce ex Constitutione la medesima struttura
politica e burocratica dello Stato centralizzato, ne è il doppione in
miniatura, e ne mostra più i difetti che le virtù, dato che la base “regionale”
ha permesso per l’appunto una reviviscenza mai vista del sistema clientelare tipico dell’Italia
preunitaria, fondato sul paludoso “notabilato” locale, mantenutosi (con qualche
limitazione) nell’Italia unita e oggi ben più diversificato e vasto di un tempo,
a causa dell’aumento consistente dei gruppi di potere o lobbies.
Comunque lo si rigiri, il concetto di questa “nazionalità spontanea” che
dovrebbe costituire la linfa di una nuova Italia, supposta federale o
confederale o semplicemente divisa in Stati diversi, come prima del
Risorgimento, quando c’erano otto dogane e otto diversi sistemi di pesi e
misure e monetari a dividere e frammentare il Bel Paese, resta nebuloso e
chimerico.
3.2 Su di un piano più generale,
il concetto della “nazionalità spontanea” vuole esprimere una contrapposizione
netta tra Stato e nazione, all’insegna del concetto che la nazione viene prima
e gli Stati dopo, ragion per cui questi ultimi dovrebbero
riconoscere la nazionalità pre-esistente, nelle sue varie forme.
Questa visione non è ovviamente errata, contiene un elemento di verità,
ma solo un elemento. Il processo
storico reale è molto più complesso. La
storia, infatti, ci mostra raramente il dispiegarsi di un rapporto fra Stato e
nazione così lineare. Più spesso, la
nazione, nel suo farsi, si costituisce sin dall’inizio già come Stato, anche
rozzamente, quando non è invece lo Stato a costituire la nazione, con l’opera audace
(e anche spregiudicata) di una classe dirigente (aristocratica o borghese) in
possesso di un potere e di un’organizzazione statali e di un buon esercito
“In nessuna parte d’Europa la nazione è stata l’elemento primario e lo
Stato l’elemento derivato. Più antico della nazione francese è lo Stato francese
– i suoi fondatori sono la monarchia e l’episcopato, non la nazione. Più antico
della nazione tedesca è l’Impero tedesco d’impronta franco-orientale e
sassone…” [5].
3.3 Per non allontanarmi troppo
dal mio tema, rinvio l’approfondimento di questo importante punto ad un
intervento successivo, anche per ciò che riguarda l’Italia. Per ora limitiamoci a dir questo: dietro
la rivendicazione antiunitaria della cosiddetta “nazionalità spontanea” è
riapparso nel nostro Paese il fantasma dell’antico e fazioso spirito
municipale italiano, fonte primaria di tutte le innumerevoli divisioni,
lotte e guerre civili dei secoli passati.
Il termine stesso di “nazionalità” è qui ambiguo. La nazione italiana, prima
dell’unificazione, era appunto quella che si esprimeva nella lingua e nella letteratura
nazionale, nella cultura unitaria; la cosiddetta “nazionalità spontanea” ne
sarebbe stata, invece, il sostrato multiforme, l’elemento grezzo che non va
oltre il dialetto e il folklore, dimensioni puramente locali, campanilistiche,
grette, tra loro alquanto diversificate.
E questa supposta “identità” della “nazionalità” conculcata e nascosta,
è stata anche creata artificialmente. Pensiamo alla
“identità celtica” della cosiddetta Padania, inventata dal rozzo e
truculento on. Bossi e compagni di ventura, con le risibili, farsesche
cerimonie paganeggianti lungo il corso del “dio Po”, le kermesse a base di
paccottiglia “celtica”, il “matrimonio celtico” et similia. Un “celtismo fatto
in casa” da contrapporre a Roma, simbolo della latinità e dell’odiato potere
centrale, anche alla Roma Sede bimillenaria del Cattolicesimo (nei primi tempi
i leghisti vaneggiavano a tratti di una “Chiesa celtica o padana”). Il mondo dei fumetti del gallico Asterix è
stato qui rivenduto sotto forma di sagra paesana, ma con il fine abietto di
distruggere l’unità nazionale per rendersi un domani indipendenti nell’Unione
Europea, sì da poter aumentare (si credeva) il proprio già grande benessere materiale
(come se tale benessere non fosse dipeso in misura consistente anche dall’appartenenza
allo Stato italiano).
