La giustizia secondo Platone: fare il proprio dovere
1. Non esistono diritti
senza doveri.
Il concetto della
giustizia sembra oggi invocato soprattutto nel senso di giustizia sociale oppure in connessione ai
cosiddetti “diritti umani”. In ogni
caso, in relazione all’idea di un diritto da soddisfare, da proteggere. Ma esiste anche una stretta relazione tra
l’idea della giustizia e quella del dovere. Oggi si fa un gran parlare dei “diritti”,
soprattutto dei “diritti umani”. Ma dei
doveri non si parla mai o quasi. Sui
media veniamo bombardati quasi ogni giorno da denunce e perorazioni in favore,
in particolare, dei “diritti delle donne”, dei “migranti”, delle “minoranze”, soprattutto quelle dei
cosiddetti diversi. L’idea del dovere
viene impiegata principalmente per indicare il dovere dello Stato di soddisfare
tutti i “diritti umani” che si fanno oggi valere, a cominciare, appunto, da
quelli delle donne, dei “diversi”, dei “migranti”, delle “minoranze”, tutte
categorie che si considerano per principio “oppresse” . Sembra che esistano soggetti che hanno solo
diritti, a cominciare dalle donne, di contro ad altri che hanno solo doveri, a
cominciare dallo Stato.
Il concetto del
diritto dell’individuo (in passato, diritto naturale accanto al diritto
soggettivo, garantito dall’ordinamento giuridico o diritto in senso obiettivo)
si è allargato a quello di diritto dell’essere vivente e quindi anche
degli animali. E domani degli insetti,
com’è vero che alcuni anni fa c’è stato un dibattito alla britannica Camera dei
Lords per vedere se era il caso di estendere agli insetti le sanzioni previste
per chi maltratta gli animali, procurando loro dolore. L’augusto consesso discusse per ore sulle
capacità di sofferenza dell’insetto ma l’idea di mandare in galera chi
schiaccia una zanzara o uno scarafaggio alla fine fu respinta. Si parla oggi tranquillamente di “diritti degli
animali”, senza rendersi conto dell’assurdità della cosa: non si riesce a capire
come un essere privo della ragione e quindi per natura incapace di intendere,
volere e parlare, possa esser considerato titolare di diritti. Il diritto, come fenomeno, è tipica
espressione della ragione, della quale Iddio ha dotato solo l’uomo: il suo regno è quello della volontà
razionale, nelle varie forme nelle quali si esprime.
Contro l’irrazionalismo dominante bisogna
ribadire un tradizionale concetto della scienza e della filosofia del
diritto: non possono esistere diritti
senza doveri corrispondenti, in capo al medesimo individuo. Il soggetto titolare
di diritti, in quanto soggetto razionale, è, per la stessa ragione, sottoposto
a doveri. Il diritto e il dovere sono
concetti che si implicano a vicenda. E
non solo per gli individui, in una certa misura anche per le collettività, per i popoli.
1.1 È ingiusto rispondere all’ingiustizia con
l’ingiustizia.
Platone àncora l’idea della giustizia a quella
del dovere. Esaminerò sinteticamente
alcuni passi del Critone, il dialogo che descrive la morte di Socrate, e
de La Repubblica, dedicato allo Stato ideale.
Critone, discepolo di
Socrate, intento a salvare la vita all’amato maestro, ormai settantenne,
condannato a morte con la falsa accusa di aver predicato contro la religione e
corrotto i giovani, andò da Socrate
dicendogli che tutto era pronto per la fuga.
Ma costui si rifiutò di seguirlo opponendo una serie di ragionamenti
rimasti giustamente esemplari. Socrate aveva una lingua tagliente e si era
fatto molti nemici. L’assemblea popolare di Atene lo aveva condannato ad una
morte senza quasi sofferenza, per avvelenamento progressivo, da cicuta. Poco tempo dopo si era pentita e aveva
condannato uno o forse due dei suoi tre accusatori a loro volta a morte, questa
volta dolorosa, rovesciando il verdetto iniziale e riabilitando Socrate, cui
fece erigere una statua da Lisippo[1].
Ma vediamo come
Socrate elabori il concetto della giustizia.
Critone annunziò a Socrate che aveva
organizzato la sua fuga anche per dimostrare quanto errata fosse la voce popolare
secondo la quale egli, essendo ricco, avrebbe potuto già influire positivamente
sul processo di Socrate “solo che avesse voluto spender danari”, evidentemente
per corrompere i membri dell’assemblea.
