martedì 28 febbraio 2017

Sulla filosofia cristiana della storia [II]

   Sulla filosofia cristiana della storia  [II]

Tra coloro che hanno difeso la concezione cristiana della storia si è distinto Jacques Maritain, tra i più famosi filosofi cattolici del secolo scorso. Mi riferisco alle sue lezioni americane sul tema della filosofia della storia, tenute nell’Università cattolica di Notre Dame nel 1955 e ristampate ampliate nel volumetto intitolato appunto On the Philosophy of History , Scribner’s, New York, 1957.  Nell’ultimo capitolo del libro, la concezione cristiana della storia vi appare, anche se non sembra occupare il posto predominante.  Sembra che l’autore cerchi di accordarla con l’ideologia americana del progresso nella democrazia, destino e missione che la nazione americana notoriamente ascrive a se stessa.  Erano anche i tempi del confronto frontale, duro con l’universo comunista, portatore di un opposto determinismo storico, di una filosofia della storia che voleva vedere nell’instaurazione di una società comunista il destino inevitabile di tutto il mondo.
Un secolo prima, con ben altri accenti, l’Abate dell’Abbazia di Solesmes, Dom Guéranger, importante figura del cattolicesimo francese dell’Ottocento, restauratore dell’Ordine Benedettino e promotore del risveglio liturgico di quel periodo, era intervenuto sulla questione del senso cristiano della storia in uno scritto fortemente polemico.  Ripubblicato nel 1945, il breve scritto è stato tradotto in italiano qualche anno fa dall’editore Solfanelli di Chieti.  Gli scritti di questi due autori, pur così diversi, meritano un discorso a parte.  Per motivi diversi essi fanno comprendere, a mio avviso, perché la concezione autenticamente cristiana della storia resti ai margini del discorso culturale corrente ed anzi vi brilli per la sua assenza.  Dom Guéranger, pur rivendicando validamente le esigenze della concezione cristiana della storia, quella di sant’Agostino e di Bossuet, rifiutava il confronto con le critiche ad essa apportate dalla modernità trionfante, respingendole in blocco come pregiudizi liberali da non prendere in considerazione.  Questa è, almeno, l’impressione che egli dà.  Maritain, dal canto suo, sembrava inteso a cercare un compromesso con la filosofia della storia profana, quella che per l’appunto vedeva nella storia un progresso inevitabile nella e verso la democrazia di tipo anglosassone.  
Prima di soffermarmi su di loro, voglio però ricordare come e qualmente l’autentica visione cristiana della storia sia scomparsa dall’orizzonte culturale della Chiesa cattolica, in modo evidente a partire dal Concilio Ecumenico (pastorale) Vaticano II.  È stata sostituita da una utopia di tipo pacifista-umanitario, volta all’unità del genere umano, con tutti i suoi culti, da realizzarsi nel “dialogo” interconfessionale ed interreligioso, neanche la Chiesa fosse diventata una sorta di Loggia dell’Umanità.


1. Dal Concilio in poi, la Chiesa ha adottato la filosofia della storia profana

Quale sorpresa vedere, dunque, affermarsi nel Cattolicesimo una filosofia del progresso per la realizzazione della dignità e dei diritti dell’uomo, sorta di edizione tascabile delle filosofie della storia di un Kant e soprattutto di un Condorcet, adattate al sociologismo e allo scientismo dominanti. Nel suo zelo di aggiornamento, il Vaticano II non esitò a conferire alla Chiesa come còmpito essenziale addirittura quello di rinnovare i valori della laicità, tra i quali eminenti i sopraricordati, sul labile presupposto di una loro “divina sorgente” che andrebbe restaurata ad opera dei cattolici.  Così si esprime l’art. 11 della costituzione conciliare Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.  “Il popolo di Dio”, scrive, deve cercare di comprendere “quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio negli avvenimenti”.  In questa prospettiva, “il Concilio si propone innanzitutto di esprimere un giudizio su quei valori che oggi sono più stimati e di ricondurli alla loro divina sorgente”.  Questi valori “sono in sé ottimi, ma per effetto della corruzione del cuore umano non raramente vengono distorti dall’ordine richiesto, per cui hanno bisogno di essere purificati”. 
In altre parole:  il senso della storia andava reinterpretato mediante la “purificazione” dei valori a fondamento della visione profana della storia.  Prospettiva sicuramente insolita ed inquietante, per la Chiesa cattolica.  Si apriva così la via ad una reinterpretazione tradottasi poi inevitabilmente nella semplice adozione delle stantìe categorie del progresso (verso la “libertà umana e cristiana”), della democrazia e dei diritti dell’uomo, quali chiavi di lettura del corso della storia.  Ma il tal modo, grazie anche all’idea di cultura professata oggi dalla Chiesa ufficiale (Gaudium et Spes, art. 57 ss.), la filosofia della storia della profana laicità si è sostituita alla vera concezione cristiana della storia, che ha il suo modello originario nello schema delineato da sant’Agostino nella Civitas Dei.
Questo  s c h e m a  è ovviamente assai diverso dalla concezione della storia cui siamo abituati, quella delle tre epoche dello sviluppo del genere umano (Antichità, Medio Evo, Età moderna e contemporanea), dove l’ultima epoca sarebbe quella di un progresso continuo dell’umanità, grazie alla scienza e alla libertà garantita dalla democrazia, possibilmente ugualitaria, libertaria, edonistica, di massa e planetaria.  Non tanto la tripartizione quanto il modo prevalente di intenderne l’ultima epoca, la nostra, mostra la componente utopistica per non dire mitica prevalente in questa concezione:  analisi storiche anche puntuali sono intrecciate all’atto di fede, che alla fine prende il sopravvento nella forma di una irrazionale e infantile credenza in un progresso illimitato del genere umano verso l’uguaglianza, la libertà, la felicità, verso un mondo tutto spontaneità e concordia, nel quale non vi saranno vincoli di alcun tipo, una volta eliminata (si capisce) l’influenza nefasta dei cattivi, dei “nemici del progresso”, con le buone e magari anche con le cattive. 

2.  L’esempio nefasto dell’utopismo marxiano.  
La combinazione più famosa di realismo nell’analisi storico-economica e di sfrenata ed irrazionale utopia si ha notoriamente nel marxismo, con l’ideale della società senza classi quale ultimo risultato del divenire storico, una volta compiuta la rivoluzione proletaria:  la società senza classi sarebbe nata dalla appropriazione violenta dei mezzi di produzione ad opera del proletariato guidato dal partito dei rivoluzionari di professione, che avrebbe instaurato la “dittatura del proletariato”, unico modo di organizzare la produzione in modo perfetto per tutti ossia secondo le necessità e i bisogni di tutti e non secondo le esigenze della classe borghese, detentrice del capitale. 
Su come sarebbe stata questa “società senza classi”, perfettamente ugualitaria anche sul piano dei costumi poiché il matrimonio borghese con le sue disuguaglianze tra l’uomo e la donna sarebbe stato abolito, Marx e Engels non avevano però saputo dire altro che questo:  “Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e le sue contraddizioni di classe, subentra un associarsi [eine Assoziation] nel quale il libero sviluppo di ognuno è condizione del libero sviluppo di tutti”[1].   Un concetto talmente generico da apparire del tutto indeterminato, nel quale traspare l’altro mito fondante del marxismo, l’abolizione della divisione del lavoro. Nell’utopia democratica tenebrosa che domina nelle nostre attuali società, messa da parte l’idea sgradevole e scomoda della rivoluzione violenta, questo mito tuttavia  permane e ben ramificato.  Non si sente ripetere spesso, e da vari punti di vista, il ritornello del “libero sviluppo” di ognuno quale manifestazione del “diritto umano” di ciascuno (certo, non un concetto marxiano, questo) e “condizione del libero sviluppo” di tutti, unica maniera di raggiungere il traguardo di una grandiosa armonia, fisica, spirituale, individuale e sociale?
Nessuno è comunque riuscito a riempire l’indeterminato contenuto dell’utopia del comunismo cosiddetto “scientifico”, nemmeno i due padri fondatori, che così delinearono la società senza classi ne L’Ideologia tedesca, opera quasi coeva al Manifesto.  Dopo aver precisato che nella società classista la divisione del lavoro fa sì che ognuno svolga un còmpito determinato, se vuole vivere, “cacciatore, pescatore, pastore o critico critico [allusione ironica agli intellettuali avversi di Marx]”, affermano che in quella comunista del futuro, invece, “nella quale ogni individuo non è limitato ad un esclusivo àmbito di attività ma può coltivarsi in ogni àmbito a sua scelta, la società regola la produzione generale rendendomi così possibile essere oggi questo e domani quello, al mattino andare a caccia, il pomeriggio pescare, a sera accudire al bestiame, dopo cena dedicarmi alla critica, insomma [vivere] come mi aggrada, senza dover affatto diventare cacciatore, pescatore, pastore, o critico”[2].
Quest’immagine, in passato molto citata, della futura società comunista, che avrebbe realizzato il vero socialismo, può ovviamente esser stata intesa dai due padri fondatori come una semplice metafora.  Ma ciò che essa esprime resta comunque nell’indeterminato dell’utopia poiché rivela la convinzione che sia possibile, una volta instaurato il comunismo, superare la divisione del lavoro (cosa ben più radicale dell’umanizzazione del lavoro nella società industriale) e abolire in definitiva la distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale.  Idee del tutto assurde, che, come ha dimostrato la storia, hanno provocato grandi ingiustizie e immani disastri ogni volta che, a partire dal colpo di Stato bolscevico del novembre del 1917, si è tentato di metterle in pratica.
Ma veniamo ora al concetto essenziale dell’autentica filosofia cristiana della storia.         

3. La visione cristiana della storia è dualistica e apocalittica
Qual è invece la visione cristiana della storia?   Innanzitutto, per ciò che riguarda le epoche della storia, la sua periodizzazione, la suddivisione principale non è quella triadica diventata tradizionale, che può anche accettarsi ma solo in modo subordinato:  la suddivisione fondamentale è tra prima di Cristo e dopo Cristo.  In effetti, per i credenti, la storia appare inevitabialmente divisa in  d u e  epoche fondamentali: quella anteriore a Cristo, quella a Lui posteriore.  Tant’è vero che datiamo gli anni riferendoli alla nascita di Cristo:  Cristo Nostro Signore è il discrimine.  E non potrebbe essere diversamente dal momento che Cristo è il Figlio di Dio, ab aeterno consustanziale al Padre:  il suo Avvento in questo mondo rappresenta ben più di un fatto storico.  Si è trattato di un evento di portata cosmica, coinvolgente la natura e il sovrannaturale.
La nascita di Nostro Signore è quel fatto storico-cosmico che apre la storia che si concluderà con il Ritorno di Lui nel Giorno del Giudizio.  Anche la  fine della storia  sarà un evento non solo umano ed anzi persino al di là della dimensione cosmica a noi oggi conosciuta, perché, come è stato rivelato, con il Giudizio la natura stessa sarà distrutta per lasciare per sempre il posto alla Gerusalemme celeste da un lato e all’Inferno dall’altro.   
La visione cristiana della storia possiede dunque una sua straordinaria peculiarità perché postula una fine sovrannaturale della storia, in quanto fine non solo del mondo intero con tutti i suoi abitanti e la sua storia, tutti passati al vaglio ultimo e definitivo della giustizia infallibile del Cristo Giudice (il Cristo che la pastorale modernizzante della Gerarchia attuale ha occultato a partire del Concilio), ma anche dell’intero universo ossia della natura che finora conosciamo, sostituita da una nuova creazione, completamente diversa, tutta spirituale e trasfigurata, nel Bene e nel Male (Ap 21 ss.).
Da ciò risulta che la visione cristiana della storia, rigorosamente fondata sui dati del Nuovo Testamento, è una visione apocalittica:  la storia dell’umanità unitamente a tutta la natura nella quale si è svolta, si concluderà con una Rivelazione (apokálypsis) iniziantesi con una catastrofe cosmica che si concluderà con la purificazione (catarsi) del Giudizio Universale:  “Il giorno del Signore verrà come un ladro:  in quel giorno i cieli spariranno con grande fragore, gli elementi infuocati si dissolveranno e la terra sarà consumata insieme a tutte le opere che contiene” (2 Pt 3, 10).  Il “Giorno del Signore” verrà come un ladro, ci rivela il Beato Pietro, ribadendo quanto già detto dal suo divino Maestro nelle profezie neotestamentarie. “…perché, come il lampo esce dal levante e si mostra fino a ponente, così pure sarà la venuta del Figlio dell’uomo.  Dovunque vi sarà il cadavere, quivi si raduneranno le aquile.  Or, subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte.  Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo [la Croce], e tutte le tribù della terra si batteranno il petto e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria…”(Mt 24, 27-30). 
Una caratteristica della visione cristiana della storia è pertanto la subitaneità della fine della nostra storia, segnata da un’improvvisa catastrofe cosmica cui seguirà l’evento parimenti cosmico ed anzi sovrannaturale del Ritorno di Nostro Signore sulla terra in tutta la sua potenza di Seconda Persona della Santissima Trinità.  La fine sarà preceduta da “tribolazioni” ovvero da grandi disordini ad un tempo morali, economici, politici, militari, che sconvolgeranno tutti i popoli della terra. Queste “tribolazioni” saranno tali da coinvolgere la sopravvivenza della fede e quindi della Chiesa visibile, che tuttavia   resisterà all’assalto di nemici interni ed esterni, anche se molto a fatica, giusta le parole del Signore:  “Ma il Figlio dell’Uomo, alla sua venuta, troverà forse la fede sopra la terra?”(Lc 18, 8),  Essendo retti dal disegno divino di salvezza, la storia umana e il mondo finiranno di colpo quando, secondo l’interpretazione tradizionale, si sarà compiuto il numero di coloro che il Padre, nel suo imperscrutabile giudizio, ha predestinato alla Gloria.

Questo l’impianto di base, rigorosamente scritturale, di ogni visione autenticamente cristiana della storia.  Potremmo anzi dire, che, su questa base, la comprensione della storia, il coglierne il senso complessivo con il pensiero, sia di per sé anche teologica, perché la storia, in quanto determinata dall’evento dell’Incarnazione, non potrà esser intesa altro che come attuazione progressiva del disegno salvifico di Dio.  Da questo punto di vista, pertanto, ogni filosofia della storia dovrebbe anche tentare di cogliere il soprannaturale inerente alla storia all’interno della dimensione apparentemente solo terrena nella quale la storia si attua. Da questo punto di vista, aveva ragione Dom Guéranger nell’affermare che si doveva parlare di una teologia della storia e non di una filosofia.  La Rivelazione ci mostra che l’approdo finale della nostra storia umana è nel regno dei cieli, però non in modo pacifico ma a dir poco traumatico, a causa dell’apocalisse e del Giudizio che alla fine ci attendono.  Si preferisce non ricordarlo, ma la nostra vicenda terrena finisce nel Regno dei Cieli solamente per coloro che ne saranno giudicati degni.  Per tutti gli altri (e si spera sempre che siano una minoranza del genere umano, anche se molti in termini assoluti – Lc 13, 24 ss.), la vicenda terrena finirà nel modo peggiore possibile, nella dannazione eterna, nel luogo sovrannaturale che è l’Inferno, preparato per Satana, per i suoi angeli e per tutti i peccatori impenitenti.

Paolo  Pasqualucci, martedì  28 febbraio 2017


























[1] Karl Marx, Friedrich Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, in  Karl Marx, Frühe Schriften, II, herausgegeben von H.-J. Lieber und P. Furth, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1971, pp. 813-883; p. 843.  La prima edizione del Manifesto, leggermente più ridotta, è del febbraio 1848, allorché l’Europa si infiammava di moti rivoluzionari, il cui inizio in grande stile era stato a Palermo, il 12 gennaio, dopo un moto fallito a Livorno il 6 dello stesso mese.
[2] Karl Marx, Friedrich Engels, Die Deutsche Ideologie, in op. cit., pp. 5-655; p. 36.

sabato 25 febbraio 2017

Riflessioni sulla filosofia cristiana della storia [I]

   Riflessioni sulla filosofia cristiana della storia  [I]

Esiste ancora una filosofia della storia che possa definirsi cristiana? 
Voglio dire, non tanto una filosofia in senso tecnico quanto una comprensione del significato della storia che possa definirsi cristiano?  In un passato ormai lontano il senso storico dei cattolici, Gerarchia compresa, si rifaceva a sant’Agostino e a Bossuet, al loro modo di intendere la storia universale come manifestazione unitaria del disegno divino della salvezza.  Ma oggi? Oggi, dopo che ben noti testi del Concilio pastorale Vaticano II mostrano un impressionante appiattimento del pensiero della Gerarchia cattolica sui temi tipici della “filosofia della storia” profana, da quello del progresso alla democrazia alla libertà di coscienza più radicale all’unità del genere umano da realizzarsi mediante il “dialogo” interconfessionale ed interreligioso? Come stanno le cose, oggi?    

1.  Voltaire ha disgregato la concezione cristiana della storia
Prima di scomparire sotto l’influenza nefasta del pensiero moderno, auspici il modernismo e il neomodernismo, la visione cristiana della storia era entrata in profonda crisi all’epoca dell’Illuminismo.  Va ricordato, a questo proposito, un illuminante articolo del 1938 di un illustre storico svizzero, Werner Kaegi (1901-1979), così intitolato:  Voltaire e la disgregazione della concezione cristiana della storia.  L’Autore si riferiva al volterriano Essai sur les moeurs et l’esprit des nations et sur les principaux faits de l’histoire depuis Charlemagne jusqu’à Louis XIII, pubblicato nel 1757.   Voltaire partiva da Carlo Magno perché per tutta la storia precedente valeva formalmente lo schema plurisecolare mantenuto in ultimo da Bossuet, sino a Carlo Magno, nel suo grande Discours sur l’Histoire universelle del 1690.  Era uno schema cristiano:  creazione del mondo e storia del popolo inizialmente eletto, l’ebraico;  vita del Redentore e storia del popolo eletto cristiano; fine del mondo.  All’interno di questo schema si collocavano le vicende storiche dei popoli e degli Stati.  In che modo Voltaire rompeva questo schema?  Con sette capitoli introduttivi di “storia della cultura”che trattavano della Cina, della sua antichità, della sua scienza, dell’India, della religione persiana, dell’Arabia e dell’Islam. 

“Proprio in questi capitoli il lettore, sia che respinga sia che accolga la critica volterriana alla storia ecclesiastica, si convince che per le vicende profane, per quello che – qualunque sia la sua posizione religiosa – egli deve riconoscere come storia universale politica e culturale, non si può più fare ricorso all’indirizzo fondamentale ebraico-cristiano un tempo dominante.  Il concetto del popolo eletto ebraico, del popolo eletto cristiano, e con ciò l’antica concezione unitaria della storia universale, è finita.  Al suo posto il lettore impara per la prima volta a conoscere, con maggiore esattezza, i costumi e le credenze  dei Cinesi (più tardi anche dei Giapponesi), stupisce davanti al quadro che gli viene offerto dello spirito religioso indiano e legge estratti dei libri vedici, ode parlare dell’espansione araba e del passaggio dell’eredità spirituale ellenistica all’Islam, e infine anche la storia della sua religione particolare assume un volto nuovo e più efficace.  
Non voglio analizzare, qui, l’opera famosa di Voltaire, la quale – secondo le parole di un moderno maestro della storiografia – con tutte le sue insufficienze resta il venerando modello della odierna “storia della cultura”; mi limito soltanto a porre la domanda:  come fu possibile che soltanto pochi decenni dopo che l’originario modello cristiano ebbe trionfato ancora una volta nel libro del Bossuet, da quest’altro libro nascesse – per così dire – una immagine della storia universale tutta diversa, ed esso, con la medesima naturalezza con cui era stato concepito quale integrazione del Discours bossuettiano, si presentasse per il futuro come modello e misura di una storia unversale?  Cosa era accaduto nel frattempo?”[1].

