La
Marina italiana nella II guerra mondiale - La rivalutazione di uno storico nordamericano
Sommario: 1.
Nota previa: La necessità di un sano
spirito militare per rinascere. 2.
Render giustizia al valore e allo spirito di sacrificio dimostrati dalla Marina e dall’Areonautica italiane nella II
guerra mondiale. 3. La superiorità tecnologica britannica. 4. Il
ruolo fondamentale di Ultra. 4.1 Il
disastro di Matapan non fu causato da tradimento ma dal mancato addestramento
al combattimento notturno e dagli errori di comando. 5. La battaglia dei convogli fu un successo
per la marina italiana, che alimentò tenacemente sino alla fine la campagna in
Nord-Africa. 6. Non siamo stati delle comparse buone solo ad arrendersi.

Infatti, lo
spirito militare (da non confondersi con il militarismo, che ne è una
versione estrema, squilibrata) presuppone l’esistenza di determinate virtù, che
non sono solo militari ma anche civili: a cominciare per l’appunto dal senso
del dovere, dell’onore, della lealtà, dello Stato; dall’amor di Patria, dallo
spirito di sacrificio, dal coraggio. Per
iniziare a risolvere la crisi, innanzitutto morale, che ci affligge, queste
virtù non dovrebbero esser di nuovo coltivate dai nostri popoli?
Tuttavia, se
non c’è più l’idea di una Patria comune da difendere, come fa ad esserci
lo spirito militare? Se si crede manchi il bene per cui si deve combattere, il
dovere di impugnare le armi scade a routine senz’anima di richiamati o
coscritti o a mestiere per disoccupati o avventurieri. Esiste naturalmente da sempre lo spirito militare
dei soldati professionisti ma in senso più ristretto, come spirito di corpo,
nutrito dall’esperienza acquisita nell’addestramento e nel combattimento,
valore intrinseco all’attività che si svolge, senza nessun collegamento con il
valore più alto (la difesa della terra, della casa, della Patria,
dei suoi confini) che richiede la presenza di uno “spirito militare” anche
nel semplice cittadino. Chiamato,
appunto, come si diceva una volta, quando esisteva la leva obbligatoria, a servire
la Patria in armi, sino al punto da mettere in gioco la sua vita per essa[1].
L’oscuramento
dell’ideale della Patria comune, valore fondamentale della vita civile e realtà
che si ha il dovere di difendere, non è solo italiano. Esso ha cause multiformi, che sarebbe troppo
lungo indagare qui. Mi limito per il momento a ricordare che esso
è in primo luogo il frutto di pulsioni ideologiche provenienti sia dalla
sinistra socialista, libertaria e marxista; sia dal democraticismo di stampo
“liberal”, uniti nella loro avversione verso lo Stato unitario, l’idea di
nazione, la famiglia e la morale
tradizionali, la religione cristiana. Queste ideologie, alle quali si è unito
il cattolicesimo “progressista”, largamente rappresentato oggi anche nel clero,
martellate implacabilmente nella cultura di massa dal 1945 ad oggi, hanno
provocato una vera e propria “snazionalizzazione delle masse”, per parafrasare
al contrario il titolo di una celebre opera sulle origini del nazionalismo
tedesco di George L. Mosse, illustre storico delle idee. Pertanto, tale oscuramento coinvolge oltre
all’idea di Stato e di nazione, anche quella di popolo e persino di società,
intesa quest’ultima ormai come qualcosa di mobile e indefinito, dominato
dall’atomismo del cosiddetto “villaggio globale” e dal fluttuare alienante e
distruttivo del “mercato globale” (non più una società bensì una dissociété
su scala mondiale, secondo l’acuta definizione del filosofo cattolico belga
Marcel De Corte).
Le f o
r m e nelle quali si presenta nel modo
più evidente la dissoluzione attuale degli Stati nazionali, con le loro
rispettive società, sono soprattutto d u
e : il sovrapporsi oppressivo e corruttore di entità sovranazionali, quali ad
esempio l’ONU, l’OMS e l’Unione Europea, e il contemporaneo insinuarsi di una
pluralità di entità regionali, che tendono a porsi sempre più come piccoli
Stati, giustificandosi da un lato con il mito della "nazionalità
spontanea”, che lo Stato centrale dovrebbe limitarsi a riconoscere, tutelandone
però le esigenze economiche e di assistenza ritenute necessarie, provvedendo
cioè senza fiatare con i cordoni della borsa; dall’altro, con il sofisma
secondo il quale organizzazioni superstatali quali L’Unione Europea, supposte
irreversibili, ammetterebbero al loro interno solo un sistema di regioni
organizzate come Stati in sedicesimo, territorialmente poco estesi ma dotati di
larga autonomia, ancorché formalmente vincolati alle norme emanate a Bruxelles.
In questa
sconnessione istituzionale si inserisce il disordine sempre più accentuato
provocato dalla “migrazione” afroasiatica e musulmana, che da qualche anno ha
assunto i caratteri di una vera e propria
invasione, incontrollata e sempre più minacciosa, nello stesso tempo
subìta ed incoraggiata. I popoli europei, compreso il nostro, afflitti dalla
denatalità causata dal loro edonistico, anarcoide e libertino stile di vita,
sono oppressi sempre più da un’istituzione centrale (l’Unione Europea), la cui
classe dirigente, ispirata ai dogmi del politicamente corretto più radicale,
non è affatto patriottica:
non si sente né europea né nazionale bensì
sovranazionale, cosmopolita ed è strettamente legata alla finanza internazionale. Essa non solo accetta ma incoraggia
l’immigrazione massiccia che minaccia di tutto travolgere – non per nulla,
l’inquietante conte Richard Coudenhove Kalergi, l’austro-nipponico visionario
teorico dell’Europa meticcia e multiculturale, non più cristiana né bianca,
troneggia nel Pantheon degli oracoli cui si prostrano i leaders dell’Unione. Ora, se vogliono sopravvivere, questi popoli
non dovrebbero, per cominciare ad opporsi a tutto questo, ritrovare in se
stessi innanzitutto il giusto “spirito militare”? Senza di esso, come prepararsi spiritualmente
ai gravi conflitti che purtroppo li
attendono, di tipo convenzionale o meno, “simmetrici” od “asimmetrici” che siano; causati, bisogna pur
dirlo sin d’ora, dall’inettitudine e dalle idee perverse ed irresponsabili
delle loro attuali classi dirigenti, sia civili che ecclesiastiche? Bisogna, pertanto, ritrovare quelle virtù
senza le quali non è possibile battersi per alcun ideale né possedere il giusto
slancio nella lotta.
Gli attuali
governanti turchi, sempre più imbaldanziti dalla presenza di numerose, chiuse,
compatte e aggressive comunità turche nel nostro territorio, imbevuti da sempre
di quell’ideologia loro che si chiama “turanismo”, postulante un impero di
tutti i popoli “turanici”, dalle steppe mongole all’Asia centrale, ai Balcani,
al Medio Oriente, al cuore dell’Europa; costoro hanno cominciato di recente ad
apostrofarci come un tempo i sultani del
loro defunto impero, minacciandoci di guerre di religione, gridando che le
nostre città “diventeranno tante Aleppo”.
I nostri governanti e il clero cattolico, a cominciare dal regnante
Pontefice, hanno forse preso nota?
*
* *
Ma torniamo
all’Italia. Riacquistare il giusto ed indispensabile “spirito militare”, per
noi italiani sembrerebbe particolarmente difficile, dato che su di noi si vuol
sempre far pesare la disfatta del 1943:
non tanto il fatto in sé della sconfitta nella tremenda Guerra Mondiale,
quanto il modo nel quale è avvenuta, con il collasso repentino di un esercito
molto logorato, è vero, perché ampiamente depauperato in uomini e mezzi, dopo
tre anni e tre mesi di durissima e infelice guerra contro le maggiori potenze
mondiali, ma ancora in grado di battersi in chiave difensiva e comunque in modo
da salvare la cosa più importante, l’onore, se i suoi capi l’avessero
voluto guidare, parlando alla Nazione, affrontando i tedeschi, invece di
perdere la testa all’annuncio non preannunciato dell’Armistizio (peraltro
firmato in segreto da 5 giorni) e fuggire nel tacco non ancora occupato
d’Italia, abbandonando senz’ordini i soldati al fulmineo e brutale attacco
tedesco, militarmente inevitabile e pianificato sin dalla caduta di Mussolini,
anteriore di quarantacinque giorni.
Furono la negligenza, la superficialità, la viltà dei capi a rovinare la
reputazione dell’intera nazione[2].
Ora, come
rinascere militarmente senza spirito militare, e quindi senza quelle virtù
militar-civili sopra richiamate, che ne costituiscono i presupposti? Eppure
quelle virtù, durante i tre anni della II Guerra Mondiale, il soldato italiano
le aveva pur dimostrate, in molte occasioni. E dopo la tragica resa
incondizionata del 1943, pur ci furono migliaia di giovani e meno giovani, da una parte e
dall’altra, che andarono a combattere, in circostanze estremamente
difficili, per difendere la Patria e vendicare l’onore dell’Italia. Minoranze, certo, che tuttavia fecero vedere
come le virtù a fondamento del necessario spirito militare non fossero
estinte. E finché vi sono anche pochi
uomini che combattono per la Patria e il suo onore, possiamo dire che la Patria
sia morta? Così poteva sembrare, nei giorni
drammatici del caos umiliante seguito alla nostra resa incondizionata. Ma così non fu, se è vero che il durissimo
Trattato di Pace del 1947, impostoci quali nemici da punire severamente come se
la nostra cobelligeranza non ci fosse mai stata (evidentemente, nonostante la
“cobelligeranza”, eravamo rimasti sempre nemici integrali e le
ripetute promesse di mitigare le clausole della resa se ci fossimo “comportati
bene” militarmente, nient’altro furono che una crudele presa in giro);
quell’infame Diktat, come fu chiamato, atto finale di una serie impressionante
di umiliazioni, ed umiliante esso stesso in certe sue clausole (artt. 15 e 16),
provocò un’ondata di sdegno in tutto il Paese, anche tra le classi più
umili. E quello sdegno, da cosa era
provocato se non dal patriottismo? Del
resto, già l’armistizio era stato sentito come una grande vergogna nazionale da
praticamente tutta la popolazione[3].
*
* *
Mancava,
dunque, un’opera che, ristabilendo la verità storica, dimostrasse come quelle
virtù civili e militari, delle quali non si ritene capace il popolo italiano,
furono esercitate durante la II Guerra Mondiale, in particolare dagli uomini
della Regia Marina (e della Regia Aeronautica) che affrontarono per tre lunghi
anni l’impari confronto con la Royal Navy britannica, all’epoca ancora
considerata la migliore del mondo, e la non meno formidabile Royal Air Force.
Nel settembre
del 2014 l’editore Feltrinelli ha pubblicato l’ampio studio di uno storico
militare statunitense, il prof. James J. Sadkovich, dedicato alla Regia Marina
nella II guerra mondiale, apparso in lingua originale nel 1994. Si tratta della riedizione integrale di una
traduzione pubblicata per la prima volta nel 2006 dalla Libreria Editrice
Goriziana, nella sua collana “Le
Guerre”, una delle migliori sul tema, in Italia. L’impegnativa monografia dello
studioso americano ha destato notevole interesse in Italia e questo spiega,
credo, perché sia stata da poco ripubblicata da un editore a vasta tiratura
come Feltrinelli, in genere poco propenso, per impostazione ideologica, a
rivalutare temi quali il patriottismo, lo spirito di dedizione e sacrificio dei
militari, il prestigio delle loro istituzioni[4].
Ma anche un
editore di sinistra come Feltrinelli si sarà reso conto, credo, che l’opinione
negativa che si ha di noi all’estero (quello di essere un popolo vile, che non
si batte, pronto a tradire le alleanze), prescinde dall’esser giuste o meno,
“democratiche” o “fasciste” le cause per le quali si trova a combattere. Buone o cattive che siano le cause,
l’italiano scappa sempre, ci gridano dietro.
