Crisi della Chiesa : La pastorale
della VIA LARGA di Papa Francesco
Sommario: 1. Il carattere
gratuito del vero amore. 1.1 L’azione malvagia scaturisce dalla nostra
infelicità esistenziale? 1.2 La buona e
la cattiva tristezza. 2. L’Amore di Dio per noi, “anticipante” e “incondizionato”. 2.1
Citazioni scritturali fuor di contesto da parte del Papa. 3. Siamo tutti accolti nella “relazione di
amore” della S.ma Trinità, e “per
grazia”, senza le opere! 4. Anche
nell’evocare l’episodio della Samaritana, Papa Francesco tace sulla necessità
della conversione per entrare nella vita eterna. 5. Dall’amore incondizionato di Dio Padre,
“che ci ama come noi siamo”, soffia un “vento di liberazione”, che non
distingue tra Eletti e Reprobi.
Papa Francesco, durante una delle sue recenti udienze, cui ha
partecipato via maxischermo anche un
folto gruppo di malati, ha rivolto un indirizzo sul tema : “L’amore di Dio,
anticipante e incondizionato”. Il testo
l’ho trovato sul quotidiano in rete La Nuova Bussola Quotidiana del 14
giugno corrente.
Un tema, questo, continuamente ribattuto nell’omiletica dell’attuale Gerarchia. Tema certamente essenziale, anche se l’Amore
non è ovviamente l’unico modo nel quale Dio si rivolge all’uomo. Sappiamo, infatti, dalla Rivelazione, che esiste
anche “la giustizia di Dio”. Essa esprime, nella forma di un Giudizio infallibile,
non solo la Bontà di Dio che premia in eterno i Giusti ma anche l’Ira di Dio
nei confronti dell’impenitente, che persevera e si indurisce nel peccato sino
alla fine dei suoi giorni. Ma della Divina Giustizia e del Giudizio
non si parla più, oggi, così come non si nomina mai, da tempo immemorabile, la
verità di fede del peccato originale.
Il nostro Dio, Uno e Trino, è solo e unilateralmente amore, dunque?
Al punto da accettarci così come siamo, senza pretendere nulla da noi? Questa è almeno l’impressione che si ricava
dal ragionamento del Papa, visto che egli
lo conclude con queste
parole: “E la speranza è quella di Dio
Padre che ci ama come noi siamo, ci ama sempre e tutti”. La “speranza” è quella della ‘’
liberazione”. Questo il termine usato
dal Papa, al posto di “salvezza”, senza ulteriormente specificare. Speranza che nasce dal fatto che Dio “ci ama
come noi siamo”, evidentemente accettandoci così come siamo. Concetto, questo,
che non mi sembra affatto in armonia con i Testi né con la Tradizione e l insegnamento
della Chiesa.
Ma procediamo con ordine.
1. Il carattere gratuito del vero amore.
Il Papa sottolinea inizialmente il carattere gratuito del vero
amore. “Nessuno di noi può vivere senza
amore”, esordisce. Tutti vogliamo essere
amati. Però si cade, prosegue, “nella
brutta schiavitù di ritenere che l’amore vada meritato”. Invece l’amore deve esser gratuito.
“Immaginate un mondo così: un
mondo senza la gratuità del voler bene! Sembra un mondo umano, ma in realtà è
un inferno. Tanti narcisismi dell’uomo
nascono da un sentimento di solitudine e di orfanezza. Dietro tanti comportamenti apparentemente inspiegabili
si cela una domanda: possibile che io non meriti di essere chiamato per nome,
cioè di essere amato? Perché l’amore
chiama sempre per nome”.
Bisogna amare gratuitamente, per non render infelici gli altri. Il Papa
fa certamente bene a ricordare che l’amore, in sé, deve esser gratuito. Tuttavia, egli lo considera soprattutto dal
punto di vista tutto umano e terreno della felicità nelle cose di questo mondo, intesa come
felicità innanzitutto esistenziale perché derivante dal sentirsi amati,
in generale. Felici, non per aver conseguito questo o quell’obiettivo – gradito
a Dio – ma per il solo fatto di sentirsi amati dagli altri.
Ma di quale amore si parla qui?
Esistono diversi tipi di amore. Non certo di quello erotico, che,
anche quando è legittimo, come nel matrimonio, è sempre interessato, in quanto
sempre vincolato al carnale desiderio, di per sé egoistico. Dovrebbe trattarsi dell’amore per il
prossimo, della carità cristiana, anche se il Papa non usa mai il termine
“carità”. Ma, nel senso tradizionale del
termine, l’amore cristiano per il prossimo non deriva dall’amor di Dio? Recita l’antica preghiera dell’Atto di
Carità: “Mio Dio, vi amo con tutto
il cuore sopra ogni cosa, perché siete Bene infinito e nostra eterna felicità; e
per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso, e perdono le offese
ricevute. Signore, fate ch’io vi ami
sempre più”. La pratica della carità
verso il prossimo, per amor di Dio, non implica la ricerca della felicità di
questo medesimo prossimo; felicità in termini mondani, contingenti, quasi sempre
di tipo esistenziale, emotivo. Implica,
soprattutto, che nei nostri rapporti con il prossimo si cerchi di attuare
sempre la giustizia, integrata con il comandamento della carità,
che impone di dimenticare e “perdonare le offese”. Che poi il nostro prossimo possa sentirsi
felice in conseguenza del nostro comportamento caritatevole verso di esso, ciò
è bello e ci piace ma resta conseguenza del tutto secondaria e contingente. Non
può costituire in ogni caso il fine essenziale della nostra azione nei confronti
del prossimo. Spesso, infatti, il nostro prossimo è felice quando riceve
da noi vantaggi materiali, favori, anche indebiti, o lusinghe che ne accarezzino
i difetti o addirittura i vizi. La
felicità è uno stato d’animo inevitabilmente soggettivo e mutevole, cui spesso
fa da contrappeso l’infelicità altrui. E
quando invecchiamo non ci sentiamo infelici, a volte, per cose che da giovani
ci avevano reso felici?