2. La crisi della coscienza europea 
Come fu possibile?  Era cominciata e già da tempo quella che Paul Hazard ha chiamato, in una fortunata opera, “la crisi della coscienza europea”, quella crisi che sarebbe alla fine esplosa in modo drammatico con la Rivoluzione Francese.  A questa crisi, ci fu una risposta adeguata sul piano della cultura, da parte cattolica?  La Chiesa aveva saputo reagir bene alla crisi provocata dallo scisma protestante, nel quale l’inquietante individualismo dell’uomo occidentale moderno si dirigeva contro la Religione tramandata dalla legittima autorità e il principio stesso d’autorità; reagito bene sia sul piano religioso che su quello morale (Concilio di Trento), ribadendo con grande chiarezza la dottrina di sempre, riformandosi e migliorandosi, riprendendo lo slancio missionario.  Ma sul piano della cultura profana, cioè della scienza, della filosofia, della storiografia, come stavano le cose? Per esempio, sul piano della “filosofia della storia”, della quale ci stiamo occupando qui? 
La cultura cattolica non sembrava aver trovato risposte sufficienti alla crisi spirituale che si era aperta in Europa prima con le scoperte geografiche e poi con quelle astronomiche. Le angustie degli spiriti erano universali, pervadevano anche il protestantesimo, come dimostrano, ad esempio, queste famose rime di John Donne (1572-1630), che lamentano la rovina dell’immagine tradizionale, gerarchica, razionale del mondo per colpa della nuova filosofia, che ne aveva distrutto l’anatomia, soprattutto con le scoperte astronomiche, allora agli inizi.

“And new Philosophy calls all in doubt,
The Element of fire is quite put out;
The Sun is lost, and th’earth, and no mans wit
Can well direct him where to looke for it.
And freely men confesse that this world’s spent,
When in the Planets, and the Firmament
They seek so many new; they see that this
Is crumbled out again to his Atomies.
‘Tis all in peeces, all cohaerence gone;
All just supply, and all Relation:
Prince, Subject, Father, Sonne, are things forgot...”[2]. 

“La nuova Filosofia mette tutto in dubbio – L’elemento del fuoco più non esiste – Il sole si è perso, come la terra –  Nessun umano ingegno sa più ove cercarlo –  Apertamente confessano che questo mondo è sfatto – Quando ne cercano tant’altri nuovi nei pianeti e in cielo -  Si affaticano affinché sia di nuovo sparpagliato nei suoi atomi – È tutto in pezzi, persa ogni coerenza – Ogni giusto supporto, ogni relazione – Principe, Suddito, Padre, Sole, cose del passato…”[3].
   Per ciò che riguarda il significato della storia, la “nuova filosofia metteva tutto in dubbio”.  Voltaire inventò il termine “filosofia della storia” intendendo con filosofia  la philosophie nel senso degli Illuministi, la scepsi individuale, nemica di ogni tradizione, che doveva applicarsi anche alla storia, sottoponendo tutto al vaglio della ragione, con particolare riguardo (ovviamente) alla connessione di storia sacra e storia profana, che bisognava cercare di scindere.  L’Essai sur les moeurs dava, in effetti, un ulteriore colpo di piccone ai calcoli sull’inizio del genere umano e della civiltà, che si basavano sulla Bibbia.  Voltaire rivolse contro la religione quell’analisi critica delle fonti che aveva cominciato a sviluppare, con grande acribia, proprio la storiografia erudita ecclesiastica, dei Bollandisti, dei Benedettini[4].

3.  La cronologia dello schema di Bossuet messa in crisi
Bossuet aveva diviso la storia dell’umanità in uno schema cronologico di dodici epoche:  Adamo e la creazione la prima, Noè e il Diluvio la seconda, Abramo la terza, Mosè la quarta, l’assedio di Troia la quinta, Salomone e la costruzione del Tempio la sesta, Romolo e la fondazione di Roma la settima, la nascita di Cristo la decima, Costantino l’undecima, Carlo Magno la dodicesima. Valeva ancora il principio della “unità di conoscenza rivelata e conoscenza naturale, biblica e antica”[5].
Ma la cronologia basata su questa costruzione unitaria non si poteva più mantenere.  Qual era la data della creazione del mondo?  Bossuet, costretto dalla sua correttezza scientifica ad accettare due metodi differenti che si rifacevano alla Bibbia, riportava sempre due date diverse 4004 anni o 4963. Il Padre Antonio Foresti nel 1691-94 pubblicò a Venezia una storia universale sul tipo di quella di Bossuet.  Procedendo con metodo matematico rigoroso (di tipo cartesiano) nella determinazione della cronologia, dovette constatare che “i calcoli relativi al periodo che intercorre fra la creazione del mondo e la nascita di Cristo ondeggiavano tra le ipotesi estreme di 6984 e 3740 anni, mentre entro queste due ipotesi estreme vi erano ben settanta altre ipotesi discordanti”[6].  Un missionario in Cina, il Padre Greslon, dimostrò in un suo libro del 1671 la validità della scienza cinese e affermò che “secondo calcoli cinesi dall’inizio del mondo fino all’avvento al trono dell’imperatore Tienski intorno al 1620 erano trascorsi non meno di 19.379.096 anni.  È a questo punto che, proveniente da fonti extra-bibliche, un numero calcolato astronomicamente entrò nella cronologia storica, guadagnò logicamente nell’ambito della storiografia occidentale una parte di quel grande credito, di cui l’astronomia matematica godeva ovunque proprio nel secolo XVII, e contribuì a spezzare del tutto l’antica impalcatura cronologica della storiografia cristiano-occidentale […]  Mentre le cronologie non cristiane, che si appoggiavano al nuovo concetto astronomico di tempo, dissolvevano il concetto tradizionale storico del tempo, una dissoluzione non meno importante si verificava nella rappresentazione tradizionale dello spazio”.  E questo, grazie alle scoperte geografiche, che avevano permesso di far uscire dall’ombra le civiltà dell’Oriente, a cominciare da quella cinese, utilizzata poi da Voltaire e da altri, sulla base delle relazioni dei missionari gesuiti,  in modo assolutamente ideologico, per fabbricare cioè l’immagine del tutto astratta di una Cina regno della cultura, della civiltà, della tolleranza religiosa, modello insuperabile, da copiare in Occidente[7].
Un momento decisivo, dunque, per l’obnubilamento della “filosofia cristiana della storia” fu l’attacco portato contro di essa dalla storiografia degli Illuministi, dei Voltaire, dei Gibbon.  La crisi prodotta da quell’attacco fu aggravata dal sopraggiungere dello storicismo di marca idealistica, dell’hegeliana filosofia della storia.  Essa ha fatto giustizia delle unilateralità e superficialità di Voltaire e consoci ma solo dopo aver dissolto la religione rivelata nel movimento dialettico dello Spirito Assoluto, del quale essa religione dovrebbe concepirsi come un semplice momento, storicamente determinato.  La verità rivelata nei Vangeli scade allora a semplice momento dello Spirito, che si realizza appieno nella coscienza della libertà del soggetto pensante.  Tale coscienza si contrappone al Testo Sacro, nel libero esame, e supera la contrapposizione stessa nella coscienza di sé come sapere della propria libertà assoluta, che è libertà del pensiero.   La Rivelazione si tramuta, allora, in rivelazione della coscienza a se stessa, ora consapevole (ossia convinta) della sua libertà assoluta:  la Religione rivelata cessa di essere una realtà che proviene da Dio, cessa in sostanza di essere religione e di fatto scompare all’interno della dialettica dello Spirito, che si attua nel nostro “prender coscienza”.
La cultura cattolica ha combattuto contro le distorsioni e le prevaricazioni di Illuministi e Idealisti.  Ma ha saputo riproporre lo schema autenticamente cristiano della “filosofia della storia” in modo da controbattere efficacemente le “filosofie della storia” profane, che si basavano (apparentemente a ragione) sulla matematica e sulle scienze per portarle micidiali attacchi?  Che ci sia stata una difesa efficace non si direbbe, stante la sostanziale scomparsa, alla fine anche in ambito cattolico, della concezione della storia tipicamente cristiana, il cui schema originario è sempre quello tracciato da sant’Agostino nel suo poderoso scritto, la Civitas Dei, che tanta influenza ebbe per la visione autenticamente cristiana del rapporto tra il mondo delle nostre drammatiche vicende storiche e l’azione della Provvidenza.

Paolo  Pasqualucci, sabato 25 febbraio 2017   





































[1] Werner Kaegi, Voltaire e la disgregazione della concezione cristiana della storia, in ID.,  Meditazioni storiche, 1942-1946, tr. it. a cura e con una Presentazione di Delio Cantimori, Laterza, Bari, 1960, pp.  216-238; p. 225. 
[2] John Donne, An Anatomie of the World, Wherein, By occasion of the ultimately death of Mistris Elizabeth Drury, the frailty and the decay of this whole World is represented, in ID., Poetical Works, edited by Sir Herbert Grierson, Oxfrod University Press, 1933, 1967, pp. 206-221, vv. 205-215.
[3] Mia libera traduzione.  John Donne, dopo una gioventù libertina, aveva avuto una forte crisi spirituale, per reazione alla sensualità degli Elisabettiani ed era diventato ministro anglicano, con tendenze mistiche.  In alcuni suoi sonetti giovanili già traspariva la vanità della vita sensuale: “Now thou hast lov’d me one whole day,/To morrow when thou leav’st, what wilt thou say?/ Wilt thou then Antedate some new made vow?/ Or say that now/ We are not just those persons, which we were/..”(Poetical Works, cit., p. 9:  Womans constancy – Libera traduzione:  Tu m’hai amato un intero giorno./  Domani, lasciandomi, cosa dirai?/ Anteporrai l’impegno appena inventato?/ O dirai che ora/ Più non siamo quelli stessi, che eravamo…). Nelle Rime sacre, alcune delle quali molto belle, invece:  “THOU hast made me, And shall Thy work decay?/ Repaire me now, for now mine end doth haste,/ I runne to death, and death meets me as fast,/ And all my pleasures are like yesterday/.:  TU m’hai creato, e deve l’opera tua perire?/ Tu mi ristora, la mia fine incalza,/ E corro verso morte, e morte verso me con ugual ansia,/ E tutti i miei piaceri non sono che passato..”(John Donne, Rime Sacre. Precedute da ‘La vita e la morte del dottor Donne’ di Izaak Walton, tr. it. con testo a fronte, a cura di Enzo Giachino, Einaudi, Torino, 1953, pp. 48-49).
[4] Kaegi, op. cit., pp. 228-229:  “…lo specialista sapeva bene che un’accurata discriminazione fra storia e leggenda era già stata da lungo tempo avviata, con somma cautela, proprioda alcuni studiosi ecclesiastici; che un gruppo di editori gesuiti, i Bollandisti, esattamente da un secolo si affaticavano a vagliare la tradizione agiografica; che alcuni benedettini, a Parigi, con un’arte più raffinata della distinzione, avevano elaborato un vero modello della critica storica…”.  Anche i dati della storia antica venivano messi in discussione, si cominciava a sostenere, “con dotte argomentazioni”, il carattere favoloso della storia dei re di Roma (op. cit., p. 229).
[5] Kaegi, op. cit., pp. 220-221.
[6] Op. cit., p. 231.
[7] Op. cit., pp. 231-233. “La Cina divenne…il luogo sul quale far leva per scardinare tradizioni occidentali fino ad allora considerate pacifiche.  Il secolo XVIII, salutato dalla società di corte di Versailles, già al suo primo capodanno, con una festa cinese, trova nella Cina il paese ideale in cui regnano i filosofi e l’ordine naturale delle cose è elevato a costituzione e religione” (op. cit., p. 235).  Un’immagine del tutto falsata della Cina quale modello da contrapporre all’Occidente capitalista sarebbe apparsa di nuovo negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, al tempo del mito della Rivoluzione Cinese della Guardie Rosse (nei fatti una ferocissima guerra civile) e del Libretto Rosso del Presidente Mao (che l’aveva scatenata per mantenere il potere).  Il mediocrissimo testo, una raccolta di sentenze politico-letterarie, veniva presentato (dagli intellettuali di sinistra) come il nuovo Vangelo dell’Umanità proletaria in marcia.  

martedì 14 febbraio 2017

Crisi della Chiesa - La nuova dottrina eucaristica di Giovanni Paolo II




La nuova dottrina di  Ecclesia de Eucharistia, ultima enciclica di Giovanni Paolo II, che proponeva la Messa “cosmica” ed “escatologica”.


Sommario: Premessa.  1.Introduzione.  2. Il contenuto essenziale dell’enciclica.  3. Il Papa deplorava i molteplici e variegati abusi dell’Eucaristia.  3.1   Un esempio concreto del caos dottrinale e pastorale che imperversava nella Chiesa, coinvolgendo la Liturgia. 4.  Le verità di fede richiamate da Giovanni Paolo II a proposito dell’Eucaristia.  5. L’enciclica si situava sempre nell’orbita del Nuovo Catechismo, nel quale si riflettevano le novità conciliari:  5.1 Una nuova concezione della Messa.  5.2 L’ombra della nuova concezione della Chiesa penetrata nel Concilio.  5.3  Una corrotta teologia della Redenzione.  6. La rappresentazione dell’’Eucaristia nell’enciclica woytiliana.  7.  Osservazioni su alcuni punti essenziali dell’enciclica:  7.1  Qual è il significato autentico del “Mysterium fidei”, come impiegato nel Novus Ordo? “Cosmico” ed “escatologico”, banchetto nel quale si consuma il Cristo glorioso...  7.1.1. Il mutamento di senso della Messa è confermato dall’enciclica.  7.1.2  La Nuova Messa vuol essere “cosmica” ed “escatologica”. 7.1.3   Il nuovo vertice della Messa:  la S. Comunione, al posto della Consacrazione.  8.  La S. Comunione ritenuta da Papa Woytila all’origine della “Chiesa di Cristo” fin dall’ultima Cena  9. La S. Comunione realizza di per sé l’unione dei fedeli in Cristo, assunta a fine essenziale dell’Eucaristia.  9.1  Ritorno della “Messa-pasto”?  9.2 La dottrina eucaristica del Magistero infallibile.  9.3  L’“unione con Cristo” secondo il Nuovo Catechismo.  9.4  Dall’Eucaristia così intesa un impulso prevalentemente intramondano ed ecumenico. 10. La S. Comunione intesa infine come modulo e archetipo dell’unità della Chiesa, dei cristiani, del genere umano, dell’universo:  10.1  Questione non di fede bensì di mera opportunità.  10.2  L’enciclica si mostrava  degna dell’ira divina abbattutasi sulla Chiesa a partire dal Concilio.  10.3  Propositi inconcepibili, teologicamente aberranti, che provocano la giusta ira di Dio su tutta la Chiesa.    



Premessa
Riproduco un articolo da me pubblicato in due puntate su sì sì no no dell’anno 2 0 0 4 (XXX)  nn. 15 e 16, con il titolo:  Riflessioni su alcuni aspetti dell’enciclica ’Ecclesia de Eucharistia, firmato con lo pseudonimo di Canonicus , giusta la prassi di quel periodico.
L’attualità dell’argomento mi sembra fuor di questione.  Il testo è nella sostanza il medesimo anche se l’ho rivisto integralmente e modificato in diverse parti, approfondendo alcuni punti.    L’Introduzione è, ovviamente, del tutto nuova. L’apparato delle note è stato notevolmente ampliato.   Ringrazio il direttore di sì sì no no, Maria Caso, per aver cortesemente acconsentito a pubblicarlo come singolo articolo. 