Ristabilire la verità storica sulla nostra infelice partecipazione alla
II g.m. non significa giustificare l’errore gravissimo di esserci entrati e per
di più in quel modo malaccorto, con l’idea (o la speranza) di combattere una
“guerra breve”, quasi di facciata, avendo Hitler già vinto senza di noi (si
pensava), non solo per ottenere qualche beneficio dal vincitore (all’epoca
alleato di Stalin) ma anche per salvarsi dalla sua ira. Significa render a ciascuno
il suo, render il giusto riconoscimento al valore e allo spirito di sacrificio
degli equipaggi e dei quadri immolatisi nell’adempimento del loro dovere in una
guerra sbagliata e contro un nemico molto più forte[5].
2. Render giustizia al valore e allo spirito
di sacrificio dimostrati dalla Marina e
dall’Areonautica italiane Il libro
vuol rendere, dunque, giustizia ai marinai italiani che si batterono per più di
tre anni in condizioni di notevole inferiorità materiale e “tecnologica”
praticamente costante contro un nemico del calibro della Royal Navy,
sfatando lo stereotipo negativo che è stato loro applicato dalla fine della
guerra ad oggi, praticamente da quasi tutta la saggistica e storiografia
navale, in particolare da quelle anglosassoni e tedesche[6].
L’Autore ha
dovuto analizzare anche l’attività della Regia Aeronautica (scorta convogli,
attacchi alla flotta nemica, cooperazione con la Regia Marina, campagne aeree
su Malta, ripetute battaglie aeree con la RAF).
Nella storiografia e memorialistica anglosassone tale apporto viene in
genere liquidato come irrilevante e nei soliti termini sprezzanti. Incrociando accuratamente le fonti inglesi,
tedesche e italiane l’Autore dimostra, invece, che tale apporto non fu affatto
irrilevante e che la nostra Aereonautica militare, non solo assieme ai tedeschi
ma anche da sola, seppe dare filo da torcere ai britannici, sia su Malta sia
nei combattimenti aereonavali. Anch’essa
pagò lo scotto, oltre che alla scarsità di materie prime e di benzina, alla
produzione industriale insufficiente e per certi aspetti mal organizzata, basti
pensare ai troppi tipi di aerei da caccia.
Pesavano certe sbagliate scelte anteguerra:
il non aver sviluppato per tempo la specialità degli aerosiluranti (che poi
furono sempre troppo pochi, anche se qualche buon colpo lo misero a segno) e il
bombardamento in picchiata sulle navi, optando per quello in quota, poco
efficace (nonostante gli spaventi che procurava agli inglesi) dato il numero
limitato di aerei che in genere lo attuava e l’esiguità del loro carico di
bombe. Grave fu il mancato sviluppo di un aereo da caccia notturno[7].
“I piloti
britannici, che pure avevano cominciato a colpire duramente la navi dell’Asse
[dalla metà del 1941], non riuscivano ad avere ragione della Regia
Aeronautica. Il 19 agosto, uno scontro
fra dodici Hurricane e una decina di Mc.200 si concluse con un pareggio; la
notte del 21, i britannici mancarono la distruzione di un convoglio. Cinque giorni più tardi, un Blenheim
[caccia-bombardiere leggero, bimotore] fu abbattuto durante l’attacco a una
nave; nella mischia in cui furono coinvolti dieci Hurricane e quindici Macchi,
ambo le parti persero un velivolo. La
settimana seguente, un Cr. 42 abbatté un Wellington [bombardiere leggero,
bimotore] al largo di Lampedusa, cinque Swordfish [aerosiluranti] affondarono
l’Egadi e un gruppo di Wellington affondò il Riva ormeggiato nel
porto di Tripoli [due piroscafi da carico].
Nel complesso, nonostante gli straordinari vantaggi procurati da Ultra e
dall’ASV [radar Air to Surface Vessels, radar aria-superficie montati da
qualche tempo su parte degli aerei inglesi] gli apparecchi britannici ottennero
successi sporadici; il nuovo Hurricane II non valse a spostare l’ago della
bilancia nell’aria, dove la Regia Aeronautica, senza l’appoggio della Luftwaffe,
aveva costretto la RAF all’impasse.
I britannici avevano rispetto sia della Regia Marina che della Regia
Aeronautica: ciò fu palese sul finire di
luglio in occasione dell’operazione “Substance” quando essi predisposero una
nutrita scorta per condurre a Malta sette navi da carico”[8]. La “nutrita scorta” comprendeva due
corazzate, una portaerei, sei incrociatori e circa venti
cacciatorpediniere. La marina italiana
si mise in allerta ma la ricognizione aerea italiana riuscì a trovare la
formazione inglese troppo tardi per far uscire la nostra flotta da battaglia da
Taranto in tempo utile ad agganciarla.
La formazione britannica fu ripetutamente attaccata dalla Regia
Aeronautica e dai nostri MAS, fu affondato un cacciatorpediniere, il Fearless,
danneggiati un incrociatore leggero, un altro cacciatorpediniere, un piroscafo
armato e una cisterna. Non certo un gran
bottino ma nei numerosi duelli aerei la nostra aviazione tenne botta con quella
britannica. Secondo l’Autore, gli inglesi gonfiarono alquanto le perdite da
loro inflitte agli aerei italiani (di norma, tutti i contendenti raddoppiavano
le cifre delle perdite inflitte).
L’Autore
conclude che, all’epoca, i britannici avevano un salutare rispetto per gli
italiani, tant’è vero che “gran parte dei convogli [che rifornivano Malta]
erano formati da navi da guerra [isolate] che facevano puntate rapidissime
nell’isola, oppure bordeggiavano la costa africana battendo bandiera francese
[la Francia di Vichy era neutrale]”[9].
C’era assai poco di “nelsoniano” in
questo modo di combattere, ma tant’è:
necessità fa virtù. La realtà era
che, “di fatto, la Marina e l’Aeronautica italiane avevano chiuso il
Mediterraneo al traffico regolare, mantenendo le proprie vie di comunicazione
con il Nordafrica. E non si trattò di un successo da poco”[10].
Il lavoro del
prof. Sadkovich si segnala per la vastità e l’analicità della documentazione e
il rigore con il quale è condotta l’argomentazione, sempre equilibrata
nonostante il tono fortemente critico nei confronti della storiografia che va
per la maggiore.
“Non è mia
intenzione sostenere che la Regia Marina “vinse” la guerra, né che fosse in
grado di competere su un piede di parità con i britannici, tutt’altro. Vorrei che il lettore capisse la situazione
sfavorevole in cui combatté la Marina italiana, a fronte degli enormi vantaggi
di cui godettero i britannici, favoriti in modo cruciale dal possesso del radar
e dalla capacità di “leggere” le comunicazioni tedesche e italiane in codice
“Enigma” [mediante il sistema di decrittazione Ultra]. Vorre che al lettore fosse chiaro che la
decisione di non costruire portaerei fu sintomatica non solo dell’approccio
strategico italiano al Mediterraneo, ma anche di un’economia debole e di una
eccessiva fiducia nel potenziale della flotta aerea, a cui si assommarono
irragionevoli aspettative rispetto alle capacità dell’Aeronautica
italiana. È infine essenziale che il
lettore abbia presenti le differenti entità della flotta italiana e di quella
britannica, lo stato ancora embrionale delle strutture dell’Italia e la sua
esigua base di risorse; solo così è possibile capire i gravi svantaggi patiti
dall’Italia, che in termini qualitativi e quantitativi non ebbe mai dai tedeschi il sostegno
materiale che invece i britannici ricevettero dagli americani, dal Commonwealth
e dall’Impero.
In altri
termini, vorrei che il lettore comprendesse la debolezza dell’Italia, senza
però credere che tale debolezza debba tradursi in eccessiva prudenza o in
semplice codardia. Mi auguro, invece,
di dimostrare che gli italiani si comportarono bene malgrado gli svantaggi, e
che furono in primo luogo loro a bloccare per trentanove lunghi mesi [durata
della nostra guerra, come Stato indipendente: 10 giugno 1940-8 settembre 1943]
il grosso della forze britanniche nel bacino del Mediterraneo. In questo
libro cercherò di sfatare alcuni miti circa il ruolo di Malta, l’apporto dei
tedeschi e la prestazione dell’Aeronautica e della Marina italiane. A questo scopo sarà necessario concentrarsi
sui dettagli più di quanto qualcuno potrebbe ritenere auspicabile, dal momento
che buona parte di questa trattazione va contro corrente rispetto alla
Tradizione – che J.S. Mill riteneva il più granitico dei pregiudizi. Perciò io mi soffermo alquanto sulle
operazioni aeree nel cielo di Malta, anche se si tratta di un argomento tedioso
per tutti, a parte gli appassionati di aviazione, e che si basa su alcune opere
secondarie. Inoltre, tratto nel
dettaglio la questione del rifornimento dell’Africa, dal momento che ad
informare la nostra conoscenza della logistica dell’Asse nel Mediterraneo è
stato il punto di vista tedesco – in particolare quello capzioso di Rommel – e
dal momento che i successi della Marina italiana nelle operazioni di
approvigionamento dell’Africa costrinsero i britannici a impegnare la pressoché
totalità delle loro risorse nello scacchiere mediterraneo per gran parte della
guerra.
Dunque, questa
non è una storia di battaglie né una storia esaustiva della Regia Marina nella
guerra; si tratta piuttosto di un resoconto interpretativo delle operazioni
navali che spero possa offrire al lettore un nuovo punto di vista…”[11].
3. La superiorità tecnologica britannica Uno studioso americano di origine croata
si è dunque proposto il compito di difendere la reputazione e l’onore della
Regia Marina durante l’ultima guerra, in nome della verità storica. E
sicuramente c’è riuscito, dimostrando, con la sua minuziosa analisi, quali
erano le vere condizioni nelle quali la nostra marina ha dovuto combattere e
come essa sia riuscita a portare a termine, sino alla fine, il suo compito
strategico fondamentale che era quello di tenere sempre aperte le vie di
comunicazione con la costa africana e il Mediterraneo orientale, dimostrando
tenacia e spirito combattivo sino alla fine della Campagna d’Africa[12].
A scanso di
equivoci va ribadito che l’Autore effettivamente non tenta di alterare il senso
dei fatti storici né di attenuare le giuste critiche alle manchevolezze e agli
errori che afflissero la nostra marina da guerra (e non solo la marina)
nell’ultimo conflitto mondiale, carenze e magagne che certamente contribuirono
alla nostra sconfitta. Egli vuole
tuttavia situare le cose nel loro giusto contesto, con il reagire a quello che
considera uno stereotipo caratteristico di certa predominante saggistica e
storiografia anglossassone e tedesca, la tesi cioè della superiorità morale
e di carattere nei confronti dell’avversario quale spiegazione fondamentale,
e per molti unica, del successo nei suoi confronti. Questi fattori sono essenziali e in certi
casi la vittoria dipende indubbiamente solamente da essi. Non è però questo il caso delle vicende della
Regia Marina nel secondo conflitto mondiale.
La tesi dell’Autore – documentatissima, come si è detto – è che il predominio
inglese non fu mai assoluto né continuo; anzi i britannici dovettero subire la
nostra supremazia per tutta la prima metà del 1942. In ogni caso non dovemmo mai
sospendere le rotte praticamente giornaliere per l’Africa e il Mediterraneo
orientale (solo per un tre giorni dopo la distruzione del convoglio Duisburg).
I britannici prevalevano soprattutto nell’incolmabile superiorità
tecnologica nei nostri confronti.
Ciò va detto senza nulla togliere alle loro riconosciute qualità di
esperti e agguerriti uomini di mare e alla loro migliore organizzazione[13].
