5. Vedere, sapere di vedere, sapere di
sapere: alcuni punti fermi
La conoscenza
dell’oggetto esterno ha luogo per noi innanzitutto mediante l’immagine che ne
abbiamo. Noi vediamo e quindi
conosciamo. Da ciò si può ricavare un principio
di carattere generale: tutto ciò che
vediamo, è. All’opposto, non è per noi altrettanto ovvio affermare che
tutto ciò che è, lo vediamo. L’esser-visibile
è comunque per noi una caratteristica fondamentale dell’essere, dal momento
che ciò che conosciamo mediante la vista non può non appartenere
all’essere. Ciò che non è, come potremmo
vederlo e conoscerlo? Questo non
significa, tuttavia, che noi si veda tutto ciò che è, l’essere nella sua
infinita particolarità e pienezza:
significa che ciò che vediamo, indubbiamente è. Se non fosse, se non esistesse non lo
vedremmo affatto. Noi possiamo dubitare
della natura di ciò che vediamo o del suo significato, ma non del fatto di
vedere, di avere continuamente in noi la presenza del mondo, in immagini determinate,
formate.
a. Senza visione non può quindi esserci
conoscenza. Tuttavia la conoscenza
dell’oggetto esterno non è l’unica della quale è capace l’uomo. Esiste anche la conoscenza della
conoscenza, che non ha l’immagine dell’oggetto a suo contenuto, poiché tale
conoscenza concerne il fatto del
conoscere in quanto tale, in quanto atto del soggetto che si svolge interamente
nel pensiero.
Essendo il sapere di
sapere qualcosa di reale, bisogna dire allora che esiste una conoscenza priva
di immagini: la conoscenza interiore, che viene al soggetto dal lato del
suo sapere di se stesso.
Dunque: il soggetto vede e s a di
vedere ma il contenuto di questo sapere è l’oggetto stesso contenuto nella visione
o è il vedere in quanto tale, in quanto atto fisio-psichico, se così
posso esprimermi? Se il contenuto fosse
il medesimo per il vedere e il sapere di vedere, allora tra vedere e sapere di
vedere non ci sarebbe differenza alcuna.
Ma questo non è possibile affermarlo:
mentre il vedere è conoscenza sensibile, il sapere di vedere è
conoscenza puramente intellettuale, protesa in interiore homine quanto l’altra
lo è al mondo esterno.
Ma, se si ammette l’esistenza
di una conoscenza senza immagini, non si viola il principio di cui abbiamo
parlato all’inizio, e cioè che l’essere, in quanto conosciuto, debba esser per
noi visibile? Ora, la conoscenza che
abbiamo chiamato interna fa indubbiamente parte dell’essere, dal momento
che è, che esiste; tuttavia, non è traducibile in un’immagine, non è rappresentabile. Abbiamo quindi un modo di essere del tutto
reale, poiché la consapevolezza di sapere è di per sé uno stato d’animo effettivo,
che tuttavia non può esser reso con un’immagine, come lo è invece l’oggetto
esterno, il mondo.
b. Se
tale conoscenza senza immagini, realtà effettiva della nostra mente, non può
non appartenere all’essere, allora dobbiamo modificare la nostra affermazione iniziale
e dire che l’esser invisibile è una caratteristica dell’essere non meno
fondamentale della sua visibilità. Ciò che
è, può essere visibile o invisibile, può cioè tradursi o non tradursi in
un’immagine per noi, senza per questo cessare di essere. L’esser immagine per
noi, l’esser cioè visibile, non è allora una caratteristica che inerisca alla
natura dell’essere in modo tale che senza di essa l’essere non sarebbe. Se noi chiamiamo p e n s i e r o il sapere di sapere, ossia la consapevolezza
interiore dell’esistenza dell’immagine del mondo esteriore in noi, dobbiamo
ammettere che questo pensiero è, e quindi che il pensiero in
quanto tale esiste, senza che per questo sia possibile renderlo in
un’immagine. Chi di noi può dare una
forma visibile al pensare in quanto tale e quindi all’atto di pensiero? Nell’immagine si ha sempre l’ente o la
cosa, mai l’atto di pensiero che la produce per noi. Il pensiero in atto non si distingue per noi
dall’immagine che ne costituisce il contenuto determinato, hic et nunc. E, bisogna dire, non si distingue nemmeno se
il suo contenuto è costituito da un concetto e non dall’immagine del mondo
esterno o da una di fantasia.