1. Introduzione
L’ultima enciclica di Giovanni Paolo II fu data il 17 aprile 2003, avendo ad oggetto “l’Eucaristia nel suo rapporto con la Chiesa”, come risulta dal sottotitolo.  Si era resa necessaria per denunciare i molteplici e diffusi abusi liturgici, a quanto pare caratteristica ineliminabile dal rito della Nuova Messa, improntato alla creatività del celebrante e all’aggiornamento nei confronti delle culture locali.  Ovviamente, Giovanni Paolo II non si limitava alla denuncia dei mali ma riproponeva la corretta concezione di questa Nuova Messa (Novus Ordo).  Pilastro di tale concezione era il nesso tra Eucaristia e Chiesa.  La dottrina esposta nell’enciclica, infatti, mentre da un lato ribadiva alcune verità di fede fondamentali, dall’altro le inseriva in una visione conferente alla Messa un significato diverso da quello della plurisecolare Messa di sempre, di rito romano antico (Ordo Vetus).  Per esprimere lapidariamente la mutazione:  da celebrazione del Sacrificio della Croce a celebrazione della Gloria della Resurrezione nella comunione costituita dal sacro banchetto memoriale.  E ciò grazie all’impiego del nuovo concetto di “mistero pasquale”, che fece la sua comparsa nei testi del Vaticano II, racchiudente a pari titolo la passione, la morte, la resurrezione del Signore (costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia, artt. 61, 106, 109). Nell’Eucaristia ossia nella Nuova Messa si avrebbe, pertanto, la celebrazione dell’intero mistero pasquale, cosa che imprimerebbe al rito un dinamismo caratterizzato dall’Attesa comunitaria del ritorno del Risorto, dalla tensione escatologica verso la Parousia.  Il significato sacrificale della Messa non viene abolito, ovviamente, ma inquadrato in una prospettiva più ampia, quella escatologica della Venuta del Signore, che sembra come superarlo e metterlo sullo sfondo.  Di questa rilevante mutazione di senso fanno fede, in particolare, le modifiche introdotte nella formula della Consacrazione, con la diversa collocazione dell’espressione Mysterium Fidei, collegata, in apparente ripetizione del versetto 11, 26 della Prima Lettera ai Corinti, non più alla “remissione dei peccati” (come nell’Ordo Vetus) ma alla “proclamazione” della Resurrezione del Cristo, in attesa della sua Venuta[1]
Caricando la Messa di valenze escatologiche, Papa Woytila ne proclamava anche un supposto carattere “cosmico” e in termini che ricordavano le singolari “visioni” di un Teilhard de Chardin.  Pertanto, mi sembra del tutto corretto affermare che, mescolate alla riproposizione della dottrina di sempre,  nell’ultima enciclica di Giovanni Paolo II emergono non piccole novità, che toccano anche la dottrina ossia la corretta teologia della Messa. E queste novità è nostro dovere di cattolici individuare criticamente e segnalare agli altri fedeli.  Intrecciate alla struttura tradizionale in parte ancora mantenuta nella Nuova Messa, in parte perché mutilata di diverse componenti essenziali (dell’Introito, dell’Offertorio, dell’ultimo Vangelo e di vari altri aspetti importanti, elencati nel Breve esame critico), queste novità conferiscono all’attuale rito Novus Ordo la sua caratteristica e ben nota ambiguità, che alcuni non esitano oggi a tentare di estendere al rito romano antico, meritoriamente “sdoganato” da Benedetto XVI, con il proporre delle forme di integrazione fra i due riti:  un abominio liturgico mai visto.
Il successore di Giovani Paolo II, Benedetto XVI, ha intrapreso un’opera benemerita di eliminazione degli abusi della Nuova Messa, che è ancora quella della stragrande maggioranza dei fedeli, sostanziatasi l’opera nell’Istruzione Liturgiam authenticam, che ha giustamente imposto all’intera Chiesa una revisione ufficiale delle traduzioni in volgare  dell’Institutio Generalis della Nuova Messa.  In tal modo si è imposto un testo filologicamente corretto e teologicamente coerente, che faceva piazza pulita del  ciarpame che l’aggiornamento vi aveva nel frattempo incrostato.  Si dovrebbe dire, tuttavia, che ha tentato di imporre perché Benedetto XVI si è scontrato con sorde e diffuse resistenze, la più nota delle quali concernente il “per tutti” della consacrazione del vino, che molti celebranti si sono rifiutati di sostituire con il “per molti” dell’Ordo Vetus, pur mantenuto nell’Istitutio Generalis del Nuovo Messale.
Ma i frutti dell’opera di chiarificazione e pulizia liturgiche perseguita da Benedetto XVI, anche se forse non abbondanti, sono comunque messi oggi in pericolo da una recente iniziativa di Papa Francesco: l’istituzione di una commissione mirante a rivedere le revisioni ordinate da Ratzinger, in nome dell’inculturazione e del decentramento, due fra i caposaldi della riforma liturgica promossa dal Vaticano II, funzionali al creativo principio della sperimentazione sciaguratamente immesso nella riforma medesima.  L’iniziativa di Papa Francesco, che invoca spesso e volentieri il Concilio a sostegno della sua pastorale, va sempre interpretata, a mio avviso, tenendo sullo sfondo la trasformazione del significato della S. Messa sopra accennato, frutto inevitabile di una riforma liturgica nella quale sono penetrate diverse fra le istanze audacemente innovatrici del Movimento Liturgico degli anni Venti-Trenta del secolo scorso, fatte proprie dalla nouvelle théologie, ben rappresentata, come sappiamo, tra gli esperti delle Commissioni conciliari, grazie all’acquiescenza e complicità dei Papi al tempo regnanti[2].  In ogni caso, quest’iniziativa di Papa Bergoglio rivela il fallimento del tentativo ratzingeriano (di per sé ineccepibile) di eliminare (senza poterlo dire) la perniciosa creatività liturgica all’insegna dello sperimentalismo imperversante nella Nuova Messa, con l’imporre un testo tradotto accuratamente rivisto per tutti dalla Curia, l’organo sicuramente più competente alla bisogna. 
La grave crisi della liturgia del Nuovo Rito costringeva a privilegiare di nuovo l’azione saggia e mirata dell’autorità centrale, unico modo di opporsi all’anarchia dominante, apportatrice di ogni sorta di errori ed eresie. Ma quest’impostazione era evidentemente agli antipodi del modo di pensare di Papa Francesco, che si ispira alla “teologia popular”, variante della teologia della liberazione, nell’ottica della quale, l’iniziativa dal basso (o che appare tale), popolare, decentrata, spontanea e innovatrice, dovrebbe aver parte preponderante nell’esser – Chiesa.
Questo irrituale esser-Chiesa si trova perfettamente a suo agio con il mutamento di significato della Messa ambiguamente insufflato dal rito del Novus Ordo.  E su questo mutamento nemmeno lo stesso Benedetto XVI aveva, per la verità, qualcosa da obiettare, a quanto se ne sa.   L’iniziativa intrapresa da Papa Francesco rischia ora di riaprire il Vaso di Pandora dell’anarchia liturgica parzialmente eliminata dagli sforzi del suo predecessore.  Ciò dimostra, ancora una volta, che la Chiesa tutta potrà cominciare ad uscire effettivamente dalla presente, terribile crisi solo ritornando a celebrare l’unico e vero rito da sempre cattolico, l’Ordo Vetus o romano antico, il cui Canone risale ai tempi apostolici, mantenuto in vita grazie alla dura e coraggiosa battaglia sostenuta (ormai da quasi cinquant’anni) dalla Società degli Apostoli di Gesù e Maria, meglio nota come Fraternità Sacerdotale S. Pio X, fondata con tutti i crismi del diritto canonico nel 1970 in Isvizzera da S. E. Mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), di felice memoria (al quale si è affiancato per tanti anni nella lotta il vescovo brasiliano S. E. Mons. Antonio Castro Mayer – 1904-1991).

2. Il contenuto essenziale dell’enciclica

          L’enciclica Ecclesia de Eucharistia, data il 17 aprile 2003 in sessantadue brevi paragrafi, si occupa dell’“Eucaristia nel suo rapporto con la Chiesa”, come spiegato nel sottotitolo[3].
          Il nucleo teologico fondamentale del documento è in effetti costituito dall’esposizione di questo rapporto, colto nella seguente progressione:
           1. nel “mistero della fede”, come reso nella nuova formula introdotta nella messa del Novus Ordo per esser recitata dai fedeli ad alta voce subito dopo la consacrazione del vino fatta dal sacerdote, formula la quale, secondo l’enciclica (EU, 18), farebbe emergere la “proiezione escatologica” che contrassegna la Celebrazione eucaristica: “Mistero della fede! Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta!” (parte I dell’Enciclica, EU, 11-20); 
           2. nella “edificazione della Chiesa” come “sacramento” che è “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (II, EU, 21-25); 
           3. nella conseguente “apostolicità” della Chiesa, la Chiesa-comunione, scaturita dal Vaticano II (IV, EU, 34-36, intitolata “L’Eucaristia e la comunione ecclesiale”);
           4. ed infine, secondo una concezione del tutto particolare all’attuale pontefice, nella figura di Maria Santissima come “donna eucaristica”, dato che l’Eucaristia, affermava il Papa riprendendo di fatto a modo suo l’antico parallelo di S. Giustino martire tra Eucaristia e Incarnazione, “mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l’incarnazione. Maria concepì nell’Annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue, anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore” (EU, 55).
          Ma S. Giustino si serviva del paragone solo per spiegare ai pagani, increduli e vittime di informazioni deformate e calunniose sui misteri celebrati nel culto cristiano (siamo nel II secolo), che la presenza di Nostro Signore nell’ostia consacrata – corpo e sangue – è reale come l’Incarnazione, è corpo e sangue come nell’Incarnazione[4]. Il Papa, invece, se ne serviva per costruire la figura di Maria come “donna eucaristica”, concetto che non sembra chiarissimo. La S.ma Vergine, nel Magnificat, farebbe apparire, secondo il Papa, la medesima “tensione escatologica dell’Eucaristia”, quella tensione grazie alla quale, “ogni volta che il Figlio di Dio si ripresenta a noi nella ‘povertà’ dei segni sacramentali, pane e vino, è posto nel mondo il germe di quella storia nuova in cui i potenti sono ‘rovesciati dai troni’ e sono ‘innalzati gli umili’ (cfr. Lc 1, 52). Maria canta quei ‘cieli nuovi’ e quella ‘terra nuova’ che nell’Eucaristia trovano la loro anticipazione e il loro ‘disegno’ programmatico” (EU, 58).
          Come si vede da questi pochi cenni, l’enciclica si muoveva sempre  all’interno dell’ottica inaugurata dal Vaticano II. I “cieli nuovi” e la “terra nuova” rammentati dal papa, sono espressamente quelli dell’art. 39 della Gaudium et Spes, che prospetta una visione del Regno di Dio piuttosto ambigua, dai tratti naturalistici e millenaristici. In simile visione, l’enciclica sembrava voler far rientrare anche l’Eucaristia e la Santissima Vergine[5].
          Ma lo spirito del Magnificat, come inteso dalla Tradizione della Chiesa, non è quello che sembra qui attribuirgli il Papa. “Il Magnificat è un inno di lode all’Onnipotente, per il mistero dell’Incarnazione che, silenziosamente, si era compiuta nel castissimo seno della Vergine, e sviluppa questi concetti: a) nonostante la pochezza della sua serva, Dio ha compiuto in Lei grandi prodigi (immacolata Concezione, divina Maternità, perpetua verginità, favori tutti, che ‘esigevano’, poi, l’assunzione in Cielo) e perciò tutti i popoli la proclameranno ‘Beata’; b) le meraviglie operate in Maria, come pure i molti altri favori concessi da Dio lungo il corso dei secoli ai suoi servi fedeli, mettono in chiara luce i suoi tre fondamentali attributi: la potenza, la santità, la misericordia; c) con particolari, desunti dalla condotta ordinaria della Provvidenza, vien messo in evidenza il costante intervento di Dio per proteggere gli umili e confondere gli orgogliosi; d) principale beneficiario di tanti favori è stato Israele, col quale Dio ha mantenuto tutte le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza, specie quella secondo cui il Messia sarebbe nato dalla sua stirpe”[6].
          La “dispersione degli orgogliosi”, il rovesciamento dei potenti dai loro troni e l’esaltazione degli umili, non erano evocati da Maria per proclamare l’inizio di una “storia nuova”, quella che dovrebbe concludersi secondo la visione naturalistico-millenaristica di GS, 39, ma a conferma della storia di sempre, caratterizzata dall’intervento quotidiano della Provvidenza, la vera protettrice dell’orfano e della vedova. Servendosi in parte di immagini tratte dai Profeti, tradizionali nella cultura popolare dell’Israele di allora, la Santissima Vergine esprimeva la sua infinita gratitudine all’Onnipotente per aver scelto la sua “umile serva” addirittura quale madre del Messia.

          3. Il papa deplorava i molteplici e variegati  abusi dell’Eucaristia

          Quest’enciclica fu apprezzata dai cattolici ancora fedeli alla Tradizione della Chiesa, perché, oltre a denunciare e deplorare gli abusi che  affliggevano l’Eucaristia, ribadiva alcune essenziali verità di fede concernenti questo sacramento. È doveroso, quindi, soffermarsi su questo importante e positivo aspetto del documento, richiamando all’attenzione e gli abusi denunciati e le verità di fede riproposte.
          Nel paragrafo 10 dell’Introduzione (EU, 1-10), dopo aver lodato “la riforma liturgica del Concilio” perché essa avrebbe “portato grandi vantaggi per una più consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli al santo Sacrificio dell’altare” e un incremento dell’adorazione eucaristica (delle chiese e dei seminari progressivamente svuotatisi in gran parte dell’orbe cattolico proprio a partire dalla svolta dottrinale e liturgica promossa dal Concilio, il Papa non sembrava aver coscienza, dopo venticinque anni di pontificato), il testo si soffermava sulle  “ombre” ancora presenti accanto alle supposte “luci”. “Vi sono luoghi ove si registra un pressoché completo abbandono del culto di adorazione eucaristica”. Inoltre, si registravano “abusi” concernenti “la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento”, vissuto a volte come se si trattasse di un semplice “incontro conviviale fraterno”, che non abbisognava nemmeno della “necessità del sacerdozio ministeriale, che poggia sulla successione apostolica” (EU, 10).  Vale a dire, che i fedeli ritenevano di poter celebrare senza la presenza del sacerdote!
          Il “carattere sacramentale” dell’Eucaristia veniva così ad oscurarsi e fiorivano “qua e là iniziative ecumeniche che, pur generose nelle intenzioni, indulgono a prassi eucaristiche contrarie alla disciplina nella quale la Chiesa esprime la sua fede” (ivi). “Qua e là”, affermava il Papa. In realtà, si era da tempo ampiamente diffusa in tutta la cattolicità la prassi delle cosiddette “messe ecumeniche” (inclusive della S. Comunione) con i cosiddetti “fratelli separati” e persino con rappresentanti di religioni non cristiane.
          Ovviamene, il Papa ammoniva a rispettare la disciplina della Chiesa: non si può somministrare la S. Eucaristia a chi non è in comunione con la Chiesa cattolica (EU, 43-45) e addirittura a chi non è battezzato (EU, 38). Inoltre, egli ribadiva l’obbligo di confessarsi prima di comunicarsi, se si è in peccato mortale, e la validità perpetua della dottrina ribadita dal Concilio di Trento in questo campo (EU, 36, 37). Sembra che la pratica della confessione auricolare prima della Comunione, obbligatoria per chi è in peccato mortale, sia caduta alquanto in disuso nella Chiesa riformata secondo le direttive del Vaticano II.
          C’era poi (e c’è ancora) il problema del “decoro” della S. Messa. Si verificavano abusi (coinvolgenti l’arte e la musica sacra) provocati da “innovazioni non autorizzate e spesso del tutto sconvenienti”. Occorreva, invece, che “le norme liturgiche” fossero osservate “con grande fedeltà” (EU, 52). L’esigenza di “una sana quanto doverosa inculturazione”, fatta valere dal Vaticano II e messa in atto dalla riforma liturgica, era, secondo Giovanni Paolo II, del tutto legittima. “Nei miei numerosi viaggi pastorali ho avuto modo di osservare, in tutte le parti del mondo, di quanta vitalità sia capace la Celebrazione eucaristica a contatto con le forme, gli stili e le sensibilità delle diverse culture. Adattandosi alle cangianti condizioni di tempo e di spazio, l’Eucaristia offre nutrimento non solo ai singoli, ma agli stessi popoli, e plasma culture cristianamente ispirate” (EU, 51, sottolineatura mia).
          Prima di tale “adattamento” (aggiornamento, accomodata renovatio), l’Eucaristia – c’è da chiedersi – era riuscita (per quasi venti secoli) a nutrire e plasmare cristianamente i popoli? Seguendo la logica implicita nel discorso del Papa, bisognerebbe rispondere di no; rispondere, che la formazione cristiana dei popoli la Chiesa l’ha effettivamente iniziata solo a partire dalle riforme del Vaticano II, la “nuova Pentecoste”, grazie alla quale la Chiesa ha addirittura ridefinito se stessa[7]! Comunque sia, i vantaggi della “inculturazione” liturgica erano oscurati, lamentava l’enciclica, da “sperimentazioni o pratiche introdotte senza un’attenta verifica da parte delle competenti Autorità ecclesiastiche. La centralità del Mistero eucaristico, peraltro, è tale da esigere che la verifica avvenga in stretto rapporto con la S. Sede” (EU, 51).
          Il fatto è – commento – che l’aggiornamento introdotto con le riforme liturgiche approvate dalla Santa Sede, subiva a sua volta, se così posso dire, un continuo aggiornamento a livello locale. Il pastorale Vaticano II ha voluto attribuire alle Conferenze Episcopali un’ampia autonomia in campo liturgico, in base ai nuovi princìpi della sperimentazione e della creatività. Quest’autonomia è temperata dalla necessaria approvazione di tutte le innovazioni e sperimentazioni da parte della S. Sede[8].  Ma è il principio in sé che è sbagliato, poiché la liturgia cattolica (come sempre affermato dai Papi in passato)  non può ammettere aggiornamenti e sperimentazioni, che, oltre ad intaccarne il decoro e violarne la maestà, fatalmente inciderebbero sulle verità di fede in essa trasfuse. Come era prevedibile, il necessario controllo della Santa Sede sulle nuove e infinite forme introdotte dall’inculturazione si è dimostrato ampiamente inefficace.  La diffusa tendenza delle nostre società al pluralismo indifferenziato nei valori e nei modi di vivere, l’individualismo atomistico che ne consegue, si riflettono anche nel clero, abbandonato a se stesso da una Gerarchia desistente e peggio che desistente: tutto ciò costituisce una delle cause di fondo dell’anarchia liturgica dominante, ormai radicata e nient’affatto intenzionata ad abbassare la testa. Papa Woytila annunciava nell’enciclica che, proprio “per rafforzare il senso profondo delle norme liturgiche”, aveva “chiesto ai Dicasteri competenti della Curia Romana di preparare un documento più specifico, con richiami anche di carattere giuridico, su questo tema di grande importanza” (EU, 52).  Quali siano stati i risultati concreti di quest’intervento dell’Autorità, non si saprebbe dire.
          Si poteva rimediare ad una situazione così grave (ed oggi ancor più grave di quattordici anni fa) con interventi che andavano sempre nel senso delle “riforme” conciliari? Lo scetticismo era d’obbligo, dal momento che all’origine della crisi c’era e c’è sicuramente il Concilio, con la sua pretesa di riformare interamente la Chiesa, aprendosi nello stesso tempo (cosa inaudita) alla mentalità e alle esigenze del secolarizzato mondo moderno e contemporaneo.

