La nuova dottrina di
Ecclesia de Eucharistia, ultima enciclica di Giovanni Paolo II,
che proponeva la Messa “cosmica” ed “escatologica”.
Sommario: Premessa. 1.Introduzione. 2. Il contenuto essenziale dell’enciclica. 3. Il Papa deplorava i molteplici e variegati
abusi dell’Eucaristia. 3.1 Un esempio concreto del caos dottrinale e
pastorale che imperversava nella Chiesa, coinvolgendo la Liturgia. 4. Le verità di fede richiamate da Giovanni
Paolo II a proposito dell’Eucaristia. 5.
L’enciclica si situava sempre nell’orbita del Nuovo Catechismo, nel quale si
riflettevano le novità conciliari: 5.1
Una nuova concezione della Messa. 5.2
L’ombra della nuova concezione della Chiesa penetrata nel Concilio. 5.3 Una
corrotta teologia della Redenzione. 6.
La rappresentazione dell’’Eucaristia nell’enciclica woytiliana. 7.
Osservazioni su alcuni punti essenziali dell’enciclica: 7.1
Qual è il significato autentico del “Mysterium fidei”, come impiegato
nel Novus Ordo? “Cosmico” ed “escatologico”, banchetto nel quale si consuma il
Cristo glorioso... 7.1.1. Il mutamento
di senso della Messa è confermato dall’enciclica. 7.1.2
La Nuova Messa vuol essere “cosmica” ed “escatologica”. 7.1.3 Il nuovo vertice della Messa: la S. Comunione, al posto della
Consacrazione. 8. La S. Comunione ritenuta da Papa Woytila all’origine
della “Chiesa di Cristo” fin dall’ultima Cena
9. La S. Comunione realizza di per sé l’unione dei fedeli in Cristo,
assunta a fine essenziale dell’Eucaristia.
9.1 Ritorno della
“Messa-pasto”? 9.2 La dottrina
eucaristica del Magistero infallibile.
9.3 L’“unione con Cristo” secondo
il Nuovo Catechismo. 9.4 Dall’Eucaristia così intesa un impulso prevalentemente
intramondano ed ecumenico. 10. La S. Comunione intesa infine come modulo e
archetipo dell’unità della Chiesa, dei cristiani, del genere umano,
dell’universo: 10.1 Questione non di fede bensì di mera
opportunità. 10.2 L’enciclica si mostrava degna dell’ira divina abbattutasi sulla Chiesa
a partire dal Concilio. 10.3 Propositi inconcepibili, teologicamente
aberranti, che provocano la giusta ira di Dio su tutta la Chiesa.
Premessa
Riproduco
un articolo da me pubblicato in due puntate su sì sì no no dell’anno 2 0
0 4 (XXX) nn. 15 e 16, con il
titolo: Riflessioni su alcuni aspetti
dell’enciclica ’Ecclesia de Eucharistia’, firmato con lo pseudonimo
di Canonicus , giusta la prassi di quel periodico.
L’attualità
dell’argomento mi sembra fuor di questione.
Il testo è nella sostanza il medesimo anche se l’ho rivisto integralmente
e modificato in diverse parti, approfondendo alcuni punti. L’Introduzione è, ovviamente, del
tutto nuova. L’apparato delle note è stato notevolmente ampliato. Ringrazio
il direttore di sì sì no no, Maria Caso, per aver cortesemente
acconsentito a pubblicarlo come singolo articolo.
1. Introduzione
L’ultima
enciclica di Giovanni Paolo II fu data il 17 aprile 2003, avendo ad oggetto
“l’Eucaristia nel suo rapporto con la Chiesa”, come risulta dal
sottotitolo. Si era resa necessaria per
denunciare i molteplici e diffusi abusi liturgici, a quanto pare caratteristica
ineliminabile dal rito della Nuova Messa, improntato alla creatività del
celebrante e all’aggiornamento nei confronti delle culture locali. Ovviamente, Giovanni Paolo II non si limitava
alla denuncia dei mali ma riproponeva la corretta concezione di questa Nuova
Messa (Novus Ordo). Pilastro di
tale concezione era il nesso tra Eucaristia e Chiesa. La dottrina esposta nell’enciclica, infatti,
mentre da un lato ribadiva alcune verità di fede fondamentali, dall’altro le
inseriva in una visione conferente alla Messa un significato diverso da
quello della plurisecolare Messa di sempre, di rito romano antico (Ordo
Vetus). Per esprimere lapidariamente
la mutazione: da celebrazione del
Sacrificio della Croce a celebrazione della Gloria della Resurrezione nella comunione
costituita dal sacro banchetto memoriale. E ciò grazie all’impiego del nuovo concetto
di “mistero pasquale”, che fece la sua comparsa nei testi del Vaticano II, racchiudente
a pari titolo la passione, la morte, la resurrezione del Signore (costituzione Sacrosanctum
Concilium sulla sacra Liturgia, artt. 61, 106, 109). Nell’Eucaristia ossia
nella Nuova Messa si avrebbe, pertanto, la celebrazione dell’intero mistero
pasquale, cosa che imprimerebbe al rito un dinamismo
caratterizzato dall’Attesa comunitaria del ritorno del Risorto, dalla tensione
escatologica verso la Parousia. Il
significato sacrificale della Messa non viene abolito, ovviamente, ma
inquadrato in una prospettiva più ampia, quella escatologica della Venuta
del Signore, che sembra come superarlo e metterlo sullo sfondo. Di questa rilevante mutazione di senso fanno
fede, in particolare, le modifiche introdotte nella formula della Consacrazione,
con la diversa collocazione dell’espressione Mysterium Fidei, collegata,
in apparente ripetizione del versetto 11, 26 della Prima Lettera ai Corinti,
non più alla “remissione dei peccati” (come nell’Ordo Vetus) ma alla
“proclamazione” della Resurrezione del Cristo, in attesa della sua Venuta.
Caricando
la Messa di valenze escatologiche, Papa Woytila ne proclamava anche un supposto
carattere “cosmico” e in termini che ricordavano le singolari “visioni” di un Teilhard
de Chardin. Pertanto, mi sembra del
tutto corretto affermare che, mescolate alla riproposizione della dottrina di
sempre, nell’ultima enciclica di
Giovanni Paolo II emergono non piccole novità, che toccano anche la
dottrina ossia la corretta teologia della Messa. E queste novità è nostro
dovere di cattolici individuare criticamente e segnalare agli altri fedeli. Intrecciate alla struttura tradizionale in
parte ancora mantenuta nella Nuova Messa, in parte perché mutilata di
diverse componenti essenziali (dell’Introito, dell’Offertorio, dell’ultimo
Vangelo e di vari altri aspetti importanti, elencati nel Breve esame critico),
queste novità conferiscono all’attuale rito Novus Ordo la sua
caratteristica e ben nota ambiguità, che alcuni non esitano oggi a
tentare di estendere al rito romano antico, meritoriamente “sdoganato” da
Benedetto XVI, con il proporre delle forme di integrazione fra i due
riti: un abominio liturgico mai visto.
Il
successore di Giovani Paolo II, Benedetto XVI, ha intrapreso un’opera
benemerita di eliminazione degli abusi della Nuova Messa, che è ancora quella
della stragrande maggioranza dei fedeli, sostanziatasi l’opera nell’Istruzione Liturgiam
authenticam, che ha giustamente imposto all’intera Chiesa una
revisione ufficiale delle traduzioni in volgare dell’Institutio Generalis della Nuova
Messa. In tal modo si è imposto un testo
filologicamente corretto e teologicamente coerente, che faceva piazza pulita
del ciarpame che l’aggiornamento
vi aveva nel frattempo incrostato. Si
dovrebbe dire, tuttavia, che ha tentato di imporre perché Benedetto XVI si
è scontrato con sorde e diffuse resistenze, la più nota delle quali concernente
il “per tutti” della consacrazione del vino, che molti celebranti si sono
rifiutati di sostituire con il “per molti” dell’Ordo Vetus, pur
mantenuto nell’Istitutio Generalis del Nuovo Messale.
Ma
i frutti dell’opera di chiarificazione e pulizia liturgiche perseguita da
Benedetto XVI, anche se forse non abbondanti, sono comunque messi oggi in
pericolo da una recente iniziativa di Papa Francesco: l’istituzione di una
commissione mirante a rivedere le revisioni ordinate da Ratzinger, in nome dell’inculturazione
e del decentramento, due fra i caposaldi della riforma liturgica
promossa dal Vaticano II, funzionali al creativo principio della sperimentazione
sciaguratamente immesso nella riforma medesima. L’iniziativa di Papa Francesco, che invoca
spesso e volentieri il Concilio a sostegno della sua pastorale, va sempre
interpretata, a mio avviso, tenendo sullo sfondo la trasformazione del
significato della S. Messa sopra accennato, frutto inevitabile di una riforma
liturgica nella quale sono penetrate diverse fra le istanze audacemente innovatrici
del Movimento Liturgico degli anni Venti-Trenta del secolo scorso, fatte
proprie dalla nouvelle théologie, ben rappresentata, come
sappiamo, tra gli esperti delle Commissioni conciliari, grazie
all’acquiescenza e complicità dei Papi al tempo regnanti. In ogni caso, quest’iniziativa di Papa
Bergoglio rivela il fallimento del tentativo ratzingeriano (di per sé
ineccepibile) di eliminare (senza poterlo dire) la perniciosa creatività
liturgica all’insegna dello sperimentalismo imperversante nella Nuova
Messa, con l’imporre un testo tradotto accuratamente rivisto per tutti dalla
Curia, l’organo sicuramente più competente alla bisogna.
La
grave crisi della liturgia del Nuovo Rito costringeva a privilegiare di nuovo
l’azione saggia e mirata dell’autorità centrale, unico modo di opporsi
all’anarchia dominante, apportatrice di ogni sorta di errori ed eresie. Ma
quest’impostazione era evidentemente agli antipodi del modo di pensare di Papa
Francesco, che si ispira alla “teologia popular”, variante della teologia della
liberazione, nell’ottica della quale, l’iniziativa dal basso (o che appare
tale), popolare, decentrata, spontanea e innovatrice, dovrebbe aver parte
preponderante nell’esser – Chiesa.
Questo
irrituale esser-Chiesa si trova perfettamente a suo agio con il
mutamento di significato della Messa ambiguamente insufflato dal rito del Novus
Ordo. E su questo mutamento
nemmeno lo stesso Benedetto XVI aveva, per la verità, qualcosa da obiettare, a
quanto se ne sa. L’iniziativa
intrapresa da Papa Francesco rischia ora di riaprire il Vaso di Pandora
dell’anarchia liturgica parzialmente eliminata dagli sforzi del suo
predecessore. Ciò dimostra, ancora una
volta, che la Chiesa tutta potrà cominciare ad uscire effettivamente dalla
presente, terribile crisi solo ritornando a celebrare l’unico e vero rito da
sempre cattolico, l’Ordo Vetus o romano antico, il cui Canone risale ai
tempi apostolici, mantenuto in vita grazie alla dura e coraggiosa battaglia
sostenuta (ormai da quasi cinquant’anni) dalla Società degli Apostoli di
Gesù e Maria, meglio nota come Fraternità Sacerdotale S. Pio X,
fondata con tutti i crismi del diritto canonico nel 1970 in Isvizzera da S. E.
Mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), di felice memoria (al quale si è affiancato
per tanti anni nella lotta il vescovo brasiliano S. E. Mons. Antonio Castro
Mayer – 1904-1991).
2. Il contenuto essenziale dell’enciclica
L’enciclica Ecclesia de Eucharistia, data il 17 aprile 2003 in sessantadue
brevi paragrafi, si occupa dell’“Eucaristia nel suo rapporto con la Chiesa”,
come spiegato nel sottotitolo.
Il nucleo
teologico fondamentale del documento è in effetti costituito
dall’esposizione di questo rapporto, colto nella seguente progressione:
1. nel “mistero della fede”, come
reso nella nuova formula introdotta nella messa del Novus Ordo per esser recitata dai fedeli ad alta voce subito dopo
la consacrazione del vino fatta dal sacerdote, formula la quale, secondo
l’enciclica (EU, 18), farebbe emergere la “proiezione escatologica” che
contrassegna la Celebrazione eucaristica: “Mistero della fede! Annunziamo la
tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua
venuta!” (parte I dell’Enciclica, EU, 11-20);
2. nella “edificazione della Chiesa”
come “sacramento” che è “segno e strumento dell’intima unione con Dio e
dell’unità di tutto il genere umano” (II, EU, 21-25);
3. nella conseguente “apostolicità”
della Chiesa, la Chiesa-comunione, scaturita dal Vaticano II (IV, EU, 34-36,
intitolata “L’Eucaristia e la comunione ecclesiale”);
4. ed infine, secondo una concezione
del tutto particolare all’attuale pontefice, nella figura di Maria Santissima
come “donna eucaristica”, dato che l’Eucaristia, affermava il Papa riprendendo
di fatto a modo suo l’antico parallelo di S. Giustino martire tra Eucaristia e
Incarnazione, “mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al
tempo stesso in continuità con l’incarnazione. Maria concepì nell’Annunciazione
il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue, anticipando
in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente
che riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore”
(EU, 55).