c. Da queste considerazioni, preliminari ai fini
di stabilire dei punti fermi nel nostro modo di conoscere, deduciamo che
esistono per il soggetto una conoscenza esteriore ed una interiore,
alle quali non si può applicare allo stesso modo il principio che ciò che è sia
conoscibile solo in quanto sia immagine per noi, sia visione, eidos, forma. Quale può essere la forma di un
concetto? O della consapevolezza di vedere, di sentire? Diciamo, allora, che conoscenza e visione non
coincidono, nel senso che può ed anzi deve esserci una conoscenza senza
visione, senza immagine, come quella il cui oggetto è costituito dalla mera consapevolezza,
dall’esser coscienti dell’attività dei nostri sensi e di quella del nostro
intelletto.
d. Da queste considerazioni possiamo ricavare
un’ulteriore riflessione sul significato che la coscienza possiede o meno in
quanto prender coscienza, esser certi e dell’attività dei nostri sensi e
di quella del nostro intelletto: la prima riferita al mondo esterno, la seconda a quello nostro, interno,
puramente mentale. La riflessione è la seguente: il sapere di sapere incide in qualche modo
sulla natura del sapere stesso?
Quando mi rendo conto che sto guardando le cose che mi circondano,
questa mia consapevolezza aggiunge forse qualcosa al mio sguardo? Lo modifica in qualche modo? Si direbbe di no. E quando so che sto pensando, pensando a un
determinato concetto, per esempio a quello del bello o del giusto, la mia
consapevolezza che sto pensando a questi concetti, influisce forse sul mio
sapere specifico dell’oggetto, che qui è il concetto sul quale sto riflettendo? Non sembra proprio.
Scrisse
Spinoza, in una delle sue prime opere:
“non è necessario, perché io sappia, di sapere di sapere, e molto meno è
necessario di sapere che so di sapere; non più di quanto, per conoscere
l’essenza del triangolo, sia necessario conoscere l’essenza del
cerchio…Infatti, per sapere di sapere, devo necessariamente prima sapere”[1].
In effetti, dopo
essermi reso conto di vedere o di pensare, continuo a vedere e a pensare come
prima, concentrato come prima in quello che stavo facendo, nel mio modo di
essere abituale, non modificato dalla consapevolezza interiore del sapermi
vedente e pensante. Per “sapere”, dunque, come scrive Spinoza, “non è
necessario sapere di sapere”, non occorre che ci sia la consapevolezza di
sapere. È soprattutto da Kant in poi che
si è cominciato a parlare di una “coscienza” che sarebbe implicita in
ogni nostro concetto. Senza tale “coscienza”
surrettizia, il concetto non sarebbe in grado di svolgere il suo compito: unificare in una sola “rappresentazione” il
molteplice della realtà empirica. “Questa coscienza può sovente esser molto
debole [schwach], cosicché noi la colleghiamo nell’effetto – e non
nell’atto stesso cioè immediatamente – al prodursi della rappresentazione; ma, nonostante questa differenza, una
coscienza deve esser pur sempre presente, anche se mancante della chiarezza
piena; senza questa coscienza, i concetti, e con essi la conoscenza degli
oggetti, appaiono del tutto impossibili”[2].
La “coscienza” (Bewusstsein)
della quale parla qui Kant è in sostanza presupposta o implicita: anche se poco chiara, per non dire oscura,
“deve pur sempre esser presente” (muss doch immer ein Bewusstsein
angetroffen werden). In tal
modo si è preparata la strada all’autocoscienza
fondamento di tutto il sapere, tipica degli Idealisti, e alle posteriori, e per
noi contemporanee, precomprensioni e autocomprensioni, in
definitiva al soggettivismo più radicale: la mia conoscenza dell’oggetto è già
pre-strutturata secondo una inconsapevole pre-comprensione, della quale mai mi
libero[3].
Ma una coscienza che è
da presupporsi sempre implicita nei nostri concetti, rappresenta una
contraddizione in termini, dal momento che si tratterebbe di una coscienza
priva di effettiva coscienza, non cosciente, se così posso dire. Il fatto è che
la coscienza viene sempre dopo.