3.1 Esempio concreto del caos dottrinale e pastorale che imperversava  nella Chiesa, coinvolgendo la Liturgia

All’inizio del 2002, cinque seminaristi del seminario diocesano di Bombay, in India, intitolato a S. Pio X, lasciarono l’istituzione ed entrarono nel seminario della Fraternità Sacerdotale S. Pio X, scandalizzati da ciò che erano stati costretti a vedere e sentire. Gli studenti del primo anno, dedicato all’orientamento, dovevano prender parte ogni martedì ad una messa in lingua locale, durante la quale i partecipanti portavano dei foulard di colore arancione-zafferano. “Il celebrante sfoggiava il simbolo dello aum o om, parola sanscrita che significa più o meno il Tutto, l’uno-tutto del monismo indù. Una religiosa del corso di formazione recitava l’aarti, preghiera indù che esalta la gloria del dio inesprimibile. Sulle fronti dei partecipanti doveva brillare il tilak, il marchio detto ‘terzo occhio di Shiva’, che indica l’appartenenza alla religione indù. Durante la messa echeggiavano canti indù di adorazione e di lode. Il padre Vincenzo Pereira, incaricato dell’anno di orientamento, sembrava assai più interessato alla psicologia che alla spiritualità… Si serviva della psicologia come fosse stato Dio in persona. ‘Con la psicologia faccio dei miracoli nella mia stanza’, diceva. Ci insegnava che potevamo risolvere tutti i problemi con l’aiuto della psicologia [leggi: con l’impiego di tecniche di meditazione indù accoppiate all’uso della magia]. Lodava gli indù che, sotto il regime portoghese, fuggivano piuttosto che convertirsi. Tra gli accessori della messa teneva anche un simbolo fallico (shivalingam, tipico del culto del dio Shiva, rappresentativo della fertilità)…”.
Il padre Oscar Rozarie s.j., professore di spiritualità, “ci insegnava che tutto il mondo si sarebbe salvato. ‘Cerchiamo di essere razionali – diceva – perché un bravo indù, che fa tante opere buone, dovrebbe andare all’inferno?’[Ma chi l’ha mai insegnato? Pio XII condannò nel 1949 l’errore dei “rigoristi”, che consideravano dannati a priori tutti i non cattolici – DS 3866-3873]. Il padre Giuliano Saldahna s.j., insegnante di acculturazione e di lingue, ci iniziava al mondo indù, avendo come scopo essenziale quello di farci comprendere la bontà dell’induismo… Il padre Jean Mercier, venuto dal Belgio per insegnarci la filosofia, l’antropologia e la logica, affermava: ‘Mi dà fastidio parlare di Maria come della madre di Dio. Ciò non è filosofico. Ciò significa in effetti dire che Dio avrebbe una madre’. Il medesimo sacerdote negava che l’uomo fosse composto di anima e corpo. Simile concezione non era altro, per lui, che ‘filosofia greca’. Per tal motivo egli non pregava mai per l’anima di un defunto ma per il riposo eterno del signor X… La teologia veniva divisa per settori. Tra questi: ‘teologia contestuale’, ‘eco-teologia’, ‘teologia femminista’. Ogni settore era concepito in modo da spiegare dal suo punto di vista la teologia in generale. Per esempio, la “teologia contestuale” fa della situazione [concetto tipico del materialismo esistenzialista di Sartre] l’elemento centrale per comprendere la Bibbia, ragion per cui questa o quella interpretazione della Bibbia cessa di essere pertinente, se applicata al contesto attuale. In effetti, la Bibbia non ha a che vedere con le circostanze del nostro tempo. Il padre Gilbert ci insegnava la grazia e pretendeva che fosse presente nelle dottrine e negli insegnamenti della religione indù. Il padre John D’Mello ci parlava del peccato e della perversione e sosteneva che il peccato è un concetto occidentale. Nella lingua indiana [hindi, lingua ufficiale], non esiste una parola che renda la nozione di peccato. Il padre John ci insegnava, come fossero verità rivelata, questi tre assiomi: 1. Ogni conoscenza va messa nella giusta prospettiva; 2. Ogni conoscenza è contestuale; 3. La teologia si serve della sociologia. Il padre Giuliano Saldanha s.j., che ci insegnava l’escatologia, affermava che l’inferno esiste ma che è vuoto e che questa era la dottrina della Chiesa…”.
Risparmio al lettore il prosieguo, che contiene anche un sunto della “cristologia” insegnata al suddetto seminario, il tutto pubblicato nella rivista citata qui sotto in nota[9]. L’articolo conteneva quattro lettere di quattro dei cinque seminaristi in questione, il riportato sunto della “dottrina” insegnata al seminario diocesano, la testimonianza di un sacerdote passato alla Fraternità nel Sud dell’India, dopo che un sacerdote professore di seminario, con l’approvazione del vescovo locale, aveva sostenuto di fronte ai preti di tutta la diocesi e senza sollevare proteste, che il sacerdozio come tale non esisteva, ragion per cui non poteva esser stato istituito da Nostro Signore; che la S. Messa non aveva carattere di sacrificio onde l’officiante non vi svolgeva alcuna “funzione sacrificale”.
Questi, nell’AD 2002, gli effetti dell’inculturazione e dell’aggiornamento  in India, d’altronde non dissimili dai guasti causati dall’aggiornamento nel resto del mondo cattolico.  E oggi, AD 2017, dobbiamo forse credere che la situazione sia migliorata?[10]  

4. Le verità di fede richiamate da Giovanni Paolo II a proposito dell’Eucaristia

          L’esistenza innegabile di abusi e deviazioni che coinvolgevano anche la dottrina, costringeva il Papa a ribadire alcune essenziali verità di fede, attinenti al dogma, sostantivo peraltro mai usato dal pontefice. I principi dogmatici richiamati in relazione all’Eucaristia erano i seguenti:
      a.  la transustanziazione del pane e del vino (EU, 15 e passim);
      b. il carattere di sacrificio dell’Eucaristia, che “rende presente” il Sacrificio della Croce, non vi si aggiunge, non lo moltiplica e possiede una “efficacia salvifica”, anche se la dizione sacrificio propiziatorio è accuratamente evitata, sostituita da perifrasi del tipo: “riceviamo… il suo sangue che ha ‘versato per molti, in remissione dei peccati’ (Mt 26, 28)” (EU, 16), perifrasi che stemperano il concetto;
      c. la verità, evidentemente annebbiatasi, secondo la quale solo il sacerdote (e non l’assemblea del “Popolo di Dio”, da sola o con il sacerdote) ha il potere di effettuare la consacrazione dell’Ostia, in persona Christi (EU, 5, 28-33);
      d. la verità, del pari oscuratasi, secondo la quale la Sacra Ostia non è semplice “cibo spirituale” o “metaforico” bensì cibo che contiene effettivamente il corpo e il sangue di Cristo tutto intero, secondo “la sempre valida dottrina del concilio di Trento” (EU, 13, 15, 17).

5.  L’enciclica si situava sempre nell’orbita del Nuovo Catechismo, nel quale si riflettevano le novità conciliari.

          Queste precisazioni dogmatiche riempirono di soddisfazione ogni cuore sinceramente cattolico. Sarebbe tuttavia errato voler credere che esse rappresentassero un effettivo cambiamento di rotta per ciò che riguardava la liturgia e la S. Messa. Il Papa non diceva qui niente che non fosse già stato detto nel Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992. Questo Catechismo aveva forse chiarito le ambiguità ed iniziato un ritorno alla vera Messa e alla vera liturgia?  Sarebbe temerario affermarlo.
          Dopo le gravi omissioni e le ambiguità del Vaticano II sul significato della Messa e dell’Eucaristia, dopo “l’impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della S. Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino”, riscontrabile nel Novus Ordo Missae promulgato nel 1969 e successivamente modificato  (dopo le critiche ricevute) in modo solo marginale (vedi supra), il Nuovo Catechismo doveva ricordare ai troppi smemorati in circolazione il dogma della transustanziazione (artt. 1374-1377) e il carattere di sacrificio dell’Eucaristia (artt. 1330, 1357 ss., 1365 ss.); nonché ribadire che “soltanto i sacerdoti validamente ordinati possono presiedere l’Eucaristia e consacrare il pane e il vino perché diventino il Corpo e il Sangue del Signore” (art. 1411).
          Tuttavia, nella lista dei nomi e degli aggettivi attribuiti nei secoli a questo sacramento (artt. 1328-1332), ampliata rispetto a quella dell’art. 208 del Catechismo Tridentino: Eucaristia, Cena del Signore, synaxis o assemblea eucaristica, santo sacrificio (di lode, spirituale, puro), santa e divina liturgia, Comunione, cose sante, pane degli Angeli, pane del cielo, farmaco d’immortalità – gli aggettivi “propiziatorio” ed “impetratorio” brillano per la loro assenza. I concetti che essi esprimono vengono esposti solo indirettamente, in modo quasi accessorio e perifrastico, all’art. 1365, al 1366, con una citazione del Concilio di Trento, e all’art. 1414, nella parte In sintesi o riassuntiva, che si trova alla fine di ogni capitolo di questo catechismo: “In quanto sacrificio, l’Eucaristia viene anche offerta in riparazione dei peccati dei vivi e dei defunti [sacrificio propiziatorio] e al fine di ottenere da Dio benefici spirituali o temporali [sacrificio impetratorio]”.  Manca ogni riferimento esplicito al fatto che il carattere propiziatorio del Sacrificio ha anche il significato di soddisfare l’ira divina nei confronti dei nostri peccati, realtà messe bene in evidenza nel Catechismo Tridentino.   
          L’enunciazione finale e conclusiva del significato dell’Eucaristia, la presenta esclusivamente come sacrificio di lode e di rendimento di grazie, e quindi come banchetto memoriale che include anche la Resurrezione allo stesso titolo della Croce!
  “L’Eucaristia è il cuore e il culmine della vita della Chiesa, poiché in essa Cristo associa la sua Chiesa e tutti i suoi membri al proprio sacrificio di lode e di rendimento di grazie offerto al Padre una volta per tutte sulla croce; mediante questo sacrificio egli effonde le grazie della salvezza sul suo Corpo, che è la Chiesa (art. 1407). “L’Eucaristia è il memoriale della Pasqua di Cristo, cioè dell’opera della salvezza compiuta per mezzo della vita, della morte e della Risurrezione di Cristo, opera che viene resa presente dall’azione liturgica” (art.1409, corsivo mio).
Nel Catechismo Tridentino e in quello Maggiore di san Pio X (ma anche nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII) della Resurrezione non si parlava mai, in relazione al Sacrificio.  La dizione tradizionale usata era sempre:  passione e morte del Signore.  Il fatto è che la nozione di mistero pasquale inglobante passione, morte e resurrezione non esisteva, quale nozione-chiave del significato della Messa[11].

5.1.  Una nuova concezione della Messa. Il Nuovo Catechismo mantiene in pieno la nuova concezione, apparsa con il Vaticano II e il Novus Ordo Missae, che rappresenta una evidente rottura con il passato, implicando essa addirittura uno spostamento del “centro di gravità” della Messa: “per il messale tradizionale la Messa è offerta sacrificale della presenza transustanziata; per il nuovo messale è “il memoriale della Pasqua di Cristo”, che comprende, in quanto “banchetto pasquale”, sia il mistero della Passione che quello della Resurrezione[12]. Questa nuova concezione, pur conservando formalmente il concetto della “presenza reale”, secondo il dogma della transustanziazione della sostanza del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore, nello stesso tempo l’intorbida con un concetto nuovo e poco chiaro del “render presente” da parte “dell’azione liturgica”. Infatti, quest’ultima, come si è visto, “rende presente” tutta “l’opera della salvezza” e quindi “vita, morte e Resurrezione di Cristo”. Ma, per tacere della “vita”, come è possibile “render presenti” nella Messa allo stesso modo la morte di Cristo e la sua Resurrezione? Poiché il testo non specifica, bisogna dire: allo stesso modo. La Resurrezione resa presente nel rito della Messa, lo è allo stesso modo del corpo e del sangue di Cristo nell’Ostia consacrata e quindi come se accadesse di nuovo?  Rispondere di sì, significherebbe affermare una cosa priva di senso, lo vedono tutti.  
La consacrazione rinnova in modo incruento l’evento del Calvario e quindi transustanzia le sacre specie rendendo presente in esse Nostro Signore in corpo, sangue, anima e divinità.  Ma come potrebbe “l’azione liturgica” (quale, a qual punto della Messa?) render presente ossia rinnovare  la Resurrezione di Cristo, come se accadesse di nuovo ad ogni Messa?  È ovvio che la resurrezione e l’ascensione possono solo esser ricordate nella Messa ma non certo rinnovate, come lo è, invece, la morte in Croce, il Sacrificio senza il quale non ci sarebbero state né Resurrezione né Ascensione.  Si naviga nell’ambiguità anche perché da questa nuova formulazione risulterebbe che uno degli scopi fondamentali della Nuova Messa sarebbe quello di render presente la Resurrezione, senza escludere ovviamente l’Ascensione: insomma, render presente la gloria del Kyrios, cosa che appare parimenti priva di senso[13].
         
       5.2  L’ombra della nuova concezione della Chiesa penetrata nel Concilio.  Si noti poi che quando il nuovo Catechismo afferma che “mediante questo sacrificio di lode e di ringraziamento Egli effonde le grazie della salvezza sul suo Corpo, che è la Chiesa” (art. 1407 cit.), la “Chiesa” non è da intendersi nel senso del corpo mistico di Cristo della tradizione: essa non è più intesa come la societas dei soli credenti, dei soli cattolici, nella quale si entra con il Battesimo e nella quale si resta, perseverando nella fede e nelle opere. Questa “Chiesa” è la Chiesa-comunione proposta dal Vaticano II, che per gradi deve giungere a ricomprendere tutti i “fratelli separati” e in prospettiva l’umanità; ovviamente, non mediante la conversione ma mediante il dialogo e un culto interreligioso comune!
“In definitiva quale è stato uno dei risultati più gravi del Concilio? A mio avviso è stato l’aver cambiato la definizione della Chiesa: è stata modificata la definizione della Chiesa. La Chiesa non è più una società divina, visibile, gerarchica, fondata da Nostro Signore Gesù Cristo per la salvezza delle anime. No, ma da ora la Chiesa è una comunione. Cosa significa questo? Cosa vuol dire Chiesa comunione? Comunione che accoglierà in seno alla Chiesa Cattolica diversi gruppi religiosi, completamente diversi dalla Chiesa Cattolica. E si arriverà non solo ad accettare le religioni cristiane non cattoliche ma anche le religioni non cristiane e persino i non credenti…”[14].  Parole purtroppo dimostratesi assolutamente profetiche, queste di mons. Lefebvre!  E l’idea di una Chiesa-comunione che, reinterpretando in modo nuovo il significato dell’Eucarestia, realizzi l’unità di tutti i cattolici con tutti i cristiani e con tutta l’umanità e persino con la natura, con il cosmo – quest’idea straordinaria costituisce l’ossessivo Leitmotiv dell’intera Ecclesia de Eucharistia!
          A questa “Chiesa” così concepita soggiace anche una dottrina “trinitaria” applicata in modo nuovo, dato che la “comunione” che la caratterizzerebbe (la Chiesa) è concepita sul modello della inabitazione (pericoresi) delle tre Persone della Santissima Trinità. Si tratta di uno dei parti più singolari della nouvelle théologie, dietro il consueto paravento di  qualche citazione patristica o testamentaria isolata, scelta col lanternino e stravolta[15]. Ad una “Chiesa” così intesa non si potrà certo proporre l’imitazione della Croce per la propria salvezza e quindi la conversione al cattolicesimo, il pentimento, la mortificazione. A questa “Chiesa”, la cui comunione rifletterebbe addirittura la comunione delle tre persone della SS.ma Trinità, la “grazia della salvezza” può venire solo dalla Resurrezione. E difatti, nella pastorale corrente, la Resurrezione ha finalmente sostituito la Croce. In un documento della Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna, è detto, per spiegare il concetto della S. Messa ai musulmani, che in essa la Chiesa “fa memoria del Signore risorto mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”[16]. Di che “comunione viva e reale” si tratti, non è ben chiaro (è la “comunione” dell’oscuro “render presente” di cui sopra). È invece chiarissimo che, piuttosto che ad accettare l’ignominia della S. Croce, scandalo per i giudei e follia per i pagani, la Gerarchia attuale preferisce indirizzare i fedeli alla contemplazione del gaudio della Resurrezione. Come se non ci fosse stato sempre insegnato il cammino della Santa Croce, quale unica via della salvezza: “Teniamo lo sguardo fisso all’autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale anziché il gaudio che gli stava dinanzi, preferì sopportare la croce, senza curarsi dell’ignominia, e ora sta assiso alla destra del trono di Dio” – Ebr 12, 2, sottolineature nostre.
         
       5.3 Una corrotta teologia della Redenzione. Non poteva esser diversamente poiché la concezione della Chiesa-comunione – applicata all’epoca con particolare pervicacia dal Card. Kasper, ai fini dell’ecumenismo, e propagandata in Italia dalla confusa teologia della “Chiesa Trinitaria” del suo allievo mons. Bruno Forte – altro non è che l’attuazione ecclesiologica della falsa dottrina della redenzione universale ossia della redenzione oggettivamente già realizzata per tutti gli uomini dal fatto in sé dell’Incarnazione di Nostro Signore; dottrina elaborata da Karl Rahner e nella quale confluiscono i deliri del “pancristismo” dei vari Blondel, Teilhard de Chardin, de Lubac. Concretamente, questa “dottrina” insegna che la salvezza tutti gli uomini ce l’hanno già in tasca, quale che sia la loro religione e il loro modo di vivere, perché Dio è amore e l’amore non condanna nessuno alla dannazione eterna! La missione della Chiesa cattolica consisterebbe allora nel far comprendere questa nuova e definitiva “verità” mediante il dialogo interconfessionale ed interreligioso, verità della quale la Chiesa si sarebbe resa cosciente solo a partire dalla “nuova Pentecoste” rappresentata dal Vaticano II. E quindi, se tutti gli uomini sono stati già salvati, e senza saperlo, dall’Incarnazione, a che scopo imitare la S. Croce per conseguire, alla fine della nostra vita, il frutto della stessa, costituito dalla salvezza eterna e dalla Contemplazione Beatifica? La salvezza essendo venuta per tutti già dall’Incarnazione, la Croce deve allora scomparire all’interno della “dinamica” del “mistero pasquale”, che, in modo logico e conseguente alle premesse di questa teologia assurda, privilegia nettamente il memoriale di lode e ringraziamento per la Resurrezione cioè per la salvezza già passata in giudicato per tutti! Si capisce quindi perché nella Nuova Messa sia scomparso l’Offertorio, nel quale si precisava minutamente che il sacrificio era offerto per la misericordia e l’espiazione dei nostri peccati, sostituito da una “semplice presentazione di doni che diventeranno pane di vita e bevanda di salvezza”[17].