Da qui una discussione sulla validità dell’opinione: “Ma perché, o buon Critone, dobbiamo
preoccuparci tanto dell’opinione della gente?”[2]. Socrate demolisce l’opinione popolare e “la
potenza del volgo” in quanto fonti di verità:
alcune opinioni sono buone ma altre cattive e il volgo tende ad esser
dominato dalle passioni. Il nostro comportamento
non dobbiamo sottoporlo al giudizio morale del volgo ma al giudizio della
Divinità: “o carissimo, noi non dobbiamo
affatto preoccuparci di quello che potrà dire di noi il volgo, bensì di ciò
solo che potrà dire colui che s’intende del giusto e dell’ingiusto, giudice
unico, ch’è tutt’uno con la verità”[3]. Ora, per il volgo conta soprattutto il vivere
in quanto tale. Per l’uomo razionale,
invece, “non il vivere è da tenere nel più alto conto ma il vivere bene”. E vivere bene “è la stessa cosa che vivere
secondo onestà e secondo giustizia”[4].
Socrate ribadisce
l’ideale greco dello eu zēn , del “viver bene” ossia all’insegna
della virtù (aretē). La
virtù comporta praticare la giustizia, che anzi, come dicevano i poeti,
“riunisce in se stessa ogni virtù”.
Posta l’esigenza che bisogna vivere rispettando “l’onestà e la
giustizia”, sorge allora il problema se sia giusto che Socrate scappi dal
carcere. Non sarebbe giusto, spiega
Socrate, perché “bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo
tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque
altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia”[5].
Dunque, egli è stato condannato ingiustamente però vale ugualmente per lui il
dovere di “restare fedele al suo posto” e starsene tranquillo, anche se sa di
dover morire per colpa di quell’ingiusta condanna. E qual è ora il suo posto? Quello di un condannato in attesa
dell’esecuzione capitale, sia pure nella forma non crudele di una tazza di
veleno che provoca una lenta e non dolorosa fine. Ma il discorso potrebbe sembrare assurdo
senza la conclusione, che sembra essere una vera e propria causa finale
del comportamento di Socrate. Stabilito
il principio generale che bisogna “restare al proprio posto”, Socrate afferma
che tale principio va applicato anche quando si subisce ingiustizia. Non è troppo?
No, visto che il non applicarlo vorrebbe dire commettere ingiustizia. Non bisogna replicare all’ingiustizia con
l’ingiustizia. Il divieto morale di commettere ingiustizia è
assoluto: “non si deve rendere ingiustizia
né far male ad alcuno degli uomini, neanche chi abbia qualsivoglia male patito
da costoro”[6].
1.2 Le Leggi spiegano a Socrate perché sarebbe
ingiusto fuggire.
Ma perché Socrate
commetterebbe ingiustizia se fuggisse dal carcere? È stato condannato ingiustamente, è
innocente, fuggirebbe per salvare la propria vita: in cosa consisterebbe l’ingiustizia? Lo spiega la prosopopea (personificazione)
delle Leggi che compaiono davanti a Socrate assieme “alla città tutta
quanta”. Le Leggi fanno presente a
Socrate che egli deve la sua esistenza a loro poiché senza le Leggi non sarebbe
stato registrato fra i cittadini, non avrebbe avuto un’educazione e non si
sarebbe sposato; che avrebbe potuto andare in esilio prima della sentenza e
che, in alternativa, avrebbe potuto cercare di cambiare la legge in base alla
quale è stato condannato. Ma lui non
aveva sempre detto che preferiva la morte all’esilio? E non è forse legge della Città che le
sentenze debbano valere? Fuggendo, Socrate avrebbe tolto vigore alle sentenze e
distrutto la città. Inoltre, le Leggi e Socrate non sono sullo stesso
piano: “se noi intendiamo fare qualcosa
contro di te, credi di aver diritto anche tu di fare le stesse cose contro di
noi”? Tu riconosci il principio
d’autorità nel padre e nel padrone e non lo riconosci nelle Leggi, mettendoti
sul loro stesso piano? “Se noi tentiamo
di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni
tuo potere di mandare a morte noi che siamo le leggi e la patria, e dirai che
ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?”.
Ti sei dimenticato che
bisogna onorare la Patria più del padre e della madre? La Patria “bisogna persuaderla [a fare il
contrario] o eseguire quello che essa comanda e soffrire se essa comanda di
soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga
incatenati, sia che essa mandi in guerra per esser feriti o uccisi; bisogna far
questo perché in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né
abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro
luogo, bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano oppure
persuaderle in che consiste la giustizia”.
Queste parole, non ci
ricordano un antico motto: “potius
mori quam foedari”, meglio la morte che il tradimento? Ma tu, Socrate, concludono le Leggi, non sei
vittima delle Leggi: “tu morirai vittima di un trattamento ingiusto non già da
parte delle Leggi ma da parte degli uomini”.