1.1 L’azione malvagia
scaturisce dalla nostra infelicità esistenziale?
Che l’amore del quale parla qui Papa Francesco non coincida con ciò che
si intende tradizionalmente con carità cristiana, risulta, a mio avviso, anche
dall’esempio che egli apporta, quello della supposta infelicità della
gioventù. Dice infatti:
“Quando a non essere o non sentirsi amato è un adolescente, allora può
nascere la violenza. Dietro tante forme
di odio e di teppismo, c’è spesso un cuore che non è stato riconosciuto. Non esistono bambini cattivi, come non
esistono adolescenti del tutto malvagi, ma esistono persone infelici. E che cosa
può renderci felici se non l’esperienza dell’amore dato e ricevuto? La vita dell’essere umano è uno scambio di
sguardi: qualcuno che guardandoci ci
strappa il primo sorriso, e noi che gratuitamente sorridiamo a chi sta chiuso nella
tristezza, e così gli apriamo una via d’uscita.
Scambio di sguardi: guardare
negli occhi e si aprono le porte del cuore”.
Da dove viene il male, se non dal cuore dell’uomo (Mt 15, 18-19)? Siamo
tutti segnati dal peccato originale ed esiste in noi una tendenza a compiere il
male, che si scontra con quella opposta, vòlta a compiere il bene. E riusciamo ad obbedire a quest’ultima solo
se viviamo secondo gli insegnamenti di Cristo e ci sosteniamo alla sua Grazia,
così come Lui stesso, gli Apostoli, la Chiesa ci hanno sempre insegnato.
Ma Papa Francesco sembra voler dire che il male (l’odio, la violenza, il
“teppismo”) nascono dall’infelicità, da quell’infelicità che in
particolare i giovani proverebbero per non esser stati amati o per non esserlo
stati abbastanza. La colpa dell’origine
del male negli individui sarebbe allora di tutti coloro che non li hanno amati
abbastanza, rendendoli in tal modo infelici.
Sarebbe, in sostanza, degli altri. Che il malvagio possa considerarsi nel suo
intimo un infelice, sembra legittimo affermare purché non si sostituisca
l’infelicità alla malvagità, cioè alla cattiva volontà quale causa effettiva
delle sue pessime azioni.
L’esperienza mostra che quasi tutte le azioni malvage sono gratuite e
che a loro fondamento si trovano quasi sempre la superbia, l’orgoglio mal riposto
e, in verità, tutto l’oscuro coacervo delle nostre passioni, note e meno note. E che non sono mancati individui dalle
spiccate tendenze criminali, cresciuti in un ambiente dove l’affetto e l’amore
dei genitori non latitavano, inizialmente.
Ma le azioni malvage delle persone normali, dobbiamo tutte ricondurle
alla mancanza di un sorriso e di uno sguardo che aprissero il cuore, quando
erano giovani?
1.2 La buona e la cattiva
tristezza
Sulla tristezza bisognerebbe poi intendersi. Di quale tristezza di parla qui? Il Papa dice che se noi “gratuitamente
sorridiamo a chi sta chiuso nella tristezza, gli apriamo una via
d’uscita”. Egli vuol dire, certamente, che il mostrare
comprensione, amore, affetto ad un soggetto, specialmente un giovane, chiuso
nella tristezza, perché afflitto dalla mancanza di questi fondamentali
sentimenti nei suoi confronti, può ”aprirgli una via d’uscita”. E non è vero, in certi casi? È sicuramente vero, tuttavia si tratta di una
spiegazione piuttosto limitata.
Bisogna capire cosa c’è dietro questa tristezza. Esistono,
infatti, la tristezza buona e quella cattiva. “Or, la tristezza che è secondo
Dio, produce un pentimento salutare, che non si rimpiange, perché conduce a
salvezza; mentre la tristezza del mondo procura la morte”(2 Cr 7, 10). Saeculi autem tristitia mortem operatur: e la “tristezza” di tanti uomini e donne di
oggi, giovani e meno giovani, è secondo Dio o secondo lo spirito del
mondo? Siamo forse così ciechi da non vedere
che per ogni dove dilaga questa sinistra tristitia saeculi? È la tristitia torva e proterva che si
alimenta di superbia, orgoglio, spirito di vanità, lussuria, insomma di tutte
le peggiori passioni. Per curarla ci
vuole ben altro che “i sorrisi” menzionati dal Papa. Ci vorrebbe, in primo luogo, la predicazione
della vera dottrina e morale cristiana, con al centro l’esigenza della salvezza
e quindi della conversione a Cristo.
Esattamente come faceva san Paolo.