Ma S. Giustino si serviva del paragone
solo per spiegare ai pagani, increduli e vittime di informazioni deformate e
calunniose sui misteri celebrati nel culto cristiano (siamo nel II secolo), che
la presenza di Nostro Signore nell’ostia consacrata – corpo e sangue – è reale come l’Incarnazione, è corpo e sangue come nell’Incarnazione.
Il Papa, invece, se ne serviva per costruire la figura di Maria come “donna eucaristica”,
concetto che non sembra chiarissimo. La S.ma Vergine, nel Magnificat, farebbe apparire, secondo il Papa, la medesima
“tensione escatologica dell’Eucaristia”, quella tensione grazie alla quale, “ogni volta che il Figlio di Dio si
ripresenta a noi nella ‘povertà’ dei segni sacramentali, pane e vino, è posto
nel mondo il germe di quella storia nuova in cui i potenti sono ‘rovesciati dai
troni’ e sono ‘innalzati gli umili’ (cfr. Lc 1, 52). Maria canta quei ‘cieli
nuovi’ e quella ‘terra nuova’ che nell’Eucaristia trovano la loro anticipazione
e il loro ‘disegno’ programmatico” (EU, 58).
Come si vede da questi pochi cenni,
l’enciclica si muoveva sempre all’interno dell’ottica inaugurata dal
Vaticano II. I “cieli nuovi” e la “terra nuova” rammentati dal papa, sono
espressamente quelli dell’art. 39 della Gaudium
et Spes, che prospetta una visione del Regno di Dio piuttosto ambigua, dai
tratti naturalistici e millenaristici. In simile visione, l’enciclica sembrava
voler far rientrare anche l’Eucaristia e la Santissima Vergine.
Ma lo spirito del Magnificat, come inteso
dalla Tradizione della Chiesa, non è quello che sembra qui attribuirgli
il Papa. “Il Magnificat è un inno di lode all’Onnipotente, per il mistero
dell’Incarnazione che, silenziosamente, si era compiuta nel castissimo seno
della Vergine, e sviluppa questi concetti: a) nonostante la pochezza della sua
serva, Dio ha compiuto in Lei grandi prodigi (immacolata Concezione, divina
Maternità, perpetua verginità, favori tutti, che ‘esigevano’, poi, l’assunzione
in Cielo) e perciò tutti i popoli la proclameranno ‘Beata’; b) le meraviglie
operate in Maria, come pure i molti altri favori concessi da Dio lungo il corso
dei secoli ai suoi servi fedeli, mettono in chiara luce i suoi tre fondamentali
attributi: la potenza, la santità, la misericordia; c) con particolari, desunti
dalla condotta ordinaria della Provvidenza, vien messo in evidenza il costante
intervento di Dio per proteggere gli umili e confondere gli orgogliosi; d)
principale beneficiario di tanti favori è stato Israele, col quale Dio ha
mantenuto tutte le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza, specie
quella secondo cui il Messia sarebbe nato dalla sua stirpe”.
La “dispersione degli orgogliosi”, il
rovesciamento dei potenti dai loro troni e l’esaltazione degli umili, non erano
evocati da Maria per proclamare l’inizio di una “storia nuova”, quella che
dovrebbe concludersi secondo la visione naturalistico-millenaristica di GS, 39,
ma a conferma della storia di sempre, caratterizzata dall’intervento quotidiano
della Provvidenza, la vera protettrice dell’orfano
e della vedova. Servendosi in parte
di immagini tratte dai Profeti, tradizionali nella cultura popolare
dell’Israele di allora, la Santissima Vergine esprimeva la sua infinita
gratitudine all’Onnipotente per aver scelto la sua “umile serva” addirittura
quale madre del Messia.
3. Il
papa deplorava i molteplici e variegati abusi dell’Eucaristia
Quest’enciclica fu apprezzata dai
cattolici ancora fedeli alla Tradizione della Chiesa, perché, oltre a
denunciare e deplorare gli abusi che
affliggevano l’Eucaristia, ribadiva alcune essenziali verità di fede
concernenti questo sacramento. È doveroso, quindi, soffermarsi su questo
importante e positivo aspetto del documento, richiamando all’attenzione e gli
abusi denunciati e le verità di fede riproposte.
Nel paragrafo 10 dell’Introduzione (EU, 1-10), dopo aver
lodato “la riforma liturgica del Concilio” perché essa avrebbe “portato grandi
vantaggi per una più consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli
al santo Sacrificio dell’altare” e un incremento dell’adorazione eucaristica
(delle chiese e dei seminari progressivamente svuotatisi in gran parte
dell’orbe cattolico proprio a partire dalla svolta dottrinale e liturgica
promossa dal Concilio, il Papa non sembrava aver coscienza, dopo venticinque
anni di pontificato), il testo si soffermava sulle “ombre” ancora presenti accanto alle supposte
“luci”. “Vi sono luoghi ove si registra un pressoché completo abbandono del
culto di adorazione eucaristica”. Inoltre, si registravano “abusi” concernenti
“la retta fede e la dottrina cattolica su questo mirabile Sacramento”, vissuto
a volte come se si trattasse di un semplice “incontro conviviale fraterno”, che
non abbisognava nemmeno della “necessità del sacerdozio ministeriale, che
poggia sulla successione apostolica” (EU, 10).
Vale a dire, che i fedeli ritenevano di poter celebrare senza la
presenza del sacerdote!
Il “carattere sacramentale”
dell’Eucaristia veniva così ad oscurarsi e fiorivano “qua e là iniziative
ecumeniche che, pur generose nelle intenzioni, indulgono a prassi eucaristiche
contrarie alla disciplina nella quale la Chiesa esprime la sua fede” (ivi). “Qua e là”, affermava il Papa. In
realtà, si era da tempo ampiamente diffusa in tutta la cattolicità la prassi
delle cosiddette “messe ecumeniche” (inclusive della S. Comunione) con i
cosiddetti “fratelli separati” e persino con rappresentanti di religioni non
cristiane.
Ovviamene, il Papa ammoniva a
rispettare la disciplina della Chiesa: non si può somministrare la S.
Eucaristia a chi non è in comunione con la Chiesa cattolica (EU, 43-45) e
addirittura a chi non è battezzato (EU, 38). Inoltre, egli ribadiva l’obbligo
di confessarsi prima di comunicarsi, se si è in peccato mortale, e la validità
perpetua della dottrina ribadita dal Concilio di Trento in questo campo (EU,
36, 37). Sembra che la pratica della confessione auricolare prima della
Comunione, obbligatoria per chi è in peccato mortale, sia caduta
alquanto in disuso nella Chiesa riformata secondo le direttive del Vaticano II.
C’era poi (e c’è ancora) il problema
del “decoro” della S. Messa. Si verificavano abusi (coinvolgenti l’arte e la
musica sacra) provocati da “innovazioni non autorizzate e spesso del tutto
sconvenienti”. Occorreva, invece, che “le norme liturgiche” fossero osservate “con
grande fedeltà” (EU, 52). L’esigenza di “una sana quanto doverosa
inculturazione”, fatta valere dal Vaticano II e messa in atto dalla riforma
liturgica, era, secondo Giovanni Paolo II, del tutto legittima. “Nei miei
numerosi viaggi pastorali ho avuto modo di osservare, in tutte le parti del
mondo, di quanta vitalità sia capace la Celebrazione eucaristica a contatto con
le forme, gli stili e le sensibilità delle diverse culture. Adattandosi alle cangianti condizioni di
tempo e di spazio, l’Eucaristia offre nutrimento non solo ai singoli, ma
agli stessi popoli, e plasma culture cristianamente ispirate” (EU, 51,
sottolineatura mia).
Prima di tale “adattamento”
(aggiornamento, accomodata renovatio),
l’Eucaristia – c’è da chiedersi – era riuscita (per quasi venti secoli) a nutrire e plasmare cristianamente i popoli? Seguendo la logica implicita nel
discorso del Papa, bisognerebbe rispondere di no; rispondere, che la formazione
cristiana dei popoli la Chiesa l’ha effettivamente iniziata solo a partire
dalle riforme del Vaticano II, la “nuova Pentecoste”, grazie alla quale la
Chiesa ha addirittura ridefinito se stessa!
Comunque sia, i vantaggi della “inculturazione” liturgica erano oscurati,
lamentava l’enciclica, da “sperimentazioni o pratiche introdotte senza
un’attenta verifica da parte delle competenti Autorità ecclesiastiche. La
centralità del Mistero eucaristico, peraltro, è tale da esigere che la verifica
avvenga in stretto rapporto con la S. Sede” (EU, 51).
Il fatto è – commento – che
l’aggiornamento introdotto con le riforme liturgiche approvate dalla Santa
Sede, subiva a sua volta, se così posso dire, un continuo aggiornamento a livello locale. Il pastorale Vaticano II
ha voluto attribuire alle Conferenze Episcopali un’ampia autonomia in campo
liturgico, in base ai nuovi princìpi della sperimentazione e della
creatività. Quest’autonomia è temperata dalla necessaria approvazione di tutte
le innovazioni e sperimentazioni da parte della S. Sede.
Ma è il principio in sé che è sbagliato,
poiché la liturgia cattolica (come sempre affermato dai Papi in passato) non può ammettere aggiornamenti e
sperimentazioni, che, oltre ad intaccarne il decoro e violarne la maestà,
fatalmente inciderebbero sulle verità di fede in essa trasfuse. Come era
prevedibile, il necessario controllo della Santa Sede sulle nuove e infinite
forme introdotte dall’inculturazione si è dimostrato ampiamente inefficace. La diffusa tendenza delle nostre società al pluralismo
indifferenziato nei valori e nei modi di vivere, l’individualismo atomistico
che ne consegue, si riflettono anche nel clero, abbandonato a se stesso da una
Gerarchia desistente e peggio che desistente: tutto ciò costituisce una delle
cause di fondo dell’anarchia liturgica dominante, ormai radicata e nient’affatto
intenzionata ad abbassare la testa. Papa Woytila annunciava nell’enciclica che,
proprio “per rafforzare il senso profondo delle norme liturgiche”, aveva
“chiesto ai Dicasteri competenti della Curia Romana di preparare un documento
più specifico, con richiami anche di carattere giuridico, su questo tema di
grande importanza” (EU, 52). Quali siano
stati i risultati concreti di quest’intervento dell’Autorità, non si saprebbe
dire.
Si poteva rimediare ad una situazione
così grave (ed oggi ancor più grave di quattordici anni fa) con interventi che
andavano sempre nel senso delle “riforme” conciliari? Lo scetticismo era
d’obbligo, dal momento che all’origine della crisi c’era e c’è sicuramente il Concilio,
con la sua pretesa di riformare interamente la Chiesa, aprendosi nello
stesso tempo (cosa inaudita) alla mentalità e alle esigenze del secolarizzato
mondo moderno e contemporaneo.
3.1 Esempio concreto del caos dottrinale e
pastorale che imperversava nella Chiesa,
coinvolgendo la Liturgia
All’inizio
del 2002, cinque seminaristi del seminario diocesano di Bombay, in India,
intitolato a S. Pio X, lasciarono l’istituzione ed entrarono nel seminario
della Fraternità Sacerdotale S. Pio X, scandalizzati da ciò che erano stati
costretti a vedere e sentire. Gli studenti del primo anno, dedicato
all’orientamento, dovevano prender parte ogni martedì ad una messa in lingua
locale, durante la quale i partecipanti portavano dei foulard di colore
arancione-zafferano. “Il celebrante sfoggiava il simbolo dello aum o om, parola sanscrita che significa più o meno il Tutto, l’uno-tutto
del monismo indù. Una religiosa del corso di formazione recitava l’aarti, preghiera indù che esalta la
gloria del dio inesprimibile. Sulle fronti dei partecipanti doveva brillare il tilak, il marchio detto ‘terzo occhio di
Shiva’, che indica l’appartenenza alla religione indù. Durante la messa
echeggiavano canti indù di adorazione e di lode. Il padre Vincenzo Pereira,
incaricato dell’anno di orientamento, sembrava assai più interessato alla
psicologia che alla spiritualità… Si serviva della psicologia come fosse stato
Dio in persona. ‘Con la psicologia faccio dei miracoli nella mia stanza’,
diceva. Ci insegnava che potevamo risolvere tutti i problemi con l’aiuto della
psicologia [leggi: con l’impiego di tecniche di meditazione indù accoppiate
all’uso della magia]. Lodava gli indù che, sotto il regime portoghese,
fuggivano piuttosto che convertirsi. Tra gli accessori della messa teneva anche
un simbolo fallico (shivalingam,
tipico del culto del dio Shiva, rappresentativo della fertilità)…”.