          6. La rappresentazione dell’Eucaristia nell’enciclica woytiliana

          Tutto ciò visto, consideriamo in qual modo l’enciclica rappresenti la Santissima Eucaristia. “Dal mistero pasquale nasce la Chiesa. Proprio per questo l’Eucaristia, che del mistero pasquale è il sacramento per eccellenza, si pone al centro della vita ecclesiale” (EU, 3). Come per il Vaticano II e il Nuovo Catechismo, l’Eucaristia è “il sacramento del mistero pasquale”, la cui “teologia” si è appena sinteticamente ricordata. Inoltre, “L’Eucaristia è mistero di fede e insieme di luce”. Ogni volta che la Chiesa la celebra, i fedeli possono rivivere in qualche modo l’esperienza dei due discepoli di Emmaus: ‘si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero’ (Lc 24, 31)” (EU, 6). Dunque: nell’Eucaristia “luce” e “stupore”. Papa Woytila si lasciava andare ad immagini poetiche. Ma non più di tanto, visto che gli enigmatici “misteri di luce” erano una elaborazione sua personale, da lui poco tempo prima proposti ad integrazione dei misteri tradizionali del S. Rosario. Anche qui, siamo al di fuori della Tradizione della Chiesa e fors’anche contro, dal momento che la nuova teologia del Rosario inaugurata dal papa, sembrava volerne attenuare la sostanza mariana accentuandone oltre misura la componente cristologica[18].
          Mistero di luce, dunque, l’Eucaristia, e di una “luce” addirittura “cosmica”. Non si stupisca il lettore. Il par. 8 dell’enciclica è un autentico ditirambo al significato cosmico della S. Messa e dell’Eucaristia. “Ho potuto celebrare la Santa Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare; l’ho celebrata su altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città… Questo scenario così variegato delle mie Celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico! Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla. E così Lui, il sommo ed eterno Sacerdote, entrando mediante il sangue della sua Croce nel santuario eterno, restituisce al Creatore e Padre tutta la creazione redenta. Lo fa mediante il ministero sacerdotale della Chiesa, a gloria della Trinità Santissima. Davvero è questo il mysterium fidei che si realizza nella Eucaristia: il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a Lui redento da Cristo” (EU, 8).
          In questo peculiare testo, il carattere “cosmico” dell’Eucaristia è connesso al carattere “cosmico” della Redenzione. Si profila qui la visione naturalistica del Regno di Dio dianzi richiamata.  Essa si fonda su di un’errata interpretazione di un passo di S. Paolo (Rm 8, 20 ss. – errata perché suggerisce l’idea che la Salvezza riguardi anche la natura e che alla fine dei tempi non vi sia il Giudizio). Dal momento che Cristo ha restituito “tutto il creato” redento al Padre, l’Eucaristia deve esser intesa come quell’atto di lode e di ringraziamento che pervade tutto il Creato e “unisce cielo e terra”. Li unisce in una prospettiva dal sapore inevitabilmente panteistico. Del resto, tutto il passo riecheggia Teilhard de Chardin, il gesuita miscredente, scientista ed evoluzionista, scienziato dilettante, che voleva conciliare la Fede con la Materia, il cui pensiero ha purtroppo esercitato una notevole influenza sul clero negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, generazioni alle quali apparteneva il giovane Woytila.
          Ecco come Teilhard de Chardin vede il senso profondo dell’Eucaristia: “Mediante l’Ostia transustanziata l’operazione del sacerdote si estende al Cosmo stesso, il quale nel susseguirsi dei secoli viene gradualmente trasformato dall’Incarnazione, che mai si compie. Non c’è che una sola Messa nel Mondo, per tutta la durata del tempo: la vera ostia, l’ostia totale, è l’Universo, penetrato e vivificato dal Cristo, in modo sempre più intimo…”[19]. La terminologia teilhardiana compare, a mio avviso, anche nella chiusa dell’enciclica, ove il Papa, invece di servirsi dell’immagine tradizionale della Eucaristia “cuore della Chiesa”, afferma che essa è “cuore del mondo, pegno del traguardo a cui ciascun uomo, anche inconsapevolmente, anela” (EU, 59). Questa insolita espressione – cuore del mondo – la ritroviamo, riferita a Cristo, nelle cosiddette Litanies, scritte dal gesuita fedifrago sul verso di un’immagine di Nostro Signore: “Jésus : Cœur du Monde ; Essence Moteur de l’Évolution”[20].
          “Cuore” e “altare del mondo”, dunque, l’Eucaristia, azione liturgica di rilevanza “cosmica”? Ci troviamo di fronte a dei semplici slanci lirici, inoffensive anche se singolari immagini letterarie? Non sembra. Questi slanci vogliono avere un significato teologico, perché il “mondo” del quale l’Eucaristia è il “cuore”, è il mondo che ricomprende tutta l’umanità e la natura (la “creazione”), già salvate dalla redenzione universale. Il “traguardo” cui ogni uomo, secondo il Papa, “inconsapevolmente anela” (e quindi senza bisogno dell’aiuto della Grazia), è dunque quello rappresentato dall’Eucaristia in senso cosmico, dalla supposta “unione tra cielo e terra” già realizzata da Gesù Cristo con l’Incarnazione.
Il tema inusitato del Cristo cosmico era ricorrente nell’insegnamento di Papa Woytila: lo applicava anche all’Incarnazione, nella quale voleva vedere un significato cosmico.  Nell’enciclica Dominum et vivificantem, “sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo” (18 maggio 1986), scrisse:
“L’incarnazione di Dio-Figlio significa l’assunzione all’unità con Dio non solo della natura umana, ma in essa, in un certo senso, di tutto ciò che è “carne”: di tutta l’umanità, di tutto il mondo visibile e materiale.  L’incarnazione dunque, ha anche un suo significato cosmico, una sua cosmica dimensione.  Il “generato prima di ogni creatura”, incarnandosi nell’umanità individuale di Cristo, si unisce in qualche modo con l’intera realtà dell’uomo, il quale è anche “carne” -  e in essa con ogni “carne”, con tutta la creazione”[21].
Commentando questo straordinario testo, lo scomparso teologo tedesco, prof. Johannes Dörmann, lo criticava, oltre che negli aspetti intrinsecamente cristologici (offrendo esso una formulazione confusa dell’Incarnazione), anche perché conteneva l’incredibile affermazione secondo la quale il Cristo, incarnandosi, si sarebbe unito “con l’intera realtà dell’uomo”. Forse si trattava solo di una formulazione infelice.  Resta il fatto che l’espressione si presta all’equivoco: l’intera realtà dell’uomo comprende anche il peccato quando invece Nostro Signore era sì simile in tutto a noi, tranne che nel peccato (Eb 4, 15).  Dalla frase del Papa si potrebbe arguire che il Figlio di Dio si è “unito” a noi anche nel peccato!  Invece, precisa il prof. Dörmann, “Egli ha assunto su di sé il peccato del mondo [accettando il Sacrificio della Croce], ma non si è “unito” al peccato del mondo”[22].
         
Nonostante la sua divergenza dall’insegnamento costante del Magistero nei secoli, questa “teologia” woytiliana dell’Eucaristia  coincide, comunque,  con quella del Nuovo Catechismo. “Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente, e ‘si effettua l’opera della nostra redenzione’ (Lumen Gentium, 3)” (EU, 11, corsivo mio). Segue la citazione letterale dell’art. 1382 del nuovo catechismo, sulla Messa come memoriale e banchetto, “per la salvezza di tutti”, onde (di nuovo) “l’Eucaristia applica agli uomini di oggi la riconciliazione ottenuta una volta per tutte da Cristo per l’umanità di ogni tempo” (EU 12, corsivo mio). Il Papa ci teneva poi a ribadire la nuova dottrina, ossia che “il Sacrificio eucaristico rende presente non solo il mistero della passione e della morte del Salvatore, ma anche il mistero della risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento [consummatio]”[23].

          7. Osservazioni su alcuni punti essenziali dell’enciclica
         
           7.1 Qual è il significato autentico del “Mysterium fidei”, come inteso nel Novus Ordo? “Cosmico” ed “escatologico”, banchetto nel quale si consuma il Cristo glorioso...

          Abbiamo visto che Giovanni Paolo II intitolava “mistero della fede” la prima parte dell’enciclica, tutta dedicata al rapporto tra Chiesa ed Eucaristia (11-20). Ciò significa che questa formula liturgica permetteva di cogliere il “mistero della Chiesa” perché “in queste o simili parole la Chiesa, mentre addita il Cristo nel mistero della sua Passione, rivela anche il suo proprio mistero: Ecclesia de Eucharistia [la Chiesa nasce dall’Eucaristia]” (EU, 5).
          Nella Messa di rito romano antico detta impropriamente tridentina, il mysterium fidei è proclamato sottovoce dal sacerdote officiante durante la consacrazione del vino: “Poiché questo è il calice del mio Sangue, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”. Segue, sempre sottovoce, la già citata preghiera di anámnesi o ricordo della morte di Gesù, nella quale si menzionano anche la Resurrezione e l’Ascensione. Il Catechismo Tridentino così spiega l’inciso sul  mysterium fidei: “L’aggettivo eterna alleanza si riferisce all’eterna eredità, che a buon diritto ci è pervenuta per la morte del Cristo eterno testatore. Mentre le parole, mistero della fede, non tendono a escludere la verità della cosa, ma indicano che bisogna credere con ferma fede quel che rimane occulto e remotissimo agli occhi nostri. Il senso di questa frase è diverso qui da quello che riveste applicata al Battesimo. Qui infatti diciamo mistero di fede in quanto vediamo solo cogli occhi della fede il sangue di Gesù Cristo, nascosto sotto le specie del vino; mentre il Battesimo è chiamato sacramento di fede, e dai greci mistero di fede, in quanto comprende l’intera professione della fede cristiana. Chiamiamo il sangue del Signore mistero di fede, anche perché la ragione umana trova molta difficoltà e grande fatica ad ammettere quel che le propone la fede: che cioè N. S. Gesù Cristo, vero figlio di Dio, vero Dio e vero uomo, abbia per noi sofferto la morte, la quale viene appunto significata dal sacramento del sangue. Ecco perché, a preferenza che nella consacrazione del corpo, viene fatta qui menzione della passione del Signore con le parole: che sarà sparso in remissione dei peccati. Il sangue infatti, consacrato separatamente, ha più forza ed efficacia per mettere sotto gli occhi di tutti la passione del Signore, la sua morte e la natura delle sue sofferenze”[24].
          Il mistero della fede proclamato dal sacerdote si riferisce dunque: a) all’azione della consacrazione, che dobbiamo credere per fede poiché resta ovviamente un mistero come essa possa aver luogo; b) al fatto che il Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo, abbia “sofferto la morte per noi” e quindi al significato salvifico dell’evento storico della crocifissione, che eccede le capacità della mente umana; c) al perché il testo della consacrazione dica che il sangue di Nostro Signore è stato sparso “per voi e per molti” e non per tutti. Continua infatti il Catechismo Tridentino: “Le parole per voi e per molti, prese separatamente da Matteo (26, 28) e da Luca (22, 20), sono riunite dalla santa Chiesa, ispirata da Dio, per esprimere il frutto e l’utilità della passione. Infatti se consideriamo l’efficace virtù della passione, dobbiamo ammettere che il sangue del Signore è stato sparso per la salute di tutti [come intenzione, fine per il quale si è avuta la Croce]; ma se esaminiamo il frutto che gli uomini ne hanno ritratto, ammetteremo facilmente che ai vantaggi della passione partecipano non tutti, ma soltanto molti [perché una parte dell’umanità avrà rifiutato la Grazia, indurendosi sino alla fine nel peccato]. Perciò, dicendo: per voi, ha voluto significare i presenti, con cui parlava, eccetto Giuda, oppure gli eletti del popolo ebreo, quali erano i discepoli. Ed aggiungendo: per molti, ha voluto intendere gli altri eletti, ebrei e i gentili. Con ragione dunque non è stato detto: per tutti, trattandosi qui soltanto dei frutti della passione la quale apporta salute soltanto agli eletti. In questo senso bisogna intendere anche le parole dell’Apostolo: Gesù Cristo fu offerto una sola volta per togliere i peccati di molti (Ebr 9, 28); e quelle del Signore: Prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che mi hai dati, perché sono tuoi (Gv 17, 9)”[25].
          Nelle preghiere eucaristiche del Novus Ordo, che hanno sostituito il Canone della Messa Tridentina, la formula della consacrazione del vino è in generale la seguente, letta ad alta voce dall’officiante: “Prendetene e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me”[26]. Subito dopo recita: “Mistero della fede” ed i fedeli rispondono con l’ormai famosa acclamazione: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.
          Perché questo cambiamento? Che cosa si intende ora con “mistero della fede”, tolto dal suo contesto originario ed inserito in una formula del tutto nuova? Che non riguarda tanto la Morte in croce quanto la Resurrezione e la venuta (finale) di Cristo?
         
          7.1.1. Il mutamento di senso della Messa è confermato dall’enciclica. Il summenzionato studio liturgico della Fraternità Sacerdotale S. Pio X dà, a mio avviso, un’interpretazione che calza a pennello.
          “Una modifica liturgica significativa della divergenza tra il messale tradizionale e il nuovo messale è lo spostamento dell’espressione Mysterium fidei ‘Mistero della fede’. Collocata nel cuore della consacrazione dal messale tradizionale, ne è stata tolta nel nuovo messale, per servire di introduzione alle acclamazioni di anámnesi. Il suo significato perciò risulta cambiato.
          Il messale tradizionale, collocando questa espressione nel cuore stesso delle parole consacratorie, suscita l’atto di fede nella presenza di Cristo realizzata dalla transustanziazione, e sottolinea il vertice della Messa: qui è il sacrificio poiché Cristo è presente in stato di immolazione, e le specie del pane e del vino significano la separazione del corpo e del sangue di Cristo durante la Passione. Nel nuovo messale il Mysterium fidei non è più quello della consacrazione sacrificale, ma l’insieme dei misteri della vita di Cristo, proclamati a maniera di memoriale [segue l’ormai nota formula]. La seconda acclamazione dei fedeli, a scelta (ad libitum), separa persino nettamente il Mysterium fidei dalla consacrazione per collegarlo con la comunione: ‘Mistero della fede! Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunciamo la tua morte, Signore, in attesa della tua venuta’.
          Questo cambiamento sposta il centro di gravità della Messa e rivela la differenza fondamentale che esiste tra il messale tradizionale e il nuovo messale: per il primo la Messa è offerta sacrificale della presenza transustanziata, per il secondo è il memoriale della Pasqua di Cristo”[27].
            L’enciclica woytiliana permette, a mio avviso, di cogliere appieno il significato escatologico di questo cambiamento, funzionale all’idea della Chiesa-comunione, e quindi all’ecumenismo. Seguiamo il ragionamento del Papa. Ritorniamo al par. 14, in parte già citato. “La Pasqua di Cristo comprende, con la passione e la morte, anche la sua risurrezione. È quanto ricorda l’acclamazione del popolo dopo la consacrazione. ‘Proclamiamo la tua risurrezione’. In effetti, il Sacrificio eucaristico rende presente non solo il mistero della passione e della morte del Salvatore, ma anche il mistero della risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento. È in quanto vivente e risorto che Cristo può farsi nell’Eucaristia ‘pane della vita’ (Gv 6, 35.48), ‘pane vivo’ (Gv 6, 51)” (EU, 14).
          Il mistero della fede si svela dunque nel memoriale della resurrezione, non più nella consacrazione, dato che la Resurrezione rappresenta adesso non più il frutto (Eb 5, 7-10; 12, 2) ma il coronamento (consummatio) del sacrificio eucaristico, onde abbiamo di fatto una nuova definizione della Messa come “sacrificio di Cristo coronato dalla sua resurrezione” (EU, 15). Grazie alla nuova nozione del “mistero pasquale”, la Resurrezione è ora inclusa nel Sacrificio Eucaristico come suo “coronamento”.
         
       7.1.2  La Nuova Messa vuol essere “cosmica” ed “escatologica”.  Ma ciò non è ancora sufficiente perché si sveli del tutto la “tensione escatologica” racchiusa nel Mysterium Fidei, e quindi nella Messa che lo celebra. Gli innovatori hanno perciò aggiunto un’ulteriore frase, ritagliata da 1 Cor 11, 26, la quale, oltre alla Resurrezione, richiama la venuta del Kyrios, del Cristo nella Sua gloria, quale “Signore dell’Assemblea” eucaristica[28]. In tal modo, il Mistero della Fede e l’Eucaristia, vengono articolati, in maniera del tutto nuova, sul binomio Resurrezione-Nuovo Avvento, acquisendo una dimensione non solo escatologica ma anche cosmica.
          Continua, infatti, l’enciclica, al par. 18:  “L’acclamazione che il popolo pronuncia dopo la consacrazione opportunamente si conclude manifestando la proiezione escatologica che contrassegna la Celebrazione eucaristica (cf 1 Cor 11, 26): ‘nell’attesa della tua venuta’. L’Eucaristia è tensione verso la meta, pregustazione della gioia piena promessa da Cristo (cf Gv 15, 11); in certo senso, essa è anticipazione del Paradiso, ‘pegno della gloria futura’. Tutto, nell’Eucaristia, esprime l’attesa fiduciosa che ‘si compie la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo’. Colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere l’aldilà per ricevere la vita eterna: la possiede già sulla terra, come primizia della pienezza futura, che riguarderà l’uomo nella sua totalità. Nell’Eucaristia riceviamo infatti anche la garanzia della risurrezione corporea alla fine del mondo: ‘Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno’ (Gv 6, 54). Questa garanzia della futura risurrezione proviene dal fatto che la carne del Figlio dell’uomo, data in cibo, è il suo corpo nello stato glorioso di risorto. Con l’Eucaristia si assimila, per così dire, il ‘segreto’ della risurrezione. Perciò giustamente sant’Ignazio d’Antiochia definiva il Pane eucaristico ‘farmaco di immortalità’, antidoto contro la morte” (EU, 18).
          A questo paragrafo si possono fare, a mio avviso, le seguenti osservazioni.
          1. La frase tratta da S. Paolo, “nell’attesa della tua venuta” (nell’originale leggermente diversa: “finché egli venga”, donec veniat) è messa in bocca ai fedeli per far loro manifestare compiutamente l’affermata “proiezione escatologica” dell’Eucaristia. È evidente che questa proclamazione è una professione di fede (che vuole esprimere il senso, da parte dei fedeli, di ciò che è appena accaduto con la consacrazione che la precede) il cui elemento portante è però del tutto svincolato dalla morte del Signore (dalla presenza di Cristo transustanziato in stato di vittima incruenta sull’altare) accentrandosi invece sulla Resurrezione, per di più interpretata escatologicamente e quindi sulla Resurrezione che è attesa dell’Avvento finale.  E finale, ultimo in greco si dice éschaton. Questo modo di intendere la Resurrezione farebbe emergere pienamente la (supposta) “tensione” interiore dell’Eucaristia (sconosciuta alla Messa di sempre), che è “tensione verso la meta”, pegno della gloria futura, anticipazione del Paradiso. Del Giudizio Universale e della separazione eterna dell’umanità in Eletti e Reprobi, costituenti appunto il contenuto annunciato dell’Avvento ultimo, nessuna traccia, ovviamente. Il Papa mescola immagini nuove ed antiche ma scartando ciò che non piace all’uomo contemporaneo. Inoltre, l’idea di una “tensione” nell’Eucaristia sembra reinterpretare l’immagine tradizionale del “pegno della gloria futura” secondo filosofemi del pensiero profano, per esempio il “qui e non ancora” di certo esistenzialismo, fatto proprio dalla nouvelle théologie

2. Bisogna poi chiarire il significato esatto della frase di S. Paolo, quel “finché egli venga” utilizzato per giustificare in qualche modo l’interpretazione “escatologica” del mistero della fede.  Innanzitutto, vediamola nel suo contesto, che appartiene alla Rivelazione confermante, attraverso S. Paolo, l’istituzione dell’Eucaristia.
“Io, infatti, ho ricevuto dal Signore [per rivelazione diretta] quanto vi ho insegnato, cioè che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver rese le grazie, lo spezzò e disse:  “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria [anámnesin] di me”.  Così pure, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo:  “Questo calice è il nuovo patto del mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in memoria di me”.  Or dunque, tutte le volte che voi mangiate questo pane e bevete il calice, celebrate la morte del Signore, finché egli venga.  Perciò chiunque mangia questo pane o beve il calice del Signore indegnamente [in peccato mortale], sarà reo del corpo e del sangue del Signore [commetterà sacrilegio]” (1 Cr  11, 23-27; corsivi miei).  Il “celebrare la morte del Signore” è reso nel greco dell’Epistola con il verbo kataggéllō, che qui ha il significato di “cum laude praedico; religioso cultu gratam rei memoriam recolo”, onde è corretto tradurlo sia con “celebrate” che “annunziate” o anche “rammentate l’annunzio della morte del Signore”:  il verbo esprime il concetto di un annunzio pubblico che ha carattere celebrativo[29].  Celebrativo di un evento passato, della morte in Croce del Signore, il Sacrificio da cui scaturisce la nostra possibilità di salvezza non di un evento futuro annunziato in profezia, il suo ritorno alla fine dei tempi. 
Che vuol dire, allora, “finché Egli venga”:  “...mortem Domini adnuntiabitis donec veniat”?  Questo, vuol dire:  che il Santo Sacrificio dal quale solamente dipende la nostra salvezza, la  m o r t e  in croce del Signore, dovrà esser ricordato e quindi celebrato ogni giorno sino alla fine dei tempi; fine che avverrà con il ritorno del Cristo, la Parousìa o “presenza, avvento” del Cristo in tutto il suo fulgore di seconda Persona della S.ma Trinità e quindi Giudice infallibile e non più misericordioso medico dell’anima.  Che questa sia la corretta interpretazione, risulta anche dal passo del Tridentino che riporta il “donec veniat”:  “e ci ha comandato di onorare, nel riceverlo [questo santissimo sacramento], la sua memoria e di annunziare la sua morte, fino a che egli venga [1 Cr 11, 26] a giudicare il mondo”[30].    Il riferimento alla Parousìa è puramente temporale, non è causale; indica semplicemente la durata nel tempo della celebrazione del Sacrificio, che dovrà mantenere la “memoria” della Croce nostra salvezza sino alla fine dei tempi.  Non ha nulla a che vedere con la Resurrezione del Signore, come se fosse essa a rappresentare il contenuto salvifico del Sacrificio quando ne è invece il frutto
         