Questa
superiorità si basava su due fattori essenziali. Il primo costituito dalla capacità di
penetrare i nostri codici e quelli dei tedeschi con il complesso e geniale
sistema di decrittazione noto come Ultra; il secondo, dal possesso del
radar, a noi precluso anche per colpa dei nostri ammiragli che, prima della
guerra, avrebbero avuto la possibilità di utilizzare e sviluppare un ottimo
brevetto italiano in materia, e non lo fecero, per poi declinare l’offerta di
un prototipo da parte dei tedeschi poco prima della guerra. L’Autore documenta come si sia verificato più
volte questo schema a nostro danno:
Ultra decrittava regolarmente, in tempi più o meno lunghi ma
spesso brevi, i messaggi tra Roma e i vari comandi, anche tedeschi; i messaggi
fornivano molti dati se non tutti di un convoglio in partenza per la Libia,
poniamo da Napoli: giorno, rotta, carico
etc. Navi e/o sottomarini e/o aerosiluranti
si appostavano lungo la rotta e colpivano a freddo. Spesso le unità partivano da Malta. I convogli italiani (a est e a ovest di
Malta) dovevano passare una notte in mare.
L’attacco avveniva quasi sempre di notte. Le navi di superficie, munite di radar e
guidate sovente da un aereo munito di radar, non sempre trovavano il convoglio,
ma quando ci riuscivano in piena notte andavano a colpo sicuro, facendo una
specie di tiro al bersaglio, breve e preciso, per poi dileguarsi. Era una tattica corsara, nota
l’Autore, alla “colpisci e fuggi”, resa possibile dalla superiore tecnologica
impiegata. Ricordava i colpi di mano dei
Drake e degli Hawkins, famosi pirati e comandanti della marina elisabettiana,
assai più che la tattica “nelsoniana”, non insensibile ai colpi di mano, ma
consistente, per definizione, nella ricerca della flotta nemica per
distruggerla in combattimento aperto e acquisire in tal modo il dominio
completo del mare[14].
È vero che gli
inglesi, dopo le gravi manchevolezze dimostrate in questo campo durante la I
Guerra Mondiale, avevano intensamente addestrato tutta la loro flotta al
combattimento notturno mentre noi, colpevolmente, non lo avevamo fatto. Ma il pedaggio pagato per questo grave errore
non sarebbe stato così salato, senza Ultra e il radar. Scontavamo, inoltre, la mancanza di aerei da
caccia notturni, cosa che, durante la notte, rendeva i convogli per la Libia
privi di copertura aerea, pertanto indifesi contro gli attacchi notturni degli
aerosiluranti nemici, muniti di radar. Inoltre,
le nostre unità di scorta non avevano il sonar, apparecchiatura
fondamentale per individuare i sottomarini, in possesso invece dei britannici.
Inoltre, avendo la marina (nel 1925 e oltre) respinto l’idea della portaerei
(proposta da Mussolini) non era poi nemmeno riuscita ad avere una sua aviazione
né a sviluppare un decente coordinamento con la Regia Areonautica, anche per
colpa di un certo egoismo di quest’ultima.
Infine, gravava sul comandante in mare l’ordine di Supermarina (lo Stato
Maggiore della marina) che voleva sempre dirigere i combattimenti della flotta
da Roma. Ciò rendeva quasi nulla l’autonomia dei comandanti in azione, con
pesanti conseguenze sul piano operativo. Su queste nostre debolezze
istituzionali la superiorità tecnologica del nemico costituiva il carico da
undici. E non va dimenticato che mentre
noi soffrimmo di scarsità di carburante per tutta la guerra, piuttosto seria
nell’ultimo anno, i britannici nuotarono sempre nella benzina, per così
dire.
Gli storici
hanno sempre giustamente sottolineato l’errore italiano di voler fare una
politica da grande potenza senza averne i necessari requisiti, dalla
disponibilità di materie prime ad un forte ed evoluto apparato industriale, ad
una classe dirigente (civile e militare) effettivamente all’altezza per
visione, preparazione, capacità. Annoto,
tuttavia, che certe nostre deficienze derivarono dalle scelte sbagliate dei
vertici non dalla mancanza di mezzi e capacità.
Fu la miopia degli ammiragli ad impedirci di avere le portaerei e il
radar per tempo (qualche esemplare di origine tedesca e poi italiana fu montato
su nostre navi dall’estate del 1942 solamente).
Forse che i nostri cantieri non erano in grado di costruire una
portaerei già negli anni venti (secondo l’intenzione iniziale di Mussolini)
allorché si cominciarono a spendere grosse somme per ammodernare tre corazzate
più piccole (320 mm. di calibro invece di 381), rivelatisi poi deludenti? O non era la nostra industria in grado di
fabbricare per tempo aerosiluranti e caccia notturni? E non è forse vero che un ingegnere italiano,
prima della guerra, aveva già brevettato un prototipo di radar (del resto allo
studio presso tutte le marine) destando subito l’interesse della Marina tedesca
ma non di quella italiana? E che i
tedeschi ci offrirono inutilmente un loro radar all’inizio della guerra? Per quanto fossimo una potenza industriale
minore, tutte queste cose erano alla nostra portata, così come l’addestramento
della flotta al combattimento notturno, carenza che nelle fonti ora viene
attribuita all’intera flotta ora solo a quella c.d. “da battaglia” (corazzate,
incrociatori), anche se nei 15 combattimenti notturni di nostri caccia e
torpediniere contro gli inglesi, questi ultimi, a prescindere dal radar,
dimostrarono in genere una migliore coordinazione, frutto evidentemente dell’intenso
addestramento ricevuto[15].
È utile, a mio
avviso, riflettere ancor oggi su queste carenze di fondo poiché in esse
appaiono le lacune delle nostre classi dirigenti nei secoli, in primis
l’incapacità di pensare in grande cioè in modo non settoriale (incline sempre
al “particulare”) ma unitario e sistematicamente volto ad un obiettivo
comune. E non dobbiamo chiederci, oggi,
se queste carenze sono state effettivamente superate nella classe dirigente
(civile e militare) dell’Italia “democratica” attuale? Il dubbio è più che lecito.
4. Il ruolo fondamentale di ULTRA La verità sul ruolo importantissimo
giocato da Ultra, emersa solo a partire dal 1974 con le prime pubblicazioni
inglesi sull’argomento, dovrebbe far cadere nel nulla le accuse di tradimento rivolte allo Stato
Maggiore della Regia Marina (un ambiente considerato filoinglese e notoriamente
tiepido verso il regime); accuse manifeste da parte dei tedeschi (da Rommel in
particolare), quando si capì (dalla dinamica di certi attacchi ai nostri
convogli) che i Britannici erano a conoscenza delle loro rotte; accuse riprese
poi da Antonino Trizzino subito dopo la guerra nel suo polemicissimo Navi e
poltrone, che provocò anche strascichi giudiziari, dai quali l’Autore uscì
comunque indenne.
Sull’attività
di Ultra gli studi fondamentali sono sempre quelli dell’eminente storico
militare prof. Alberto Santoni, scomparso nel 2013 a 78 anni, frutto di
minuziose ricerche negli archivi stessi del centro di intercettazione e
decrittazione britannico, dopo che era stato aperto agli studiosi. Il suo testo Il vero traditore resta
un’opera capitale sul tema[16]. In altri libri sullo stesso argomento,
Santoni ha documentato che gli inglesi controllavano e “leggevano” praticamente
tutto il traffico radio delle nostre forze armate sin dall’epoca della Guerra
d’Abissinia, inclusa quindi anche la Guerra di Spagna! Solo l’annessione
mussoliniana dell’Albania li colse di sorpresa, generando per un po’ di tempo
apprensione nei loro servizi segreti:
avevamo cambiato i codici ma dopo poco tempo essi furono in grado di
decifrarli di nuovo. Il nostro sistema
informativo restava comunque fragile e penetrabile, anche per qualche
negligenza in altri settori, per esempio nella sicurezza o protezione di
cifrari e codici in unità navali in affondamento o delle notizie riservate
nell’ambiente romano, dove tra l’altro continuarono a risiedere i
rappresentanti inglesi e americani presso la S. Sede (Mussolini applicò
correttamente il Trattato del Laterano, sino alla fine). Anche italiani e tedeschi “leggevano” le
comunicazioni radio inglesi, ma senza arrivare all’estensione capillare e
soprattutto alla continuità del sistema Ultra, che inoltrò ai comandi navali
britannici decine di migliaia di decrittazioni concernenti l’attività della
Regia Marina[17].
4.1 Il disastro di Matapan non fu causato da
tradimento ma dal mancato addestramento al combattimento notturno e dagli
errori di comando. Santoni documenta in modo inoppugnabile come
l’agguato notturno di Matapan (28 marzo 1941), che ci costò tre incrociatori
pesanti e due cacciatorpediniere nonché 2303 morti, colpiti a distanza
ravvicinata dalle corazzate e dalle altre unità inglesi, delle quali non si
erano accorti perché impegnati a rimorchiare l’incrociatore Pola
immobilizzato da un precedente siluro – fu costruito a partire dalla
decrittazione Ultra dei messaggi radio tra Roma e Rodi, pubblicate
nell’appendice del libro, non a fuga proditoria di notizie. Pur presentando dati generici, le decrittazioni
permettevano all’ammiraglio Andrew Cunningham comandante della Mediterranean
Fleet, di capire con due giorni di anticipo che una forza navale italiana si
apprestava a compiere una puntata offensiva nell’Egeo contro il traffico
britannico. Pertanto egli cominciò a
prendere le sue contromisure e a predisporre una congrua trappola, con un
ordine di muoversi già il 26 marzo, ordine che fu visto da un ufficiale
italiano salvato e preso prigioniero, appeso alla parete di un locale della
nave che l’aveva ripescato[18].
Santoni ha
messo in rilievo un interessante aspetto, emerso nel corso di vari convegni di
studiosi dedicati a ULTRA: gli inglesi
tenevano ovviamente nascosta la sua esistenza anche ai loro. Churchill, quando rivelava informazioni
provenienti da Ultra diceva che la fonte era un certo “Boniface”, nome in
codice. Ad un certo punto, gli inglesi
inventarono perfidamente l’esistenza di
un ufficiale traditore italiano quale fonte delle informazioni, tale generale
Duberto, ufficiale di collegamento tra italiani e Rommel, ovviamente mai
esistito[19].
Con tutte le
informazioni che forniva Ultra, che bisogno avevano i britannici di tenere
tante spie a Roma? Circa i supposti tradimenti, ci si riferisce qui alle accuse
relative al periodo 1940-1943, sino alla perdita dell’Africa (13 maggio ’43,
resa di tre giorni posteriore a quella dei tedeschi). Tuttavia, alcune ombre rimangono, per esempio
sulla perdita di diversi sottomarini nei primi giorni di guerra, puntualmente
attesi da sottomarini nemici quando andavano ad appostarsi nella zona d’agguato[20]. E nemmeno mi riferisco alle posteriori rese
ingiustificate e improvvise, senza combattere, di Pantelleria e Augusta, munite
piazzeforti comandate ognuna da un ammiraglio, la cui conquista avrebbe
richiesto un certo prezzo da parte degli Alleati: su quelle rese resta un’ombra mai fugata anche
perché a Pantelleria l’ottima base aerea venne consegnata intatta, compreso il
grande hangar sotterraneo[21]. Né al mancato impiego di quello che ancora
restava della flotta da battaglia (ancora di un qualche peso, sulla carta) per
difendere la Sicilia invasa: alcuni ritengono che, se si voleva salvare
l’onore, per il futuro dell’Italia, la flotta avrebbe dovuto immolarsi nelle
acque siciliane dominate dal gigantesco apparato aeronavale alleato. (Ma, per
salvare l’onore non era sufficiente far autoaffondare la flotta rimastaci,
invece di farla andare a Malta?). Erano
già iniziati da qualche tempo i sondaggi di certi ambienti legati alla Corona
per far uscire l’Italia dalla sciagurata guerra con una pace separata, un’idea
come si sa considerata anche da Mussolini.