Il
padre Oscar Rozarie s.j., professore di spiritualità, “ci insegnava che tutto
il mondo si sarebbe salvato. ‘Cerchiamo di essere razionali – diceva – perché
un bravo indù, che fa tante opere buone, dovrebbe andare all’inferno?’[Ma chi
l’ha mai insegnato? Pio XII condannò nel 1949 l’errore dei “rigoristi”, che consideravano
dannati a priori tutti i non cattolici – DS 3866-3873]. Il padre Giuliano
Saldahna s.j., insegnante di acculturazione e di lingue, ci iniziava al mondo
indù, avendo come scopo essenziale quello di farci comprendere la bontà
dell’induismo… Il padre Jean Mercier, venuto dal Belgio per insegnarci la
filosofia, l’antropologia e la logica, affermava: ‘Mi dà fastidio parlare di Maria
come della madre di Dio. Ciò non è filosofico. Ciò significa in effetti dire
che Dio avrebbe una madre’. Il medesimo sacerdote negava che l’uomo fosse
composto di anima e corpo. Simile concezione non era altro, per lui, che
‘filosofia greca’. Per tal motivo egli non pregava mai per l’anima di un defunto ma per il riposo
eterno del signor X… La teologia veniva divisa per settori. Tra questi:
‘teologia contestuale’, ‘eco-teologia’, ‘teologia femminista’. Ogni settore era
concepito in modo da spiegare dal suo punto di vista la teologia in generale.
Per esempio, la “teologia contestuale” fa della situazione [concetto tipico del materialismo esistenzialista di
Sartre] l’elemento centrale per comprendere la Bibbia, ragion per cui questa o
quella interpretazione della Bibbia cessa di essere pertinente, se applicata al
contesto attuale. In effetti, la Bibbia non ha a che vedere con le circostanze
del nostro tempo. Il padre Gilbert ci insegnava la grazia e pretendeva che
fosse presente nelle dottrine e negli insegnamenti della religione indù. Il
padre John D’Mello ci parlava del peccato e della perversione e sosteneva che
il peccato è un concetto occidentale. Nella lingua indiana [hindi, lingua
ufficiale], non esiste una parola che renda la nozione di peccato. Il padre
John ci insegnava, come fossero verità rivelata, questi tre assiomi: 1. Ogni
conoscenza va messa nella giusta prospettiva; 2. Ogni conoscenza è contestuale;
3. La teologia si serve della sociologia. Il padre Giuliano Saldanha s.j., che
ci insegnava l’escatologia, affermava che l’inferno esiste ma che è vuoto e che
questa era la dottrina della Chiesa…”.
Risparmio
al lettore il prosieguo, che contiene anche un sunto della “cristologia”
insegnata al suddetto seminario, il tutto pubblicato nella rivista citata qui sotto
in nota.
L’articolo conteneva quattro lettere di quattro dei cinque seminaristi in
questione, il riportato sunto della “dottrina” insegnata al seminario
diocesano, la testimonianza di un sacerdote passato alla Fraternità nel Sud
dell’India, dopo che un sacerdote professore di seminario, con l’approvazione
del vescovo locale, aveva sostenuto di fronte ai preti di tutta la diocesi e
senza sollevare proteste, che il sacerdozio come tale non esisteva, ragion per
cui non poteva esser stato istituito da Nostro Signore; che la S. Messa non
aveva carattere di sacrificio onde l’officiante non vi svolgeva alcuna
“funzione sacrificale”.
Questi,
nell’AD 2002, gli effetti dell’inculturazione e dell’aggiornamento in India, d’altronde non dissimili dai guasti
causati dall’aggiornamento nel resto del mondo cattolico. E oggi, AD 2017, dobbiamo forse credere che
la situazione sia migliorata?
4.
Le verità di fede richiamate da Giovanni
Paolo II a proposito dell’Eucaristia
L’esistenza innegabile di abusi e deviazioni
che coinvolgevano anche la dottrina, costringeva il Papa a ribadire alcune
essenziali verità di fede, attinenti al dogma,
sostantivo peraltro mai usato dal pontefice. I principi dogmatici richiamati in
relazione all’Eucaristia erano i seguenti:
a. la transustanziazione
del pane e del vino (EU, 15 e passim);
b. il carattere di sacrificio dell’Eucaristia, che “rende presente” il Sacrificio
della Croce, non vi si aggiunge, non lo moltiplica e possiede una “efficacia
salvifica”, anche se la dizione sacrificio
propiziatorio è accuratamente evitata, sostituita da perifrasi del tipo:
“riceviamo… il suo sangue che ha ‘versato per molti, in remissione dei peccati’
(Mt 26, 28)” (EU, 16), perifrasi che stemperano il concetto;
c. la verità, evidentemente annebbiatasi,
secondo la quale solo il sacerdote (e
non l’assemblea del “Popolo di Dio”, da sola o con il sacerdote) ha il potere
di effettuare la consacrazione dell’Ostia, in
persona Christi (EU, 5, 28-33);
d. la verità, del pari oscuratasi, secondo
la quale la Sacra Ostia non è semplice “cibo spirituale” o “metaforico” bensì
cibo che contiene effettivamente il corpo e il sangue di Cristo tutto intero, secondo “la sempre valida
dottrina del concilio di Trento” (EU, 13, 15, 17).
5.
L’enciclica si situava sempre nell’orbita del
Nuovo Catechismo, nel quale si riflettevano le novità conciliari.
Queste precisazioni dogmatiche
riempirono di soddisfazione ogni cuore sinceramente cattolico. Sarebbe tuttavia
errato voler credere che esse rappresentassero un effettivo cambiamento di rotta per ciò che riguardava la liturgia e
la S. Messa. Il Papa non diceva qui niente che non fosse già stato detto nel Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica,
pubblicato nel 1992. Questo Catechismo aveva forse chiarito le ambiguità ed
iniziato un ritorno alla vera Messa e alla vera liturgia? Sarebbe temerario affermarlo.
Dopo le gravi omissioni e le ambiguità
del Vaticano II sul significato della Messa e dell’Eucaristia, dopo
“l’impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della S. Messa, quale
fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino”, riscontrabile nel Novus Ordo Missae promulgato nel 1969 e
successivamente modificato (dopo le
critiche ricevute) in modo solo marginale (vedi supra), il Nuovo
Catechismo doveva ricordare ai troppi
smemorati in circolazione il dogma della transustanziazione (artt. 1374-1377) e
il carattere di sacrificio dell’Eucaristia (artt. 1330, 1357 ss., 1365 ss.); nonché
ribadire che “soltanto i sacerdoti validamente ordinati possono presiedere
l’Eucaristia e consacrare il pane e il vino perché diventino il Corpo e il
Sangue del Signore” (art. 1411).
Tuttavia, nella lista dei nomi e degli
aggettivi attribuiti nei secoli a questo sacramento (artt. 1328-1332), ampliata
rispetto a quella dell’art. 208 del Catechismo Tridentino: Eucaristia,
Cena del Signore, synaxis o assemblea eucaristica, santo sacrificio (di
lode, spirituale, puro), santa e divina liturgia, Comunione, cose sante, pane
degli Angeli, pane del cielo, farmaco d’immortalità – gli aggettivi
“propiziatorio” ed “impetratorio” brillano per la loro assenza. I concetti che
essi esprimono vengono esposti solo indirettamente, in modo quasi accessorio e
perifrastico, all’art. 1365, al 1366, con una citazione del Concilio di Trento,
e all’art. 1414, nella parte In sintesi
o riassuntiva, che si trova alla fine di ogni capitolo di questo catechismo:
“In quanto sacrificio, l’Eucaristia viene anche offerta in riparazione dei
peccati dei vivi e dei defunti [sacrificio propiziatorio] e al fine di ottenere
da Dio benefici spirituali o temporali [sacrificio impetratorio]”. Manca ogni riferimento esplicito al fatto che
il carattere propiziatorio del Sacrificio ha anche il significato di soddisfare
l’ira divina nei confronti dei nostri peccati, realtà messe bene in
evidenza nel Catechismo Tridentino.
L’enunciazione finale e conclusiva del
significato dell’Eucaristia, la presenta esclusivamente
come sacrificio di lode e di rendimento di grazie, e quindi come banchetto memoriale che include anche la
Resurrezione allo stesso titolo della
Croce!
“L’Eucaristia è il cuore e il culmine della
vita della Chiesa, poiché in essa Cristo associa la sua Chiesa e tutti i suoi
membri al proprio sacrificio di lode e di rendimento di grazie offerto al Padre
una volta per tutte sulla croce; mediante questo sacrificio egli effonde le
grazie della salvezza sul suo Corpo, che è la Chiesa (art. 1407). “L’Eucaristia
è il memoriale della Pasqua di Cristo, cioè dell’opera della salvezza compiuta
per mezzo della vita, della morte e della Risurrezione di Cristo, opera
che viene resa presente dall’azione liturgica” (art.1409, corsivo mio).
Nel
Catechismo Tridentino e in quello Maggiore di san Pio X (ma anche
nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII) della Resurrezione non si
parlava mai, in relazione al Sacrificio.
La dizione tradizionale usata era sempre: passione e morte del Signore. Il fatto è che la nozione di mistero
pasquale inglobante passione, morte e resurrezione non esisteva, quale
nozione-chiave del significato della Messa.
5.1. Una nuova concezione della Messa. Il
Nuovo Catechismo mantiene in pieno la nuova concezione, apparsa con il Vaticano
II e il Novus Ordo Missae, che rappresenta una evidente rottura
con il passato, implicando essa addirittura uno spostamento del “centro di
gravità” della Messa: “per il messale tradizionale la Messa è offerta
sacrificale della presenza transustanziata; per il nuovo messale è “il
memoriale della Pasqua di Cristo”, che comprende, in quanto “banchetto
pasquale”, sia il mistero della Passione che quello della Resurrezione.
Questa nuova concezione, pur conservando formalmente il concetto della
“presenza reale”, secondo il dogma della transustanziazione della sostanza del
pane e del vino nel corpo e sangue del Signore, nello stesso tempo l’intorbida
con un concetto nuovo e poco chiaro del “render presente” da parte “dell’azione
liturgica”. Infatti, quest’ultima, come si è visto, “rende presente” tutta
“l’opera della salvezza” e quindi “vita, morte e Resurrezione di Cristo”. Ma,
per tacere della “vita”, come è possibile “render presenti” nella Messa allo stesso modo la morte di Cristo e la
sua Resurrezione? Poiché il testo non specifica, bisogna dire: allo stesso modo. La Resurrezione resa presente nel rito della Messa, lo è
allo stesso modo del corpo e del sangue di Cristo nell’Ostia consacrata e
quindi come se accadesse di nuovo?
Rispondere di sì, significherebbe affermare una cosa priva di senso, lo
vedono tutti.
La
consacrazione rinnova in modo incruento l’evento del Calvario e quindi
transustanzia le sacre specie rendendo presente in esse Nostro Signore
in corpo, sangue, anima e divinità. Ma
come potrebbe “l’azione liturgica” (quale, a qual punto della Messa?) render
presente ossia rinnovare la
Resurrezione di Cristo, come se accadesse di nuovo ad ogni Messa? È ovvio che la resurrezione e l’ascensione
possono solo esser ricordate nella Messa ma non certo rinnovate,
come lo è, invece, la morte in Croce, il Sacrificio senza il quale non ci
sarebbero state né Resurrezione né Ascensione.
Si naviga nell’ambiguità anche perché da questa nuova formulazione
risulterebbe che uno degli scopi fondamentali della Nuova Messa sarebbe quello
di render presente la Resurrezione,
senza escludere ovviamente l’Ascensione: insomma, render presente la gloria del Kyrios, cosa che appare parimenti
priva di senso.
5.2
L’ombra della nuova concezione della Chiesa penetrata nel Concilio.
Si noti poi che quando il nuovo Catechismo
afferma che “mediante questo sacrificio di lode e di ringraziamento Egli
effonde le grazie della salvezza sul suo Corpo, che è la Chiesa” (art. 1407 cit.), la “Chiesa” non è da
intendersi nel senso del corpo mistico di Cristo della tradizione: essa non è
più intesa come la societas dei soli credenti, dei soli cattolici, nella
quale si entra con il Battesimo e nella quale si resta, perseverando nella fede
e nelle opere. Questa “Chiesa” è la
Chiesa-comunione proposta dal Vaticano II, che per gradi deve giungere a
ricomprendere tutti i “fratelli separati” e in prospettiva l’umanità;
ovviamente, non mediante la conversione ma mediante il dialogo e un culto interreligioso comune!
“In
definitiva quale è stato uno dei risultati più gravi del Concilio? A mio avviso
è stato l’aver cambiato la definizione della Chiesa: è stata modificata la
definizione della Chiesa. La Chiesa non è più una società divina, visibile,
gerarchica, fondata da Nostro Signore Gesù Cristo per la salvezza delle anime.
No, ma da ora la Chiesa è una comunione. Cosa significa questo? Cosa vuol dire
Chiesa comunione? Comunione che accoglierà in seno alla Chiesa Cattolica
diversi gruppi religiosi, completamente diversi dalla Chiesa Cattolica. E si arriverà
non solo ad accettare le religioni cristiane non cattoliche ma anche le
religioni non cristiane e persino i non credenti…”. Parole purtroppo dimostratesi assolutamente profetiche,
queste di mons. Lefebvre! E l’idea di
una Chiesa-comunione che, reinterpretando in modo nuovo il significato
dell’Eucarestia, realizzi l’unità di tutti i cattolici con tutti i cristiani e
con tutta l’umanità e persino con la natura, con il cosmo – quest’idea
straordinaria costituisce l’ossessivo Leitmotiv dell’intera Ecclesia
de Eucharistia!