3. Inoltre, l’enciclica sembra andar oltre l’idea di un semplice “tendere” sostitutivo dell’immagine tradizionale secondo la quale l’Eucaristia, tra i suoi effetti, ha anche quello di essere in prospettiva per ciascuno di noi credenti un “pegno della vita eterna”. Infatti, sembra attribuire all’Eucaristia la capacità di farci ricevere direttamente la vita eterna, ossia di condurci direttamente alla Resurrezione: “colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere l’aldilà per ricevere la vita eterna etc.”. In tal modo, Giovanni Paolo II  sembrava voler stabilire addirittura un nesso causale obiettivo tra Eucaristia e Resurrezione adottando di fatto un’esegesi già respinta come inaccettabile dalla maggioranza dei teologi, ben prima del Concilio. Annotava Bartmann, nel suo classico manuale: “La resurrezione gloriosa è indicata dal Signore come conseguenza dell’Eucaristia (Gv 6, 55). Ma non bisogna intendere queste parole, come hanno fatto alle volte alcuni Padri, in maniera troppo letterale e stabilire una connessione causale fisica tra Eucaristia e resurrezione. L’Eucaristia ci rende moralmente capaci di condurre la vita dei ‘figli della resurrezione’ in modo simile agli angeli (Lc 20, 36)”[31].  E senza questa vita improntata alla lotta quotidiana e costante per santificarci in Cristo, all’insegna quindi della Croce, non otteniamo la Gloria futura e ce ne andiamo all’Inferno (Eb 3, 14).  Invece il Papa non parlava tanto di “capacità morale” di santificarsi indotta dal sacramento e quindi dalla Grazia, quanto di vera e propria “garanzia della futura resurrezione” che “proviene dal fatto che la carne del Figlio dell’uomo, data in cibo, è il suo corpo nello stato glorioso di risorto”.
          Ora, è vero che il Cristo transustanziato è nello stesso tempo il Cristo che siede alla destra del Padre, e quindi il Cristo glorioso. Però questo Cristo glorioso noi lo “mangiamo” misticamente sotto le sacre specie, dopo che si è di nuovo immolato sull’altare in maniera incruenta; lo “mangiamo” in stato di effettiva immolazione incruenta, in quanto vittima per i nostri peccati, non in quanto Cristo Glorioso. Nella Comunione si riceve il Christus passus, come si suol dire, non quello glorioso[32]. Appunto perché (come ho già detto) ciò che viene sacramentalmente rinnovato nell’Eucaristia è il sacrificio del Calvario, non la Resurrezione e l’Ascensione, che, nel rito dell’Ordo Vetus, vengono semplicemente ricordate , ma in modo differenziato, nella citata preghiera detta appunto Anámnesi o ricordo (della morte del Cristo), recitata dubito dopo la Consacrazione, di fronte a Gesù tutto intero in stato di vittima sull’altare.  “Laonde, o Signore, anche noi tuoi servi [Unde et memores, Domine, nos servi tui], come altresì il tuo popolo santo, ricordando innanzitutto la beata passione del medesimo Cristo tuo figliolo, nostro Signore, come pure la sua risurrezione dagli inferi ed anche la sua gloriosa ascensione in cielo, offriamo alla tua eccelsa maestà, delle cose che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata, il Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua salute etc.”.   Il sacerdote offre poi questi doni a Iddio Onnipotente, implorando la Divina Maestà di accettarli [supplices te rogamus] affinché quanti si sarebbero accostati all’altare per riceverli nella S. Comunione venissero “ricolmi d’ogni celeste benedizione e grazia”.
Questa preghiera è scomparsa nel Novus Ordo, sostituita da una che ne ricorda alcuni tratti, ma in modo attenuato e slavato, per non dire insipido, mescolandovi appelli alla “concordia”, all’”unità”, alla “pace”, nella Chiesa e nel genere umano.
             
      7.1.3  Il nuovo vertice della Messa: la S. Comunione, al posto della Consacrazione
          Ritorniamo alle distorsioni cui conduce l’aver posto il centro dell’Eucaristia nel banchetto memoriale. Nel par. 16 il Papa affermava, infatti, che “l’efficacia salvifica del sacrificio si realizza in pienezza, quando ci si comunica ricevendo il corpo e il sangue del Signore. Il Sacrificio eucaristico è di per sé orientato all’unione intima di noi fedeli con Cristo attraverso la comunione… È Gesù stesso a rassicurarci che una tale unione, da Lui asserita in analogia a quella della vita trinitaria, si realizza veramente” (EU, 16, corsivi miei).
          Ma l’insegnamento tradizionale, ribadito da Pio XII,  aveva sempre sostenuto il contrario. “Se la recezione della S. Comunione [da parte del Celebrante, non dei fedeli] è necessaria all’integrità, alla totalità della Messa, tuttavia non è essenziale all’oblazione sacrificale in quanto tale”[33]. Si legge infatti nella Mediator Dei: “il Sacrificio Eucaristico consiste essenzialmente nell’immolazione incruenta della vittima divina, immolazione che è misticamente manifestata dalla separazione delle sacre specie e dalla loro oblazione all’Eterno Padre.  La santa Comunione appartiene all’integrità del Sacrificio [...] e, mentre è assolutamente necessaria al ministro sacrificatore, ai fedeli è soltanto da raccomandarsi vivamente”[34].   Neppure la Comunione del celebrante è stata mai considerata il cuore della Messa, e quindi il punto centrale dell’Eucaristia in quanto sacrificio;  ne è un elemento integrante ma non l’essenza:  non è il Vertice della Messa, rappresentato, al contrario, dalla Consacrazione.
          “Ogni volta che il sacerdote ripete [renovat] ciò che fece il Divin Redentore nell’ultima cena, il sacrificio è realmente consumato”[35].  Pertanto, “non si deve fare – ammoniva Bartmann – come certi teologi moderni avventurosi, che cercano l’essenza del sacrificio unicamente o principalmente nella Comunione, altrimenti l’elemento di adorazione e soprattutto quello espiatorio scomparirebbe”[36]. E proprio questo è di fatto  avvenuto con il messale del Novus Ordo, come subito paventato dal ricordato Breve Esame Critico.
      Giovanni Paolo II non poteva perciò affermare che “l’efficacia salvifica del sacrificio si realizzava pienamente con il banchetto eucaristico”. O meglio: poteva, ma si deve sapere che ciò andava contro l’insegnamento tradizionale, non ne rappresentava uno sviluppo ma un travisamento. Ma nella teologia della Messa del Novus Ordo, che ha abolito l’Offertorio, si dà ancora una chiara differenza tra sacrificio e sacramento, così come espressa, per esempio, nel Catechismo Tridentino?  Il dubbio sembra più che lecito, data anche la singolare nozione di sacramento (ricavata in gran parte dalla teologia misteriosofica del Benedettino Odo Casel) che il Novus Ordo sembra aver adottato, unitamente alla volontà di riesumare le forme ebraiche del rito della Pasqua, come se l’Ultima Cena non ne avesse rappresentato il definitivo superamento[37].  Spiega il Catechismo Tridentino:
“Tra i concetti di sacramento e di sacrificio vi è grande differenza.  Il sacramento si effettua mediante la consacrazione, mentre l’essenza del sacrificio sta nell’offerta immolatrice.  Perciò l’Eucaristia, finché è conservata nella pisside o è portata a un infermo, ha carattere di sacramento e non di sacrifizio.  Appunto, come sacramento apporta titoli di merito a coloro che la ricevano, procurando loro i vantaggi sopra ricordati.  Invece, come sacrificio, possiede oltre alla virtù di meritare, anche quella di soddisfare [l’ira di Dio per i nostri peccati].  Pertanto come Cristo signor nostro nella sua passione meritò e soddisfece per noi, così quelli che offrono questo sacrificio, per il quale comunicano con noi, meritano di partecipare ai frutti della passione del Signore e quindi alla sua opera di soddisfazione”[38].

 8. La Santa Comunione ritenuta da Papa Woytila all’origine della “Chiesa di Cristo” fin dall’Ultima Cena

          L’aver posto la Comunione come l’elemento essenziale dell’Eucaristia, induceva il Papa a vedere in essa addirittura la fondazione della S. Chiesa, la sua “formazione”.
           Nel par. 5 dell’enciclica egli scriveva, in maniera ancora coerente con la Tradizione: “Se con il dono dello Spirito Santo a Pentecoste la Chiesa viene alla luce e si incammina per le strade del mondo, un momento decisivo della sua formazione è certamente l’istituzione dell’Eucaristia nel Cenacolo” (EU, 5). Ma nella parte II (21-25) intitolata “L’Eucaristia edifica la Chiesa”, egli precisava il significato di questo “momento decisivo” in modo che sembrava far dipendere la “formazione” della Chiesa dalla manducatio Domini sacramentale, cioè dalla S. Comunione. Infatti, nel par. 21, dopo essersi riferito al Vaticano II, che “ha ricordato esser la Celebrazione eucaristica al centro del processo di crescita della Chiesa” [segue doppia citazione di Lumen Gentium, 3], l’enciclica scriveva: “C’è un influsso causale dell’Eucaristia alle origini stesse della Chiesa. Gli evangelisti precisano che sono stati i Dodici, gli Apostoli, a riunirsi con Gesù nell’Ultima Cena, etc.” (EU, 21, corsivo nostro).
          Da cosa risulta questo influsso causale? Dal fatto, par di capire, che “Gli Apostoli, accogliendo nel Cenacolo l’invito di Gesù – ‘Prendete e mangiate… Bevetene tutti…’ – sono entrati, per la prima volta, in comunione sacramentale con Lui” (ivi). Verità palmare, dalla quale però il Papa traeva questa conclusione: “Da quel momento, sino alla fine dei secoli, la Chiesa si edifica mediante la comunione sacramentale col Figlio di Dio immolato per noi: ‘Fate questo in memoria di me…” (EU, 21, corsivo mio). Ma ciò non è come dire che, da allora ad oggi, la Chiesa si edifica mediante la S. Comunione, la quale pertanto produce, “fa” la Chiesa, che ne è come l’effetto?
           Che la S. Comunione contribuisca in via mediata alla costruzione (all’unità) del Corpo Mistico di Cristo, nella misura in cui essa perfeziona e mantiene in noi l’azione della Grazia procurataci dai meriti del Sacrificio rinnovato incruentemente sull’altare, nessuno, già a partire da S. Paolo (1 Cor. 10, 16-17), lo ha mai messo in dubbio. Ma il Papa non voleva certo limitarsi a ribadire questa verità, semplice e quasi banale, tanto è ovvia. In quanto da lui considerata l’elemento essenziale del sacrificio (poiché sarebbe essa a realizzarne pienamente l’efficacia salvifica) la Comunione diventava anche l’elemento essenziale dell’edificazione della Chiesa. Si può allora esprimere il pensiero del papa con questo sillogismo:
          l’Eucaristia è “al centro del processo di crescita della Chiesa” (Vaticano II); la Comunione è al centro dell’Eucaristia; dunque la Comunione è al centro del “processo di crescita della Chiesa”, l’“edifica” addirittura. E non da oggi o da ieri, ma a partire dall’Ultima Cena!
          Il “mistero della Chiesa” il Papa cominciava dunque a chiarircelo con l’insolito concetto che è la S. Comunione a fondare, a costruire la Chiesa, a farla, in modo diretto, immediato, per via dell’unione intima con Cristo che essa comporta.  La Chiesa-comunione è dunque tale anche perché essa “nasce”, nel senso ora visto, dalla S. Comunione?  Dalla S. Comunione, più che dall’effusione anche visibile dello Spirito Santo sugli Apostoli raccolti nel Cenacolo intorno alla Santissima Vergine; dalla S. Comunione, nella quale la presenza dello Spirito Santo è implicita o, meglio, è implicita nella manducatio sacramentale  in virtù dell’inabitazione dello Spirito Santo nel Verbo ed esplicita nell’azione della grazia ad essa manducatio susseguente, per cui lo Spirito Santo, che vive nell’anima umana di Gesù, opera in interiore homine disposizioni simili a quelle di Nostro Signore Gesù Cristo (Tanquerey)?  Comunque sia, l’unione che la S. Comunione realizza tra l’uomo e Cristo è dall’enciclica reinterpretata come se realizzasse di per sé l’unità di tutti i cristiani, cioè di tutti i membri della Chiesa di Cristo, della quale però la Chiesa cattolica ­è ora soltanto una parte (ex art. 8 della Lumen Gentium, uno dei più contestati dell’intero Concilio).
          Il significato della S. Comunione veniva così reinterpretato alla luce di una concezione dell’unità della Chiesa (tipica della nouvelle théologie) che trascende la Chiesa cattolica, perché non è più l’unità della Chiesa cattolica in se stessa – unità dell’unica vera Chiesa di Cristo perché rimasta nei secoli l’unica sempre fedele al dogma, grazie alla successione apostolica sulla Cattedra di Pietro – ma è l’unità della Chiesa cattolica con tutti gli elementi della “Chiesa di Cristo” che si troverebbero fuori di essa.  E questa nozione spuria di unità sembra trovarsi a fondamento della “teologia” della Chiesa-comunione, cioè della anomala “ecclesiologia di comunione” messa in cantiere dal Vaticano II e messa costantemente in pratica dall’ecumenismo voluto dai Papi postconcliari e del quale Giovanni Paolo II è stato un convinto profeta.
          Anche la Mystici Corporis ricorda “l’Eucaristia segno di unità”, “vivida e mirabile immagine dell’Unità della Chiesa”, ma per l’appunto solamente “segno” e “immagine”, mero simbolo della “mirabile unione” del Corpo mistico dei credenti, realizzata da Cristo, ma che né dipende esclusivamente, né è prodotta causalmente dalla S. Comunione[39].

9.  La S. Comunione realizzerebbe di per sé l’unione dei fedeli in Cristo, assunta ora a fine essenziale dell’Eucaristia

          9.1   Ritorno della “Messa-pasto”? 
          Perché dunque Giovanni Paolo II affermava che è la comunione ad attuare pienamente l’effetto salvifico del sacrificio eucaristico? Perché, scriveva, “il sacrificio eucaristico è di per sé orientato all’unione intima di noi fedeli con Cristo attraverso la comunione” (EU, 16, cit.). Il Santo Sacrificio, “di per sé” e quindi per sua natura, “è orientato” a, possiede quindi come suo fine essenziale, primario, proprio quello di unirci in modo intimo a Cristo. E di unirci, con quale mezzo, quale momento del rito? Con la S. Comunione. Se è essa a realizzare pienamente “l’efficacia salvifica” del Sacrificio, ciò significa che il senso e il significato di questo sacrificio è quello di realizzare la nostra unione con Cristo. L’unione, dunque, innanzitutto: l’unione, l’unità, la ”comunione”.
          L’idea di una consimile unione non è nuova, ovviamente.  Del tutto nuova è però la prospettiva nella quale è inserita. Perché ora l’unità con Cristo diventa lo scopo essenziale per il quale è stata istituita l’Eucaristia anche in quanto sacrificio. Ciò risulta dalle parole “il sacrificio eucaristico è di per sé orientato” appena commentate (“totalmente orientato”, dice l’art. 1382 del Nuovo Catechismo), che indicano la causa finale del sacrificio eucaristico, e dal fatto che il Papa non accennava ad altre forme di realizzazione della piena “efficacia salvifica” di questo sacrificio. Ma, che l’Eucaristia-sacrificio (S. Messa) abbia questo fine come suo fine essenziale, non risulta dall’insegnamento tradizionale della Chiesa.  Anzi, è un errore già abbozzato, e subito segnalato, fin dal lontano 1902 con la teoria della “Messa-pasto”, che faceva “consistere il carattere di sacrificio...nell’atto di unione, nel compimento del Sacramento dell’unione...in tal modo, alla Messa, la consacrazione non si verificherebbe, dal punto di vista del sacrificio, che come una necessaria preparazione alla Comunione”[40].
         
         9.2  La dottrina eucaristica del Magistero infallibile
         Il Concilio di Trento ha spiegato bene quali sono i fini per i quali Nostro Signore volle istituire la Santa Eucaristia, distinguendo accuratamente tra Eucaristia-sacrificio (Messa) ed Eucaristia-sacramento (Comunione).
         
1. “Egli volle che questo sacramento fosse ricevuto come cibo spirituale delle anime, perché ne siano alimentate e rafforzate, vivendo della vita di colui, che disse: ‘Chi mangia me, anche lui vive per mezzo mio’ (Gv 6, 28) e come antidoto, con cui liberarsi dalle colpe d’ogni giorno ed esser preservati dai peccati mortali. Volle, inoltre, che esso fosse pegno della nostra gloria futura e della gioia eterna; e quindi simbolo di quell’unico corpo, di cui egli è capo (1 Cor 11, 3; Ef 5, 23) e a cui volle che noi fossimo congiunti, come membra, dal vincolo strettissimo della fede, della speranza e della carità, perché tutti professassimo la stessa verità, e non vi fossero scismi fra noi”[41].
          Come sacramento, l’Eucaristia fu dunque istituita per dare un potente aiuto alla nostra anima, un vero e proprio “cibo spirituale”, un cibo, come si suol dire, che è “sorgente di tutte le Grazie”: il suo fine è nutrire la nostra anima con la Grazia, l’unione il mezzo per conseguirlo.  S’intende che questa “unione” è individuale, avviene nell’anima di ciascuno di noi, non ha luogo in un soggetto collettivo, come se l’assemblea dei fedeli presenti alla Messa avesse un’anima che si unisce a Cristo nella Comunione.
         