È un fatto poco noto, ma praticamente dall’estate-autunno del 1942 in
poi, ancor prima della conclusione della battaglia di Stalingrado, quasi tutti
gli alleati più importanti di Hitler (italiani, finlandesi, ungheresi, romeni)
cominciarono ad effettuare cauti e segretissimi tentativi per uscire dal
conflitto, in modo possibilmente dignitoso. Così, “nell’estate del 1942 Grandi
cercò di recarsi a Madrid, dove l’ambasciatore inglese era Sir Samuel Hoare, suo
amico personale, ma, nonostante avesse avuto l’autorizzazione di Mussolini, fu
bloccato da Ciano, allora ministro degli esteri”[22].
A Matapan, una
aliquota della nostra flotta di battaglia (una corazzata moderna, sei
incrociatori pesanti, tre leggeri, tredici cacciatorpediniere, sproporzionata
per un’incursione – invocata dai tedeschi – contro il traffico del nemico
nell’Egeo) pagò assai cara la mancanza del radar, di una nave portaerei (per la
ricognizione e copertura aerea e l’impiego di aerosiluranti imbarcati), e
soprattutto il mancato addestramento al combattimento notturno; cosa,
quest’ultima, che avrebbe se non altro permesso di limitare i danni, di non
farsi sorprendere inermi con i cannoni per chiglia a rimorchiar l’incrociatore
danneggiato e immobile, perché il siluro nemico incassato il giorno prima gli
aveva distrutto tutto l’apparato elettrico, e con gli incrociatori davanti ai
caccia, contro ogni prassi.
L’incrociatore immobilizzato nell’azione diurna avrebbe dovuto esser evacuato, abbandonato e
affondato con i siluri, come aveva chiesto il suo comandante. Quindi: carenze di previsione, di
addestramento, di comando, improvvisazione. Certo, se gli inglesi non fossero
stati informati da Ultra, la nostra puntata di sorpresa avrebbe potuto riuscire,
affondandogli qualche carretta o unità minore, incontrate per via. Nel risultato fallimentare e doloroso
dell’impresa, mal concepita e male attuata, appaiono come in una sorta di
nemesi tutte le carenze di chi dirigeva la Regia Marina e ne aveva orientato le
scelte sin dagli anni Venti[23].
5. La battaglia dei convogli fu un successo
per la marina italiana, che alimentò tenacemente sino alla fine la campagna in
Nord-Africa.
Come ha
riconosciuto la storiografia più meditata, il compito strategico essenziale
della Regia Marina nella guerra era unicamente quello di assicurare i vitali
rifornimenti per il NordAfrica, l’Albania e l’Egeo. L’impressione che si ricava leggendo gli
autori anglosassoni è che la nostra marina non abbia mai rappresentato un
problema, che la Royal Navy e la RAF
abbiano sempre potuto disporre come
volevano dei nostri convogli, che le uniche serie difficoltà siano venute a
loro dalla Luftwaffe e dai sottomarini tedeschi, protagonisti entrambi
del maggior numero di affondamenti[24].
Il comando
italiano era costretto ad ispirarsi alla strategia della “fleet in being” o
della “flotta in potenza”: la flotta di
battaglia (all’epoca: corazzate, incrociatori pesanti, portaerei) non cerca la
battaglia risolutiva col nemico, al fine di assicurarsi il dominio del mare,
secondo la tradizione nelsoniana, orgogliosamente ostentata dagli inglesi, ma
se ne sta “in being” nelle sue basi, con il proposito di intervenire solo se si
presenta l’occasione favorevole. Tale
strategia è, in particolare, giustificata quando si devono alimentare
quotidianamente territori, basi, eserciti oltre mare e si fronteggia un nemico
più forte. In una sola battaglia la
flotta può esser distrutta e allora è la fine:
il nemico taglia del tutto i rifornimenti, i territori d’oltremare si
arrendono, le coste nazionali sono
esposte agli sbarchi nemici; insomma, la guerra è perduta.
La protezione
dei propri convogli è affidata alle unità più leggere (corvette,
cacciatorpediniere, incrociatori leggeri, etc.). Il permanere della flotta
pesante nelle basi non è inutile, a meno non si trasformi in vera e propria inazione,
dal momento che la sua sola presenza incide sui movimenti del nemico, che deve
tener conto di essa come fattore che può rapidamente materializzarsi con forze
superiori e colpire. Così noi dovevamo
tener conto delle corazzate inglesi di base ad Alessandria e gli inglesi delle
nostre a Taranto, nel pianificare i movimenti dei rispettivi convogli e delle
loro scorte. Inoltre, bisogna sapere che
per l’Italia le perdite di grandi unità erano assai più gravi, data la
sostanziale impossibilità di rimpiazzarle (arrivò in squadra una sola nuova
corazzata). E non si può dimenticare che
la marina da guerra dell’Italia unitaria era giovane e assai meno esperta e
sicura di sé di quella britannica, dominatrice dei mari da più di due secoli,
ricca di una serie impressionante di vittorie.
Ma il grande rispetto per la flotta britannica non impediva ai quadri
più giovani della Regia Marina e anche agli equipaggi di coltivare il desiderio
di dimostrare il proprio valore proprio contro un nemico così forte e
titolato.
La Regia
Marina (o meglio Supermarina) fu accusata di atteggiamento troppo
prudente, per ciò che riguardava la flotta da battaglia. Questo potrà esser
stato vero per alcuni singoli episodi, anche se la cosa è in una certa misura
contestata dal prof. Sadkovich, secondo il quale la prudenza dimostrata in
alcuni casi dagli italiani nel far rischiare certe fasi di combattimento alle
loro corazzate, si poteva giustificare in base alla situazione reale: si trattava di lanciarsi quasi al crepuscolo
e con mare mosso, con l’unica corazzata moderna al momento rimasta operativa,
dentro le cortine di fumo innalzate dalle scorte inglesi a protezione di loro
stessi e delle navi scortate, senza avere il radar e sapendo ormai che il
nemico invece lo possedeva. Una prudenza
similare, che, in termini “nelsoniani”, sarebbe apparsa inaccettabile, fu
manifestata in diverse occasioni anche dagli ammiragli inglesi[25].
Il prof.
Sadkovich apporta ulteriori argomenti
alla tesi, sostenuta da diversi storici, secondo la quale la strategia inglese
nel Mediterraneo, nonostante le vanterie “nelsoniane” e le accuse di codardia a
noi italiani, era esattamente la stessa
della Regia Marina: flotta da battaglia in
being tra Alessandria e Gibilterra. Compito strategico primario: protezione
al traffico per Malta, distruzione di quello italiano, intervento del grosso
della flotta solo di fronte ad una ghiotta occasione (come quella presentatasi
a Matapan) o perché costretti a fargli scortare un importante convoglio
(impiego attuato più volte anche dalla Regia Marina)[26].
A ben vedere,
si trattava della stessa strategia perseguita con successo dalle due flotte
durante la I guerra mondiale: blocco
navale degli Imperi Centrali, incapsulando la flotta imperiale tedesca nel Mare
del Nord e quella austroungarica nell’Adriatico, assieme a britannici e
francesi - mantenimento delle vitali vie di comunicazione, che allora per
l’Italia erano costituite soprattutto dai rifornimenti alimentari e di materie
prime via Gibilterra. Perdemmo comunque il 53% del nostro naviglio mercantile,
una cifra molto alta, ad opera dei sottomarini austrotedeschi e delle
mine. Si mantenne inalterato il livello
del flusso di rifornimenti, rispetto al tempo di pace: 54 milioni di tonnellate, anche se il
fabbisogno in tempo di guerra sarebbe stato di 70-72 milioni[27].
Tornando a
Malta: essa diventò un vero proprio nido di vespe per noi italiani, colpiva i
nostri convogli con i sottomarini, gli aerei, il naviglio leggero di
superficie. Non riuscimmo mai a neutralizzarla
anche se, assieme ai tedeschi, la portammo sull’orlo del collasso nell’estate
del 1942. Del pari, osserva il prof.
Sadkovich, gli inglesi non riuscirono mai ad interrompere il traffico italiano
per la Libia né quello per l’Egeo, pur mettendolo in crisi grave nell’autunno
del 1941. Si potrebbe dire: match pari.
O forse no.
“Benché in
trentanove mesi gli italiani inviassero 4.385 convogli – ciascuno formato da un
numero di navi da una a sette – e in media avessero giornalmente in mare sette
mercantili, le perdite in queste operazioni riguardarono solo il 9,5 % dei materiali
e il 4% delle truppe. Gli autori
italiani sono perciò giunti alla conclusione che la Regia Marina vinse la
guerra dei convogli, la sola guerra “significativa” combattuta nel
Mediterraneo”[28].
Questo dato
complessivo va così suddiviso: per la
Libia 993 convogli mercantili e 203 militari (veloci navi da guerra, isolate o
in gruppo, imbottite di benzina, materiali, uomini, sistema pericolosissimo per
le navi, usato comunque spesso anche dagli inglesi per rifornire Malta, Tobruk,
Creta); per la Tunisia, 276 convogli mercantili e 167 militari; sulla rotta del
Levante cioè Albania, Grecia, Egeo: 3116 convogli mercantili. Al totale vanno aggiunti 756 convogli libici
costieri, di unità di piccolo cabotaggio, per il rifornimento via mare delle
truppe italo-tedesche. Solo due grossi
convogli mercantili furono completamente distrutti, sulla rotta per la Libia:
il Tarigo e il Duisburg.
Sono sempre quelli citati da storiografia e saggistica a simbolo di un
supposto costante dominio britannico del mare, che avrebbe fatto passare
sì e no qualche carretta italiana.
Qualcosa
abbiamo dunque vinto, anche se, precisa lo stesso Giorgerini, si tratta di una
“vittoria statistica”. Che vuol
dire? Che il pur indubbio successo, che
tanto è costato in termini umani e materiali, cela il fatto che, in determinati
periodi, gli inglesi sono riusciti a colpire soprattutto le petroliere (delle
quali conoscevano persino il nome, grazie ad Ultra) facendo così mancare
all’armata italo-tedesca la benzina in momenti cruciali[29]. Il fatto che i carichi di preziosa benzina
siano arrivati a destinazione per l’81%, ammontare che sembra di tutto rispetto,
conterebbe pertanto sino ad un certo punto:
bisogna considerare lo Zeitpunkt, come dicono i tedeschi, il
“momento nel tempo”, ossia l’influenza dei mancati arrivi sulle battaglie più
importanti.
Vediamo sino a
che punto questo è vero. Dopo il
disastro subito da Graziani, tra il dicembre del 1940 e il febbraio del 1941,
con la distruzione quasi completa dell’intera 10a armata
italo-libica, esercito di appiedati annientato dalla moderna guerra di movimento
messa in atto dal generale O’ Connor (ai cui carri per di più - i famosi, lenti
ma corazzatissimi Matilda - i nostri
anticarro facevano il solletico), e la perdita dell’intera Cirenaica, i
rinforzi e i rifornimenti furono trasferiti in Libia senza alcuna perdita: la divisione corazzata Ariete e la
divisione di fanteria Trento, in febbraio, seguiti dalla divisione di
fanteria motorizzata Trieste ad agosto.
Tra febbraio e maggio del 1941 l’intero Afrika Korps di Rommel,
per un totale di circa tre divisioni (due corazzate ed una motorizzata), era
giunto intatto, con tutti i servizi.
Churchill aveva ragione di lamentarsi dei propri ammiragli. Su questa intensissima attività non influì la
tragica notte di Matapan (28 marzo ’41) così come non aveva influito la notte
di Taranto (11 novembre 1940), il siluramento nella munita base di tre nostre
corazzate, due delle quali recuperate in tempi abbastanza rapidi mentre solo la
vecchia e rimodernata Cavour non rientò più in squadra, perché gli
estesi lavori di riparazione vennero più volte sospesi e alla fine furono
interrotti dalla nostra resa.