A questa “Chiesa” così concepita
soggiace anche una dottrina “trinitaria” applicata in modo nuovo, dato che la
“comunione” che la caratterizzerebbe (la Chiesa) è concepita sul modello della inabitazione (pericoresi) delle tre
Persone della Santissima Trinità. Si tratta di uno dei parti più singolari
della nouvelle théologie, dietro il
consueto paravento di qualche citazione
patristica o testamentaria isolata, scelta col lanternino e stravolta.
Ad una “Chiesa” così intesa non si potrà certo proporre l’imitazione della
Croce per la propria salvezza e quindi la conversione al cattolicesimo, il
pentimento, la mortificazione. A questa “Chiesa”, la cui comunione rifletterebbe
addirittura la comunione delle tre persone della SS.ma Trinità, la “grazia
della salvezza” può venire solo dalla Resurrezione. E difatti, nella pastorale
corrente, la Resurrezione ha finalmente sostituito
la Croce. In un documento della Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna, è
detto, per spiegare il concetto della S. Messa ai musulmani, che in essa la
Chiesa “fa memoria del Signore risorto
mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino”.
Di che “comunione viva e reale” si tratti, non è ben chiaro (è la “comunione”
dell’oscuro “render presente” di cui sopra). È invece chiarissimo che,
piuttosto che ad accettare l’ignominia
della S. Croce, scandalo per i giudei e follia per i pagani, la Gerarchia
attuale preferisce indirizzare i fedeli alla contemplazione del gaudio della Resurrezione. Come se non
ci fosse stato sempre insegnato il cammino della Santa Croce, quale unica via
della salvezza: “Teniamo lo sguardo fisso all’autore e perfezionatore della
fede, Gesù, il quale anziché il gaudio
che gli stava dinanzi, preferì sopportare la croce, senza curarsi
dell’ignominia, e ora sta assiso alla destra del trono di Dio” – Ebr 12, 2,
sottolineature nostre.
5.3 Una corrotta teologia della
Redenzione. Non poteva esser diversamente poiché la concezione della Chiesa-comunione – applicata all’epoca
con particolare pervicacia dal Card. Kasper, ai fini dell’ecumenismo, e
propagandata in Italia dalla confusa teologia della “Chiesa Trinitaria” del suo
allievo mons. Bruno Forte – altro non è che l’attuazione ecclesiologica della
falsa dottrina della redenzione
universale ossia della redenzione oggettivamente già realizzata per tutti gli uomini dal fatto in sé
dell’Incarnazione di Nostro Signore; dottrina elaborata da Karl Rahner e nella
quale confluiscono i deliri del “pancristismo” dei vari Blondel, Teilhard de
Chardin, de Lubac. Concretamente, questa “dottrina” insegna che la salvezza
tutti gli uomini ce l’hanno già in tasca, quale che sia la loro religione e il
loro modo di vivere, perché Dio è amore e l’amore non condanna nessuno alla
dannazione eterna! La missione della Chiesa cattolica consisterebbe allora nel
far comprendere questa nuova e definitiva “verità” mediante il dialogo
interconfessionale ed interreligioso, verità della quale la Chiesa si sarebbe
resa cosciente solo a partire dalla “nuova Pentecoste” rappresentata dal
Vaticano II. E quindi, se tutti gli uomini sono stati già salvati, e senza
saperlo, dall’Incarnazione, a che scopo imitare la S. Croce per conseguire,
alla fine della nostra vita, il frutto della stessa, costituito dalla salvezza
eterna e dalla Contemplazione Beatifica? La salvezza essendo venuta per tutti
già dall’Incarnazione, la Croce deve allora scomparire all’interno della
“dinamica” del “mistero pasquale”, che, in modo logico e conseguente alle premesse
di questa teologia assurda, privilegia nettamente il memoriale di lode e
ringraziamento per la Resurrezione cioè per la salvezza già passata in
giudicato per tutti! Si capisce quindi perché nella Nuova Messa sia scomparso
l’Offertorio, nel quale si precisava minutamente che il sacrificio era
offerto per la misericordia e l’espiazione dei nostri peccati, sostituito da
una “semplice presentazione di doni che diventeranno pane di vita e bevanda di
salvezza”.
6. La
rappresentazione dell’Eucaristia nell’enciclica woytiliana
Tutto ciò visto, consideriamo in qual
modo l’enciclica rappresenti la Santissima Eucaristia. “Dal mistero pasquale
nasce la Chiesa. Proprio per questo l’Eucaristia, che del mistero pasquale è il
sacramento per eccellenza, si pone al centro della vita ecclesiale” (EU, 3).
Come per il Vaticano II e il Nuovo Catechismo, l’Eucaristia è “il sacramento
del mistero pasquale”, la cui “teologia” si è appena sinteticamente ricordata.
Inoltre, “L’Eucaristia è mistero di fede e insieme di luce”. Ogni volta che la
Chiesa la celebra, i fedeli possono rivivere in qualche modo l’esperienza dei
due discepoli di Emmaus: ‘si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero’ (Lc 24,
31)” (EU, 6). Dunque: nell’Eucaristia “luce” e “stupore”. Papa Woytila si
lasciava andare ad immagini poetiche. Ma non più di tanto, visto che gli enigmatici
“misteri di luce” erano una elaborazione sua personale, da lui poco tempo prima
proposti ad integrazione dei misteri tradizionali del S. Rosario. Anche qui,
siamo al di fuori della Tradizione della Chiesa e fors’anche contro, dal
momento che la nuova teologia del Rosario inaugurata dal papa, sembrava volerne
attenuare la sostanza mariana accentuandone oltre misura la componente
cristologica.
Mistero
di luce, dunque, l’Eucaristia, e di una “luce” addirittura “cosmica”. Non
si stupisca il lettore. Il par. 8 dell’enciclica è un autentico ditirambo al significato cosmico della S. Messa e dell’Eucaristia.
“Ho potuto celebrare la Santa Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna,
sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare; l’ho celebrata su altari costruiti
negli stadi, nelle piazze delle città… Questo scenario così variegato delle mie
Celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere
universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico! Perché anche quando viene
celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre
celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa unisce il cielo e la
terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo,
per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha
fatto dal nulla. E così Lui, il sommo ed eterno Sacerdote, entrando mediante il
sangue della sua Croce nel santuario eterno, restituisce al Creatore e Padre
tutta la creazione redenta. Lo fa mediante il ministero sacerdotale della
Chiesa, a gloria della Trinità Santissima. Davvero è questo il mysterium fidei che si realizza nella
Eucaristia: il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a Lui redento da
Cristo” (EU, 8).
In questo peculiare testo, il
carattere “cosmico” dell’Eucaristia è connesso al carattere “cosmico” della
Redenzione. Si profila qui la visione naturalistica del Regno di Dio
dianzi richiamata. Essa si fonda su di
un’errata interpretazione di un passo di S. Paolo (Rm 8, 20 ss. – errata perché
suggerisce l’idea che la Salvezza riguardi anche la natura e che alla fine dei
tempi non vi sia il Giudizio). Dal momento che Cristo ha restituito “tutto il
creato” redento al Padre, l’Eucaristia deve esser intesa come quell’atto di lode e di ringraziamento che
pervade tutto il Creato e “unisce cielo e terra”. Li unisce in una prospettiva
dal sapore inevitabilmente panteistico.
Del resto, tutto il passo riecheggia Teilhard de Chardin, il gesuita
miscredente, scientista ed evoluzionista, scienziato dilettante, che voleva
conciliare la Fede con la Materia, il cui pensiero ha purtroppo esercitato una
notevole influenza sul clero negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso,
generazioni alle quali apparteneva il giovane Woytila.
Ecco come Teilhard de Chardin vede il senso profondo dell’Eucaristia:
“Mediante l’Ostia transustanziata l’operazione del sacerdote si estende al
Cosmo stesso, il quale nel susseguirsi dei secoli viene gradualmente
trasformato dall’Incarnazione, che mai si compie. Non c’è che una sola Messa
nel Mondo, per tutta la durata del tempo: la vera ostia, l’ostia totale, è
l’Universo, penetrato e vivificato dal Cristo, in modo sempre più intimo…”.
La terminologia teilhardiana compare, a mio avviso, anche nella chiusa
dell’enciclica, ove il Papa, invece di servirsi dell’immagine tradizionale
della Eucaristia “cuore della Chiesa”, afferma che essa è “cuore del mondo,
pegno del traguardo a cui ciascun uomo, anche inconsapevolmente, anela” (EU,
59). Questa insolita espressione – cuore
del mondo – la ritroviamo, riferita a Cristo, nelle cosiddette Litanies, scritte dal gesuita fedifrago
sul verso di un’immagine di Nostro Signore: “Jésus : Cœur du Monde ; Essence
Moteur de l’Évolution”.
“Cuore” e “altare del mondo”, dunque,
l’Eucaristia, azione liturgica di rilevanza “cosmica”? Ci troviamo di fronte a
dei semplici slanci lirici, inoffensive anche se singolari immagini letterarie?
Non sembra. Questi slanci vogliono avere un significato teologico, perché il
“mondo” del quale l’Eucaristia è il “cuore”, è il mondo che ricomprende tutta l’umanità e la natura (la “creazione”),
già salvate dalla redenzione universale.
Il “traguardo” cui ogni uomo, secondo il Papa, “inconsapevolmente anela” (e
quindi senza bisogno dell’aiuto della Grazia), è dunque quello rappresentato
dall’Eucaristia in senso cosmico, dalla supposta “unione tra cielo e
terra” già realizzata da Gesù Cristo con l’Incarnazione.
Il
tema inusitato del Cristo cosmico era ricorrente nell’insegnamento di
Papa Woytila: lo applicava anche all’Incarnazione, nella quale voleva vedere un
significato cosmico.
Nell’enciclica Dominum et vivificantem, “sullo Spirito Santo
nella vita della Chiesa e del mondo” (18 maggio 1986), scrisse:
“L’incarnazione
di Dio-Figlio significa l’assunzione all’unità con Dio non solo della natura
umana, ma in essa, in un certo senso, di tutto ciò che è “carne”: di
tutta l’umanità, di tutto il mondo visibile e materiale. L’incarnazione dunque, ha anche un suo
significato cosmico, una sua cosmica dimensione. Il “generato prima di ogni creatura”,
incarnandosi nell’umanità individuale di Cristo, si unisce in qualche modo con
l’intera realtà dell’uomo, il quale è anche “carne” - e in essa con ogni “carne”, con tutta la
creazione”.
Commentando
questo straordinario testo, lo scomparso teologo tedesco, prof. Johannes Dörmann, lo criticava, oltre che negli
aspetti intrinsecamente cristologici (offrendo esso una formulazione confusa
dell’Incarnazione), anche perché conteneva l’incredibile affermazione secondo
la quale il Cristo, incarnandosi, si sarebbe unito “con l’intera realtà
dell’uomo”. Forse si trattava solo di una formulazione infelice. Resta il fatto che l’espressione si presta
all’equivoco: l’intera realtà dell’uomo comprende anche il peccato quando
invece Nostro Signore era sì simile in tutto a noi, tranne che nel peccato (Eb
4, 15). Dalla frase del Papa si potrebbe
arguire che il Figlio di Dio si è “unito” a noi anche nel peccato! Invece, precisa il prof. Dörmann,
“Egli ha assunto su di sé il peccato del mondo [accettando il Sacrificio della
Croce], ma non si è “unito” al peccato del mondo”.
Nonostante
la sua divergenza dall’insegnamento costante del Magistero nei secoli, questa
“teologia” woytiliana dell’Eucaristia
coincide, comunque, con quella
del Nuovo Catechismo. “Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo
Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente, e ‘si
effettua l’opera della nostra redenzione’ (Lumen
Gentium, 3)” (EU, 11, corsivo mio). Segue la citazione letterale dell’art.
1382 del nuovo catechismo, sulla Messa come memoriale
e banchetto, “per la salvezza di
tutti”, onde (di nuovo) “l’Eucaristia applica agli uomini di oggi la
riconciliazione ottenuta una volta per tutte da Cristo per l’umanità di ogni tempo” (EU 12, corsivo mio). Il Papa ci
teneva poi a ribadire la nuova dottrina, ossia che “il Sacrificio eucaristico rende presente non solo il mistero della
passione e della morte del Salvatore, ma
anche il mistero della risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo
coronamento [consummatio]”.
7. Osservazioni
su alcuni punti essenziali dell’enciclica
7.1 Qual è il significato autentico del “Mysterium fidei”, come inteso nel
Novus Ordo? “Cosmico” ed “escatologico”, banchetto nel quale si consuma il
Cristo glorioso...