Proporre l’esercizio dell’umana simpatia e comprensione quali uniche
medicine per curare la “tristezza” figlia delle Tenebre che affligge questa
nostra generazione, sembra a me come pretender di curare la cancrena con
l’aspirina.
2. L’Amore di Dio per noi, “anticipante e incondizionato”.
Stabilito il carattere gratuito del vero amore, Papa Francesco passa a
spiegare ‘l’amore di Dio” nei nostri confronti.
L’amore di Dio costituisce il parametro del vero amore. Secondo il Papa, esso, oltre che gratuito, è
anche anticipante e incondizionato.
Qui il discorso del Papa viene a coinvolgere la dottrina.
“Il primo passo che Dio compie verso di noi è quello di un amore anticipante
e incondizionato. Dio ama per
primo. Dio non ci ama perché in noi c’è
qualche ragione che suscita amore. Dio
ci ama perché Egli stesso è amore, e l’amore tende per sua natura a diffondersi,
a donarsi. Dio non lega neppure la sua
benevolenza alla nostra conversione: semmai questa è una conseguenza dell’
amore di Dio. San Paolo lo dice in
maniera perfetta: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre
eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Rm 5, 8). Mentre eravamo ancora peccatori. Un amore incondizionato. Eravamo “lontani”, come il figlio prodigo
della parabola: “Quando era ancora
lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione”(Lc 15, 20). Per amore nostro Dio ha compiuto un esodo da
Sé stesso, per venirci a trovare in questa landa dove era insensato che lui
transitasse. Dio ci ha voluto bene anche
quando eravamo sbagliati”.
Secondo Papa Francesco, dunque, l’amore di Dio nei nostri confronti è
“anticipante” dal momento che Egli ci ama per primo, prima ancora del nostro
amore per Lui. Il suo amore anticipa il nostro. Dio si dona a noi, amandoci. Ci
ama prima dei nostri peccati e anche dopo, nonostante i nostri peccati.
Altrimenti, come rileva san Paolo, Cristo non sarebbe morto per noi, per noi
che eravamo ancora peccatori. Il passo
di san Paolo ci illustra la misericordia divina, che ha mandato il suo divin
Figliolo a morire per noi sulla croce.
Ciò dimostrerebbe che l’amore di Dio è incondizionato. Ugualmente lo dimostrerebbe la parabola del
Figliol Prodigo, come rappresentata da Papa Francesco, che vuol sottolineare la
permanenza dell’amore di Dio per noi quando eravamo ancora “lontani”. Più che esser noi tornati a Lui, sarebbe
stato Lui a venire a noi, “compiendo un esodo da Sé stesso”. A me sembra che qui si rovesci il senso della
celebre Parabola: è il Figliol Prodigo
che ritorna pentito, non è Dio che “esce da se stesso” per andare a lui,
per andare incontro ad un peccatore, che non risulta essersi pentito, nella
ricostruzione di Papa Francesco!
I due Testi scritturali citati dal Papa a mio parere non consentono
affatto l’interpretazione che egli ne dà, secondo la quale essi rivelerrebbero
la natura incondizionata dell’amore di Dio. Possiamo certamente dire che esso è anticipante. Quest’aggettivo ci riconduce alla nozione,
dogmaticamente definita, della grazia preveniente che Dio concede a
tutti gli uomini poiché, nella sua bontà, egli vuole che tutti gli uomini
siano salvi, come risulta dai noti passi neotestamentari (p.e. 1 Tm 2, 4;
4, 10). Vuole che tutti siano salvi ma non che tutti si salvino comunque,
vale a dire indipendentemente dal loro comportamento in relazione ai Dieci
Comandamenti, se buono o cattivo. Chi
rifiuterà la grazia, non si salverà. Con la nostra volontà dobbiamo ricercare
l’aiuto della Grazia (“Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate
e vi sarà aperto”, Lc 11, 9). Senza la Grazia, con l’azione della quale
dobbiamo cooperare strettamente se vogliamo davvero salvarci, nulla possiamo:
ma questo aiuto non ci cade sulla testa dall’alto, passivamente. La fede cattolica, ridefinita magistralmente
dal dogmatico Tridentino, non è l’eretica fede fiduciale di Lutero,
verso la quale sembra indubbiamente pencolare il discorso papale, con questo
suo insistere sul carattere incondizionato di un amore divino che non
sembra affatto richiedere il pentimento del peccatore e la sua nuova vita, con
le indispensabili buone opere; un amore che sembra condurre tutti alla
“liberazione”, a prescindere dalla
conversione a Cristo.
2.1 Citazioni scritturali fuor di contesto da parte del Papa
Che non sia incondizionato, risulta innanzitutto dal vero significato
dei versetti scritturali citati dal Papa fuor di contesto, una volta rimessi nel loro proprio. Cominciamo con il passo della Lettera ai
Romani.
“Poiché, quando ancora noi eravamo privi di forza, Cristo, nel tempo stabilito,
è morto per gli empi. È raro il caso che uno voglia morire per un giusto;
tuttavia qualcuno forse accetterebbe di morire per un uomo dabbene. Ma Dio dà prova del suo amore verso di noi
proprio in questo, che mentre noi eravamo ancora dei peccatori, Cristo è morto
per noi. Con più forte ragione dunque
ora, che siamo giustificati dal suo sangue, saremo salvi dall’ira divina per
mezzo di lui” (Rm 5, 6-9. Corsivi miei).
