3. Natura reale del principio di non
contraddizione
Nell’intervento
iniziale sul tema dell’essere e della sostanza, apparso in questo blog il 15
dicembre 2016, abbiamo visto come il principio di non contraddizione si costituisca
a partire dal concetto dell’essere in quanto essere. Tale principio appare già
nella proposizione: “l’essere è”, implicante quella secondo la quale “il
non-essere non è”. Considerando le due
in relazione al tempo, si deve dire che essere e non-essere non possono esser simultanei,
nel senso che l’essere che è, che esiste qui ed ora, non può nello stesso
tempo non essere, non esistere qui ed ora.
Lo potrà in un momento successivo, appunto nel caso dell’ente
(uomo, animale, pianta) che prima c’è, è vivo e poi muore, scompare. Ma mentre è qui, presente nella realtà, non può simultaneamente non esser
presente, non esserci, non esistere. E
viceversa, non può simultaneamente esser qui ciò che ancora non è.
Il principio di
non-contraddizione afferma dunque l’esclusione vicendevole di proposizioni
manifestamente contraddittorie. Ma questo principio è valido solo sul piano
logico o anche su quello ontologico, della “natura delle cose”, la
natura concreta, reale dell’esistente nelle sue varie forme?
La risposta sembra
ovvia: anche su quello della realtà
effettiva. Si potrebbe persino dire che
già lo si può ricavare da una semplice riflessione sulla nostra esperienza
quotidiana. Vedo una persona seduta su
di una sedia in una stanza, che poi si alza ed esce dalla stanza. Riflessione semplice, semplice: la stessa persona non può star nello stesso
tempo seduta e non seduta sulla sedia, ossia la sedia o la sua stanza non
possono esser nello stesso tempo libere e occupate da qualcuno: o l’una cosa o l’altra. Io posso anche pensarlo, che potrebbero, ma
questo pensiero, lo vedo subito, non corrisponderebbe mai alla realtà che cade
sotto i nostri sensi.
a. Vediamo come Aristotele motivi la natura
reale (o se si vuole ontologica) del principio di non contraddizione,
nel libro Gamma della Metafisica.
“Anzitutto è chiaro
che questo almeno è vero: che le parole
“essere” e “non essere” hanno un significato ben determinato, per cui non ogni
cosa è possibile che sia e non sia così.
Parimenti, se la parola “uomo” ha un significato solo, sia esso quello di “animale bipede”. Dicendo che ha un solo significato, intendo
che, se uomo vuol dir questo, ove ci sia un essere che è uomo, esso sarà ciò
che per uomo s’è definito”[1].
Qui Aristotele si
preoccupa di respingere l’opinione di coloro che vorrebbero negare il principio
di non contraddizione argomentando dal fatto che una medesima parola può avere
significati diversi. Perché il discorso
sia possibile, bisogna dare a ciascun termine un unico e preciso
significato. Una volta stabilito che,
sulla base dell’esperienza, uomo vuol dire, descrittivamente, “animale
bipede”, non si potrà più dire, per esempio, che voglia dire anche “animale
non-bipede” o qualsiasi altra cosa e quindi che l’essere, il cui specifico
significato è qui “animale bipede” possa contemporaneamente essere un
“non-bipede” ovvero non-essere in quanto animale bipede. “Ove ci sia un essere che è uomo”: ogni volta che ci troveremo in presenza di un
essere vivente “che è uomo” ossia “animale bipede”, tale essere vivente sarà
inequivocabilmente “ciò che per uomo s’è definito”, l’animale bipede.
Se poi, continua
Aristotele, si volessero dare significati diversi ma finiti alla medesima parola racchiudente il concetto
dell’uomo: “ebbene, si dia un nome appropriato a ciascuno di essi”. La cosa è
legittima purché le definizioni siano
limitate e a ciascuna si dia un nome particolare, definito. Se però ci si vuole sottrarre al compito
dicendo che “i diversi significati di quel nome sono infiniti [ápeira]”[2]
si fa cosa priva di senso. Infatti, in
questo caso un termine, un nome “non avrebbe più alcun senso, poiché, se non
significa una cosa determinata [ma infinite cose], è come non significhi nulla;
e quando le parole non hanno senso, è tolta la possibilità di discorrere con
altri, anzi, propriamente, anche seco stesso; giacché non può neanche pensare
chi non pensa una cosa determinata: e se
egli è in grado di pensare, dovrà dare anche un nome unico alla cosa cui pensa”[3].
Non ha senso
rifiutarsi alla logica del principio di non contraddizione con la scusa che i
significati di un nome possono essere infiniti.