Ma la storia, questa sconosciuta, ci mostra che i barbari Celti della
pianura padana, conquistati dai Romani dopo un secolo abbondante di guerre reciprocamente
feroci, si assimilarono rapidamente alla
superiore civiltà dei conquistatori, dando assai presto validi contributi alla
poesia latina, tanto per fare un esempio.
Nel primo secolo a. C. accorrevano ad arruolarsi a frotte nelle legioni
di Cesare, che andavano a combattere in Gallia.
I celti romanizzati furono una delle etnie che contribuirono validamente
all’Italia romana, la quale resistette come Stato unitario sino alla fine della Guerra Gotica, cioè alla metà del VI secolo; erano ben italiani e furono uno dei sostegni principali dell’impero
romano, assieme ai Celti di Gallia e Hispania.
4. Bene comune e bene del
singolo
Ma torniamo a bomba. Rispetto al popolo, alla società, alla
nazione, cosa caratterizza ciò che chiamiamo Stato? Un’organizzazione pubblica composta da un
sistema di istituzioni, il cui significato è impersonale o trascendente perché
vi si attua l’idea di una personalità che rappresenta la totalità delle
parti senza identificarsi in nessuna di esse:
infatti esiste, questa persona pubblica, per il loro bene comune. Questo significato trascendente, nel quale si
attua il necessario superamento del punto di vista egoistico dell’io individuale,
empirico, che è in ognuno di noi, può forse apparire a prima vista astratto, se
non nebuloso, per la mentalità odierna.
Ma la cosa si chiarirà proprio riflettendo sul concetto di bene
comune.
Il bene comune non sarà
ovviamente quello del singolo bensì quello della comunità, di un intero popolo
o nazione che dir si voglia. Esiste ciò che è bene per tutto il popolo e ciò
che è bene per l’individuo singolo. I
due aspetti del bene possono coincidere ma anche divergere, come insegna
l’esperienza. Dal punto di vista ideale,
governante perfetto sarebbe colui che riuscisse a far sempre coincidere il bene
comune e quello dei singoli. Ma tale
perfezione raramente si riscontra. La
realtà ci mostra, all’opposto, un frequente contrasto tra i due, sia in atto
che in potenza.
Spesso il bene del singolo viene sacrificato al bene comune. In ogni caso, il rapporto tra i due tipi di
bene implica sempre delle limitazioni e dei sacrifici, soprattutto da parte del
singolo. Lo vediamo già nell’àmbito
della famiglia, cellula fondamentale di ogni vita associata; si intende,
la famiglia naturale, creata dal maschio e dalla femmina che si uniscono
stabilmente, secondo forme riconosciute dal diritto (matrimonio), al fine di
procreare vivendo assieme sotto lo stesso tetto, allevando e mantenendo i figli
secondo la tradizionale divisione di compiti tra il marito e la moglie. I
genitori fanno in genere tanti sacrifici
per i figli limitando le loro proprie aspirazioni, i loro desideri, insomma tutto o molto di ciò che sarebbe per
essi soggettivamente un piacere e un bene.
E fanno questo in nome per l’appunto del bene comune rappresentato qui
dal bene della famiglia e dei figli.
Possiamo dire che una regola
generale sia questa: quando prevale il
bene individuale nei confronti di quello comune, allora la società e lo Stato
sono in decadenza e si stanno disgregando.
Fioriscono, invece, quando il bene comune prevale ma senza sacrificare
integralmente il bene individuale, lasciandogli cioè il giusto spazio. La logica del sacrificio individuale
è comunque sottesa al rapporto bene del singolo – bene comune. Non solo per ciò che concerne la relazione
tra Stato e individui ma anche in ogni forma associata naturale organicamente
costituita, a cominciare per l’appunto dalla famiglia.
5. Il bene comune materiale di
un popolo è costituito innanzitutto dalla sua stessa esistenza e sopravvivenza
Come definiremo, allora, il bene comune, comune in quanto
costituente il bene di un intero popolo o nazione o società che dir si
voglia? Piuttosto che premetterne una
definizione omnicomprensiva, procederò elencandone alcuni essenziali tratti.