Sono gli uomini ad aver applicato in modo ingiusto una legge giusta[7]. Giusta è infatti la legge che punisce, anche
con la morte, chi attenta alla religione e corrompe la gioventù.
2. La giustizia è: “fare ciò che è proprio di ciascuno”
Si vede dunque che la giustizia, come
categoria dello spirito che deve esser di guida alle nostre azioni, si fonda
sul concetto del restare al proprio posto facendo il proprio dovere sino in
fondo. Anche se la cosa dovesse costarci,
sino al punto da rimetterci la vita.
Un’idea della giustizia spinta sino all’abnegazione, al di là delle
possibilità umane? Ma qui non si tratta
di stabilire criteri di opportunità, contenenti una casistica di ciò che l’uomo
può effettivamente fare, nella vita di tutti i giorni, ma di fissare i termini
di un dover-essere che si pone necessariamente come una meta trascendente rispetto
alle nostre limitate capacità. Nell’idea
platonica della giustizia si rispecchia un alto ideale morale, che vale per tutti
perché vuole esprimere la parte migliore di ciascuno di noi.
Ciò risulta anche da La
Repubblica. Il dialogo, com’è
noto, verte in prevalenza sui caratteri
dello Stato migliore, nel quale ciascun individuo dovrebbe “attendere a una
sola attività, quella per cui la natura l’ha meglio dotato”. Questa constatazione tira in ballo
immediatamente il concetto della giustizia (dikaiosynē), consistendo esso
“nello esplicare i propri cómpiti”[8],
letteralmente: fare ciò che è proprio
di ciascuno (tá autoû pràttein). Esplicare i propri compiti significa in
sostanza fare il proprio dovere.
Platone sta discutendo
sulle virtù che “rendono buono lo Stato”, gli danno cioè un valido fondamento,
anche e soprattutto sul piano morale. Queste
virtù sono “la temperanza, il coraggio, l’intelligenza”. Ma da sole non bastano. Occorre la giustizia, alla base di
tutto e in quanto operante in tutti: “virtò
presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell’artigiano,
nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo
esplica il proprio cómpito senza attendere a troppe cose”[9]. La precisazione, “senza attendere a troppe
cose [polypragmonein]”, che altri traduce: “senza occuparsi dei [cómpiti] altrui”, vuol
chiarire ulteriormente il concetto[10].
Non ci deve essere
“uno scambiarsi di posto” e un conseguente “attendere a troppe cose”. Ciò sarebbe una “rovina per lo Stato”, da intendersi in senso allargato, come Respublica
includente anche la società[11]. In effetti, se ognuno debordasse dai propri
limiti naturali e volesse vivere facendo anche “ciò che è proprio degli altri”,
non si creerebbe un disordine permanente, che provocherebbe, alla fine,
l’estinzione della Res publica?
Ora, la giustizia come intesa da Platone è sì funzionale al concetto
dello Stato ma non può esser ridotta ad esso; dimostra di possedere un
significato autonomo, più profondo.
Il significato è il
seguente: ognuno di noi deve sempre
fare ciò che gli è proprio in conseguenza della sua natura di essere
razionale, natura nello stesso tempo umana e sociale. Il “proprio” secondo natura del fanciullo
sarà, per esempio, quello di rispettare i genitori e obbedir loro, affidandosi
all’opinione e all’insegnamento dei suoi maestri; della donna, quello di essere innanzitutto
madre e moglie, pilastro della famiglia, della casa e per questa via della società;
dello schiavo, di obbedire al padrone e di servirlo onestamente; del padrone,
di trattare con temperanza e correttamente lo schiavo (e ogni servo,
sottoposto), senza umiliarlo o sfruttarlo; e così via. Si mescola qui ciò che appartiene alla
natura umana in quanto tale a ciò che vi si aggiunge in quanto creato dai
rapporti sociali; figure transeunti, come l’istituto della schiavitù. Ma questa mescolanza non appare tale
da indebolire il concetto. È indubbio
che esiste una natura umana costituita in un certo modo da Dio che l’ha creata,
ragion per cui ogni individuo ha in primo luogo il dovere morale di
essere ciò che è per natura ovvero di agire seguendo e attuando sempre
ciò che costituisce il proprio della sua natura.
Così la donna dovrà
vivere secondo il proprio della donna e l’uomo dell’uomo. Questo “proprio” viene influenzato dai
rapporti sociali, storicamente mutevoli.
Ma solo fino ad un certo punto.