Se il termine che si usa non si riferisce a una “cosa determinata”
(nell’originale greco hen, uno; a un uno nel senso di realtà
nettamente individuata, circoscritta, unica) è “come non significasse nulla”
poiché il suo concetto si perderebbe nell’indeterminato dei molti significati,
rendendo impossibile il significare stesso.
b. Di particolare
interesse mi sembra la frase “non può neanche pensare chi non pensa una cosa
determinata”; letteralmente: “infatti
non [gli] è possibile pensare, al non pensante uno [a colui che non pensa un
uno], e se [è] possibile, [costui] porrà un solo nome a questa cosa [che sta
pensando]”. Non si pensa in generale o
in modo indeterminato: il nostro
pensiero lo è sempre di una realtà singola, specifica, finita, che Aristotele
racchiude nel termine uno, una sola cosa o pragma. E il contenuto determinato, unico del nostro
pensiero in atto, proprio perché esprime una realtà finita e circoscritta,
riconoscibile anche per esclusione ovvero da ciò che essa non è (se non lo
fosse, sarebbe a sua volta indeterminata), deve vedersi attribuito un nome
specifico, che sarà solo quello “della cosa cui pensa”. Pensiamo, quindi, dando sempre un nome a ciò
cui stiamo pensando, nome unico per ogni cosa che pensiamo, perché
sempre quello e mai un altro.
Si vede quindi che
l’essere e il non essere della cosa, in relazione al principio di non
contraddizione, non si riferiscono alla sola definizione della cosa
bensì alla cosa stessa significata nel nome con il quale la pensiamo.
“Stabiliamo, quindi,
che, come s’è detto da principio, ogni parola significa qualcosa, anzi qualcosa
di unico [hen]. Ora, esser-uomo non potrà significare lo stesso che
non-esser-uomo, se la parola uomo ha un significato non soltanto come predicato
di un unico oggetto, ma in quanto significa essa stessa un oggetto unico”[4].
La distinzione sembra
piuttosto chiara. In che senso una parola ha un significato, un significato uno
cioè unico, riferito esclusivamente all’ente al quale si riferisce,
quale che sia? Ce l’ha, questo
significato unico, allorché è usata non tanto come “predicato di un oggetto
unico” bensì come significante l’oggetto stesso e quindi un solo o unico
oggetto. Quand’è, allora, che una parola
ha un unico significato? Lo ha,
quando si riferisce ad un oggetto (o soggetto) determinato, non ai suoi
attributi. Ricorro qui a Tricot, che
rende il testo in modo meno letterale ma più chiaro, con una perifrasi: “ car nous n’entendons pas établir qu’il y a
identité entre signifier un sujet déterminé, et signifier quelque
chose d’un sujet déterminé, pour la raison que, s’il en était ainsi, musicien,
blanc et homme signifieraient aussi une même chose, de telle sorte
que tous les êtres seraient un seul être, car ils seraient univoques [una cosa
sola]”[5].
Non è la stessa cosa
definire l’oggetto determinato e gli attributi di questo stesso oggetto. Se fosse la stessa cosa, gli attributi di un
uomo bianco che sia un musico, non si differenzierebbero dal “soggetto determinato”
o oggetto, cosa di cui sono attributi, costituita dall’uomo in
questione, come se tra loro non vi fosse differenza. Invece la differenza c’è perché c’è nella
realtà, dato che i vocaboli uomo, bianco e musico indicano tre
cose o soggetti completamente differenti. La differenza qui stabilita dai tre
nomi si fonda sulla differenza che esiste fra questi tre enti nel mondo esteriore. Per cui, conclude: “Quel che è in questione non è già se lo
stesso possa insieme essere e non essere uomo di nome, ma di fatto”[6]. Di fatto, ossia nella realtà
effettuale: non tanto (o non solo) essere
o non essere in relazione “al nome” (tò ónoma) quanto e soprattutto in
relazione “al fatto” (tò prâgma), all’essere esistente. Ancora Tricot: “mais la question n’est pas de savoir s’il
est possible que le même être, à la fois soit et ne soit pas un homme quant au
nom, mais s’il est possible qu’il le soit quant à la chose elle-même”[7].
Ma questo lo si può
sapere solo se applichiamo correttamente il principio di non contraddizione
allorché istituiamo il rapporto tra la cosa e il nome che la significa per
noi. Il nome deve esser quello della
cosa specifica, quella e non altra; determinato, quindi, nel suo unico
significato, in relazione alla cosa; mai indeterminato, ossia consegnato
ad una pluralità simultanea di significati, come se potesse applicarsi
simultaneamente ad una pluralità di cose, vanificando se stesso e impedendo a
priori ogni discorso provvisto di senso.
Paolo Pasqualucci -
domenica 22 gennaio 2016
[1]
Aristotele, Met., Γ 4, 1006 a,
25-30; nota intr., tr. it. e note
di A. Carlini, La Metafisica, Laterza, Bari, 19654, pp.
122-3. Ciò che per uomo s’è definito: letteralmente: “la quiddité d’homme”, come traduce Tricot il
greco: tò anthrópō einai, l’esser all’uomo (è il quid sit degli
Scolastici). Vedi: Aristote, La métaphysique, tome
I, traduct. et commentaire par J.
Tricot, Paris, Vrin, p. 201.
[2]
Op. cit., p. 123
[3]
Op. cit., ivi.
[4]
Op. cit., ivi. Riporto anche la
traduzione di Tricot: “Ceci posé, il ne
peut pas se faire que la quiddité d’homme signifie précisément la quiddité de
non-homme, s’il est vrai que homme signifie non pas simplement l’attribut d’un sujet déterminé, mais bien un
sujet déterminé” (op. cit., p. 202). Qui
il termine sujet equivale all’italiano oggetto.
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