Abbiamo visto che Giovanni Paolo II
intitolava “mistero della fede” la prima parte dell’enciclica, tutta dedicata
al rapporto tra Chiesa ed Eucaristia (11-20). Ciò significa che questa formula
liturgica permetteva di cogliere il “mistero della Chiesa” perché “in queste o
simili parole la Chiesa, mentre addita il Cristo nel mistero della sua
Passione, rivela anche il suo proprio mistero: Ecclesia de Eucharistia [la Chiesa nasce dall’Eucaristia]” (EU, 5).
Nella Messa di rito romano antico
detta impropriamente tridentina, il mysterium fidei è proclamato sottovoce
dal sacerdote officiante durante la consacrazione del vino: “Poiché questo è il
calice del mio Sangue, della nuova ed eterna alleanza – mistero della fede – il
quale sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati”. Segue, sempre
sottovoce, la già citata preghiera di anámnesi o ricordo della morte di
Gesù, nella quale si menzionano anche la Resurrezione e l’Ascensione. Il Catechismo Tridentino così spiega
l’inciso sul mysterium fidei:
“L’aggettivo eterna alleanza si
riferisce all’eterna eredità, che a buon diritto ci è pervenuta per la morte
del Cristo eterno testatore. Mentre le parole, mistero della fede, non tendono a escludere la verità della cosa,
ma indicano che bisogna credere con ferma fede quel che rimane occulto e
remotissimo agli occhi nostri. Il senso di questa frase è diverso qui da quello
che riveste applicata al Battesimo. Qui infatti diciamo mistero di fede in
quanto vediamo solo cogli occhi della fede il sangue di Gesù Cristo, nascosto
sotto le specie del vino; mentre il Battesimo è chiamato sacramento di fede, e
dai greci mistero di fede, in quanto comprende l’intera professione della fede
cristiana. Chiamiamo il sangue del Signore mistero di fede, anche perché la
ragione umana trova molta difficoltà e grande fatica ad ammettere quel che le
propone la fede: che cioè N. S. Gesù Cristo, vero figlio di Dio, vero Dio e
vero uomo, abbia per noi sofferto la morte, la quale viene appunto significata
dal sacramento del sangue. Ecco perché, a preferenza che nella consacrazione
del corpo, viene fatta qui menzione della passione del Signore con le parole:
che sarà sparso in remissione dei peccati. Il sangue infatti, consacrato
separatamente, ha più forza ed efficacia per mettere sotto gli occhi di tutti
la passione del Signore, la sua morte e la natura delle sue sofferenze”.
Il mistero della fede proclamato dal
sacerdote si riferisce dunque: a) all’azione della consacrazione, che dobbiamo
credere per fede poiché resta ovviamente un mistero come essa possa aver luogo;
b) al fatto che il Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo, abbia “sofferto la
morte per noi” e quindi al significato salvifico dell’evento storico della
crocifissione, che eccede le capacità della mente umana; c) al perché il testo
della consacrazione dica che il sangue di Nostro Signore è stato sparso “per
voi e per molti” e non per tutti. Continua infatti il Catechismo Tridentino:
“Le parole per voi e per molti, prese separatamente da Matteo
(26, 28) e da Luca (22, 20), sono riunite dalla santa Chiesa, ispirata da Dio,
per esprimere il frutto e l’utilità della passione. Infatti se consideriamo
l’efficace virtù della passione, dobbiamo ammettere che il sangue del
Signore è stato sparso per la salute di tutti [come intenzione, fine per
il quale si è avuta la Croce]; ma se esaminiamo il frutto che gli uomini ne
hanno ritratto, ammetteremo facilmente che ai vantaggi della passione
partecipano non tutti, ma soltanto molti [perché una parte dell’umanità avrà
rifiutato la Grazia, indurendosi sino alla fine nel peccato]. Perciò, dicendo: per voi, ha voluto significare i
presenti, con cui parlava, eccetto Giuda, oppure gli eletti del popolo ebreo,
quali erano i discepoli. Ed aggiungendo: per
molti, ha voluto intendere gli altri eletti, ebrei e i gentili. Con ragione
dunque non è stato detto: per tutti,
trattandosi qui soltanto dei frutti della passione la quale apporta salute
soltanto agli eletti. In questo senso bisogna intendere anche le parole
dell’Apostolo: Gesù Cristo fu offerto una sola volta per togliere i peccati di
molti (Ebr 9, 28); e quelle del Signore: Prego per loro; non prego per il
mondo, ma per quelli che mi hai dati, perché sono tuoi (Gv 17, 9)”.
Nelle preghiere eucaristiche del Novus Ordo, che hanno sostituito
il Canone della Messa Tridentina, la
formula della consacrazione del vino è in generale la seguente, letta ad alta
voce dall’officiante: “Prendetene e bevetene tutti: questo è il calice del mio
sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in
remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me”.
Subito dopo recita: “Mistero della fede” ed i fedeli rispondono con l’ormai
famosa acclamazione: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua
risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.
Perché questo cambiamento? Che cosa si
intende ora con “mistero della fede”, tolto dal suo contesto originario ed
inserito in una formula del tutto nuova? Che non riguarda tanto la Morte in
croce quanto la Resurrezione e la venuta (finale) di Cristo?
7.1.1. Il mutamento di senso della
Messa è confermato dall’enciclica. Il summenzionato studio liturgico
della Fraternità Sacerdotale S. Pio X dà, a mio avviso, un’interpretazione che
calza a pennello.
“Una modifica liturgica significativa
della divergenza tra il messale tradizionale e il nuovo messale è lo
spostamento dell’espressione Mysterium
fidei ‘Mistero della fede’. Collocata nel cuore della consacrazione dal
messale tradizionale, ne è stata tolta nel nuovo messale, per servire di introduzione
alle acclamazioni di anámnesi. Il suo significato perciò risulta cambiato.
Il messale tradizionale, collocando
questa espressione nel cuore stesso delle parole consacratorie, suscita l’atto
di fede nella presenza di Cristo realizzata dalla transustanziazione, e
sottolinea il vertice della Messa: qui è il sacrificio poiché Cristo è presente
in stato di immolazione, e le specie del pane e del vino significano la
separazione del corpo e del sangue di Cristo durante la Passione. Nel nuovo
messale il Mysterium fidei non è più
quello della consacrazione sacrificale, ma l’insieme dei misteri della vita di
Cristo, proclamati a maniera di memoriale [segue l’ormai nota formula]. La
seconda acclamazione dei fedeli, a scelta (ad libitum), separa persino
nettamente il Mysterium fidei dalla
consacrazione per collegarlo con la comunione: ‘Mistero della fede! Ogni volta
che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunciamo la tua morte,
Signore, in attesa della tua venuta’.
Questo cambiamento sposta il centro
di gravità della Messa e rivela la differenza fondamentale che esiste tra
il messale tradizionale e il nuovo messale: per il primo la Messa è offerta
sacrificale della presenza transustanziata, per il secondo è il memoriale della
Pasqua di Cristo”.
L’enciclica woytiliana permette, a mio avviso, di cogliere appieno il
significato escatologico di questo
cambiamento, funzionale all’idea della Chiesa-comunione, e quindi
all’ecumenismo. Seguiamo il ragionamento del Papa. Ritorniamo al par. 14, in
parte già citato. “La Pasqua di Cristo comprende, con la passione e la morte,
anche la sua risurrezione. È quanto ricorda l’acclamazione del popolo dopo la
consacrazione. ‘Proclamiamo la tua risurrezione’. In effetti, il Sacrificio
eucaristico rende presente non solo il mistero della passione e della morte del
Salvatore, ma anche il mistero della risurrezione, in cui il sacrificio trova
il suo coronamento. È in quanto vivente e risorto che Cristo può farsi
nell’Eucaristia ‘pane della vita’ (Gv 6, 35.48), ‘pane vivo’ (Gv 6, 51)” (EU,
14).
Il mistero della fede si svela dunque
nel memoriale della resurrezione, non più nella consacrazione, dato che la
Resurrezione rappresenta adesso non più il
frutto (Eb 5, 7-10; 12, 2)
ma il coronamento (consummatio) del
sacrificio eucaristico, onde abbiamo di fatto una nuova definizione della
Messa come “sacrificio di Cristo coronato dalla sua resurrezione” (EU, 15).
Grazie alla nuova nozione del “mistero pasquale”, la Resurrezione è ora inclusa
nel Sacrificio Eucaristico come suo “coronamento”.
7.1.2
La Nuova Messa vuol essere “cosmica” ed “escatologica”. Ma ciò non è ancora sufficiente perché si
sveli del tutto la “tensione escatologica” racchiusa nel Mysterium Fidei,
e quindi nella Messa che lo celebra. Gli innovatori hanno perciò aggiunto
un’ulteriore frase, ritagliata da 1 Cor 11, 26, la quale, oltre alla
Resurrezione, richiama la venuta del Kyrios, del Cristo nella Sua gloria, quale
“Signore dell’Assemblea” eucaristica.
In tal modo, il Mistero della Fede e l’Eucaristia, vengono articolati, in
maniera del tutto nuova, sul binomio Resurrezione-Nuovo Avvento, acquisendo una
dimensione non solo escatologica ma anche cosmica.
Continua, infatti, l’enciclica, al par. 18:
“L’acclamazione che il popolo pronuncia dopo la consacrazione
opportunamente si conclude manifestando la proiezione escatologica che
contrassegna la Celebrazione eucaristica (cf 1 Cor 11, 26): ‘nell’attesa della
tua venuta’. L’Eucaristia è tensione verso la meta, pregustazione della gioia piena
promessa da Cristo (cf Gv 15, 11); in certo senso, essa è anticipazione del
Paradiso, ‘pegno della gloria futura’. Tutto, nell’Eucaristia, esprime l’attesa
fiduciosa che ‘si compie la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù
Cristo’. Colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere
l’aldilà per ricevere la vita eterna: la possiede già sulla terra, come
primizia della pienezza futura, che riguarderà l’uomo nella sua totalità.
Nell’Eucaristia riceviamo infatti anche la garanzia della risurrezione corporea
alla fine del mondo: ‘Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita
eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno’ (Gv 6, 54). Questa garanzia
della futura risurrezione proviene dal fatto che la carne del Figlio dell’uomo,
data in cibo, è il suo corpo nello stato glorioso di risorto. Con l’Eucaristia
si assimila, per così dire, il ‘segreto’ della risurrezione. Perciò giustamente
sant’Ignazio d’Antiochia definiva il Pane eucaristico ‘farmaco di immortalità’,
antidoto contro la morte” (EU, 18).
A questo paragrafo si possono fare, a
mio avviso, le seguenti osservazioni.
1. La frase tratta da S. Paolo,
“nell’attesa della tua venuta” (nell’originale leggermente diversa: “finché
egli venga”, donec veniat) è messa in
bocca ai fedeli per far loro manifestare compiutamente l’affermata “proiezione
escatologica” dell’Eucaristia. È evidente che questa proclamazione è una professione di fede (che vuole esprimere
il senso, da parte dei fedeli, di ciò che è appena accaduto con la
consacrazione che la precede) il cui elemento portante è però del tutto svincolato dalla morte del Signore (dalla
presenza di Cristo transustanziato in stato di vittima incruenta sull’altare)
accentrandosi invece sulla Resurrezione, per di più interpretata
escatologicamente e quindi sulla Resurrezione che è attesa dell’Avvento finale. E finale, ultimo in greco si
dice éschaton. Questo modo di intendere la Resurrezione farebbe emergere
pienamente la (supposta) “tensione” interiore dell’Eucaristia (sconosciuta alla
Messa di sempre), che è “tensione verso la meta”, pegno della gloria futura, anticipazione
del Paradiso. Del Giudizio Universale e della separazione eterna dell’umanità
in Eletti e Reprobi, costituenti appunto il contenuto annunciato dell’Avvento
ultimo, nessuna traccia, ovviamente. Il Papa mescola immagini nuove ed
antiche ma scartando ciò che non piace all’uomo contemporaneo. Inoltre, l’idea
di una “tensione” nell’Eucaristia sembra reinterpretare l’immagine tradizionale
del “pegno della gloria futura” secondo filosofemi del pensiero profano, per
esempio il “qui e non ancora” di certo esistenzialismo, fatto proprio dalla nouvelle
théologie.
2.
Bisogna poi chiarire il significato esatto della frase di S. Paolo, quel “finché
egli venga” utilizzato per giustificare in qualche modo l’interpretazione
“escatologica” del mistero della fede.
Innanzitutto, vediamola nel suo contesto, che appartiene alla
Rivelazione confermante, attraverso S. Paolo, l’istituzione dell’Eucaristia.
“Io,
infatti, ho ricevuto dal Signore [per rivelazione diretta] quanto vi ho
insegnato, cioè che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del
pane, e dopo aver rese le grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi;
fate questo in memoria [anámnesin] di me”. Così pure, dopo aver cenato, prese anche il
calice, dicendo: “Questo calice è il
nuovo patto del mio sangue; fate questo, tutte le volte che ne berrete, in
memoria di me”. Or dunque, tutte le
volte che voi mangiate questo pane e bevete il calice, celebrate la morte del
Signore, finché egli venga. Perciò
chiunque mangia questo pane o beve il calice del Signore indegnamente [in
peccato mortale], sarà reo del corpo e del sangue del Signore [commetterà
sacrilegio]” (1 Cr 11, 23-27; corsivi
miei). Il “celebrare la morte del
Signore” è reso nel greco dell’Epistola con il verbo kataggéllō, che qui ha il
significato di “cum laude praedico; religioso cultu gratam rei memoriam
recolo”, onde è corretto tradurlo sia con “celebrate” che “annunziate” o
anche “rammentate l’annunzio della morte del Signore”: il verbo esprime il concetto di un annunzio
pubblico che ha carattere celebrativo. Celebrativo di un evento passato, della morte
in Croce del Signore, il Sacrificio da cui scaturisce la nostra possibilità di
salvezza non di un evento futuro annunziato in profezia, il suo ritorno alla
fine dei tempi.