Quando Rommel,
senza nemmeno aspettare il dispiegamento di tutte le forze tedesche, iniziò la
controffensiva che portò alla riconquista temporanea della Cirenaica
(marzo-aprile 1941), i mezzi ed i rifornimenti arrivavano con un flusso
regolare. In questo periodo ebbe luogo la distruzione notturna del convoglio Tarigo. Quattro piroscafi tedeschi e uno italiano
affondati assieme a due dei tre cacciatorpediniere della scorta, uno dei quali,
il Tarigo appunto, benché malridotto, riuscì ad affondare con il siluro
uno dei quattro caccia inglesi autori dell’attacco, il Mohawk. Grazie al
radar, gli inglesi si erano avvicinati indisturbati e non visti, aprendo il
fuoco all’improvviso e da distanza ravvicinata, come a Matapan.
“La perdita
del convoglio Tarigo è uno di quegli eventi che, con pochi altri, ha
colpito la sensibilità dell’opinione pubblica perché è stato spesso portato ad
esempio per dimostrare quanto il nemico fosse padrone del mare e impedisse il
flusso dei nostri rifornimenti. Una
menzogna che vale tutta la storia della guerra!”[30]. Infatti, se guardiamo alle cifre, vediamo che
da dicembre 1940 a maggio 1941 furono effettuati 251 convogli, con perdite di
naviglio mercantile solamente del 2, 3% delle navi impiegate e minime in
termini di uomini e materiali. Per ciò
che riguarda i carburanti, “in mare non ne andò perduta una goccia nei mesi,
non certo facili come i precedenti, di marzo e di maggio 1941”[31]. Ma i mesi di marzo e aprile sono proprio
quelli dell’offensiva di Rommel, sulla quale pertanto la spettacolare
distruzione del convoglio Tarigo, avvenuta il 16 aprile, non ebbe alcuna
effettiva influenza, per quanto riguarda la benzina.
Ma dall’estate
del 1941 Ultra cominciò a funzionare a pieno ritmo mentre Malta si rafforzava,
grazie anche al ritiro dal teatro mediterraneo di importanti aliquote della Luftwaffe,
inviate sul fronte russo. Nell’autunno
di quell’anno, soprattutto ad opera della Forza K, flottiglia di tre
incrociatori leggeri e alcuni cacciatorpediniere basata a Malta, gli inglesi
furono assai vicini ad interrompere il nostro traffico con la Libia. Il mese peggiore fu novembre: “insieme al 92%
del combustibile inviato in Africa, erano state perdute dodici navi per un
totale di 54.960 tsl [dieci affondate dalla Forza K]. Malgrado l’impiego di ingenti scorte navali
ed aeree, era andato perduto anche il 63% dei materiali spediti. Delle
cinquanta navi utilizzate, dodici mercantili e tre cacciatorpediniere erano
stati affondati e due incrociatori danneggiati”[32]. Tutto ciò in efficace preparazione e
coordinamento con la grande offensiva terrestre lanciata sempre in quel mese
(il 18 novembre) dai britannici, con notevole larghezza di mezzi, per
distruggere l’armata italo-tedesca aggirandola da Sud (operazione Crusader). Pur messo sull’avviso dai servizi italiani,
Rommel, che si stava preparando a sua volta ad attaccare, sottovalutò la
gravità della minaccia e fu colto di sorpresa.
Seguì un mese di violenti combattimenti, piuttosto confusi dal punto di vista
tattico-strategico, dopo i quali gli italo-tedeschi dovettero ritirarsi dalla
Cirenaica, nonostante la tenacia ed il valore dimostrati.
L’inferiorità
in uomini e mezzi delle truppe dell’Asse era dovuta anche alle perdite inflitte
dalla Royal Navy al nostro traffico. Abbiamo visto i dati del mese di
novembre. In settembre erano arrivati a
destinazione solo il 71,7% dei materiali e il 75,5% dei carburanti. Gravi le perdite di soldati: su 12.717 uomini
imbarcati ne arrivarono in Libia solo 6630[33]. Inoltre, la Regia Marina non seppe impedire
in quel periodo l’arrivo di quattro convogli britannici pieni di rifornimenti,
incrociatisi tra Malta ed Alessandria, attaccati sì ripetutamente da aerei e
sottomarini, ma con pochi affondamenti all’attivo. Tuttavia, navi in Libia ne
arrivavano sempre (furono utilizzati anche i sottomarini) e il flusso fu
sufficiente a Rommel per resistere e stabilizzare il fronte, dopo aver abbandonato
la Cirenaica[34].
Le continue
proteste e rampogne dei tedeschi nei nostri confronti, anche se in parte
giustificate, non devono tuttavia trarre in inganno, nel senso di far credere
(coniugandosi alle vanterie inglesi) che in NordAfrica la Wehrmacht non
abbia ricevuto quasi niente. Secondo
dati ufficiali del Comando Supremo tedesco, aggiornati al 10 giugno del 1943,
dal gennaio del 1941 al maggio del 1943 la Wehrmacht aveva impiegato in
NordAfrica: 1855 carri armati e autoblindo; 4182 pezzi d’artiglieria e
semoventi; 3309 cannoni e mitragliere contraerei, con 323 riflettori, 109
aerofoni e 160 Funkmess (Flak – avvistamento – guida caccia); 47.052 automezzi; 8180 motomezzi; 375.000 tn
di munizioni; 808.000 tn di benzina normale, avio e gasolio; 1.227.000 tn di
generi alimentari; 278.000 tn di materiale da costruzione[35].
Ora, di questi
mezzi e materiali, oltre a circa 113.000 soldati, non era stata soprattutto la
Regia Marina a permettere il trasporto, anche se con l’ausilio (prezioso ma
quantitativamente ridotto) della Regia Aeronautica e dell’aviazione
tedesca? Certo, gli inglesi avevano ancor
più mezzi e uomini, provenienti dall’intero impero grazie al dominio dei
mari, e in più godevano degli aiuti americani,
ancor prima di Pearl Harbour: i poderosi
aerei ricognitori americani, i grandi bacini di carenaggio americani per
rimettere in sesto le loro navi quando duramente colpite dai tedeschi o da noi;
i carri armati americani, come il leggero Stuart, già in azione
durante l’operazione Crusader, o il poderoso Sherman, uno dei
protagonisti della battaglia di El Alamein.
Ma di questa supremazia materiale del nemico la Regia Marina non aveva
nessuna colpa, come non l’aveva dell’esistenza e dell’efficienza di Ultra.
In questo
periodo ebbe luogo la distruzione notturna del convoglio Duisburg, nome
di uno dei quattro mercantili tedeschi che ne facevano parte, assieme a tre
italiani, tutti e sette affondati assieme a due cacciatorpediniere di scorta,
dal rapido tiro al bersaglio della forza K, sopraggiunta
non vista, guidata dal radar, che le permetteva di scegliere con calma la preda
e di manovrare (sempe non vista) nel modo migliore per colpirla. La sorpresa anche qui fu totale e la reazione
meno decisa di altre volte, per la confusione che si era creata. Fu una pagina nera per la Regia Marina,
perché i due incrociatori pesanti di scorta indiretta al convoglio con i loro
quattro caccia, spararono sì sugli inglesi ma in grave ritardo, solo quando
questi avevano già cominciato il disimpegno, inizialmente cercandoli a Nord del
convoglio quando questi erano invece a Sud e a Est dello stesso, facendone
strage, e poi a Sud quando questi già filavano via in direzione Nord[36].
Questa batosta, che “gettò quasi nel panico
Roma e Berlino” (Giorgerini) perché sembrava render impossibile il traffico
giornaliero con la Libia, in realtà non l’interruppe che per pochi giorni
solamente. Il giorno dopo il disastro,
il 10 novembre, tre cacciatorpediniere italiani trasportarono 800 soldati
tedeschi e il 14 quattro mercantili moderni armati trasportarono 1.217 uomini e
234 tn di materiali. Il 21 quattro
piroscafi italiani arrivarono a Bengasi. Ma il 24 due mercantili pieni di vitali rifornimenti, protetti
da due torpediniere, segnalati da Ultra, furono distrutti (di giorno, l’unica
volta) dalla Forza K, nonostante la coraggiosa difesa messa in atto dalla Lupo,
una veterana di quelle battaglie[37].
La Royal Navy sembrava avviata a
dominare le rotte del Mediterraneo centrale allorché una serie di disastri si
abbatté su di essa, in seguito all’arrivo dei sottomarini tedeschi, facendola
praticamente scomparire come forza combattente dal Mediterraneo per diversi
mesi. In conseguenza di ciò, “nella
primavera e nell’estate del 1942, gli italiani trasferirono enormi quantitativi
di materiali senza grossi intoppi”[38]. Questi rinforzi permisero a Rommel di
cacciare il nemico dalla Cirenaica e conquistare Tobruk, nel giugno di
quell’anno.
Il periodo
nero per gli inglesi era cominciato il 14 novembre quando un sottomarino
tedesco affondò la portaerei Ark Royal della Forza H (di base a
Gibilterra). Il 25 dello stesso mese, un
altro sottomarino tedesco affondò la corazzata Barham della Mediterranean
Fleet. Il 18 dicembre 1941, alle
18.30, la Forza K, di tre incrociatori leggeri e quattro caccia, incappò al
largo di Tripoli in un campo minato appositamente e astutamente predisposto
dagli italiani e cessò di esistere: si trattava di banchi di mine a discreta e
variabile profondità, non facilmente individuabili. L’ incrociatore leggero Neptune,
squarciato da più esplosioni, affondò e andò a fondo pure un
cacciatorpediniere, il Kandahar.
Gli altri due incrociatori furono seriamente danneggiati, assieme ad un
cacciatorpediniere, ma rientrarono con le loro forze. Del Neptune si
salvò un solo marinaio, raccolto dopo cinque giorni da una torpediniera
italiana, curato e mandato in prigionia in Italia, dalla quale fu rimpatriato
nel giugno del 1943. Morirono 837 marinai britannici[39].
Fu un disastro
inatteso e “per quasi un anno le navi di superficie non minacciarono il
traffico dell’Asse”[40]. La stessa notte, i sommozzatori della X
Mas minarono nel porto di Alessandria le residue due corazzate britanniche:
la Valiant sarebbe rientrata in
squadra dopo sette mesi, la Queen Elizabeth dopo ben 18, riparata nei
cantieri americani. Alla “tecnologia” e
alla consumata esperienza degli inglesi noi non rinunciavamo dunque a
replicare, anche se le nostre armi erano, nell’occasione, soprattutto
l’ingegnosità artigianale e l’audacia individuale degli assaltatori.
6. Non
siamo stati delle comparse buone solo ad arrendersi. Concludo il mio
intervento con considerazioni tratte dal capitolo finale del libro del prof.
Sadkovich, intitolato: Una
valutazione di perdite e danni – Vincitori e vinti[41].
“Una
valutazione della prestazione della Regia Marina fra il giugno 1940 e il
settembre 1943 dipende dal criterio di giudizio che si impiega. È certo che essa non vinse la guerra e che,
alla fine, consegnò le proprie navi agli Alleati a Malta; tuttavia, il fatto
che i britannici imposero la resa della flotta italiana quale condizione
imprescindibile per un armistizio, ne testimonia in modo eloquente
l’importanza. D’altronde, poiché gli
italiani persero più navi ad opera dei britannici di quante ne affondarono,
verrebbe da pensare che essi fossero intimiditi dalla Marina britannica,
sentendosene dominati, sin dall’inizio della guerra. Ma le unità mercantili e navali italiane
pagarono un tributo più pesante agli aerei, alle mine e ai sommergibili che
alla flotta britannica, la cui tanto strombazzata superiorità morale rispetto
agli italiani appare molto esagerata, specie alla luce del successo della Regia
Marina nella protezione delle rotte dei convogli.