Bene comune ovvero un bene comune a tutto un popolo, che per
realizzarlo avrà bisogno di quello che chiamiamo Stato, sarà costituito dalla
sua stessa esistenza fisica come popolo, dalla sua sopravvivenza
nelle turbinose vicende della storia (guerre, invasioni straniere, guerre
civili, pesanti sudditanze economiche, spopolamento, epidemie, carestie). Come dicevano gli antichi romani: primum vivere deinde philosophari.
A tal fine il popolo dovrà organizzarsi in modo da: 1. alimentarsi e vestirsi a sufficienza
mediante l’agricultura, l’allevamento del bestiame, il commercio interno ed
esterno, l’industria; 2. mantenersi
nella sua consistenza fisica, etnica, mediante i matrimoni, una sana vita
familiare e una procreazione di figli che superi sempre le morti; 3. esser capace di difendersi contro i nemici
interni, cioè i criminali, mediante l’amministrazione della giustizia civile e
penale, ed esterni mediante l’istituzione e il mantenimento di forze armate.
6. Dal bene comune materiale a
quello spirituale
Il mantenimento dell’esistenza fisica del popolo è dunque, si potrebbe
dire, il fondamento stesso dell’idea del bene comune di un popolo. È tale idea nella sua forma elementare o, se
si preferisce, è il contenuto elementare di tale idea. L’aspetto materiale dell’esistenza di
un popolo ricomprende, elevandoli a valori, il mantenimento e la sopravvivenza
del medesimo. Tuttavia, questa
componente materiale del bene comune non è effettivamente separabile da quella spirituale
dello stesso. Infatti, come diceva
Aristotele, gli uomini in società non si contentano semplicemente di vivere
(tranne forse durante i tempi di particolare calamità, come risulta dalla
risposta dell’abate Sieyes a chi gli chiedeva che cosa avesse fatto, sempre
nascosto durante il Terrore, appena terminato: J’ai vécu, disse). Gli uomini vogliono in
realtà e cercano sempre di “viver bene”o in modo “felice” nel senso più ampio e
completo del termine, che ricomprende anche le esigenze della morale e dello
spirito (quindi, “bene” non in senso bassamente edonistico).
“La comunità che risulta di più villaggi è lo Stato, nel senso pieno del
termine, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita,
in realtà esiste per render possibile una vita felice [eu zên]”[6].
Da ciò si comprende che il mantenimento dell’esistenza fisica e sopravvivenza
di un popolo nelle generazioni, non è un affare solamente materiale, di sola
organizzazione amministrativa, politica, militare. Infatti, sono i matrimoni la cui santità
venga rispettata a costituire il presupposto di quella sana vita familiare così
benefica per la società e fomite di numerosa figliolanza e cittadinanza. Ma tale presupposto, implicando la
fedeltà e l’adempimento dei doveri reciproci di marito e moglie in tutti i campi,
si rivela essere per sua natura morale o etico. Non sono solo le esigenze della famiglia,
sono anche quelle della morale che obbligano a respingere e punire l’adulterio
e a condannare il commercio carnale fuori del matrimonio. Pertanto lo Stato, se vuole adempiere al suo
dovere di mantenere la sanità fisica del popolo e l’abbondanza della
popolazione, deve vigilare con le sue leggi sulla purezza del matrimonio,
punendo gli adulteri e i fedifraghi, perseguendo quei costumi e quelle abitudini
che favoriscano il diffondersi della licenza.
Deve naturalmente perseguire tutto ciò per l’esigenza morale stessa, che
comanda alla coscienza di difender la morale con le sanzioni imposte dall’autorità
costituita e con il promuovere un’educazione e una cultura volte ad instillare
l’amore della virtù.
Ma in ogni caso, lo Stato deve agire così già in relazione al fine suo
proprio, la realizzazione del bene comune.
Senza sani costumi diffusi nella società non è possibile una sana vita
familiare, che a sua volta promuove quei costumi; non è possibile avere famiglie ordinate, belle
e numerose, si diffonde la corruzione nelle famiglie e la conseguente
denatalità. Ma i “sani costumi” sono il
risultato di determinati principi morali, che vengano concretamente applicati,
anche con l’aiuto delle leggi.