Che
vuol dire, allora, “finché Egli venga”:
“...mortem Domini adnuntiabitis donec veniat”? Questo, vuol dire: che il Santo Sacrificio dal quale solamente
dipende la nostra salvezza, la m o r t
e in croce del Signore, dovrà esser
ricordato e quindi celebrato ogni giorno sino alla fine dei tempi; fine che
avverrà con il ritorno del Cristo, la Parousìa o “presenza, avvento” del
Cristo in tutto il suo fulgore di seconda Persona della S.ma Trinità e quindi
Giudice infallibile e non più misericordioso medico dell’anima. Che questa sia la corretta interpretazione,
risulta anche dal passo del Tridentino che riporta il “donec veniat”: “e ci ha comandato di onorare, nel riceverlo
[questo santissimo sacramento], la sua memoria e di annunziare la sua morte,
fino a che egli venga [1 Cr 11, 26] a giudicare il mondo”.
Il riferimento alla Parousìa è
puramente temporale, non è causale; indica semplicemente la durata nel tempo
della celebrazione del Sacrificio, che dovrà mantenere la “memoria” della Croce
nostra salvezza sino alla fine dei tempi.
Non ha nulla a che vedere con la Resurrezione del Signore, come se fosse
essa a rappresentare il contenuto salvifico del Sacrificio quando ne è invece il
frutto.
3.
Inoltre, l’enciclica sembra andar oltre l’idea di un semplice “tendere”
sostitutivo dell’immagine tradizionale secondo la quale l’Eucaristia, tra i
suoi effetti, ha anche quello di essere in prospettiva per ciascuno di noi
credenti un “pegno della vita eterna”. Infatti, sembra attribuire
all’Eucaristia la capacità di farci ricevere direttamente la vita eterna, ossia di condurci direttamente alla
Resurrezione: “colui che si nutre di Cristo nell’Eucaristia non deve attendere
l’aldilà per ricevere la vita eterna etc.”. In tal modo, Giovanni Paolo II sembrava voler stabilire addirittura un nesso causale obiettivo tra
Eucaristia e Resurrezione adottando di fatto un’esegesi già respinta come
inaccettabile dalla maggioranza dei teologi, ben prima del Concilio. Annotava
Bartmann, nel suo classico manuale: “La resurrezione gloriosa è indicata dal
Signore come conseguenza dell’Eucaristia (Gv 6, 55). Ma non bisogna intendere
queste parole, come hanno fatto alle volte alcuni Padri, in maniera troppo
letterale e stabilire una connessione causale fisica tra Eucaristia e
resurrezione. L’Eucaristia ci rende moralmente capaci di condurre la vita dei
‘figli della resurrezione’ in modo simile agli angeli (Lc 20, 36)”. E senza questa vita improntata alla lotta
quotidiana e costante per santificarci in Cristo, all’insegna quindi della
Croce, non otteniamo la Gloria futura e ce ne andiamo all’Inferno (Eb 3,
14). Invece il Papa non parlava tanto di
“capacità morale” di santificarsi indotta dal sacramento e quindi dalla Grazia,
quanto di vera e propria “garanzia della futura resurrezione” che “proviene dal
fatto che la carne del Figlio dell’uomo, data in cibo, è il suo corpo nello stato glorioso di risorto”.
Ora, è vero che il Cristo
transustanziato è nello stesso tempo il Cristo che siede alla destra del Padre,
e quindi il Cristo glorioso. Però questo Cristo glorioso noi lo “mangiamo”
misticamente sotto le sacre specie, dopo che si è di nuovo immolato sull’altare
in maniera incruenta; lo “mangiamo” in stato di effettiva immolazione
incruenta, in quanto vittima per i nostri peccati, non in quanto
Cristo Glorioso. Nella Comunione si riceve il Christus passus, come si suol dire, non quello glorioso.
Appunto perché (come ho già detto) ciò che viene sacramentalmente rinnovato nell’Eucaristia è il
sacrificio del Calvario, non la Resurrezione e l’Ascensione, che, nel rito
dell’Ordo Vetus, vengono semplicemente ricordate , ma in modo differenziato, nella citata preghiera detta
appunto Anámnesi o ricordo (della morte del Cristo), recitata dubito
dopo la Consacrazione, di fronte a Gesù tutto intero in stato di vittima
sull’altare. “Laonde, o Signore, anche
noi tuoi servi [Unde et memores, Domine, nos servi tui], come altresì il
tuo popolo santo, ricordando innanzitutto la beata passione del medesimo
Cristo tuo figliolo, nostro Signore, come pure la sua risurrezione dagli inferi
ed anche la sua gloriosa ascensione in cielo, offriamo alla tua eccelsa
maestà, delle cose che ci hai donate e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa,
l’Ostia immacolata, il Pane santo della vita eterna e il Calice della perpetua
salute etc.”. Il sacerdote offre poi
questi doni a Iddio Onnipotente, implorando la Divina Maestà di accettarli [supplices
te rogamus] affinché quanti si sarebbero accostati all’altare per riceverli
nella S. Comunione venissero “ricolmi d’ogni celeste benedizione e grazia”.
Questa
preghiera è scomparsa nel Novus Ordo, sostituita da una che ne ricorda
alcuni tratti, ma in modo attenuato e slavato, per non dire insipido,
mescolandovi appelli alla “concordia”, all’”unità”, alla “pace”, nella Chiesa e
nel genere umano.
7.1.3
Il nuovo vertice della Messa: la S. Comunione, al posto della
Consacrazione
Ritorniamo alle distorsioni cui
conduce l’aver posto il centro dell’Eucaristia nel banchetto memoriale. Nel par.
16 il Papa affermava, infatti, che “l’efficacia salvifica del sacrificio si realizza in pienezza, quando ci si
comunica ricevendo il corpo e il sangue del Signore. Il Sacrificio eucaristico
è di per sé orientato all’unione
intima di noi fedeli con Cristo attraverso
la comunione… È Gesù stesso a rassicurarci che una tale unione, da Lui
asserita in analogia a quella della vita trinitaria, si realizza veramente”
(EU, 16, corsivi miei).
Ma l’insegnamento tradizionale,
ribadito da Pio XII, aveva sempre
sostenuto il contrario. “Se la recezione della S. Comunione
[da parte del Celebrante, non dei fedeli] è necessaria all’integrità, alla
totalità della Messa, tuttavia non è essenziale all’oblazione sacrificale in
quanto tale”. Si
legge infatti nella Mediator Dei: “il
Sacrificio Eucaristico consiste essenzialmente nell’immolazione incruenta della
vittima divina, immolazione che è misticamente manifestata dalla separazione
delle sacre specie e dalla loro oblazione all’Eterno Padre. La santa Comunione appartiene all’integrità
del Sacrificio [...] e, mentre è assolutamente necessaria al ministro
sacrificatore, ai fedeli è soltanto da raccomandarsi vivamente”. Neppure la Comunione del celebrante è stata
mai considerata il cuore della Messa, e quindi il punto centrale
dell’Eucaristia in quanto sacrificio; ne
è un elemento integrante ma non l’essenza:
non è il Vertice della Messa, rappresentato, al contrario, dalla
Consacrazione.
“Ogni volta che il sacerdote ripete [renovat] ciò che fece il Divin Redentore
nell’ultima cena, il sacrificio è realmente consumato”. Pertanto, “non si deve fare – ammoniva
Bartmann – come certi teologi moderni avventurosi, che cercano l’essenza del
sacrificio unicamente o principalmente nella Comunione, altrimenti l’elemento
di adorazione e soprattutto quello espiatorio scomparirebbe”.
E proprio questo è di fatto avvenuto con
il messale del Novus Ordo, come subito paventato dal ricordato Breve
Esame Critico.
Giovanni Paolo II non poteva perciò
affermare che “l’efficacia salvifica del sacrificio si realizzava pienamente con il banchetto eucaristico”. O meglio: poteva,
ma si deve sapere che ciò andava contro l’insegnamento tradizionale, non ne
rappresentava uno sviluppo ma un travisamento. Ma nella teologia della Messa
del Novus Ordo, che ha abolito l’Offertorio, si dà ancora una chiara differenza
tra sacrificio e sacramento, così come espressa, per esempio, nel Catechismo
Tridentino? Il dubbio sembra più che
lecito, data anche la singolare nozione di sacramento (ricavata in gran parte
dalla teologia misteriosofica
del Benedettino Odo Casel) che il Novus Ordo sembra aver
adottato, unitamente alla volontà di riesumare le forme ebraiche del rito della
Pasqua, come se l’Ultima Cena non ne avesse rappresentato il definitivo
superamento. Spiega il Catechismo Tridentino:
“Tra
i concetti di sacramento e di sacrificio vi è grande differenza. Il sacramento si effettua mediante la
consacrazione, mentre l’essenza del sacrificio sta nell’offerta immolatrice. Perciò l’Eucaristia, finché è conservata
nella pisside o è portata a un infermo, ha carattere di sacramento e non di
sacrifizio. Appunto, come sacramento
apporta titoli di merito a coloro che la ricevano, procurando loro i vantaggi
sopra ricordati. Invece, come
sacrificio, possiede oltre alla virtù di meritare, anche quella di soddisfare
[l’ira di Dio per i nostri peccati].
Pertanto come Cristo signor nostro nella sua passione meritò e
soddisfece per noi, così quelli che offrono questo sacrificio, per il quale
comunicano con noi, meritano di partecipare ai frutti della passione del
Signore e quindi alla sua opera di soddisfazione”.
8. La
Santa Comunione ritenuta da Papa Woytila all’origine della “Chiesa di Cristo”
fin dall’Ultima Cena
L’aver posto la Comunione come
l’elemento essenziale
dell’Eucaristia, induceva il Papa a vedere in essa addirittura la fondazione
della S. Chiesa, la sua “formazione”.
Nel par. 5 dell’enciclica egli scriveva, in maniera ancora
coerente con la Tradizione: “Se con il dono dello Spirito Santo a Pentecoste la
Chiesa viene alla luce e si incammina per le strade del mondo, un momento
decisivo della sua formazione è certamente l’istituzione dell’Eucaristia nel
Cenacolo” (EU, 5). Ma nella parte II (21-25) intitolata “L’Eucaristia edifica
la Chiesa”, egli precisava il significato di questo “momento decisivo” in modo
che sembrava far dipendere la “formazione” della Chiesa dalla manducatio
Domini sacramentale, cioè dalla S. Comunione. Infatti, nel par. 21, dopo
essersi riferito al Vaticano II, che “ha ricordato esser la Celebrazione
eucaristica al centro del processo di crescita della Chiesa” [segue doppia
citazione di Lumen Gentium, 3], l’enciclica
scriveva: “C’è un influsso causale
dell’Eucaristia alle origini stesse della Chiesa. Gli evangelisti precisano che
sono stati i Dodici, gli Apostoli, a riunirsi con Gesù nell’Ultima Cena, etc.”
(EU, 21, corsivo nostro).
Da cosa risulta questo influsso causale? Dal fatto, par di
capire, che “Gli Apostoli, accogliendo nel Cenacolo l’invito di Gesù –
‘Prendete e mangiate… Bevetene tutti…’ – sono entrati, per la prima volta, in
comunione sacramentale con Lui” (ivi).
Verità palmare, dalla quale però il Papa traeva questa conclusione: “Da quel momento,
sino alla fine dei secoli, la Chiesa si
edifica mediante la comunione sacramentale col Figlio di Dio immolato per
noi: ‘Fate questo in memoria di me…” (EU, 21, corsivo mio). Ma ciò non è come
dire che, da allora ad oggi, la Chiesa si
edifica mediante la S. Comunione, la quale pertanto produce, “fa” la
Chiesa, che ne è come l’effetto?
Che la S. Comunione contribuisca in via mediata alla costruzione (all’unità)
del Corpo Mistico di Cristo, nella misura in cui essa perfeziona e mantiene in noi
l’azione della Grazia procurataci dai meriti del Sacrificio rinnovato incruentemente sull’altare,
nessuno, già a partire da S. Paolo (1 Cor. 10, 16-17), lo ha mai messo in
dubbio. Ma il Papa non voleva certo limitarsi a ribadire questa verità,
semplice e quasi banale, tanto è ovvia. In quanto da lui considerata l’elemento
essenziale del sacrificio (poiché sarebbe essa a realizzarne pienamente
l’efficacia salvifica) la Comunione diventava anche l’elemento essenziale dell’edificazione della Chiesa. Si può allora
esprimere il pensiero del papa con questo sillogismo:
l’Eucaristia è “al centro del processo
di crescita della Chiesa” (Vaticano II); la Comunione è al centro
dell’Eucaristia; dunque la Comunione è al centro del “processo di crescita
della Chiesa”, l’“edifica” addirittura. E non da oggi o da ieri, ma a partire
dall’Ultima Cena!