I ritratti di
una Marina italiana incapace sono serviti a mascherare Ultra e a fornire una
giustificazione del fallimento della Marina britannica, che non riuscì ad
annientare la flotta italiana, ad acquisire il controllo del Mediterraneo, né
ad interrompere le linee di rifornimento africane dell’Asse prima del
1943. I successi britannici, come
l’incursione su Taranto e l’azione al largo di capo Matapan, sono stati
amplificati, laddove quelli dell’Asse – le battaglie di Mezzo Giugno e di Mezzo
Agosto – o sono state ignorate oppure sono state attribuite ai tedeschi. Mentre
la difesa britannica di Malta è stata esaltata alla stregua di un’impresa
eroica, la capacità di cui diede prova l’Italia nel tenere aperte le linee di
rifornimento africane e quelle balcaniche non è tenuta pressoché in alcun
conto. Ma oggi, dopo lo smascheramento
di Ultra, non è più necessario appigliarsi ad argomenti speciosi per occultarne
la funzione; ed è anche giunto il momento di abbandonare l’idea che la Regia
Marina fosse paralizzata da un Comando incompetente e minata da pecche
caratteriali che avrebbero riguardato l’intera nazione italiana, giacché è manifesto che la sconfitta dell’Italia
fu determinata dalla compromissione dei cifrari, dalla mancanza di carburante e
da un’inadeguata capacità industriale”[42].
La marina
continuò a fare il suo dovere sino in fondo, anche dopo che la poderosa
aviazione alleata aveva conquistato l’assoluto predominio nei cieli del
Mediterraneo centrale. Basti ricordare che, al momento dell’invasione della
Sicilia (10 luglio 1943), gli Alleati erano arrivati a schierare quasi
cinquemila aerei contro i circa novecento dell’Asse.
“Nonostante il
vertiginoso incremento delle perdite di naviglio mercantile negli ultimi otto
mesi di guerra [cioè dopo El Alamein e lo sbarco in Marocco e Algeria degli
americani], gli italiani – pur con la prospettiva di una sconfitta certa –
diedero prova di una resistenza caparbia, così come, nei primi trentuno mesi
della guerra, dimostrarono una tenace determinazione nel disputare alla flotta
britannica il dominio del Mediterraneo.
Furono di fatto le mine, gli aerei e i sommergibili ad affondare la più
parte delle navi dell’Asse”[43].
Nel
Mediterraneo, in tre anni e tre mesi di guerra, perdemmo contro la Royal
Navy : 1 corazzata (la Cavour, silurata a Taranto), 11 incrociatori,
37 cacciatorpediniere, 39 torpediniere, 25 MAS/siluranti, 65 sottomarini, per
un totale di 178 unità, che diventano 340 con l’aggiunta di 162 del naviglio
minore e ausiliario: dragamine, avvisi
scorta, piroscafi armati etc. I britannici
persero 107 unità, escludendo il naviglio minore: 1 corazzata, 2 portaerei, 14
incrociatori, 48 cacciatorpediniere, 41 sottomarini. Di queste, la marina e l’aviazione italiane
affondarono: 6 incrociatori, 15
cacciatorpediniere, 21 sommergibili, più un certo numero di unità minori. Ci furono poi significativi danneggiamenti: in aggiunta alle due corazzate di
Alessandria, alla corazzata Nelson, colpita da un nostro aerosilurante;
all’incrociatore leggero Liverpool, silurato due volte e sottoposto a
lunghi lavori prima nei cantieri americani e poi in quelli scozzesi; a qualche
altra unità. In totale, la Regia Marina
e la Regia Aeronautica affondarono
rispettivamente 58 e 29 ossia 87 navi militari inglesi e dei loro
alleati, oltre a 68 mercantili[44].
Molti dei
successi contro di noi furono resi possibili, oltre che dal radar in seconda
battuta, da Ultra, che indubbiamente fu, come scrisse il prof. Santoni, il
vero traditore. “Senza Ultra, difficilmente
i britannici avrebbero individuato tutti i convogli dell’Asse che
individuarono, ed è certo che l’effetto dei loro attacchi sarebbe stato minore,
in quanto non avrebbero potuto colpire le navi da carico di importanza cruciale
per le forze dell’Asse in Africa [come le petroliere o quelle cariche di
munizioni]. Né, d’altro canto, i
britannici avrebbero avuto una misura dell’efficacia della loro prestazione
contro l’Asse [che ricavavano sempre dalle decrittazioni di Ultra]. Ciononostante, la Marina italiana, per più di
tre anni, fu in competizione per il controllo del Mediterraneo, e in talune
occasioni essa dominò l’unico teatro nel quale i britannici avevano impegnato
ogni loro risorsa [sguarnendo la difesa dell’Estremo Oriente, con la
conseguente perdita di Singapore, cosa che non ci perdonarono]. Per una giovane potenza navale, questo fu un
successo; inoltre, l’elevata percentuale di uomini e mezzi che gli italiani
trasportarono in Africa comprova che tanto le recriminazioni dei tedeschi che
le asserzioni di superiorità morale dei britannici erano prive di fondamento”[45].
In ogni caso,
conclude il Nostro, “l’Italia fu l’attore principale dell’Asse nel Mediterraneo
e furono la Marina e l’Areonautica italiane – con il saltuario aiuto
dell’alleato tedesco – a bloccare la Ma rina e l’Areonautica britanniche per la
maggior parte dei 39 mesi della belligeranza italiana […] Tutte le marine
fecero errori e in tutte le marine esistevano catene burocratiche; ma accusare
di codardia Iachino perché non si inoltrò in una cortina fumogena e in pari
tempo elogiare la decisione di Cunningham di eludere le cortine di nebbia
italiane in quanto gesto suggerito dalla prudenza, significa utilizzare un pernicioso
duplice criterio di valutazione […] Se si deve riconoscere il valore dei pochi
convogli che riuscirono a raggiungere Malta, tanto di più va riconosciuto ai
numerosi che tennero in vita lo sforzo bellico dell’Asse in Africa sfidando
ripetutamente gli attacchi di velivoli, sommergibili e unità di
superficie. Benché il destino della
Marina italiana fosse segnato dalla propria debolezza tecnica e da Ultra, essa
combatté nondimeno una guerra tenace e cavalleresca; e se la Marina non vinse
la sua guerra, essa scongiurò la sconfitta per trentanove lunghi e frustranti
mesi”[46].
Paolo
Pasqualucci, mercoledì 19 aprile 2017
[Fonte: iterpaolopasqualucci.blogspot.ie]
[1]
Sulla quasi scomparsa e comunque sulla decadenza dello spirito militare in
Occidente e in Italia, vedi: Carlo Jean,
Strategia e storia militare, in ‘Nuova Storia Contemporanea’, VI,
1/2002, pp. 15-29, che si sofferma sulle carenze culturali contribuenti al
fenomeno, in primo luogo l’ignoranza della storia militare (“in Italia
essenzialmente amatoriale”), poco curata anche nelle Accademie militari, da
coniugarsi ad una scelta ideologica più o meno obbligata, quella della
“denazionalizzazione in senso ecumenico, universalistico” della professione
militare (e a ben vedere di tutte le istituzioni). Ricordo che la Costituzione
della nostra Repubblica all’art. 11 ci probisce in pratica di fare la guerra,
anche solo per difenderci (in modo simile a quella giapponese). Per una prospettiva più ampia: Bernard Wicht,
L’esprit militaire, dans un climat de transformation postnationale et
de vague de fond nihiliste, con la breve eccellente premessa di Bernard
Dumont, in ‘Catholica’, 2006, n. 92, pp. 22-35. L’Autore collega la crisi dello
spirito militare alle trasformazioni tutt’altro che ottimali provocate nel
“mestiere delle armi” dall’attuale crisi dello Stato nazionale sovrano e dalla
trasmutazione dei valori occorsa nelle nostre società, dalla loro radicale Umwertung. Di questa trasmutazione segno macroscopico è
la “femminilizzazione” radicale degli eserciti occidentali, cosa del tutto
negativa per l’addestramento e il morale, e che non favorisce di certo lo
spirito militare (vedi il noto saggio di Martin Van Creveld, Le donne e la
guerra. Ieri, oggi, domani, tr. it. di R. Macuz Varrocchi, Libreria
Editrice Goriziana, 2007).
[2]
“Qui [in Italia] è virtù grande nelle membra, quando non la mancassi
ne’capi. Specchiatevi ne’duelli e
ne’congressi [combattimenti] de’ pochi, quanto li Italiani sieno superiori con
le forze, con la destrezza, con lo ingegno.
Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono. E tutto procede dalla debolezza de’ capi;
perché quelli che sanno non sono obbediti, et a ciascuno pare di sapere, non ci
sendo fino a qui alcuno che si sia saputo rilevare [imporre], e per virtù e per
fortuna, che li altri cedino…”(N. Machiavelli, Il Principe, introduz. e
note di F. Chabod. Nuova ediz. con aggiornamenti bibliogr. a cura di L. Firpo,
Einaudi, Torino, 1972, p. 127 (cap. XXVI).
Forse non c’era tutta questa “virtù grande nelle membra”, tuttavia il
celebre rilievo di Machiavelli non appare privo di fondamento: la nostra disgraziata
storia frammentata e particolaristica, dalle Guerre Gotiche in poi, ha impedito
il formarsi di classi dirigenti capaci di pensare in grande, per così dire, nonostante
le notevoli qualità che pur hanno dimostrato di avere, in certi periodi. Penso per esempio a Genova e Venezia: nel
Medio Evo avevano le migliori flotte da guerra del Mediterraneo, e avrebbero
potuto dominarlo completamente se, invece di combattersi sempre ciecamente, si
fossero messe d’accordo, spartendosi le zone di influenza commerciale e
mettendo in piedi un’alleanza navale stabile.
[3] A
questo proposito si cita sempre la testimonianza di Piero Calamandrei, insigne
giurista e antifascista intransigente dopo il 25 luglio, il quale scrisse nel
suo diario, il 10 settembre: “rimango
sorpreso di sentire come è potente anche nella gente umile la vergogna
dell’armistizio” (Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio
italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna, 2003,
nuova ediz. ampliata, p. 135). Per il
vasto sentimento popolare di condanna del Diktat che era in realtà il Trattato
di Pace, vedi: Sara Lorenzini, L’Italia
e il trattato di pace del 1947, il Mulino, Bologna, 2007, cap. III: L’opinione
pubblica e lo shock del trattato di pace, pp. 99-129.
[4]
James J. Sadkovich, La Marina
italiana nella seconda guerra mondiale, Universale Economica Feltrinelli/Storia,
Milano, 2014, pp. 536, tr. it. di Mauro Pascolat, revisione di Augusto de
Toro. Per la prima edizione
italiana: ID., La Marina italiana
nella seconda guerra mondiale, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2006,
pp. 536, traduz. e revis. dei medesimi.
Per l’originale: James J.
Sadkovich, The Italian Navy in World War II, Greenwood Press, Westport,
1994. Mi sono servito dell’edizione
goriziana.
[5]
Hitler era stato molto sleale con l’Italia.
Il c.d. “Patto d’acciaio” stipulato il 22 maggio 1939 era un’alleanza
difensiva, che prevedeva l’entrata in guerra automatica di uno dei due
contraenti se l’altro fosse stato aggredito.
Nel protocollo segreto del patto, gli italiani avevano detto chiaramente
che non sarebbero stati pronti prima del 1943 ad una eventuale guerra in
Europa: le loro forze armate abbisognavano di un’ampia riorganizzazione. Hitler a sorpresa il 22 agosto firmò un patto
di non-aggressione con l’Unione Sovietica e dieci giorni dopo attaccò la
Polonia, dopo aver simulato di esser stato aggredito dai polacchi. I tedeschi pretendevano che l’Italia entrasse
in guerra immediatamente al loro fianco. Fece bene Mussolini a chiamarsi fuori
e magari avesse continuato, qualsiasi cosa avesse fatto Hitler. Ma sapevano, i
tedeschi, che l’Italia non era pronta e che la sua struttura industriale era
troppo debole, per sostenere una guerra europea. Perché allora si lamentavano di continuo
dell’arretratezza industriale e militare del nostro Paese, impari ad uno sforzo
bellico di quella portata? Chi l’aveva
provocata, la guerra?