Il sangue di Cristo, procurandoci
la salvezza ci salva dall’ira divina, concetto caduto nell’oblío, nella pastorale
postconciliare. Si tratta del significato
espiatorio del Sacrificio di Cristo, connesso a quello propiziatorio.
L’amore di Dio coesiste dunque con l’ira divina, cosa che l’Apostolo trova
perfettamente naturale, ovviamente. L’amore di Dio verso il genere umano si è
manifestato con l’Incarnazione del Verbo, che ci ha permesso di essere
giustificati dal suo sacrificio sulla croce, e quindi di salvarci dall’ira divina, che si abbatterà su coloro che rifiuteranno
Cristo, come risulta dal contesto paolino e da
tanti altri passaggi neotestamentari. Senza alcun merito da parte
nostra, l’amore di Dio ci ha concesso la possibilità della salvezza mediante
l’Incarnazione del Verbo, ma tale possibilità è condizionata dalla nostra conversione
a Cristo, altrimenti l’ira divina si abbatterà su di noi. L’amore di Dio non è pertanto incondizionato,
Egli vuole che noi rispondiamo con la conversione a Cristo, in fede e opere,
altrimenti all’amore subentra l’ira ossia il decreto di condanna della divina
giustizia.
Ugualmente fuor di contesto è
citato dal Papa il passo della parabola del Figliol Prodigo. Papa Francesco lo cita come se la parabola
volesse suggerire l’idea che Dio ha compassione di noi, così come siamo,
quando siamo ancora lontani da lui, ragion per cui, senza pretendere che noi ci
emendiamo, viene a noi con il suo amore, come uscendo da se stesso. L’immagine di Dio che “esce da se stesso” per
venire a noi la trovo francamente oscura: non riesco a comprendere che cosa voglia
effettivamente dire. Comunque: viene a noi, come il padre nella parabola. Per
far cosa, di noi? Per abbracciarci,
perdonarci, si suppone, esattamente come fa il padre del Figliol Prodigo con il
figlio che ritorna all’ovile.
Ma noi sappiamo bene, dalla parabola, che il Figliol Prodigo, quando
viene scorto da lontano dal Padre, stava tornando a casa perché si era in cuor
suo amaramente pentito della sua vita sciagurata e peccatrice. Era il ritorno di un cuore provato, contrito
e pentito, che veniva a chiedere misericordia per i suoi peccati, sottomettendosi
completamente all’autorità del Padre. Ma questo elemento essenziale della
parabola, nell’interpretazione del Papa viene completamente taciuto.
Ridottosi a fare il guardiano di porci, “avrebbe voluto riempirsi il
ventre delle carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora, rientrato in se stesso, disse: -
Quanti mercenari [lavoranti] di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io, qui,
muoio di fame! Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di
te! Non son più degno di esser chiamato
tuo figlio: trattami come uno dei tuoi
mercenari. E, alzatosi, andò da suo
padre. Lo vide il padre, mentre era
ancora lontano, e ne ebbe pietà; allora correndogli incontro gli si gettò al
collo e teneramente lo baciò…”(Lc 15, 15-20).
Ne ebbe pietà, il Padre, poiché vide com’era ridotto e vide la tristitia
secundum Deum sul suo volto, non più quella perversa del Secolo, di quando
si era ribellato e se ne era andato, per godersi la vita lontano dal Padre. Il significato tramandato della parabola non
è stato sempre quello di mostrarci come Dio sia misericordioso con chi si pente
sinceramente e vuol cambiar vita, tanto da considerare il ritorno a Lui di un
solo peccatore evento tale da far gran festa in cielo? Quando, pentiti e contriti, vogliamo
ritornare alla fede e alla vita cristiana, ecco che Dio ci viene incontro e ci
accoglie, corroborando in noi lo spunto già presente della Grazia, per merito
della quale, da Figliol Prodighi quali eravamo avevamo tuttavia cominciato a
“rientrare in noi stessi”.
Invece, nell’esposizione di Papa Francesco, si ha l’impressione di una
salvezza che opera in noi unilateralmente, senza alcuna cooperazione
da parte nostra, quale risultato di un amore incondizionato che ci accetta sempre
come siamo; Grazia che ci corre incontro senza che noi si debba metterci del
nostro, correndo a nostra volta verso di essa con tutte le nostre forze, in
modo poi da correre assieme verso la vita eterna (1 Cr, 15, 10; Fil 3, 12 ss). Una
prospettiva, quella del Papa, che sembra ricalcare quella di Lutero, della sua
eretica dottrina della Giustificazione ottenuta passivamente, con la sola fede
nella salvezza guadagnata per noi da Cristo, senza bisogno di buone opere da
parte nostra; dottrina, come sappiamo, pubblicamente lodata da Papa
Francesco! Una lode scandalosa e abominevole,
che non rappresentava, evidentemente, un mero flatus vocis.
Che l’interpretazione di Papa Francesco appaia sostanzialmente luterana,
risulta non solo dall’affermazione esplicita del carattere
incondizionato dell’amore di Dio per l’uomo ma anche dal suo completo
silenzio sulla necessità per l’uomo peccatore di pentirsi e cambiar vita,
di cooperare con la Grazia al fine di diventare interiormente quell’uomo
nuovo in Cristo, che si è spogliato delle passioni ingannatrici e
corruttrici; silenzio assordante su quella totale renovatio di noi stessi
espressamente indicata dal Signore quale
condizione indispensabile per entrare nel Regno dei Cieli (Gv 3, 3; Ef 4,
20 ss). Anzi, la pastorale di Papa
Francesco sembra addirittura procedere nella direzione opposta a quella della
Verità rivelata, intesa com’è a inculcare l’idea che l’amore di Dio
incondizionato per noi “come siamo”, “ci libera”, tramite la Croce e la Resurrezione, lasciandoci sempre “come siamo”,
cioè senza che tale “liberazione” comporti il rinnovamento interiore richiesto dal Verbo al vero credente!