Il “mistero della Chiesa” il Papa
cominciava dunque a chiarircelo con l’insolito concetto che è la S. Comunione a
fondare, a costruire la Chiesa, a farla,
in modo diretto, immediato, per via dell’unione intima con Cristo che essa comporta. La Chiesa-comunione è dunque tale anche
perché essa “nasce”, nel senso ora visto, dalla S. Comunione? Dalla S. Comunione, più che dall’effusione anche
visibile dello Spirito Santo sugli Apostoli raccolti nel Cenacolo intorno
alla Santissima Vergine; dalla S. Comunione, nella quale la presenza dello
Spirito Santo è implicita o, meglio, è implicita nella manducatio
sacramentale in virtù dell’inabitazione
dello Spirito Santo nel Verbo ed esplicita nell’azione della grazia ad
essa manducatio susseguente, per cui lo Spirito Santo, che vive
nell’anima umana di Gesù, opera in interiore homine disposizioni simili a
quelle di Nostro Signore Gesù Cristo (Tanquerey)? Comunque sia, l’unione che la S. Comunione
realizza tra l’uomo e Cristo è dall’enciclica reinterpretata come se
realizzasse di per sé l’unità di tutti i cristiani, cioè di tutti i
membri della Chiesa di Cristo, della quale però la Chiesa cattolica è
ora soltanto una parte (ex art. 8 della Lumen Gentium, uno dei
più contestati dell’intero Concilio).
Il significato della S. Comunione veniva così
reinterpretato alla luce di una concezione dell’unità della Chiesa (tipica
della nouvelle théologie) che trascende la Chiesa cattolica, perché non
è più l’unità della Chiesa cattolica in se stessa – unità dell’unica
vera Chiesa di Cristo perché rimasta nei secoli l’unica sempre fedele al dogma,
grazie alla successione apostolica sulla Cattedra di Pietro – ma è l’unità
della Chiesa cattolica con tutti gli elementi della “Chiesa di Cristo”
che si troverebbero fuori di essa. E
questa nozione spuria di unità sembra trovarsi a fondamento della
“teologia” della Chiesa-comunione, cioè della anomala “ecclesiologia di
comunione” messa in cantiere dal Vaticano II e messa costantemente in pratica
dall’ecumenismo voluto dai Papi postconcliari e del quale Giovanni Paolo II è
stato un convinto profeta.
Anche la Mystici Corporis ricorda “l’Eucaristia segno di unità”, “vivida e
mirabile immagine dell’Unità della Chiesa”, ma per l’appunto solamente “segno”
e “immagine”, mero simbolo della
“mirabile unione” del Corpo mistico dei credenti, realizzata da Cristo, ma che
né dipende esclusivamente, né è prodotta causalmente dalla S. Comunione.
9.
La
S. Comunione realizzerebbe di per sé l’unione dei fedeli in Cristo, assunta ora
a fine essenziale dell’Eucaristia
9.1
Ritorno della
“Messa-pasto”?
Perché
dunque Giovanni Paolo II affermava che è la comunione ad attuare pienamente
l’effetto salvifico del sacrificio eucaristico? Perché, scriveva, “il
sacrificio eucaristico è di per sé orientato all’unione intima di noi fedeli
con Cristo attraverso la comunione” (EU, 16, cit.). Il Santo
Sacrificio, “di per sé” e quindi per sua natura, “è orientato” a, possiede
quindi come suo fine essenziale, primario, proprio quello di unirci in modo
intimo a Cristo. E di unirci, con quale mezzo, quale momento del rito? Con la S. Comunione. Se è essa a realizzare
pienamente “l’efficacia salvifica” del Sacrificio, ciò significa che il senso e
il significato di questo sacrificio è quello di realizzare la nostra unione con Cristo. L’unione, dunque,
innanzitutto: l’unione, l’unità, la ”comunione”.
L’idea di una consimile unione non è
nuova, ovviamente. Del tutto nuova è
però la prospettiva nella quale è inserita. Perché ora l’unità con Cristo
diventa lo scopo essenziale per il
quale è stata istituita l’Eucaristia anche in quanto sacrificio. Ciò risulta
dalle parole “il sacrificio eucaristico è di per sé orientato” appena
commentate (“totalmente orientato”, dice l’art. 1382 del Nuovo Catechismo),
che indicano la causa finale del sacrificio eucaristico, e dal fatto che il Papa
non accennava ad altre forme di realizzazione della piena “efficacia salvifica”
di questo sacrificio. Ma, che l’Eucaristia-sacrificio (S. Messa) abbia questo fine come suo fine essenziale, non risulta
dall’insegnamento tradizionale della Chiesa.
Anzi, è un errore già abbozzato, e subito segnalato, fin dal lontano
1902 con la teoria della “Messa-pasto”, che faceva “consistere il carattere di
sacrificio...nell’atto di unione, nel compimento del Sacramento
dell’unione...in tal modo, alla Messa, la consacrazione non si verificherebbe,
dal punto di vista del sacrificio, che come una necessaria preparazione alla
Comunione”.
9.2
La dottrina eucaristica del Magistero infallibile
Il Concilio di Trento ha spiegato bene
quali sono i fini per i quali Nostro
Signore volle istituire la Santa Eucaristia, distinguendo accuratamente tra Eucaristia-sacrificio
(Messa) ed Eucaristia-sacramento (Comunione).
1.
“Egli volle che questo sacramento fosse ricevuto come cibo spirituale delle anime, perché ne siano alimentate e
rafforzate, vivendo della vita di colui, che disse: ‘Chi mangia me, anche lui
vive per mezzo mio’ (Gv 6, 28) e come antidoto,
con cui liberarsi dalle colpe d’ogni giorno ed esser preservati dai peccati
mortali. Volle, inoltre, che esso fosse pegno
della nostra gloria futura e della gioia eterna; e quindi simbolo di quell’unico corpo, di cui egli è capo (1 Cor 11, 3; Ef
5, 23) e a cui volle che noi fossimo congiunti, come membra, dal vincolo
strettissimo della fede, della speranza e della carità, perché tutti
professassimo la stessa verità, e non vi fossero scismi fra noi”.
Come sacramento, l’Eucaristia fu dunque istituita per dare un potente
aiuto alla nostra anima, un vero e proprio “cibo spirituale”, un cibo, come si
suol dire, che è “sorgente di tutte le Grazie”: il suo fine è nutrire la nostra anima con la Grazia, l’unione il mezzo per conseguirlo. S’intende
che questa “unione” è individuale, avviene nell’anima di ciascuno di
noi, non ha luogo in un soggetto collettivo, come se l’assemblea dei
fedeli presenti alla Messa avesse un’anima che si unisce a Cristo nella
Comunione.
2.
Come sacrificio fu istituita
“affinché la Chiesa avesse un sacrificio perpetuo [la S. Messa], capace di
soddisfare per i nostri peccati, e di piegare dall’ira alla misericordia, dalla
severità di un giusto castigo alla clemenza, il Padre celeste, spesso
gravemente offeso dalle nostre iniquità. Una figura di ciò la troviamo
nell’agnello pasquale, che gli ebrei immolavano e mangiavano come sacrificio e
sacramento”.
Altra differenza fondamentale: come sacrificio (di Cristo) l’Eucaristia opera ex opere
operato, cioè indipendentemente da noi; come sacramento, opera ex opere
operantis cioè a seconda delle nostre personali disposizioni.
Da questa limpida dottrina,
perfettamente coerente con la Scrittura e la Tradizione della Chiesa, emerge
che il fine essenziale dell’Eucaristia,
in quanto sacramento, è quello di nutrire
la nostra anima con la Grazia e aiutarci
nella nostra lotta quotidiana contro il peccato. Il suo esser “pegno della
gloria futura” è un suo fine esplicito (perché dichiarato da Nostro Signore) ma
da vedersi nello stesso tempo in
prospettiva, non in rapporto causale immediato con l’Eucaristia, come
sembra considerarlo l’enciclica di Giovanni Paolo II (vedi supra 7.1.2.). Chi vive santamente, come se dovesse comunicarsi
ogni giorno (S. Agostino), mette sicuramente una buona ipoteca sulla vita
eterna, che però non acquisirà se non persevererà sino alla fine (Ap 2, 10).
Guai ad adagiarsi nella vana convinzione che la Comunione ci abbia già
oggettivamente (ex opere operato) guadagnato l’eterna salvezza!
Oggettivamente concorre a procurarci le grandi grazie che derivano dai meriti
della S. Croce, al fine di farci
conseguire l’eterna salvezza. Ma noi dobbiamo soggettivamente (ex opere
operantis) corrispondere con la nostra volontà a quelle grazie nella condotta
di ogni giorno. Questo è ciò che la Chiesa ha sempre insegnato.
Per ciò che riguarda l’idea dell’unità
dei cristiani, si vede agevolmente che l’Eucaristia è stata intesa come un suo simbolo e come suo alimento: simbolo del corpo mistico che è la
Chiesa cattolica, fuori della quale non c’è salvezza, ed alimento della carità
fraterna (vedi anche la Mystici Corporis citata sopra).
Dell’unione di ogni fedele con Cristo
prodotta dalla Comunione, non si parla come di un significato autonomo, tale
da costituire addirittura il fine essenziale
del sacrificio eucaristico o anche il fine del sacramento. Questa unione, che
nessuno certo ha mai negato, è evidentemente considerata implicita nel fatto stesso del ricevimento del cibo spirituale
rappresentato dall’Ostia consacrata. Ciò che conta, per il Concilio di Trento e
per i Catechismi su di esso basati, non è tanto questa unione con Cristo (fatto
ovvio) quanto il nutrimento dell’anima,
l’azione della Grazia che questa unione concorre a produrre in ognuno di
noi, cioè al fedele che si accosti alla Comunione con le dovute disposizioni,
ricevendo così l’aiuto soprannaturale, indispensabile alla sua salvezza.
Da nessun luogo risulta che “l’unione
intima con Cristo”, in quanto unione,
costituisca, per il Magistero pre-conciliare, il fine primario dell’Eucaristia e nemmeno il
suo frutto primario. E se ne capisce
il perché. Vedere nell’unione in sé e per sé il fine essenziale del sacramento,
può portare a vedere l’efficacia del sacramento unicamente ex opere operato.
Invece, come, ai fini della salvezza,
l’efficacia ex opere operato non può separarsi da quella ex opere
operantis, così l’unione in
questione non può esser separata dal suo contenuto, che è “il cibo spirituale”,
la Grazia cui dobbiamo liberamente corrispondere con la nostra volontà.
Bartmann distingue bene i due significati
essenziali che si debbono attribuire a questa unione, delineati con precisione
già dalla Scolastica. “L’unione con
Cristo si può intendere in un doppio senso, sacramentale e mistica.
Si riceve il sacramento e lo si mangia. Abbiamo così un’unione esteriore e
corporale. Ma essa deve trasformarsi in unione interiore e mistica; questa unione si produce con la grazia
inerente al sacramento: ‘De ore in cor’ [dalla bocca al cuore] dice Ugo di
S. Vittore. Mentre la prima unione [quella sacramentale] cessa dopo poco tempo,
dato che spariscono dopo poco tempo le specie esteriori che ne sono la
condizione, l’unione intima, l’unione mistica
persiste e costituisce il fondamento
reale della vita che il giusto attinge nelle forze divine”.
9.3
L’ “unione con Cristo” secondo il Nuovo Catechismo
È quasi superfluo ricordare che il Nuovo
Catechismo conferisce un particolare rilievo al frutto rappresentato dall’unione a Cristo, inteso come il più
importante tra i frutti della Comunione (artt. 1391-1401). Art. 1391:
“La Comunione accresce la nostra unione con Cristo. Ricevere l’Eucaristia nella
Comunione reca come frutto principale
l’unione intima con Cristo Gesù … La vita in Cristo ha il suo fondamento nel banchetto eucaristico…” (sottolineature mie).
Gli articoli 1392-1395 ci ricordano che: la Comunione “conserva, accresce, e
rinnova la vita di grazia ricevuta col Battesimo”; “ci separa dal peccato”,
perché il Sangue di Cristo è stato sparso “per la remissione dei peccati”; che
essa “non può unirci a Cristo senza purificarci, nello stesso tempo, dai
peccati commessi e preservarci da quelli futuri”; “fortifica la carità”.
Dall’art. 1396 al 1401, ultimo della sezione, si riprende il concetto
dell’unione a Cristo: l’Eucaristia (ossia la Comunione) fonda l’unità del Corpo
Mistico, “fa la Chiesa” (art. 1396),
“impegna verso i poveri” (art.1397), è alla base dell’unità dei cristiani (artt.
1398-1401), tant’è vero che essa costituisce un elemento comune con i “fratelli
separati”, non solo “orientali” (Ortodossi) (art. 1399) ma anche protestanti (art.
