Un’aporia
nel Cogito cartesiano
A fondamento del
pensiero moderno e contemporaneo vi è, come sappiamo, il principio del dubbio
metodico cartesiano: il soggetto ha assoluta certezza unicamente del
proprio pensiero, della cui esistenza non può dubitare, dal momento che lo
stesso dubbio la dimostra. Non potendo
dubitare del mio dubitare (del pensiero che dubita dell’esistenza di tutta la
realtà sensibile) allora sono certo di esistere: il mio pensiero che dubita indubbiamente è,
cioè esiste, e ciò lo si può considerare una conoscenza chiara e distinta,
del tutto sottratta ad ogni dubbio. Non
l’esistenza come tale bensì la mia certezza di essa deriva dalla certezza
dell’esistenza di questo mio pensiero che dubita di tutto: “pendant que je voulais ainsi penser que tout
était faux, il fallait necessairement que moi, qui le pensais, fusse quelque
chose. Et remarquant que cette verité, je
pense, donc je suis, était si ferme et assurée…”[1].
a. Va però osservato: ho certezza di questo mio pensiero perché è
un pensiero che dubita di tutto o per il solo fatto del suo esser un atto di
pensiero? Ossia: la mia certezza interiore deriva dalla
consapevolezza della semplice esistenza dell’atto di pensiero o della
sua particolare natura di atto che esprime un dubbio e una
negazione? La domanda mi sembra del
tutto legittima dal momento che il pensiero, oltre a negare e dubitare, afferma. Perché il pensiero che dubita dovrebbe offrirmi la certezza
della mia esistenza di “sostanza che pensa” e non invece quello che
afferma? Perché quello che nega
l’esistenza di tutto e non quello che al contrario l’afferma? Non sono entrambi atti di pensiero (o, se si
preferisce, pensiero in atto) allo stesso modo?
Cartesio costruisce il
suo principio speculativo partendo dal dubitare, cioè da un pensiero con un
contenuto determinato, quello e non altro, per concludere poi con il
pensare in generale, senza un contenuto dato: cogito, ergo sum. Ma il pensare non ha come tale un contenuto
dato a priori: può contenere un’affermazione, una negazione, un non liquet,
qualsiasi altra cosa. Constatiamo
quindi che nel pensare, proprio perché è possibile ogni possibile contenuto, è
compreso anche l’opposto del dubitare.
Se è quindi il pensare in generale a dimostrare con assoluta certezza a
me stesso che io esisto, allora la natura o qualità di siffatto pensare, il suo
contenuto volta a volta dubitativo od affermativo dovrebbe esser irrilevante
ai fini della dimostrazione stessa.
Dubitare dell’esistenza di tutta la realtà o non dubitarne affatto, questi
due pensieri tra loro opposti nel contenuto, dovrebbero conferire in ogni caso
al soggetto la medesima certezza, di esser cioè egli un essere pensante,
dal momento che in entrambi i casi è sicuro di pensare. E se è sempre sicuro di
pensare, ciò significa che in entrambi i casi ne ricava la certezza di esistere.
b. Se la certezza di essere ciò che sono mi
deriva dal puro pensare, dal je pense di cui mi rendo cosciente,
ciò che concretamente penso non può influire sull’acquisizione della certezza
stessa. Io so di pensare per il solo
fatto di pensare, non perché pensi questo o quello, non per la qualità o
natura intrinseca del mio pensiero del momento.
Non ci possono essere pensieri i quali, per una loro qualità, che altri
non hanno, mi rendono consapevole di pensare:
è vero, invece, che qualsiasi cosa io pensi, s o di
pensare. Se non sono certo della verità
di un mio pensiero determinato, sono certo dell’esistenza di questo
mio pensiero, indipendentemente dalla sua verità o mancanza di verità. Qui, infatti, non si tratta dell’essenza o
natura della cosa ma della sua esistenza, e quindi, non della verità di
ciò che penso bensì della sua sola esistenza, in quanto atto di pensiero.
Possedendo una
coscienza, ho per natura la consapevolezza di pensare: non posso non averla,
qualsiasi cosa io pensi, e non perché ciò che io pensi sia come tale vero. Pertanto, so di pensare anche quando non
dubito, anche quando sono convinto della verità di ciò che penso: non perché ciò che penso sia necessariamente
vero ma proprio perché, lo ripeto, il sapere di pensare non dipende dalla
verità o meno di ciò che penso, ma dal solo fatto di pensare. So sempre di pensare, così come so di
vedere, di sentire, etc. Ed è questa la
conclusione cui giunge lo stesso Cartesio, quando scrive: “Sed quid igitur sum? Res cogitans.
Quid est hoc? Nempe dubitans,
intelligens, affirmans, negans, volens, nolens, imaginans quoque, &
sentiens”[2]. Il soggetto, l’io, è “una cosa che pensa”
indipendentemente da ciò che pensa ed unicamente per il fatto in sé di mostrare
in atto la capacità di pensare, nella quale Cartesio ricomprende anche
la sensazione e l’immaginazione.
c. Ma proprio da questa necessaria conclusione
sembra risultare un’aporia. Se so di
esistere perché so con certezza di pensare, in generale; e se a questa certezza
non può che esser indifferente la natura o qualità di ciò che penso, ne
consegue allora che, in relazione alla certezza medesima, il pensiero che
afferma ha lo stesso valore di quello che nega. Ma in tal modo risulta vanificato il
significato esclusivo del dubbio metodico quale fondamento della proposizione
fondamentale penso, dunque sono.
Questa dunque l’aporia: la
costruzione della certezza dell’io di esistere muovendo unicamente dalla
consapevolezza del pensiero che dubita di tutto, appare ingiustificata,
se anche quando non dubita di tutto l’io sa comunque con certezza assoluta di
pensare e quindi di esistere.
Paolo
Pasqualucci, martedì 17 gennaio 2017
[1]
René Descartes, Discours de la méthode, ed. Gilson, Paris, 1970, p.
89. Vedi anche p. 90 della stessa
edizione.
[2] R.
Descartes, Meditationes de prima philosophia, testo latino e tr. fr. del
duca de Luynes, Introduzione e note di G. Rodis-Lewis, Vrin, Parigi, 1970, p.
29. Nelle Risposte alle seconde
obiezioni, Cartesio scrive: “Col
nome di pensiero comprendo tutto quello che è in noi in modo che ne siamo
immediatamente consapevoli. Così sono pensieri tutte le operazioni della
volontà, dell’intelletto, dell’immaginazione e dei sensi. Ma ho aggiunto immediatamente, per
escludere le cose che derivano dai pensieri, come il movimento volontario che
ha certamente per principio il pensiero, ma che, tuttavia, non è pensiero” (in:
René Descartes, Opere filosofiche, a cura di Bruno Widmar, UTET, Torino,
1969, p. 311. Vedi anche la nota del
traduttore a p. 207).