3. Siamo tutti accolti nella “relazione di amore” della S.ma Trinità,
e “per grazia”, senza le opere!
Il ragionamento di Papa Francesco prosegue con un parallelo fra l’amore
materno e l’amore di Dio. L’amore
materno, sottolinea il Papa, non viene mai meno, anche nel caso estremo di un
figlio delinquente, rinchiuso giustamente in prigione. Per sua madre, egli resta sempre suo
figlio. L’amore della madre per i figli
è del tutto gratuito, veramente incondizionato.
Uguale è l’amore di Dio, afferma il Papa: così come la madre continua ad amare un
figlio delinquente, allo stesso modo Dio ci ama “anche quando siamo peccatori”.
In effetti, annoto, la divina Misericordia, quali che siano i nostri peccati,
non ci consente forse di pentirci e quindi di salvarci, sino all’ultimo istante
della nostra vita? Lo dimostra l’episodio del Buon Ladrone crocifisso accanto a
Cristo: mentre l’altro delinquente inveiva contro Gesù, lui si pentiva e chiedeva
perdono per i suoi peccati, ottenendo in tal modo la salvezza per esplicita
dichiarazione del Signore e persino direttamente il Paradiso (Lc 23, 39-43).
Dio, però, ha voluto esser rappresentato per noi come padre non come
madre. E difatti, nell’immagine
tradizionale dell’ufficio paterno trova posto anche quella severa del padre che
giudica e castiga i figli, quando lo meritano, sia per il loro bene che per le
esigenze della giustizia. Sempre secondo
l’immagine tradizionale, tale severità non si ritrova nella madre. Equiparare in toto l’amore del Padre a quello
di una madre, significa, a ben vedere, dare un’immagine edulcorata di Dio
Padre, espungendone del tutto quei tratti
virili rappresentati dall’esercizio di un’autorità che, per quanto paterna,
deve tuttavia applicare la giustizia. E,
nel caso di Dio, si tratta di quella giustizia che dispone della nostra vita
eterna! L’equiparazione di Papa
Francesco comporta pertanto una sostanziale diminuzione del vero significato di
Dio Padre per noi, con la sua caratteristica correlazione di Bontà e Giustizia,
Misericordia e Giudizio: dico vero significato poiché è quello che
risulta da ciò che la nostra bimillenaria tradizione cattolica ha sempre inteso
nella nozione di Dio Padre.
“Dio fa la stessa cosa con noi [la stessa della madre]: siamo i suoi figli amati! Ma può essere che Dio abbia alcuni figli che
non ami? No. Tutti siamo figli amati di Dio. Non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita,
ma solo una benevola parola di Dio, che ha tratto la nostra esistenza dal
nulla. La verità di tutto è quella
relazione d’amore che lega il Padre con il Figlio mediante lo Spirito Santo,
relazione in cui noi siamo accolti per grazia.
In Lui, in Cristo Gesù, noi siamo stati voluti, amati, desiderati. C’è Qualcuno che ha impresso in noi una
bellezza primordiale, che nessun peccato, nessuna scelta potrà mai cancellare
del tutto. Noi siamo sempre, davanti
agli occhi di Dio, piccole fontane fatte per zampillare acqua buona. Lo disse Gesù alla donna samaritana: “L’acqua che io [ti] darò diventerà in [te]
una sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”(Gv 4, 14)”.
Dunque, Dio si comporta con noi come una madre: ci ama tutti e nessuno
di noi è maledetto da Lui, la nostra vita si svolge tutta all’insegna della “parola
benevola di Dio”, della sua soprannaturale bontà. Che la bontà di Dio provveda sempre e
comunque per le necessità nostre individuali e del genere umano, ciò viene testimoniato
ampiamente, come sappiamo, nelle fonti scritturali. Ma, siamo sempre lì: il discorso di Papa Francesco vuol vedere in
Dio solo questi attributi, come se non fosse stato ampiamente rivelato che Egli
nello stesso tempo esercita (e non potrebbe essere altrimenti) la più severa ed
infallibile giustizia nei nostri confronti, senza “preferenza di persone”,
ossia senza guardare in faccia a nessuno. Tacendo questo fondamentale aspetto, ne
risulta un’immagine falsata di Dio.
Ciò è confermato dall’ultimo passo dell’intervento pontificio da me appena
citato, che si sforza anch’esso di inquadrare nella retta dottrina le sue peculiari
tesi.
Bisogna, infatti, rilevare i seguenti punti:
1. L’affermazione “non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita”, si intende
da parte di Dio, vale solo per la nostra vita terrena. Non vale per quella eterna, che è la cosa più
importante. La Chiesa ha sempre
insegnato che non esiste predestinazione alla dannazione, come sostengono
erroneamente gli eretici luterani e calvinisti, ragion per cui nessuno è come
tale maledetto da Dio, cioè destinato a priori alla perdizione. Ma quelli che saranno il giorno del Giudizio
condannati per sempre all’Inferno, verranno esplicitamente maledetti da Dio. Lo ha rivelato Nostro Signore: “Infine dirà anche a quelli che saranno alla
sua sinistra: Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno, preparato
pel diavolo e per gli angeli suoi.