1400), perché, come ha insegnato il Vaticano II, questi ultimi “pur non avendo
conservata la genuina ed integra sostanza del Mistero eucaristico [negano
tutto, dalla transustanziazione al sacrificio propiziatorio ed espiatorio!]”
tuttavia, “mentre nella Santa Cena fanno memoria della morte e Risurrezione del
Signore, professano che nella Comunione di Cristo è significata la vita e
aspettano la sua venuta gloriosa” (decreto conciliare Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, 22).
Si noterà che gli aspetti positivi
attribuiti alla concezione che le varie sette protestanti professano circa
l’Eucaristia, sembrano coincidere con la nuova nozione di Eucaristia proposta
in sostanza dal Concilio e dal Nuovo Catechismo stessi: il banchetto memoriale
della morte e resurrezione del Signore. (Sembra quasi una involontaria
ammissione di colpevolezza, come se il concilio avesse voluto copiare dagli eretici).
9.4
Dall’Eucaristia così intesa un impulso prevalentemente mondano ed ecumenico
Si noterà altresì il pochissimo spazio
che il Nuovo Catechismo, dà alle disposizioni con le quali si deve
ricevere la S. Eucaristia. Si ricorda solo che non bisogna essere in peccato
mortale (art. 1415). Queste disposizioni sono invece accuratamente esaminate
nel Catechismo Tridentino e in quello
Maggiore di S. Pio X (parr. 627-641). Questa deficienza diviene, a mio avviso, omissione
nell’enciclica di Giovanni Paolo II. Tutto quello, infatti, che essa sapeva
dire sulla componente ex opere operantis, sulle disposizioni che devono
interagire ad opera del soggetto che fruisce del sacramento, si riduceva da un
lato, a non esser in peccato mortale (obbligo della confessione sacramentale –
EU 36-38); dall’altro, all’indicazione di un obiettivo intramondano, concernente l’impegno di tipo politico-ecumenico che
il cristiano di oggi deve profondere, secondo i dettami della “teologia della
liberazione” riveduta e corretta dalla Congregazione
per la dottrina della fede.
“Conseguenza significativa della tensione escatologica insita
nell’Eucaristia è anche il fatto che essa dà impulso al nostro cammino storico, ponendo un seme di vivace
speranza nella quotidiana dedizione di ciascuno ai propri compiti … Desidero
ribadirlo con forza all’inizio del nuovo millennio, perché i cristiani si
sentano più che mai impegnati a non trascurare i doveri della loro
cittadinanza terrena. È loro compito contribuire con la luce del Vangelo
all’edificazione di un mondo a misura d’uomo e pienamente rispondente al
disegno di Dio [sappiamo che questa terminologia, già presente nei testi
conciliari, non contemplava il concetto della conversione del mondo a Cristo].
Molti sono i problemi che oscurano l’orizzonte del nostro tempo. Basti pensare
all’urgenza di lavorare per la pace, di porre nei rapporti tra i popoli
solide premesse di giustizia e di solidarietà, di difendere la vita umana dal
concepimento fino al naturale suo termine. E che dire poi delle mille
contraddizioni di un mondo ‘globalizzato’, dove i più deboli, i più piccoli e i
più poveri sembrano avere ben poco da sperare? È in questo mondo che deve rifulgere
la speranza cristiana! … Annunziare la morte del Signore ‘finché egli venga’ (1
Cor 11, 26) comporta, per quanti partecipano all’Eucaristia, l’impegno di
trasformare la vita, perché essa diventi, in certo modo, tutta ‘eucaristica’
[La SS.ma Vergine “donna eucaristica”, la vita del cristiano “eucaristica”,
all’insegna della stessa prospettiva di tipo escatologico-millenaristico].
Proprio questo frutto di trasfigurazione dell’esperienza e l’impegno a
trasformare il mondo secondo il Vangelo [impegno, lo ripetiamo, che non
deve mirare a convertire i popoli al cattolicesimo ma al dialogo reciproco per
trovare un’azione comune, che esprima la “verità dell’uomo” per realizzare la
pace e la giustizia nel mondo], fanno risplendere la tensione escatologica
della Celebrazione eucaristica e dell’intera vita cristiana: ‘Vieni,
Signore Gesù!’ (Ap 22, 20)”.
L’impulso
alla santificazione personale
suscitato in noi ex opere operato dalla S. Comunione in quanto
sacramento (e dal sacrificio propiziatorio e di espiazione rinnovato
incruentemente nella S. Messa) viene dunque sostituito
da un “impulso al nostro cammino storico”, dall’impulso a “trasformare il mondo secondo il Vangelo” cioè a realizzare (come
sappiamo) l’unità del genere umano auspicata dal Vaticano II (in particolare
dalla Lumen Gentium e dalla Gaudium
et Spes), unità da fondarsi non sulla conversione dei popoli a Cristo ma
sui “diritti dell’uomo”, desunti dalla “dignità dell’uomo”, un Uomo del quale non si menziona più
l’inclinazione al male rappresentata dal peccato originale e dalle sue
conseguenze. Anche battaglie giuste e doverose, come quelle contro l’aborto,
l’eutanasia, l’espianto degli organi, vengono giustificate in nome di questa
“dignità” e non dell’offesa che si fa direttamente a Dio con queste pratiche
abominevoli; in nome della violazione dei “diritti umani” e non della legge
divina naturale e positiva.
10. La S. Comunione intesa infine come modulo e archetipo che costituisce
l’unità della Chiesa, di tutti i cristiani, del genere umano, dell’universo…
L’unione intima che si realizza nella S. Comunione porrebbe, dunque, in
essere (sorta di archetipo) un’unità e una comunione che si estendono per cerchi concentrici alla Chiesa, a
tutti i cristiani, a tutto il genere umano e addirittura a tutto l’universo. Se
così non fosse, che ne sarebbe della natura “cosmica” ed “escatologica”
dell’Eucaristia?
“Unendosi a Cristo, il Popolo della
nuova Alleanza, lungi dal chiudersi in se stesso, diventa “sacramento” per l’umanità
[Lumen Gentium, 1], segno e strumento
della salvezza operata da Cristo, luce del mondo e sale della terra (Mt 5,
13-16) per la redenzione di tutti [Lumen
Gentium, 9]” (EU, 22). “Con la comunione eucaristica la Chiesa è parimenti
consolidata nella sua unità di corpo di Cristo [seguiva il noto passo di 1 Cor
10, 16-17]” (EU, 23); con “il dono di Cristo e del suo Spirito, che riceviamo
nella Comunione eucaristica”, sviluppa la fraternità “umana” (non dei soli
cristiani fra loro) e realizza sempre più profondamente quel suo essere “segno
e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano [nuova
citazione di Lumen Gentium, 1: si
attribuisce alla Chiesa la vocazione a realizzare l’unità del genere umano come
una forma dell’intima unione con Dio che si ha nella S. Comunione]”. Infatti,
“l’Eucaristia, costruendo la Chiesa, proprio per questo crea comunità fra gli
uomini [fra tutti gli uomini? e ex opere operato, senza convertire
nessuno?]” (EU, 24).
10.1
Questione non di fede bensì di mera opportunità
Inoltre, la S. Eucaristia edifica la Chiesa di Cristo nella
“collegialità apostolica” (intesa ex art. 22 Lumen Gentium),
anteriore a tutte le divisioni tra i cristiani. La S. Comunione deve dunque
considerarsi alla radice dello slancio ecumenico (EU, artt. 26-33).
A proposito dell’ecumenismo, Papa Woytila
sosteneva che il dialogo con i protestanti era “proficuo”: “significativi
progressi ed avvicinamenti ci fanno sperare in un futuro di piena condivisione della fede” (EU, 30, corsivo mio).
Il documento richiamava il molto citato art. 22 del decreto conciliare Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo
(vedi supra), che riconosceva il
valore della concezione protestante della Messa come banchetto memoriale della
morte e resurrezione del Signore, ma poi invitava i cattolici alla prudenza. “Partecipare alla comunione
distribuita nelle loro celebrazioni” sarebbe “ambiguo”, perché comporterebbe
“una ambiguità sulla natura dell’Eucaristia e farebbe mancare, di conseguenza,
al dovere di testimoniare con chiarezza la verità. Ciò finirebbe per ritardare il cammino verso la piena unità visibile…”
(EU, 30, corsivo mio). Ambiguità da evitare, dunque, al pari degli “incontri di
preghiera” interconfessionali e delle “celebrazioni ecumeniche inclusive della
somministrazione della Comunione a chi non sia battezzato o rifiuti l’integra
verità di fede sul Mistero eucaristico” (EU, 38).
Ma questa prudenza, era imposta da
ragioni di fede o da un criterio di mera opportunità?
Il Papa non affermava che le pratiche da lui sconsigliate fossero contrarie
alla fede. Esse sarebbero state soltanto
ambigue (soltanto ambigue!) e più che altro, avrebbero fatto ritardare il cammino verso la meta
agognata, quella della “piena unità visibile”. Non bisognava quindi essere
impazienti. I fedeli dovevano stare calmi. L’unità invisibile c’è già, grazie al Battesimo che (secondo la nuova
dottrina in odor di eresia – come osservò Romano Amerio – proposta dal cardinale Agostino Bea SI e penetrata nei
testi conciliari) ci incorpora tutti (noi e i protestanti eretici) alla Chiesa
di Cristo (decr. Unitatis Redintegratio,
3 e 4); quella visibile, al momento
imperfetta, un giorno sarà anch’essa “piena”. Un giorno ci sarà “la piena
comunione anche eucaristica” (EU, 30 cit.).
Un giorno, saremo in “piena comunione” con gli odierni eretici e
scismatici, che saranno nel frattempo ovviamente rimasti tali! Un giorno, per esprimerci con le parole di
Joseph Ratzinger quand’era cardinale, si realizzeranno finalmente “nuove forme
di unità con il Signore”.
10.2
Propositi inconcepibili, teologicamente aberranti, che provocano la
giusta ira di Dio su tutta la Chiesa
Come sia possibile una cosa del
genere, una piena comunione “anche eucaristica” con le sette protestanti che
hanno fatto strame della dottrina cattolica della Santa Eucaristia o con
scismatici che affidano la consacrazione all’invocazione dello Spirito Santo (epiclesi)
e non alle parole del Signore pronunciate dal sacerdote celebrante, nessuno che
sia dotato del ben dell’intelletto riesce ad immaginarlo. Questa nuova
nozione dell’unità della Chiesa conduce di fatto alla nozione protestante
della vera Chiesa di Cristo come “Chiesa invisibile” ed è indubbiamente uno
degli errori costitutivi della “apostasia silenziosa” che caratterizza il mondo
cattolico attuale.
E nemmeno si riesce ad immaginare come
possa l’Eucaristia contribuire alla Chiesa-comunione,
inclusiva per gradi anche di Ortodossi (greco-scismatici) e protestanti. Si
leggeva, infatti, nell’enciclica: “Nel considerare l’Eucaristia quale
sacramento della comunione ecclesiale vi è un argomento da non tralasciare a
causa della sua importanza: mi riferisco al suo rapporto con l’impegno
ecumenico…” (EU, 43). Ed ecco il nesso con tale impegno: “Ogni celebrazione
dell’Eucaristia è fatta in unione non solo con il proprio Vescovo ma anche con
il Papa, con l’Ordine episcopale, con tutto il clero e con l’intero popolo.
Ogni valida celebrazione dell’Eucaristia esprime questa universale comunione
con Pietro e con l’intera Chiesa, oppure oggettivamente la richiama, come
nel caso delle Chiese cristiane separate da Roma” (EU, 39, corsivi miei).
Le Chiese cristiane separate da Roma,
quali sono? Le sette scismatiche orientali, senza dubbio. E le sette
protestanti? Non vengono spesso
considerate “Chiese” anch’esse? Per
restare alle prime, si deve ammettere che le loro celebrazioni eucaristiche
siano “valide” al punto da “richiamare oggettivamente l’universale comunione
con Pietro e l’intera Chiesa”? Ma che vuol dire qui “richiamare oggettivamente”?
Indipendentemente dalle loro intenzioni?
Ex opere operato?
Né si capisce come l’Eucaristia possa
contribuire ad un’unità ancor più spuria, morta ancor prima di nascere: addirittura
quella dell’intero genere umano, auspici il dialogo interconfessionale e quello
interreligioso. “Né la volontà di unità di Dio deve intendersi limitata esclusivamente
ai cristiani. L’unità cristiana è invocata perché la Chiesa possa essere un segno più efficace del Regno di Dio che è
Regno d’amore e di giustizia per tutta l’umanità. Infatti, la Chiesa è il
segno e il sacramento di quella comunione in Cristo che è volontà di Dio per
tutta la sua creazione”.
Simili propositi, che si autogiustificavano in nome della nuova ed ambigua
ridefinizione del significato della Messa, non hanno fatto altro che provocare
l’ira divina nei confronti di tutti noi, vittime di un processo di
autodissolvimento della Chiesa visibile iniziatosi dai suoi vertici e che è
sembrato fino ad oggi inarrestabile.
Paolo Pasqualucci,
martedì 14
febbraio 2017