[6] Con l’eccezione di qualche isolato giudizio più
obiettivo. Un riconoscimento del valore
e dello spirito di sacrificio dei nostri equipaggi, ben consapevoli di esser
costretti a battersi in condizioni di costante e crescente inferiorità
materiale, si trova nell’opera del comandante spagnolo Luis de la Sierra, La
guerra navale nel Mediterraneo (1940-1943), 1976, Mursia, Milano, 1987, tr.
it. di Alfredo Brauzzi, p. 126, p. 431.
Nella Prefazione, il prof. Sadkovich, appassionato da sempre di
storia militare, rivela tutto il fastidio che ad un certo punto gli procurava
la rappresentazione manichea del nemico, in particolare degli italiani, per di
più dileggiati in modo impressionante, anche da storici autorevoli come
l’americano Samuel E. Morison, che definì la Regia Marina addirittura una “Dago
Navy”, la “Marina degli accoltellatori”
cioè dei mafiosi, per gli inglesi solo oggetto di riso (Dago, termine
spregiativo per persona di origine italiana, da Dagger, pugnale e quindi
coltello, serramanico).
Questa l’immagine (tuttora) prevalente:
“Gli untuosi ‘spaghetti’, alla mercé di Mussolini, quel buffone
magniloquente, campione del bluff e della rodomontata, non facevano che qualche
sporadica comparsa [nelle autorevoli storie della II g.m.], quando gettavano le
armi e si lasciavano docilmente condurre in un campo di prigionia, oppure
quando si facevano affondare le navi da marinai britannici superiori e si
facevano abbattere gli aerei da piloti britannici superiori”(op. cit., pp.
17-18). Gli storici autorevoli in
questione tra l’altro ignorano in genere la nostra lingua e documentazione, ben
possedute invece dal prof. Sadkovic, come si evince dalla bibliografia e
dall’uso che ne fa.
[7]
Sadkovich, op. cit., pp. 108-113; pp. 237-248; passim.
[8]
Op. cit., pp. 245-246. Le corazzate e le
portaerei tornavano alla base (a Gibilterra) all’imbocco del Canale di Sicilia,
con la loro scorta mentre il convoglio proseguiva con quella sua propria,
entrando il più velocemente possibile sotto l’ombrello protettivo della RAF dislocata
a Malta.
[9]
Op. cit., pp. 248-249.
[10]
Op. cit., p. 249.
[11]
Sadkovich, op. cit., Prefazione, pp. 22-23. Corsivi miei.
[12]
Anche nei primi mesi del 1943, sulla “rotta della morte” con la Tunisia,
dominata in modo implacabile dall’aviazione angloamericana, “nonostante la
grave inferiorità materiale, i mesi di frustrazione e l’inevitabilità della
sconfitta, agli equipaggi italiani non venne meno lo spirito combattivo”(Sadkovich,
op. cit., p. 465 ss., con la descrizione di alcuni combattimenti di
torpediniere e siluranti italiani di quel periodo). Durante tutta la guerra,
numerose furono le volte nelle quali il naviglio sottile italiano si lanciò
all’attacco contro forze nemiche anche di molto superiori per proteggere un
convoglio o un porto attaccati. Molto
rari furono gli episodi di panico tra gli equipaggi dei mercantili silurati (in
genere di notte) mentre andavano a fondo (Sadkovich, op. cit, p. 370).
[13] Faccio un esempio: la loro ricognizione aerea era dotata di
velivoli più potenti (come l’idrovolante Sunderland) e meglio organizzata
della nostra. Infatti, avevano
sviluppato in tempo di pace quella proficua collaborazione aeronavale tra
aviazione e marina che noi non eravamo riusciti a mettere in piedi allo stesso
modo. E questa è la migliore organizzazione. La differenza divenne incolmabile quando gli
americani cominciarono (abbastanza presto) a fornirgli i famosi Maryland
Catalina, poderosi idrovolanti a lunga autonomia, praticamente insuperabili
in quel compito. Il prof. Sadkovich,
tuttavia, documenta che la ricognizione aerea veniva usata anche per “coprire”
il fatto che un convoglio o una determinata nave erano già stati segnalati da
Ultra.
[14]
Sadkovich, op. cit., pp. 303-304.
[15]
Vince O’Hara, Azioni notturne di superficie, nel blog: www.regiamarina.net, 2017, di pp. 4. Il concetto è che agli italiani non mancò il
coraggio bensì un addestramento e una tattica adeguati. Circa la famosa
dispersione delle salve delle nostre artiglierie navali, imputata alle
deficienze della nostra industria, il prof. Santoni ha dimostrato che
l’industria non c’entra. La colpa era
della dottrina d’impiego: per realizzare il massimo di sicurezza, si volevano
artiglierie che consentissero di sparare
mantenendosi sempre a una grande distanza, ragion per cui i cannoni nostri
erano più lunghi del solito, cosa che provocava vibrazioni eccessive nel
proiettile in partenza, le quali erano all’origine della dispersione finale
della salva, dovuta anche al fatto che le cariche troppo potenti, richieste da
tale tipo di impiego, logoravano prima del previsto l’anima del cannone. Diverse volte unità inglesi, centrate dalle
nostre salve, ne uscirono inaspettatamente indenni (Alberto Santoni, Da
Lissa alle Falkland. Storia e politica navale dell’età contemporanea,
Mursia, Milano, 1987, pp. 166-167). E
che dire del fatto che non c’erano comunicazioni radio dirette tra navi ed
aerei, per cui “le segnalazione degli aerei dovevano passare attraverso vari
livelli di comando prima di raggiungere il comandante in mare, pregiudicando
notevolmente la tempestività delle decisioni” (Giorgio Giorgerini, La guerra
italiana sul mare. La marina tra vittoria e sconfitta. 1940-1943,
Mondadori, Milano, 2001, p. 318). Solo
dopo due anni di guerra cominciarono a realizzarsi queste comunicazioni radio
dirette. Ma dobbiamo credere che la
nostra industria non sarebbe stata capace di produrre le necessarie
apparecchiature radio prima della guerra?
[16] Alberto Santoni, Il vero traditore. Il ruodo documentato di ULTRA nella guerra
del Mediterraneo, Mursia, Milano, 1981, pp. 378. Il libro porta numerose fotocopie in
appendice che mostrano i messaggi di Ultra “most secret” indirizzati ai
comandi, con le decrittazioni in chiaro concernenti i dati dei nostri convogli
mediterranei. Ma Ultra informava anche
sui numerosi piccoli convogli lungo la costa libica, su navi isolate, navi in
porto, per esempio a Tripoli o a Bengasi (che venivano così attaccate
dall’aria).
[17] Op. cit., vedi i primi due capitoli: Gli speciali sistemi informativi e L’ULTRA
entra nel Mediterraneo, pp. 9-105. I
codici italiani si basavano sul sistema crittografico tedesco ENIGMA, che i
tedeschi ritenevano impossibile a penetrarsi, sbagliandosi grandemente. Gli italiani sembra fossero scettici in
proposito ma non potevano rifiutarlo per non irritare il prepotente Alleato.
Una timidezza pagata cara. Gli inglesi
possedevano il meglio della tecnologia nel settore delle decrittazioni, un
enorme calcolatore elettromeccanico, chiamato in gergo Colossus,
precursore dei posteriori cervelli elettronici (op. cit., ivi).
[18] Santoni, op. cit., pp. 71-88. Le navi italiane furono scorte dagli inglesi
con i loro binocoli notturni, però dopo esser state già localizzate dai loro radar, circostanza
taciuta dall’ammiraglio Cunningham nelle sue memorie (cfr. Luis de la Sierra,
op. cit., pp. 225-228).
[19]
Santoni, op. cit., pp. 48-49.
[20]
Su questa vicenda, provocata, pare, da una rete spionistica che faceva capo
alla Resistenza francese e sulla controversa figura dell’ammiraglio Franco
Maugeri, capo del Servizio Informazioni della Regia Marina dal 21 maggio 1941
all’8 settembre 1943, attivo nelle trattative segrete che portarono poi alla
consegna armistiziale della flotta a Malta, per le quali fu anche decorato
dagli americani, consegna voluta soprattutto (si è sempre detto) dagli inglesi;
nel dopoguerra oggetto, il Maugeri, di violenti attacchi da parte della
pubblicistica di destra a causa di un suo incauto libro di memorie, poi subito
ritirato, vedi: Carlo de Risio, I (troppi) misteri della guerra navale. Spionaggio, tradimenti e le perdite della
flotta italiana, in : ‘Nuova Storia Contemporanea’, 6/2011, pp.
145-152). Vedi anche: Santoni, Da Lissa alle Falklands,
cit., pp. 194-205, sulle manovre sotterranee e più o meno personali di
esponenti italiani di alto livello per una “resa anticipata e un accordo navale
con gli inglesi”. A proposito di spionaggio a favore del nemico, per
obiettività va ricordato che:
l’ammiraglio Canaris, capo del controspionaggio tedesco, fu impiccato
dai nazisti perché scoperto essere al servizio degli inglesi; che
l’organizzazione “Orchestra Rossa”, collegata ad elementi del quartier generale
tedesco, fornì preziose informazioni a Stalin, facendo fallire l’ultima
poderosa offensiva tedesca, nell’estate del ’43; che un generale tedesco
prigioniero spiegò spontaneamente agli americani il sistema difensivo sul Reno,
nel 1945; che i gruppetti di agenti sabotatori inviati dalla R.S.I. al Sud
furono quasi tutti catturati subito (e molti di loro subito fucilati) perché
gli americani erano già perfettamente informati sul loro arrivo da una fonte
situata nel cuore del controspionaggio tedesco a Berlino (Giuseppe Parlato, Fascisti
senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1945, il
Mulino, 2006, pp. 73-74); che la preziosa conferma della rinuncia definitiva
del temuto assalto italo-tedesco a Malta, gli inglesi l’ebbero “da una fonte
vicina al Comando germanico”(Sadkovich, op. cit., p. 327).
[21]
Alberto Leoni, Il paradiso devastato.
Storia militare della Campagna d’Italia 1943-1945, il
paragrafo: La strana resa di
Pantelleria, pp. 51-53.
[22]
Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del
settembre 1943 e le sue conseguenze, il Mulino, Bologna, 20032,
p. 40. Nell’estate del ’42 le cose
stavano andando ancora bene per l’Asse, ma dal dicembre del ’41 erano entrati
in guerra gli Stati Uniti. Sul punto, vedi:
Yves Durand, Il nuovo ordine europeo. La collaborazione nell’Europa
tedesca (1938-1945), 1990, tr. it. di Alessandro Romanello, il Mulino, Bologna,
2002, pp. 192-211. I finlandesi, ad esempio, ebbero un primo contatto segreto
con i russi all’inizio del 1942 a Stoccolma, il 4 settembre 1944 fecero
l’armistizio con l’URSS e il 15 dichiararono guerra alla Germania, attaccando
le truppe tedesche. Il 9 settembre 1943 ungheresi e inglesi firmarono un
accordo segreto a Istanbul, rimasto senza effetto, come il posteriore
armistizio ottenuto dal reggente Horthy con i russi nel 1944, a causa della
reazione tedesca. La Romania, con poche truppe tedesche in casa, defezionò il
23 agosto 1944 ed ottenne l’armistizio il 12 settembre successivo, dichiarando
poi guerra alla Germania (anche se, alla fine, venne considerata “nemico
cobelligerante” e non alleato, esattamente come accadde all’Italia). Del resto, si è saputo solo diversi anni fa
che, dopo la pur vittoriosa Battaglia di Stalingrado, Stalin, spaventato dalle
enormi perdite subite, aveva fatto intraprendere contatti segreti con i
tedeschi per una possibile pace separata, finiti nel nulla per l’intransigenza
di Hitler.