Perché ebbi fame e non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da
bere…”(Mt 25, 41 ss). La maledizione la
subiranno tutti i peccatori impenitenti, il giorno del Giudizio, e sarà
irredimibile. Bisogna quindi tener bene a mente che possiamo incorrere nella
maledizione divina all’inizio dell’altra vita, quella che dura in eterno,
l’unica che veramente conti per noi.
2. Appare nebulosa l’affermazione che nell’amore unente le tre persone
della Santissima Trinità sarebbe il modello (la “verità”) di quest’amore di Dio
che ci accoglie così come siamo. Qui ci
troviamo di fronte ad un riferimento teologico che vorrebbe esser decisivo, sul
piano dell’argomentazione. Invece,
appare anch’esso sbilanciato in senso luterano, dal momento che vi si
dice esser noi “accolti per grazia” nella “relazione di amore” trinitaria. Per grazia, e le buone opere? Che fine hanno fatto? Ma il concetto dell’esser accolti nella
relazione d’amore della S.ma Trinità si presenta in realtà piuttosto oscuro. C h i
viene poi accolto: solo i
cattolici morti in stato di grazia, i veri credenti in Cristo o tutta
l’umanità, in quanto tale? Il discorso
del Papa sembra rivolto a quest’ultima, senza distinguere. E non sembra affatto concernere le anime dei
Giusti bensì tutti noi in terra, qui ed ora.
Dal Vaticano II in poi il richiamo alla S.ma Trinità quale modello che si realizza nella Chiesa e
nel modo di essere dei fedeli, è diventato una moda, possiamo dire. La Lumen Gentium, agli articoli 2-5,
articola l’insolita tesi di una Chiesa dallo sviluppo trinitario, nelle tre
epoche del Padre, del Figlio, dello Spirito: schema dal sapore gioachimita, che poco
ha a che vedere con la dottrina ortodossa sulla Chiesa; schema visionario,
che vuol far intendere essersi iniziata, con il Concilio, l’epoca dello
Spirito, una nuova alba per la Chiesa, una nuova Pentecoste. Mai auspicio si è dimostrato più errato, vera
e propria falsa profezia, come dimostra la crisi spaventosa che si è abbattuta
sulla Chiesa, proprio a partire dal Concilio.
Del resto, anche il modello gioachimita era il frutto di un’esaltata fantasia,
com’è vero che la Nuova Era, l’era dello Spirito avrebbe dovuto iniziarsi,
secondo i complicati calcoli dell’abate calabrese, nell’anno 1260!
Ma lo schema trinitario lo si trova applicato oggi anche al rapporto tra
i singoli fedeli e la divinità, come se le categorie con le quali cerchiamo di
spiegare (per quanto possiamo) i profondi misteri trinitari, potessero
applicarsi anche a noi fedeli nel nostro rapporto con Dio. Il che francamente
non si vede come sia possibile[1].
Che vuol dire, infatti, “esser accolti per grazia nella relazione di
amore che lega il Padre e il Figlio con lo Spirito Santo”? Vuol forse dire che l’amore gratuito e del
tutto incondizionato che Dio avrebbe sempre per noi, essendo il medesimo che
intercorre fra le tre persone della S.ma Trinità, ci accoglie unilateralmente,
per grazia, nella inabitazione trinitaria già qui, durante la nostra vita terrena? Si tratterebbe, allora, di un modo di rendere
la tradizionale verità di fede della inabitazione dello Spirito Santo in
noi, dell’unità nostra ineffabile, spirituale con il Cristo? Se di questo si tratta, bisogna dire che tale
verità è riproposta in modo alquanto insolito.
Nostro Signore ha detto: “Se uno
mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui, e
dimoreremo in lui. Chi non mi ama non
osserva le mie parole”(Gv 14, 23-24).
Non siamo noi ad esser unilateralmente “accolti per grazia” nell’unione
mistica con il Figlio e il Padre, mediante lo Spirito Santo. Al contrario, sono il Figlio e il Padre che,
mediante lo Spirito Santo, verranno ad “abitare in noi”. Ma in noi, chi? S o l o in coloro che avranno dimostrato di amare
Nostro Signore, vale a dire di seguire i suoi insegnamenti, di voler fare
in tutto la volontà di Dio.
In questa “mistica unione”, che ha luogo solo nei battezzati o in coloro
che godono del battesimo di desiderio,
l’uomo non si divinizza, non viene accolto nella inabitazione delle
Persone divine. La natura non si
confonde con il Sovrannaturale. Resta l’uomo sempre uomo, ma, per l’appunto,
comincia ad operare in lui l’azione sovrannaturale della grazia, che egli vuole
ed accetta: azione che lo eleva e lo
arricchisce continuamente nella volontà, nell’intelligenza, nel carattere, nei
sentimenti.