“Bisogna che la legge sia la castigatrice dei vizi e la stimolatrice
delle virtù, e che da essa si tragga la dottrina del vivere”[7]. L’autorità di governo che sia compos sui
deve quindi mantenere e far osservare i giusti principi morali, quali già
risultano dalla morale naturale, se vuole che matrimoni e famiglie prosperino, e con esse il popolo,
la società, tutto lo Stato. Pertanto, se
i nostri odierni Stati fossero ben ordinati, i loro governanti chiuderebbero
tutti i siti pornografici; proibirebbero gli spettacoli indecenti, immorali,
orripilanti e violenti; sanzionerebbero la mancanza di modestia e pudore che
spadroneggiano nella moda femminile; ostacolerebbero in ogni modo il
libertinaggio diffuso, insomma perseguirebbero implacabilmente le molteplici
aberrazioni delle quali si compiacciono ahimé le nostre società, a cominciare
da quella rappresentata dal libero aborto volontario ammesso addirittura dalle leggi dello
Stato.
Lo Stato non può disinteressarsi della virtù dei suoi cittadini. Senza per questo diventare oppressivo e
invadente deve comunque approntare tutte le difese necessarie per proteggere la
morale dall’attacco che le portano di continuo le forze del male. Questo è il dovere morale dello Stato,
di ogni Stato degno di questo nome, attuando il quale lo Stato realizza il bene
comune in senso spirituale: difendere in
primo luogo la morale, sia come morale naturale (senso del pudore,
ripudio dell’adulterio, del libertinaggio, dei rapporti contronatura, difesa
della famiglia, etc.) sia come insieme di princìpi etici il cui
fondamento è di norma religioso.
Paolo Pasqualucci, martedì 10
ottobre 2017
[2] È
stata completamente dimenticata la lezione di realismo di Carl Schmitt,
che costituisce uno dei suoi contributi più importanti alla comprensione del
fenomeno giuridico: il nesso
inscindibile del diritto con la terra, nel senso di spazio concreto, territorio
determinato, abitato da un popolo con la sua storia e i suoi bisogni, sul quale
il diritto si esercita nella forma di consuetudini e norme positive. Vedi: Carl
Schmitt, Der Nomos der Erde im
Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum [La legge della terra nel diritto
internazionale del diritto pubblico europeo], 1950, Duncker & Humblot,
1960, tutto il primo capitolo (pp. 11-51) dedicato a Cinque corollari
introduttivi e in particolare il corollario n. 1: Das Recht als Einheit
von Ordnung und Ortung, il diritto come unità di ordinamento e
determinazione di luogo, op. cit., pp. 13-20.
[3] Il
passo è riportato da Cicerone nel De legibus, nel riprodurre il
contenuto della legislazione della Roma arcaica, quella delle XII Tavole. Dopo aver elencato i poteri civili e militari
dei consoli, carica suprema dello Stato o res publica, vien loro
intimato: “Ollis [illis] salus populi
suprema lex esto” (Marco Tullio Cicerone, Le leggi, con testo latino a
fronte, a cura di Filippo Cancelli, Mondadori, Milano, 1969, p. 219). Tale massima riecheggia nel principio
fondamentale della Chiesa Cattolica, per la quale, si è sempre detto, salus
animarum suprema lex [esto].
[4]
Per la differenza tra queste due mentalità e culture, vedi le precise
osservazioni di Giovanni Gentile, Il tramonto della cultura siciliana,
1917, ora in ID., Opere complete, vol. XXX, a cura della Fondazione
Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Sansoni, Firenze, 1985, 2a ediz. riveduta e accresciuta, pp.
108-109.
[5] Werner Kaegi, Meditazioni storiche, a
cura e con una presentazione di Delio Cantimori, Laterza, Bari, 1960, p.
38. L’illustre storico svizzero
(1901-1979) ha offerto penetranti
riflessioni sul piccolo Stato nella storia europea, sulla sua importanza, sul
rapporto tra Stato e nazione.
[6] Arist.,
Pol., 1252 b ; La Politica,
tr. it. introduz., note e indici a cura di Renato Laurenti, Laterza, Bari,
1966, p. 8.
[7] Cic.,
Le leggi, tr. it. cit., p. 114.