[23] Sulle precise responsabilità per il disastro di
Matapan, che non possono esser cancellate dalla pre-cognizione dell’avversario
grazie ad Ultra o dal suo possesso del radar e delle portaerei, vedi: Giorgio Giorgerini, op. cit., cap. IX: L’assurda notte di Matapan, pp.
270-322. Le tre corazzate inglesi presenti
e non viste aprirono di colpo il fuoco, con i loro cannoni da 381 mm., dalla
distanza di appena 3500 metri circa, trasformando rapidamente in torce due
nostri incrociatori e due dei quattro nostri caccia, uno dei quali fece a tempo
a sparare qualche colpo e a lanciare qualche siluro, senza esito, mentre
l’altro tentò inutilmente di far fumo.
Gli altri due riuscirono a sganciarsi.
Poco dopo gli inglesi scoprirono fermo e al buio il Pola, che fu
fatto evacuare e affondato col siluro.
La notevole vittoria di Capo Matapan non fu del tutto indolore per i
britannici: sulla via del ritorno
dall’impresa, l’incrociatore leggero Bonaventure fu silurato e affondato
dal sommergibile Ambra, comandato
dal tenente di vascello Mario Arillo, uno dei nostri più audaci capitani. Il disastro di Matapan non incise sulla
guerra dei convogli ma fu sicuramente uno shock per i nostri comandi, che
divennero ancor più cauti per ciò che riguarda l’impiego della flotta da
combattimento (corazzate e incrociatori pesanti). La cautela sembrò ad un certo punto eccessiva
e provocò anche malumori e proteste da parte degli equipaggi.
[24] A
titolo esemplificativo, vedi: Richard
Hough, The Longest Battle. The War at
Sea 1939-1945 (1986), Cassell Military Paperbacks, 2003, cap. 10: The Long Struggle for the Midland Sea,
pp. 204-236. Egli menziona Ultra, senza
analizzarne l’influenza sulle vicende mediterranee, pur avendo l’onestà di
ammettere che “la recente pubblicazione (1979-1984) della storia ufficiale
della British Intelligence in the Second World War, del prof. F. H.
Hinsley, ha rivelato per la prima volta l’immenso contributo apportato al
risultato della II g. m. dai decifratori dei codici nemici, cosa che richiede
una nuova valutazione sia delle campagne che delle singole battaglie” (op.
cit., p. 50).
[25]
Luis de La Sierra, La guerra navale nel Mediterraneo, cit., p. 281.
[26]
Sadkovich, op. cit., pp. 136-138, per i dettagli. “Gli italiani, che non abboccarono, non
possono esser biasimati per aver adottato la stessa strategia di Cunningham,
che cercò di non abboccare all’esca degli italiani [si trattava di attirare la
flotta da battaglia nemica in qualche trappola, usando un convoglio come
esca]. Così, se Cavagnari [temporaneo
Comandante in Capo della Regia Marina] non riuscì a cacciare i britannici dal
Mediterraneo, Cunningham non riuscì a cacciare gli italiani dal mare – cosa
che, secondo Churchill, egli avrebbe dovuto fare per salvaguardare [disse] ‘la
reputazione della Royal Navy’” (op. cit., p. 138). Inoltre, “in giugno [del 1941] Churchill era
furente per le scialbe prestazioni della sua Marina, che nel corso del primo
anno di guerra aveva affondato appena 12 dei 334 mercantili impiegati dagli
italiani. Laddove, nelle sue memorie,
Cunningham cerca di imputare la causa di tale scarso rendimento alla mancanza
di ricognizione aerea, egli non fa che fornire un quadro distorto della realtà:
se sul finire dell’anno l’impegno dei britannici contro il traffico marittimo
dell’Asse diede esiti migliori, ciò fu da ascrivere all’incremento
dell’attività di intelligence di Ultra dopo il giugno 1941, non certo a una
maggiore efficacia della ricognizione aerea”(p. 209). Gli italiani si accorsero ad un certo punto
che gli inglesi conoscevano anche i nomi della navi da attaccare e sospettavano
di spionaggio i pescherecci dei pescatori arabi locali mentre i tedeschi
sospettavano gli italiani stessi, sbagliandosi entrambi clamorosamente (op.
cit., ivi).
[27]
Giorgio Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico. La marina militare italiana dal Fascismo alla
Repubblica, 1989, ristampa Oscar Mondadori, 2003, p. 78. Il libro dell’autorevole storico navale
contiene una vasta ed accurata analisi delle scelte e delle non-scelte della Regia
Marina e della sua preparazione alla II g.m., dal cap. II al cap. IV, pp.
82-466.
[28]
Sadkovich, op. cit., p. 157.
[29]
Giorgerini, La guerra italiana sul mare, cit., pp. 436-439, e in
particolare p. 438. In questo suo fondamentale
studio, successivo all’opera del prof. Sadkovich, abbiamo un’indagine
complessiva molto precisa della “guerra dei convogli”, suddivisa dall’Autore in
cinque periodi per quanto riguarda i convogli libici (giugno 1940-22 gennaio
1943, caduta di Tripoli), seguiti dal sesto, quello più drammatico, della
“rotta della morte” per la Tunisia (11 novembre 1942, primo convoglio per
Biserta-13 maggio 1943, resa dell’armata italiana): op. cit.: capp. XIII-XXI, pp. 417-562. I dati dei convogli li ho tratti da questo
libro oltre che dall’opera del prof. Sadkovich.
[30]
Giorgerini, La guerra italiana sul mare, p. 464.
[31]
Op. cit., p. 466.
[32]
Sadkovich, op. cit., p. 301.
[33]
Giorgerini, op. cit., p. 480.
[34]
Per esempio, l’1 dicembre 1941 giunsero a Bengasi la motonave Veliero,
con la sola protezione del cacciatorpediniere Da Verrazzano, dopo esser
sopravvissuti ad un attacco aereo e aver eluso la Forza K, scaricando 14 carri
armati M 13/40, 190 autoveicoli, 591 tonnellate di munizioni, 1.968 tn di materiali
vari, “un apporto cruciale per le forze dell’Asse durante le battaglie di Crusader”(Sadkovich,
op. cit., p. 301; pp. 290 ss. per
ulteriori dettagli sugli arrivi in Africa nel periodo considerato). Per i rifornimenti un grosso problema era
rappresentato dalle scarse capacità dei porti libici, che abbisognavano di
estesi lavori di ampliamento, potuti fare dagli italiani solo in parte, tant’è
vero che a volte le navi ripartivano senza aver scaricato tutto. Anche per
questo era necessario occupare Malta od ottenere dai francesi di Vichy l’uso
della grande base di Biserta, dalla quale far proseguire il materiale in treno
per la Libia. Ma, nonostante le ripetute
richieste dei comandi italiani, Hitler non volle mai premere in questo senso
sui riluttanti francesi. La cosa è
sottolineata più volte dal prof. Sadkovich, a riprova della cecità di Hitler,
costretto poi ad occupare (inutilmente) tutta la Tunisia, mandandovi notevoli
forze tedesche, dopo la sconfitta di El Alamein e lo sbarco americano in
Algeria.
[35]
Carlo De Risio, Le tre guerre del Mediterraneo. Verità e leggenda sul secondo conflitto
mondiale, in ‘Nuova Storia Contemporanea’, n. 3/2010, pp. 115-122; p. 121.
[36]
Su questa famosa sconfitta, citata più di quella del convoglio Tarigo
quale simbolo del supposto continuo predominio inglese nel Mediterraneo, vedi:
Santoni, Il vero traditore, cit., pp. 116-120; Giorgerini, La guerra
italiana sul mare, cit., pp. 483-489;
Sadkovich, op. cit., p. 292-294.
Secondo Santoni, il convoglio non fu segnalato da Ultra ma scorto dal
consueto ricognitore Maryland.
Secondo il prof. Sadkovich fu invece segnalato e il ricognitore servì da
copertura. Quando la Forza K cominciò a
sparare, gli incrociatori pesanti italiani si trovavano dall’altra parte del
convoglio a quasi venti km di distanza dalle navi nemiche. Resta però il fatto che il tempo impiegato
dagli incrociatori per mettersi in grado di aprire a loro volta il fuoco fu
troppo lungo, la loro azione risultò impacciata. Nei loro resoconti la marina
tedesca e quella britannica criticarono aspramente (e non a torto) la nostra
Marina. La commissione d’inchiesta
stabilita ad hoc scagionò tuttavia il comandante della divisione di
incrociatori da ogni addebito. A mio
modesto avviso, la causa del disastro era sempre la stessa: il mancato addestramento al combattimento
notturno, una carenza a ben vedere inconcepibile.
[37]
Sadkovich, op. cit., pp. 297-299.
[38]
Op. cit., p. 369.
[39]
Li ricorda nome per nome ancor oggi una The Neptune Association; vedi: www.hmsneptune.com/history. Il fortunato superstite fu il marinaio
scelto Norman Walton.
[40]
Sadkovich, op. cit., p. 315.
[41]
Op. cit., pp. 481-506. Il testo riporta
parecchie tabelle di dati e cifre.
[42]
Op. cit., pp. 481-482. Le battaglie di
Mezzo Giugno e Mezzo Agosto 1942 videro la pesante decimazione di due grandi
convogli organizzati dagli inglesi per rifornire Malta, ad opera della marina e
dell’aviazione dell’Asse, protagoniste di reiterati attacchi combinati. Nella
seconda battaglia, apparve per la prima volta un radar su una nave italiana:
sul cacciatorpediniere Legionario, della scorta alla corazzata Littorio. A partire da giugno, Malta aveva ricominciato
a pungere con i sottomarini, sia pure non come prima, mentre erano entrati in
azione gli aerosiluranti inglesi a lunga autonomia, basati in Marmarica
(Cirenaica-Egitto). Si è sempre sostenuto che l’operazione Pedestal,
dell’agosto ‘42, nonostante le gravi perdite, riuscì a far arrivare a Malta
rifornimenti decisivi per la sua sopravvivenza e utili anche a rinnovarne l’azione
di disturbo. In realtà, secondo l’Autore, la sopravvivenza di Malta fu
garantita dalle 35.000 tn di materiali che in novembre, dopo El Alamein,
giunsero da Alessandria e dalle 175.000 che essa ricevette tra il dicembre 1942
e il gennaio 1943, quando la guerra aveva subito la svolta decisiva (op. cit.,
pp. 429-430).
[43]
Op. cit., p. 490.
[44]
Per i dati citati: Sadkovich, op. cit.,
pp. 482-483. Vedi anche: Giorgerini, Da Matapan al Golfo Persico, cit.,
p. 499. I tedeschi fecero molto meglio di noi: rispettivamente 203 e 294 navi
(secondo le analisi di Santoni e Mattesini).
I dati in questa materia variano sempre, secondo le fonti. La Royal
Navy perdette in totale nel Mediterraneo 238 navi da guerra di tutti i tipi
(secondo i dati del prof. Sandkovich).
[45]
Op. cit., p. 498. Successo,
nonostante la spina nel fianco rappresentata da Malta, sulla quale l’Autore fa
queste considerazioni finali: “Nel 1942
l’isola impegnava una flotta aerea germanica e cinque stormi italiani; nel
corso del conflitto, Malta costò un migliaio di velivoli ai due
contendenti. Se quello stesso anno, i
tedeschi non avessero impedito l’invasione dell’isola [autorizzando invece
Rommel a lanciarsi sconsideratamente sulla via di Alessandria], gli italiani
avrebbero potuto tenere in vita molto più a lungo le loro linee di rifornimento
da e per l’Africa, e probabilmente gli Alleati non sarebbero riusciti, un anno
più tardi, a invadere la Sicilia” (op. cit., p. 499).
[46]
Op. cit., pp. 503-504.