Nella fondamentale Encliclica Mystici Corporis, del 29 giugno
1943, Pio XII ammoniva a non cadere nell’errore di concepire “l’altissimo
mistero” dell’inabitazione dello Spirito Santo in noi, con l’attribuire
all’uomo attributi divini. Il retto
insegnamento della Chiesa – scriveva – ha sempre fatto in modo di “respingere,
in questa mistica unione, ogni modo col quale i fedeli, per qualsiasi ragione,
sorpassino talmente l’ordine delle creature ed invadano erroneamente il campo
divino, che anche un solo attributo di Dio eterno possa predicarsi di loro come
proprio”[2]. Ma nel
sermone di Papa Francesco, nella complicata frase coinvolgente la S.ma Trinità,
non vediamo di fatto un inserimento “per grazia” dell’uomo, di ciascun uomo in
quanto tale e sempre peccatore, e peccatore non redento, nella reciproca
inabitazione delle Tre persone divine, perché caratterizzata da un amore che
sarebbe il medesimo – incondizionato -
che Dio manifesterebbe nei confronti dell’uomo? Ma in tal modo l’uomo, ogni uomo, non viene a
trovarsi “inserito” nella S.ma Trinità e quindi in sostanza
divinizzato? Inserito, non il Giusto, colui
che risorto e trasfigurato parteciperà della Visione Beatifica, ma l’uomo in
quanto tale, l’uomo ancora peccatore, qui, in questo mondo!
4. Anche nell’evocare l’episodio
della Samaritana, Papa Francesco tace sulla necessità della conversione per
entrare nella vita eterna.
A sostegno della sua tesi, il Papa cita da ultimo l’episodio della
Samaritana al pozzo, cui Gesù chiese da bere.
Egli estrae il passo dal quale si può dedurre che agli occhi di Dio
siamo sempre “piccole fontane fatte per zampillare acqua buona”: l’acqua che il Signore darà alla Samaritana
diventerà per essa una sorgente che zampilla per la vita eterna.
Vediamo il testo più ampiamente.
“Chi beve di quest’acqua [del pozzo] tornerà ad avere sete; chi invece
berrà l’acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che gli
darò, diventerà in lui sorgente di acqua zampillante sino alla vita
eterna”. Disse a lui la donna: “Signore,
dammi di quest’acqua, affinché non abbia più sete, e non debba venir qui ad
attingere” (Gv 4, 13-15). L’acqua della
sorgente che è Gesù è la sua parola, fonte di vita eterna per chi le obbedisce.
La Samaritana chiede subito di poter abbeverarsi a questa fonte, anche se non
sembra aver compreso tutte le implicazioni di quanto detto da Gesù. Ma Gesù come risponde? Svelando alla donna la sua vita
dissoluta: “Hai detto bene, non ho
marito, perché ne hai avuti cinque e quello che hai ora non è tuo marito”(ivi,
17-18). Per umiliarla, le disse questo? No. Per
farle capire che Egli era il Messia atteso e che, se voleva abbeverarsi alla
fonte dell’acqua che dà la vita eterna, ella doveva purificare la sua vita, pentirsi
e convertirsi. L’amore di Dio nei nostri
confronti resta pertanto sempre condizionato dalla nostra volontà di seguire
fedelmente i divini insegnamenti. Il
dialogo fra Nostro Signore e la Samaritana ne è anch’esso una dimostrazione.
5. Dall’amore incondizionato
di Dio Padre, “che ci ama come noi siamo”, soffia un “vento di liberazione”,
che non distingue tra Eletti e Reprobi.
Nella chiusa del suo intervento, Papa Francesco ribadisce che Dio Padre
ci ama come siamo, sempre e tutti, e questo suo amore incondizionato ci
libera attraverso Cristo.
“Gesù non è morto e risorto per se stesso, ma per noi, perché i nostri
peccati siano perdonati. È dunque tempo
di risurrezione per tutti: tempo di risollevare
i poveri dallo scoraggiamento, soprattutto coloro che giacciono nel sepolcro da
un tempo ben più lungo di tre giorni.
Soffia qui, sui nostri visi, un vento di liberazione. Germoglia qui il dono della speranza. E la speranza è quella di Dio Padre che ci
ama come noi siamo: ci ama sempre e
tutti. Grazie!”.
Giustamente il Papa ricorda il significato propiziatorio della
morte in croce di Nostro Signore: ottenerci misericordia (propitiatio)
per i nostri peccati. Però poi il Papa
aggiunge subito dopo che “è tempo di resurrezione per tutti”. Quale resurrezione? Si tratta certamente di una resurrezione in
senso spirituale, visto che essa include “il risollevare i poveri dallo
scoraggiamento” e in particolare “quelli che giacciono nel sepolcro da un tempo
ben più lungo di tre giorni”. Sono,
evidentemente, i “tre giorni” intercorsi tra la morte in croce del Signore e la
sua resurrezione, qui menzionati simbolicamente per incoraggiare coloro che si
trovano da ben più di tre giorni nel “sepolcro” rappresentato evidentemente
dalla malattia, da una grave malattia o dalla povertà.
Così interpreto il passo, che appare comunque improntato ad un simbolismo
singolare. La resurrezione del Signore
ci infonde la speranza, dunque. Speranza
in che cosa? Nella vita eterna? Il Papa non lo dice apertamente, non usa questo
termine. Preferisce il termine
“liberazione”. Siamo sempre ad un
linguaggio indiretto, il quale più che dire apertamente e in modo chiaro mira a
far capire, far intendere. È lo
stile obliquo penetrato nella pastorale della Chiesa a partire dal
Concilio Vaticano II.