2. Come sacrificio fu istituita “affinché la Chiesa avesse un sacrificio perpetuo [la S. Messa], capace di soddisfare per i nostri peccati, e di piegare dall’ira alla misericordia, dalla severità di un giusto castigo alla clemenza, il Padre celeste, spesso gravemente offeso dalle nostre iniquità. Una figura di ciò la troviamo nell’agnello pasquale, che gli ebrei immolavano e mangiavano come sacrificio e sacramento”[42].
         Altra differenza fondamentale:  come sacrificio  (di Cristo) l’Eucaristia opera ex opere operato, cioè indipendentemente da noi; come sacramento, opera ex opere operantis cioè a seconda delle nostre personali disposizioni.
          Da questa limpida dottrina, perfettamente coerente con la Scrittura e la Tradizione della Chiesa, emerge che il fine essenziale dell’Eucaristia, in quanto sacramento, è quello di nutrire la nostra anima con la Grazia e aiutarci nella nostra lotta quotidiana contro il peccato. Il suo esser “pegno della gloria futura” è un suo fine esplicito (perché dichiarato da Nostro Signore) ma da vedersi nello stesso tempo in prospettiva, non in rapporto causale immediato con l’Eucaristia, come sembra considerarlo l’enciclica di Giovanni Paolo II (vedi supra 7.1.2.). Chi vive santamente, come se dovesse comunicarsi ogni giorno (S. Agostino), mette sicuramente una buona ipoteca sulla vita eterna, che però non acquisirà se non persevererà sino alla fine (Ap 2, 10). Guai ad adagiarsi nella vana convinzione che la Comunione ci abbia già oggettivamente (ex opere operato) guadagnato l’eterna salvezza! Oggettivamente concorre a procurarci le grandi grazie che derivano dai meriti della S. Croce, al fine di farci conseguire l’eterna salvezza. Ma noi dobbiamo soggettivamente (ex opere operantis) corrispondere con la nostra volontà a quelle grazie nella condotta di ogni giorno. Questo è ciò che la Chiesa ha sempre insegnato[43].
          Per ciò che riguarda l’idea dell’unità dei cristiani, si vede agevolmente che l’Eucaristia è stata intesa come un suo simbolo e come suo alimento: simbolo del corpo mistico che è la Chiesa cattolica, fuori della quale non c’è salvezza, ed alimento della carità fraterna (vedi anche la Mystici Corporis citata sopra).[44] Dell’unione di ogni fedele con Cristo prodotta dalla Comunione, non si parla come di un significato autonomo,  tale da costituire addirittura il fine essenziale del sacrificio eucaristico o anche il fine del sacramento. Questa unione, che nessuno certo ha mai negato, è evidentemente considerata implicita nel fatto stesso del ricevimento del cibo spirituale rappresentato dall’Ostia consacrata. Ciò che conta, per il Concilio di Trento e per i Catechismi su di esso basati, non è tanto questa unione con Cristo (fatto ovvio) quanto il nutrimento dell’anima, l’azione della Grazia che questa unione concorre a produrre in ognuno di noi, cioè al fedele che si accosti alla Comunione con le dovute disposizioni, ricevendo così l’aiuto soprannaturale, indispensabile alla sua salvezza.
          Da nessun luogo risulta che “l’unione intima con Cristo”, in quanto unione, costituisca, per il Magistero pre-conciliare, il fine primario dell’Eucaristia e nemmeno il suo frutto primario. E se ne capisce il perché. Vedere nell’unione in sé e per sé il fine essenziale del sacramento, può portare a vedere l’efficacia del sacramento unicamente ex opere operato.  Invece, come, ai fini della salvezza, l’efficacia ex opere operato non può separarsi da quella ex opere operantis, così l’unione in questione non può esser separata dal suo contenuto, che è “il cibo spirituale”, la Grazia cui dobbiamo liberamente corrispondere con la nostra volontà[45].

         Bartmann distingue bene i due significati essenziali che si debbono attribuire a questa unione, delineati con precisione già dalla Scolastica. “L’unione con Cristo si può intendere in un doppio senso, sacramentale e mistica. Si riceve il sacramento e lo si mangia. Abbiamo così un’unione esteriore e corporale. Ma essa deve trasformarsi in unione interiore e mistica; questa unione si produce con la grazia inerente al sacramento: ‘De ore in cor’ [dalla bocca al cuore] dice Ugo di S. Vittore. Mentre la prima unione [quella sacramentale] cessa dopo poco tempo, dato che spariscono dopo poco tempo le specie esteriori che ne sono la condizione, l’unione intima, l’unione mistica persiste e costituisce il fondamento reale della vita che il giusto attinge nelle forze divine”[46].
         
       9.3  L’ “unione con Cristo” secondo il Nuovo Catechismo
       È quasi superfluo ricordare che il Nuovo Catechismo conferisce un particolare rilievo al frutto rappresentato dall’unione a Cristo, inteso come il più importante tra i frutti della Comunione (artt. 1391-1401). Art. 1391: “La Comunione accresce la nostra unione con Cristo. Ricevere l’Eucaristia nella Comunione reca come frutto principale l’unione intima con Cristo Gesù … La vita in Cristo ha il suo fondamento nel banchetto eucaristico…” (sottolineature mie). Gli articoli 1392-1395 ci ricordano che: la Comunione “conserva, accresce, e rinnova la vita di grazia ricevuta col Battesimo”; “ci separa dal peccato”, perché il Sangue di Cristo è stato sparso “per la remissione dei peccati”; che essa “non può unirci a Cristo senza purificarci, nello stesso tempo, dai peccati commessi e preservarci da quelli futuri”; “fortifica la carità”. Dall’art. 1396 al 1401, ultimo della sezione, si riprende il concetto dell’unione a Cristo: l’Eucaristia (ossia la Comunione) fonda l’unità del Corpo Mistico, “fa la Chiesa” (art. 1396), “impegna verso i poveri” (art.1397), è alla base dell’unità dei cristiani (artt. 1398-1401), tant’è vero che essa costituisce un elemento comune con i “fratelli separati”, non solo “orientali” (Ortodossi) (art. 1399) ma anche protestanti (art. 1400), perché, come ha insegnato il Vaticano II, questi ultimi “pur non avendo conservata la genuina ed integra sostanza del Mistero eucaristico [negano tutto, dalla transustanziazione al sacrificio propiziatorio ed espiatorio!]” tuttavia, “mentre nella Santa Cena fanno memoria della morte e Risurrezione del Signore, professano che nella Comunione di Cristo è significata la vita e aspettano la sua venuta gloriosa” (decreto conciliare Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, 22).
        Si noterà che gli aspetti positivi attribuiti alla concezione che le varie sette protestanti professano circa l’Eucaristia, sembrano coincidere con la nuova nozione di Eucaristia proposta in sostanza dal Concilio e dal Nuovo Catechismo stessi: il banchetto memoriale della morte e resurrezione del Signore. (Sembra quasi una involontaria ammissione di colpevolezza, come se il concilio avesse voluto copiare dagli eretici).
         
        9.4  Dall’Eucaristia così intesa un impulso  prevalentemente mondano ed ecumenico
        Si noterà altresì il pochissimo spazio che il Nuovo Catechismo, dà  alle disposizioni con le quali si deve ricevere la S. Eucaristia. Si ricorda solo che non bisogna essere in peccato mortale (art. 1415). Queste disposizioni sono invece accuratamente esaminate nel Catechismo Tridentino e in quello Maggiore di S. Pio X (parr. 627-641).[47]  Questa deficienza diviene, a mio avviso, omissione nell’enciclica di Giovanni Paolo II. Tutto quello, infatti, che essa sapeva dire sulla componente ex opere operantis, sulle disposizioni che devono interagire ad opera del soggetto che fruisce del sacramento, si riduceva da un lato, a non esser in peccato mortale (obbligo della confessione sacramentale – EU 36-38); dall’altro, all’indicazione di un obiettivo intramondano, concernente l’impegno di tipo politico-ecumenico che il cristiano di oggi deve profondere, secondo i dettami della “teologia della liberazione” riveduta e corretta dalla Congregazione per la dottrina della fede.
          “Conseguenza significativa della tensione escatologica insita nell’Eucaristia è anche il fatto che essa dà impulso al nostro cammino storico, ponendo un seme di vivace speranza nella quotidiana dedizione di ciascuno ai propri compiti … Desidero ribadirlo con forza all’inizio del nuovo millennio, perché i cristiani si sentano più che mai impegnati a non trascurare i doveri della loro cittadinanza terrena. È loro compito contribuire con la luce del Vangelo all’edificazione di un mondo a misura d’uomo e pienamente rispondente al disegno di Dio [sappiamo che questa terminologia, già presente nei testi conciliari, non contemplava il concetto della conversione del mondo a Cristo]. Molti sono i problemi che oscurano l’orizzonte del nostro tempo. Basti pensare all’urgenza di lavorare per la pace, di porre nei rapporti tra i popoli solide premesse di giustizia e di solidarietà, di difendere la vita umana dal concepimento fino al naturale suo termine. E che dire poi delle mille contraddizioni di un mondo ‘globalizzato’, dove i più deboli, i più piccoli e i più poveri sembrano avere ben poco da sperare? È in questo mondo che deve rifulgere la speranza cristiana! … Annunziare la morte del Signore ‘finché egli venga’ (1 Cor 11, 26) comporta, per quanti partecipano all’Eucaristia, l’impegno di trasformare la vita, perché essa diventi, in certo modo, tutta ‘eucaristica’ [La SS.ma Vergine “donna eucaristica”, la vita del cristiano “eucaristica”, all’insegna della stessa prospettiva di tipo escatologico-millenaristico]. Proprio questo frutto di trasfigurazione dell’esperienza e l’impegno a trasformare il mondo secondo il Vangelo [impegno, lo ripetiamo, che non deve mirare a convertire i popoli al cattolicesimo ma al dialogo reciproco per trovare un’azione comune, che esprima la “verità dell’uomo” per realizzare la pace e la giustizia nel mondo], fanno risplendere la tensione escatologica della Celebrazione eucaristica e dell’intera vita cristiana: ‘Vieni, Signore Gesù!’ (Ap 22, 20)”[48].
          L’impulso alla santificazione personale suscitato in noi ex opere operato dalla S. Comunione in quanto sacramento (e dal sacrificio propiziatorio e di espiazione rinnovato incruentemente nella S. Messa) viene dunque sostituito da un “impulso al nostro cammino storico”, dall’impulso a “trasformare il mondo secondo il Vangelo” cioè a realizzare (come sappiamo) l’unità del genere umano auspicata dal Vaticano II (in particolare dalla Lumen Gentium e dalla Gaudium et Spes), unità da fondarsi non sulla conversione dei popoli a Cristo ma sui “diritti dell’uomo”, desunti dalla “dignità dell’uomo”, un Uomo del quale non si menziona più l’inclinazione al male rappresentata dal peccato originale e dalle sue conseguenze. Anche battaglie giuste e doverose, come quelle contro l’aborto, l’eutanasia, l’espianto degli organi, vengono giustificate in nome di questa “dignità” e non dell’offesa che si fa direttamente a Dio con queste pratiche abominevoli; in nome della violazione dei “diritti umani” e non della legge divina naturale e positiva.

          10. La S. Comunione intesa infine come modulo e archetipo che costituisce l’unità della Chiesa, di tutti i cristiani, del genere umano, dell’universo…

          L’unione intima che si realizza nella S. Comunione porrebbe, dunque, in essere (sorta di archetipo) un’unità e una comunione che si estendono per cerchi concentrici alla Chiesa, a tutti i cristiani, a tutto il genere umano e addirittura a tutto l’universo. Se così non fosse, che ne sarebbe della natura “cosmica” ed “escatologica” dell’Eucaristia?
          “Unendosi a Cristo, il Popolo della nuova Alleanza, lungi dal chiudersi in se stesso, diventa “sacramento” per l’umanità [Lumen Gentium, 1], segno e strumento della salvezza operata da Cristo, luce del mondo e sale della terra (Mt 5, 13-16) per la redenzione di tutti [Lumen Gentium, 9]” (EU, 22). “Con la comunione eucaristica la Chiesa è parimenti consolidata nella sua unità di corpo di Cristo [seguiva il noto passo di 1 Cor 10, 16-17]” (EU, 23); con “il dono di Cristo e del suo Spirito, che riceviamo nella Comunione eucaristica”, sviluppa la fraternità “umana” (non dei soli cristiani fra loro) e realizza sempre più profondamente quel suo essere “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano [nuova citazione di Lumen Gentium, 1: si attribuisce alla Chiesa la vocazione a realizzare l’unità del genere umano come una forma dell’intima unione con Dio che si ha nella S. Comunione]”. Infatti, “l’Eucaristia, costruendo la Chiesa, proprio per questo crea comunità fra gli uomini [fra tutti gli uomini? e ex opere operato, senza convertire nessuno?]” (EU, 24).
         
         10.1  Questione non di fede bensì di mera opportunità
          Inoltre, la S. Eucaristia edifica la Chiesa di Cristo nella “collegialità apostolica” (intesa ex art. 22 Lumen Gentium), anteriore a tutte le divisioni tra i cristiani. La S. Comunione deve dunque considerarsi alla radice dello slancio ecumenico (EU, artt. 26-33).
          A proposito dell’ecumenismo,  Papa Woytila sosteneva che il dialogo con i protestanti era “proficuo”: “significativi progressi ed avvicinamenti ci fanno sperare in un futuro di piena condivisione della fede” (EU, 30, corsivo mio). Il documento richiamava il molto citato art. 22 del decreto conciliare Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo (vedi supra), che riconosceva il valore della concezione protestante della Messa come banchetto memoriale della morte e resurrezione del Signore, ma poi invitava i cattolici alla prudenza. “Partecipare alla comunione distribuita nelle loro celebrazioni” sarebbe “ambiguo”, perché comporterebbe “una ambiguità sulla natura dell’Eucaristia e farebbe mancare, di conseguenza, al dovere di testimoniare con chiarezza la verità. Ciò finirebbe per ritardare il cammino verso la piena unità visibile…” (EU, 30, corsivo mio). Ambiguità da evitare, dunque, al pari degli “incontri di preghiera” interconfessionali e delle “celebrazioni ecumeniche inclusive della somministrazione della Comunione a chi non sia battezzato o rifiuti l’integra verità di fede sul Mistero eucaristico” (EU, 38).
          Ma questa prudenza, era imposta da ragioni di fede o da un criterio di mera opportunità? Il Papa non affermava che le pratiche da lui sconsigliate fossero contrarie alla fede.  Esse sarebbero state soltanto ambigue (soltanto ambigue!) e più che altro, avrebbero fatto ritardare il cammino verso la meta agognata, quella della “piena unità visibile”. Non bisognava quindi essere impazienti. I fedeli dovevano stare calmi. L’unità invisibile c’è già, grazie al Battesimo che (secondo la nuova dottrina in odor di eresia – come osservò Romano Amerio – proposta  dal cardinale Agostino Bea SI e penetrata nei testi conciliari) ci incorpora tutti (noi e i protestanti eretici) alla Chiesa di Cristo (decr. Unitatis Redintegratio, 3 e 4); quella visibile, al momento imperfetta, un giorno sarà anch’essa “piena”. Un giorno ci sarà “la piena comunione anche eucaristica” (EU, 30 cit.).  Un giorno, saremo in “piena comunione” con gli odierni eretici e scismatici, che saranno nel frattempo ovviamente rimasti tali!  Un giorno, per esprimerci con le parole di Joseph Ratzinger quand’era cardinale, si realizzeranno finalmente “nuove forme di unità con il Signore”[49].

        10.2  Propositi inconcepibili, teologicamente aberranti, che provocano la giusta ira di Dio su tutta la Chiesa      
         Come sia possibile una cosa del genere, una piena comunione “anche eucaristica” con le sette protestanti che hanno fatto strame della dottrina cattolica della Santa Eucaristia o con scismatici che affidano la consacrazione all’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi) e non alle parole del Signore pronunciate dal sacerdote celebrante, nessuno che sia dotato del ben dell’intelletto riesce ad immaginarlo. Questa nuova nozione dell’unità della Chiesa conduce di fatto alla nozione protestante della vera Chiesa di Cristo come “Chiesa invisibile” ed è indubbiamente uno degli errori costitutivi della “apostasia silenziosa” che caratterizza il mondo cattolico attuale[50].
          E nemmeno si riesce ad immaginare come possa l’Eucaristia contribuire alla Chiesa-comunione, inclusiva per gradi anche di Ortodossi (greco-scismatici) e protestanti. Si leggeva, infatti, nell’enciclica: “Nel considerare l’Eucaristia quale sacramento della comunione ecclesiale vi è un argomento da non tralasciare a causa della sua importanza: mi riferisco al suo rapporto con l’impegno ecumenico…” (EU, 43). Ed ecco il nesso con tale impegno: “Ogni celebrazione dell’Eucaristia è fatta in unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con il Papa, con l’Ordine episcopale, con tutto il clero e con l’intero popolo. Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come nel caso delle Chiese cristiane separate da Roma” (EU, 39, corsivi miei).
          Le Chiese cristiane separate da Roma, quali sono? Le sette scismatiche orientali, senza dubbio. E le sette protestanti?  Non vengono spesso considerate “Chiese” anch’esse?  Per restare alle prime, si deve ammettere che le loro celebrazioni eucaristiche siano “valide” al punto da “richiamare oggettivamente l’universale comunione con Pietro e l’intera Chiesa”? Ma che vuol dire qui “richiamare oggettivamente”? Indipendentemente dalle loro intenzioni?  Ex opere operato?
          Né si capisce come l’Eucaristia possa contribuire ad un’unità ancor più spuria, morta ancor prima di nascere: addirittura quella dell’intero genere umano, auspici il dialogo interconfessionale e quello  interreligioso. “Né la volontà di unità di Dio deve intendersi limitata esclusivamente ai cristiani. L’unità cristiana è invocata perché la Chiesa possa essere un segno più efficace del Regno di Dio che è Regno d’amore e di giustizia per tutta l’umanità. Infatti, la Chiesa è il segno e il sacramento di quella comunione in Cristo che è volontà di Dio per tutta la sua creazione[51].
Simili propositi, che si autogiustificavano in nome della nuova ed ambigua ridefinizione del significato della Messa, non hanno fatto altro che provocare l’ira divina nei confronti di tutti noi, vittime di un processo di autodissolvimento della Chiesa visibile iniziatosi dai suoi vertici e che è sembrato fino ad oggi inarrestabile.