Come diceva Spinoza, “per sapere di sapere devo prima sapere”: se non si
dà il prima costituito dal mio sapere di qualcosa, sensazione o concetto
che sia, su cosa si eserciterebbe il mio “sapere di sapere” ossia l’atto
speculativo tipico della coscienza? Non
avrei nulla di cui esser consapevole. Né
può esser contemporanea al “sapere”, la “coscienza di sapere”, dal
momento che i nostri pensieri non sono mai contemporanei tra loro, avvengono
sempre in successione, nel tempo. Ci è,
infatti, impossibile pensare simultaneamente a due o più cose diverse,
quali che siano. Provi chi legge queste
mie righe, mentre le sta leggendo, a pensare simultaneamente a qualsiasi altra
cosa, senza perdere la concentrazione, come se potesse simultaneamente seguire
nel pensiero due ragionamenti o anche solo due immagini diverse. Mentre leggo o
ascolto, posso ovviamente concentrarmi su altro ma solo al prezzo di perdere
del tutto il filo dell’attenzione iniziale.
La coscienza di sé, in
quanto abbia un effettivo contenuto, è sempre posteriore a ciò di cui è
coscienza. La presenza di un’eventuale
pre-comprensione nei confronti dell’oggetto constituente il contenuto nella
nostra presa di coscienza, non riguarda il prender coscienza come atto
mentale che si sussegue nel tempo alla percezione o al concetto di cui si è
coscienti; concerne, al contrario, l’elaborazione del significato che attribuiamo al contenuto delle nostre
percezioni e dei nostri concetti.
Riguarda, pertanto, un’attività che è quella del pensiero che analizza,
sviluppando il suo discorso mentale in
modo del tutto indipendente dalla presa di coscienza che il soggetto stesso ne
abbia.
Un ulteriore punto
fermo che possiamo ricavare è allora il seguente: l’attività nostra interiore, dalla percezione
del mondo esterno al concetto all’aver coscienza dell’una e dell’altro, è
costituita da atti di pensiero che si succedono sempre, allineandosi nel
tempo, ragion per cui il tempo
risulta esistere come effettiva realtà. Nel
tempo, poiché la successione dei nostri pensieri non ha certamente luogo
nello spazio; può averlo solo nel tempo.
E poiché i nostri atti di pensiero, quale che sia il loro contenuto,
esistono effettivamente, ciò significa che esiste effettivamente anche il tempo
come realtà oggettiva: durata nella quale essi si trovano, finché
durano, esaurendovisi in sequenza, senza per questo far venir meno il durare
nel tempo del pensiero che li ha pensati e della realtà che lo ricomprende.
Paolo Pasqualucci, martedì 24 gennaio 2017
[1]
Bento de Spinoza, Emendazione dell’intelletto. Principi della filosofia
cartesiana. Pensieri metafisici, introduz., tr. it. e note di Enrico de
Angelis, Boringhieri, Torino, 1962, pp. 49-50.
Il passo è dalla Emendazione dell’intelletto.
[2] Immanuel
Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino,
1967, p. 644 (A 103-4). Per l’originale:
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft,
a cura di Raymund Schmidt, 1930, Meiner, Hamburg, 1957, pp. 150-1a.
[3] Si
tratta di noti concetti heideggeriani, sottoposti ad una critica a mio avviso
assai acuta da parte di Karl Lōwith: “L’impianto
stesso della analisi heideggeriana della comprensione è dunque determinato fin
da principio dalla prestrutturazione [Vorstruktur] attribuita a un
comprendere che sempre preinstaura se stesso. Ma la necessità di questa
pre-posizione non è una premessa del comprendere che vada poi eliminata nel suo
svolgimento, ma resta insita in esso e lo orienta” (K. Lōwith, Interpretazione
di ciò che rimane taciuto nel detto di Nietzsche ‘Dio è morto’”, in: ID., Saggi
su Heidegger, tr. it. di Cesare Cases e Alessandro Mazzone, Einaudi,
Torino, 1966, pp. 83-123; pp. 89-90).
Pre-strutturandosi di continuo nel
suo andare all’oggetto, il pensiero non ci arriva mai e ogni conoscere diventa,
falsamente, un autocomprendersi nel processo con il quale pre-strutturiamo
l’oggetto del comprendere stesso.