La Resurrezione del Signore produce per noi “un vento di liberazione”
che “soffia su di noi”. Possiamo quindi sperare. E questa nostra speranza “è
quella di Dio Padre che ci ama come siamo, sempre e tutti”. Il testo appare anche qui piuttosto
aggrovigliato. La speranza può essere
solo nostra, solo dell’uomo, non si può attribuirla a Dio. Dio non ha bisogno di “sperare” in
qualcosa! Credo che il senso del
contorto periodo sia: la Resurrezione di
Cristo ci libera, possiamo quindi tutti sperare, poiché essa Resurrezione conferma
che Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”, incondizionatamente. Con “resurrezione” non si intende, pertanto,
la nascita dell’uomo nuovo in noi, grazie alla profonda renovatio interiore indotta
dalla conversione a Cristo.
Ho messo nel periodo un ordine logico che in esso non appare ma che sembra
potersi desumere dal contesto. Circa
l’oggetto dello sperare, esso dovrebbe essere la vita eterna, secondo
l’insegnamento tradizionale della Chiesa.
Ma perché il Papa non lo dice apertamente? Egli si limita, invece, a far capire,
obbligandoci all’ennesimo sforzo interpretativo. È dal tempo di Giovanni XXIII
che i documenti della Prima Sedes non hanno più la chiarezza concettuale ed espositiva, per esempio, di quelli di un Papa
come Pio XII, obbligando quasi sempre il fedele a complicati sforzi ermeneutici: dicono e non dicono, accennano, lasciano
intendere, come se volessero dire qualcosa che ufficialmente non possono dire;
come se il non-detto e l’implicito costituissero il vero
significato, al di là della forma apparente, spesso contorta.
Il nuovo modo di esprimere la verità di fede della salvezza eterna che
ci ottiene la Croce di Cristo è dunque quello che sostituisce alla salvezza un
termine ambiguo come liberazione: ambiguo perché ha un significato
escatologico per il messianesimo profano delle ideologie rivoluzionarie;
liberazione, questa invocata dal Papa, cui tutti possiamo legittimamente
sperare perché Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”.
L’immagine della “liberazione”
contiene qui l’idea di un atto che viene dal Cristo senza bisogno del nostro concorso
personale: siamo tutti liberati, risorgeremo
tutti, Egli ci ha liberato. Tale “liberazione”
è per tutti, dal momento che Dio ci ama sempre tutti “come noi siamo”. Questa precisazione finale ribadisce quanto
detto in precedenza dal Papa, ovvero il carattere incondizionato di un amore
divino che sempre ci accetterebbe “come siamo”.
È evidente, pertanto, che il “tutti” ricomprende l’intera l’umanità e
non i soli cattolici: tutti saremo
liberati, ci dice il Papa, dal fatto in sé della Resurrezione, frutto
dell’amore incondizionato di Dio per l’umanità.
Non si profila qui l’errore della salvezza garantita a priori a tutti
gli uomini dal Sacrificio di Cristo, senza bisogno di conversione a Lui? In effetti, manca di nuovo, nel discorso del
Papa, un qualsiasi accenno alla necessità della conversione a Cristo per poter
ottenere la salvezza, e quindi l’indicazione espressa della necessità del
nostro libero concorso individuale all’opera della Grazia in noi; necessità
definita dogmaticamente dal Concilio di Trento, contro gli errori dei
Protestanti (DS 797/1525). Il carattere
luterano e quindi protestante di tutto il discorso del Papa non ne risulta confermato?
Esso tace ma anche stravolge verità della nostra fede, immutate da duemila
anni.
Non è vero che Dio ci ama “come siamo”, accettandoci come siamo,
“liberandoci” come siamo. Nostro Signore
non ha detto apertamente, e non una sola volta, che solo chi “nasce di nuovo”
nell’obbedienza ai suoi insegnamenti può sperare di entrare nel Regno di Dio,
dopo il Giudizio cui la sua anima dapprima e alla fine dei tempi l’anima
riunita al corpo saranno sottoposti da Lui stesso? E san Paolo, divinamente ispirato, non ha
ribadito il suo insegnamento, quando ci ha ammonito che alla Resurrezione
finale ognuno raccoglierà quello che avrà seminato in vita, poiché Dio non si
lascerà ingannare e saprà ben distinguere i buoni dai cattivi, chi lo ha
servito in fede e opere e chi no?
“Non vi fate illusioni: Dio non si lascia irridere; ognuno, infatti,
mieterà quello che avrà seminato: e quindi chi semina nella sua carne, dalla
carne mieterà la corruzione; chi invece semina nello spirito, dallo spirito
mieterà la vita eterna. Non ci
stanchiamo mai di fare il bene, perché, se non ci stanchiamo, a suo tempo
mieteremo”(Gal 6, 7-10).
Paolo Pasqualucci, mercoledì 17 agosto 2017
[1]
Sulla supposta “natura trinitaria” della Chiesa-Popolo di Dio, vedi le fumose
elucubrazioni di Bruno Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero
della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Milano, 1995.
[2] Pio XII, Enciclica Mystici Corporis
sul corpo mistico di Cristo, tr. it. de L’Osservatore
Romano, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 1959, p. 63 (DS 2290/3814). La Sacra Bibbia in italiano viene da me
citata qui nella edizione della CEI delle Edizioni Paoline anteriore al
Concilio; il testo originale secondo l’edizione graece et latine curata
da Nestle e Aland.
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