Paolo  Pasqualucci,    martedì 14  febbraio 2017




[1] Vedi infra.  Il Breve esame critico del Novus Ordo Missae presentato al Pontefice Paolo VI dai cardinali A. Ottaviani e A. Bacci, con una loro prefazione, nella Pentecoste del 1969, notava, per l’appunto, come la Nuova Messa rappresentasse “sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i “canoni” del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del Magistero” (Supplemento al n. 1/2000 di Inter Multiplices Una Vox, Foglio di informazione per la tradizione cattolica, di pp. 31; p. 3.  Il documento notava come nella Nuova Messa si ponesse “ossessivamente l’accento sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario” (op. cit., p. 9).
[2]  Mi sia consentito rinviare, a questo proposito, a:  Paolo Pasqualucci, Il Concilio parallelo.  L’inizio anomalo del Vaticano II, Fede & Cultura, Verona, 2014, pp. 123.
[3] S. S. Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia. Lettera enciclica del Sommo Pontefice sull’Eucaristia nel suo rapporto con la Chiesa (=EU), Progetto Editoriale Italiano, Vigodarzere, 2003.
Le parentesi quadre nelle citazioni sono mie, salvo espressa dichiarazione in contrario.  Per l’originale latino, ho confrontato al tempo gli Acta Apostolicae Sedis.  Per questa revisitation mi sono invece servito di: Giovanni Paolo II, Tutte le Encicliche, con testo latino a fronte, a cura di mons. Rino Fisichella, Bompiani, 2010, Saggio introduttivo e prefazione ad ogni enciclica dello stesso mons. Fisichella, Indici e revisioni dei testi di Emmanuele Vimercati. La presente è:  Iohannis Pauli PP. II, Summi Pontificis Ecclesia de Eucharistia, pp. 2382-2479, con Prefazione dello stesso mons. Fisichella, pp. 2369-2381.   Quest’enciclica è stata sottoposta a severi rilievi critici, condotti dal punto di vista della teologia tradizionale della S. Messa, nel trimestrale dei Domenicani di Avrillé, in Francia: Le Sel de la terre, 45, été 2003, Ecclesia de Eucharistia: quelle eucharistie pour quelle Église ?, pp. 1-8; ib., 46, automne 2003, P. Peter R. Scott, L’encyclique Ecclesia de Eucharistia, pp. 16-22.
[4] Sul punto, Louis Ott, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. Salvator-Castermann, Mulhouse, Tournai, Paris, 1955, p. 524; Enchiridium Patristicum,  collegit M.J. Rouët de Journel. S. I., Herder, Barcinonae-Romae, 1981, 128.
[5] Per l’interpretazione dell’art. 39 della Gaudium et Spes, mi sia consentito rinviare a: Paolo Pasqualucci, L’alterazione dell’idea del sovrannaturale nei testi del Vaticano II, in Atti del IV Congresso Teologico di “Sì sì no no”, Roma, 3-5 agosto 2000, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2003, pp. 195-236, pp. 207-213.
[6] Dizionario Biblico, diretto da Francesco Spadafora, 3ª ed. riv. e ampliata, Studium, Roma, 1963, voce Magnificat.
[7] Questa interpretazione del significato del Vaticano II, è quella che Woytila ha dato del Concilio, sia da cardinale che da papa, ed è in sostanza quella fatta propria dalla Gerarchia attuale. Essa risale, del resto, al promotore del Concilio stesso, Giovanni XXIII, che lo ha presentato e impostato come se si fosse trattato per l’appunto di una “Nuova Pentecoste”, da lui convocata per diretta ispirazione divina.  Sul punto, cfr. Johannes DÖrmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, tr. it. Ichthys, Albano Laziale, I, pp. 25-41, sul senso e sullo spirito del concilio come risulta dai documenti conciliari; II, pp. 43-49, sulla Chiesa riformata del Concilio come Chiesa del “Nuovo Avvento” nel pensiero di Giovanni Paolo II.
[8] Cfr. costituzione conciliare Sacrosantum Concilium sulla Sacra Liturgia, artt. 22, 23, 38, 39, 40; decreto conciliare Christus Dominus, sull’ufficio pastorale dei vescovi, art. 38.
[9] Du séminaire diocésain "Saint-Pie X” à la Fraternité Saint-Pie X. Des séminaristes de Bombay témoignent, in:  Sel de la Terre, n. 45, été 2003, pp. 209-226. 
[10] Oltre alla induizzazione  del rito c’è stata anche la sua africanizzazione, cioè la sua contaminazione con i costumi e le credenze locali (culto degli antenati, pratiche vodoo etc.). Vedi:  AAVV, Dialogo tra le culture.  Chiesa e umanesimo planetario, Città Nuova, Roma, 1988, pp. 68-88 per l’Africa.  La Liturgia si è “inculturata” continente per continente.  C’è una celebre foto che ritrae Papa Woytila mentre si fa segnare in fronte il circoletto di Shiva (il tilak) da una ierodula locale, durante una cerimonia interreligiosa nel subcontinente indiano.
[11]  Che si sia trattato di una invenzione novecentesca, l’ha dimostrato il grande liturgista, P. Louis Bouyer in un suo saggio del 1945.  Vedi sul punto:  Paolo Pasqualucci, Cattolici in alto i cuori! Battiamoci senza paura per la rinascita della Chiesa, Fede & Cultura, Verona, 2013, p. 66 ss., con le fonti ivi citate.  Il P. Bouyer ha documentato che nella Patristica e nel Medio Evo l’espressione usata era paschale sacramentum e non paschale mysterium, termine privo di equivalente in greco.  Il P. Bouyer aveva definito pubblicamente “miserabili carnevalate” i riti della nuova liturgia.  
[12] Fraternità Sacerdotale San Pio X, Il problema della riforma liturgica. La Messa del Vaticano II e di Paolo VI. Studio teologico e liturgico, Ed. Ichthys, 2001, p. 21.
[13] Op. cit., p. 85.  Nel Breve Esame Critico, era scritto:  “Anche la formula “Memoriale Passionis et Resurrectionis Dominiè inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in se stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente”.  E in nota ricorda che l’anámnesi Unde et memores del rito Ordo Vetus, aggiunge nel ricordo anche l’Ascensione, ma distinguendo “nettamente e finemente” poiché recita:  “Unde et memores [...]tam beatae Passionis, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in caelum gloriosae Ascensionis” (op. cit., p. 9).  E difatti:  “ricordando così la beata Passione, senza escludere la Resurrezione dagli inferi, come pure la gloriosa Ascensione al cielo”.  Si noti la diversa gradazione della sequela:  tam...nec non...sed et.
[14] Mons. Marcel Lefebvre, La Chiesa dopo il concilio, conferenza tenuta il 6 giugno 1977 a Roma, dipoi in Id., Il colpo maestro di Satana, Il Falco, Milano, 1978, pp. 7-42, citaz. alle pp. 16-17.
[15] Cfr. Bruno Forte, La Chiesa nella Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, ed. S. Paolo, Milano, 1995, pp. 204-205, corsivi miei: “La Chiesa ‘de Trinitate’ è il popolo adunato dalla Trinità per la sua gloria, partecipe della sua vita divina e modellato sulle relazioni che uniscono le divine Persone nella loro distinzione e nell’insondabile unità del loro amore essenziale: ‘Così la Chiesa universale si presenta come un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo’ [Lumen Gentium, 4, che riprende S. Cipriano: de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata – il quale, a tacer d’altro, non includeva tuttavia nella plebs adunata né tutti gli uomini in quanto tali né gli eretici e scismatici]… Questa unità cattolica si esprime storicamente nella varietà delle sue concretizzazioni, comunicanti fra di loro in un rapporto di compenetrazione reciproca, analogo al mistero della mutua inabitazione delle Persone divine (‘pericoresi’), tanto che la Chiesa universale si manifesta come comunione di Chiese… A questo mistero di unità partecipano anche in varia misura quelle realtà ecclesiali, che non hanno conservato la pienezza della comunione cattolica, e che pure ad essa sono intimamente unite secondo dei veri e propri ‘gradi di comunione’”. (Ricordiamo che nella enciclica Mystici Corporis, del 1943, Pio XII ammoniva a servirsi con estrema prudenza del dogma della “inabitazione” reciproca delle persone della SS.ma Trinità per tentare di spiegare l’inabitazione dello Spirito Santo in ciascuno di noi, nell’azione della Grazia: cfr. tr. it., Vita e pensiero, Milano-Roma, 1959, p. 63. Ora si vuole addirittura spiegare l’intera natura e struttura di una “Chiesa di Cristo” allargata agli acattolici [sic] in base a questo dogma).
[16] Conferenza episcopale dell’Emilia-Romagna, Islam e Cristianesimo, Documenti Chiese Locali, n. 99, ediz. Dehoniane, Bologna, 2000, p. 30. Corsivi miei. Nemmeno ha il coraggo di dire, il documento:  “fa memoria del Signore crocifisso”.  Certo, per i maomettani la Crocifissione è un’atroce bestemmia, il Corano (4, 156) riprende l’eresia docetista che la negava come cosa indegna della natura divina di Cristo.  Ammettono pero’ i maomettani una sorta di Ascensione in cielo con il corpo di ‘Îsà che forse vuol dire Esaù, da dove tornerà il Giorno del Giudizio per mandare all’Inferno per sempre i Cristiani (giudicandoli dal minareto della moschea di Damasco), poiché credono (“Allah li combatta! quanto essi errano!”, Cor. 9, 30) che egli sia Figlio di Dio! Ma il significato della Messa si è erroneamente spostato sulla Resurrezione, sulla celebrazione della Gioia del Cristo Glorioso, perché questa è la logica distorta  intrinseca alla Nuova Messa, a prescindere dai rapporti con le altre religioni.
[17] Fraternità sacerdotale S. Pio X, Il problema della riforma liturgica, cit., p. 16.
[18] Cfr. Peter R. Scott, Commentaire de la lettre apostolique Rosarium Virginis Mariae, con le aggiunte, Le sel de la terre, n. 45, été 2003, pp. 123-166.
[19] Pierre Teilhard de Chardin, Œuvres, t. 10, Comment je crois, Ed. du Seuil, Paris, 1969, p. 90. Si tratta del testo di una conferenza inedita del 1923, op. cit., pp. 73-91.
[20] Op. cit., p. 293.
[21] S.S. Giovanni Paolo II, Dominum et vivificantem.  Lettera enciclica di Giovanni Paolo II sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo, edizioni paoline, 1986, par. 50.  Corsivi nel testo.
[22] Johannes Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi.  IV:  La “teologia trinitaria”.  Parte Terza:  Dominum et vivificantem, tr. it. cit., pp.  170-172.  
[23]  EU, 14.  Corsivo mio.  Testo latino:  “Sacrificium namque eucharisticum non modo in praesertim reducit passionis mortisque Salvatoris mysterium, verum etiam resurrectionis mysterium, suam ubi consummationem attingit sacrificium”.  Vedi anche l’inizio del par. 15 di EU:  “Sacrificii Christi in Sancta Missa sacramentalis repraesentatio, quod resurrectione eius cumulatur, secum singularem quandam praesentiam infert quae “realis” dicitur…”:  “La ripresentazione sacramentale nella Santa Messa del sacrificio di Cristo coronato dalla sua risurrezione implica una specialissima presenza che si dice “reale”…”(Giovanni Paolo II, Tutte le encicliche, cit., pp. 2402-2405).   
[24] Catechismo Tridentino, tr. it. di P. Tito S. Centi O.P., Cantagalli, Siena, 1981, n. 216, pp. 260-261. Pubblicato in latino nel 1566, regnante san Pio V,  in obbedienza ad una direttiva del Concilio di Trento, tradotto in italiano subito dopo con il titolo:  Catechismo romano ad uso dei parroci (vedi l’Introduzione del P. Centi:  op. cit., pp. 5-17).
[25] Catechismo Tridentino, tr. it. cit.,  n. 216 cit., p. 261.
[26] È noto che il testo latino del Novus Ordo (o Institutio Generalis Missalis Romani) ha mantenuto “per molti”. Per tutti si trovava però in tutte le versioni in volgare della Cattolicità, tranne che in Polonia e in Portogallo, a quanto sembra. Giovanni Paolo II stesso si serviva del “per tutti” nell’enciclica in italiano. L’edizione ufficiale dell’enciclica pubblicata dagli AAS aveva però “pro multis”. Una bella confusione. (Sulla questione: “Le Sel de la terre”, “Pro omnibus” ou “pro multis” ? n. 46, automne 2003, pp. 1-6. Un’edizione del Messale Festivo dei fedeli, Anno A-B-C, stampata dall’editore romano Coletti nel 1982, che ancora possiedo, con il testo ufficiale della CEI, reca in bella vista sempre:  “VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI”, nelle varie formulazioni della “preghiera eucaristica”).  
[27] Frat. Sac. S. Pio X, Il problema della riforma liturgica, cit., pp. 20-21.  Corsivo mio.
[28] Op. cit., pp. 85-87, 95.
[29] Vedi: Francisco Zorell. S.I., Lexicon Graecum Novi Testamenti, 1904, rist. anast., Biblical Institute Press, Rome, 1978, voce:  kat-aggéllō
[30] Si tratta del cap. II del Decreto “sul santissimo sacramento dell’Eucaristia”, sessione XIII del Concilio di Trento (11 ottobre 1551), come tradotto in: Decisioni dei Concili Ecumenici, a cura di Giuseppe Alberigo, UTET, Torino, 1978, tr. it. di Rodomonte Galligani, p. 578.
[31] Bernard Bartmann, Précis de Théologie dogmatique, tr. fr. Salvator-Castermann, Mulhouse, Paris, Tournai, 1951, II, p. 358.
[32] Sul punto: Fr. Pierre-Marie O.P., La sainte messe: saint Thomas d’Aquin face au mystère pascal, Le Sel de la terre, n. 45, été 2003, pp. 48-107, p. 60 ss.
[33] P. Peter R. Scott, L’encyclique Ecclesia de Eucharistia, cit., p. 18.
[34] S. S. Pio XII, enciclica Mediator Dei, cit., p. 92.  
[35] S.S. Pio XII, enciclica Mediator Dei, p. 78.
[36] Bartmann, op. cit., II, p. 384, L’edizione tedesca originale è del 1932. L’ammonimento doveva esser rivolto ai nuovi teologi e contro tendenze affioranti nel Movimento Liturgico.
[37] Sul punto, Frat. Sac. S. Pio X, Il problema della riforma liturgica, cit., 63 ss., 87 ss., 15 ss.
[38] Catechismo Tridentino, par. 236, tr. it. cit., pp. 289-290.
[39] Enciclica Mystici Corporis, tr. it. cit., pp. 65-66.
[40] A. Piolanti, Eucaristia, ed. Desclée 1957, p. 584:  Recenti deviazioni dottrinali sull’Eucaristia, di A. Michel. L’atto di unione sarebbe appunto costituito dalla comunanza del banchetto eucaristico, dal sacro “pasto” in comune dei fedeli quale momento culminante della Messa poiché in esso si realizzerebbe effettivamente il significato sacrificale [sic].   
[41] Concilio Tridentino, sess. XIII, tr. it. di R. Galligani in Decisioni dei concili ecumenici, a cura di A. Alberigo, Torino, UTET, 1978, p. 578 (DS, 875/1638). Sottolineature mie.
[42] Catechismo Tridentino, par. 235, tr. it. cit., p. 289, che riassume la dottrina insegnata nella XXII sessione del Concilio di Trento, dedicata al “santissimo sacrificio della Messa”.
[43] Rileggiamo le parole rivolte da Pio XII ai sacerdoti e predicatori della Quaresima, nella allocuzione tenuta il 17 febbraio 1945 a Roma. È ben vero che i sacramenti operano ex opere operato, disse il Papa, “tuttavia la disposizione e la cooperazione di colui che li riceve concorrono con l’azione del sacramento per conseguire l’effetto che gli è proprio. Questo concorso dell’umana volontà è talmente essenziale che, secondo la dottrina della Chiesa, nessuno che abbia l’età della ragione può ricevere validamente e tantomeno degnamente e con frutto un sacramento se non è nelle condizioni necessarie. Bisogna aprire il proprio animo al sacramento e al torrente della grazia perché quest’ultima possa liberamente inondarlo e riempirlo” (La Liturgia, Edizioni Paoline, nn. 478-479).
[44] Cfr. Catechismo Tridentino, § 214 nonché § 228, tr. it. cit., p. 277: “L’Eucaristia, infatti, è il fine di tutti i sacramenti e il simbolo dell’unità associativa dei membri della Chiesa, fuori dalla quale nessuno può conseguire la grazia”. Vedi anche il Catechismo Maggiore di S. Pio X, paragrafi: 623, 624, 625, 626.
[45] Tra i fini per i quali è stata istituita l’Eucaristia e gli effetti che le sono propri, che tendono ovviamente a coincidere con quei fini, il Catechismo Maggiore di S. Pio X, ricordato alla nota precedente, non include nemmeno il fatto in sé dell’unione con Cristo, insistendo piuttosto sul fatto che l’Eucaristia è “cibo dell’anima nostra” che “conserva e accresce la vita dell’anima, che è la grazia” (§ 623, § 625 cit.). È vero che il decreto pro Armenis (22 nov. 1439), nell’illustrare l’Eucaristia, sembra dar particolare rilievo al suo significato di “unio populi christiani ad Christum” (DS, 1320-1322), ragion per cui il suo effetto principale sarebbe la “adunatio hominis ad Christum” (S. Tommaso), che produce “l’aumento della grazia”. Tuttavia va sottolineato che, per il punto che ci interessa, il decreto fa testo sino ad un certo punto:  rivolgendosi ad eretici e scismatici desiderosi di tornare all’ovile, era ovvio che insistesse con particolare forza sull’utilità che il sacramento dimostra per il mantenimento dell’unità della Chiesa.  Ed è vero o no che, ai nostri giorni, i frequentanti la Nuova Messa ritengono per lo più esser il significato dell’Eucaristia soprattutto quello di realizzare e mantenere l’unità del Popolo di Dio, che coinciderebbe con la “Chiesa di Cristo” allargata agli acattolici (Lumen Gentium, 8) e magari con tutto il genere umano (Lumen Gentium, 1), tutti uniti nell’attesa dell’Avvento gioioso del Cristo Glorioso?].
[46] Op. cit., II, p. 357. Sottolineature mie.
[47]  Il Catechismo Tridentino nomina ben cinque disposizioni spirituali, alle quali vanno aggiunte quelle corporali (digiuno, continenza  dei coniugati “per qualche giorno dalla copula”), ai fini di una degna preparazione a questo sublime Sacramento.  Le disposizioni spirituali sono:  credere effettivamente che “nell’Eucaristia è presente il vero corpo e sangue del Signore”; essere sicuri di essere “in pace con tutti”; aver fatto diligentemente l’esame di coscienza ed essersi confessati dei propri peccati, se mortali; considerare in silenzio la nostra indegnità “e ripetere di cuore la parola del Centurione” (Mt 8, 10); “esaminarci e vedere se possiamo far nostre le parole di Pietro:  O Signore, tu sai che io ti amo – Gv 21, 17”(par. 230, tr. it. cit., pp. 280-283).  Ora, con il cap. VIII della discussa Esortazione Amoris Laetitia sull’amore nella famiglia di Papa Francesco, sembra che, in certe circostanze, possa venir addirittura meno l’obbligo di non trovarsi in peccato mortale prima di comunicarsi!
[48] Ecclesia de Eucharistia, 20. Corsivi miei.  Si confronti: S. Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione su alcuni aspetti della “Teologia della Liberazione”, Città del Vaticano, 1984, tutta la parte finale, intitolata XI – Orientamenti con la Conclusione, pp. 29-35.
[49]  Joseph Ratzinger, Il Dio vicino.  L’Eucaristia cuore della vita cristiana, tr. it., Ediz. S. Paolo, Milano, 2003, p. 52, corsivi miei:  “…dovremmo accostarci anche alla questione dell’intercomunione con la dovuta umiltà e pazienza.  Non è compito nostro fare come se l’unità già ci fosse, dove, invece, non c’è ancora…Invece di fare esperimenti e privare il mistero della sua grandezza, riducendolo ad uno strumento nelle nostre mani, dovremmo anche noi imparare a celebrare l’eucaristia del desiderio e ad andare incontro nella preghiera comune e nella speranza a nuove forme di unità con il Signore”. La concezione evolutiva della Liturgia dell’allora cardinale Ratzinger (da lui mai rinnegata) appare irrazionale perché fondata sull’idea di un progresso continuo verso un “Nuovo” che resta vago ed indeterminato, quasi potesse risultare dall’arricchimento reciproco e spontaneo, creativo delle forme liturgiche esistenti,  quando in realtà si tratterebbe solo della loro contaminazione sincretistica.  Tale contaminazione si nota, del resto, già nel rito fabbricato a tavolino del Novus Ordo. Vedi:  Maria Guarini, La questione liturgica, con Presentazione  di Brunero Gherardini, Solfanelli, Chieti, 2015, cap. III: Trasformazione dell’Offertorio in Berakah ebraica, pp. 37-43.
[50] Fraternità Sacerdotale San Pio X, Dall’ecumenismo all’apostasia silenziosa. Venticinque anni di Pontificato, Menzingen, 2004, p. 13 ss.; p. 23 ss.
[51] Dichiarazione comune con l’Arcivescovo di Canterbury, del 2 ottobre 1989, in La traccia. L’insegnamento di Giovanni Paolo II, riv. mensile, n. 10, p. 1022-23, citazione a p. 1023.