Al di sotto del mutamento appare sempre l’elemento immutabile. Nel caso dell’uomo e della donna, il “proprio”
di ciascuno, in relazione all’altro, è sempre stato quello di sentirsi
reciprocamente attratti, di unirsi, di generare insieme figli, di vivere
insieme in quella forma privata e pubblica riconosciuta dalla religione, dal
costume, dal diritto, che chiamiamo matrimonio.
In una recente manifestazione delle
femministe americane, si leggeva su di un cartello: “difendiamo i nostri
diritti riproduttivi”. Traduco
letteralmente l’espressione: reproductive
rights. Ora, si potrebbe credere, a
prima vista, che questi “diritti”
concernano il diritto ad esser madri, a procreare. Sappiamo, invece, che il significato “politicamente
corretto” di questa terminologia è all’opposto quello di “diritto ad abortire
liberamente”, per semplice scelta unilaterale della donna, diritto che si
pretende lo Stato debba garantire o continuare a garantire. Secondo il concetto di giustizia qui
illustrato, tale “difesa” si rivela ingiusta perché manifestamente contraria
a ciò che costituisce il proprio della donna in quanto tale, che
la natura ha costruito, possiamo dire, per esser madre non per
nullificare volontariamente la propria capacità riproduttiva.
Il concetto platonico
della giustizia non esaurisce il concetto stesso, come sappiamo. Egli lo elaborò in contrapposizione alle
concezioni dominanti, come riportate nella stessa Repubblica, improntate
ad un diffuso utilitarismo, quali ad
esempio: “…però rimango del parere che
la giustizia consiste nel giovare agli amici e nel danneggiare i nemici”[12]. L’elaborazione del concetto della giustizia
costituisce uno degli elementi imperituri de La Repubblica, della quale
non possiamo ovviamente accettare la visione utopica, quella del c.d.
“comunismo platonico”, ed altri aspetti.
Se poi il concetto
platonico sembrasse astratto o troppo rigido, si dovrebbe riflettere sul fatto
che l’idea della giustizia presenta sempre qualcosa di rigido ed impersonale,
che fa forza nei nostri confronti perché in qualche modo ci colpisce nei nostri
interessi, nei nostri diritti, e a volte anche nei nostri sentimenti. Questo vale anche per una giustizia che sia
applicata in modo moderato, il che avviene sovente. La giustizia, secondo il
suo concetto, rappresenta sempre ciò che è giusto in sé e va attuato o
imposto perché è giusto, ci piaccia o meno. La giustizia è un valore assoluto, che deve
imporsi anche contro di noi, se necessario.
L’ideale del giusto
nel senso di far sempre ciò che è proprio di ciascuno, in definitiva di far sempre il proprio dovere, illumina la
giustizia soprattutto come virtù. Quando
pensiamo, invece, alla giustizia nel senso di “dare a ciascuno il suo” o della
“uguaglianza di trattamento” nei rapporti scambievoli, aspetti messi
particolarmente in luce da Aristotele,
ce la rappresentiamo come criterio di giudizio ossia come regola, norma. Qual è, infatti, la norma cui deve ispirarsi
un giudice, un arbitro e, in una certa misura, anche il legislatore? Dare a ciascuno il suo, secondo i suoi meriti
e le sue colpe; regolare in modo uguale situazioni uguali. Regolare in modo uguale
situazioni tra loro disuguali, o addirittura opposte, sarebbe ingiusto: e questo è, appunto, l’errore dell’ugualitarismo,
visione del mondo settaria, storicamente produttrice di molteplici disastri.
La regola di giustizia
del “dare a ciascuno il suo”, secondo la nostra Fede, sarà applicata
infallibilmente dal Cristo Giudice nei confronti dell’anima di ciascuno di noi,
appena morti, come è ricordato nell’Atto di fede: “…E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio,
incarnato e morto per noi, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il
premio o la pena eterni”. Possiamo
dire: darà a ciascuno il suo, a seconda
di come avrà attuato nella sua vita terrena ciò che costituiva per natura ciò che era proprio di lui stesso.
Paolo Pasqualucci, Domenica 29 gennaio 2017
[1]
Per la vita di Socrate: Diogene Laerzio,
Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, TEA, Milano, 1991, pp.
54-64.
[2] Critone
44 c. Mi sono servito della tr.it. di
Manara Valgimigli, in: Platone, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I, pp.
73-91; pp. 76-77.
[3]
Op. cit., 48 a; tr.it., p. 81.
[4]
Op. cit., 48 b; tr. it., p. 82.
[5]
Op. cit., 48 c; tr. it., p. 82.
[6]
Op. cit., 49 c.; tr. it., p. 83.
[7] Ho
riassunto la Prosopopea delle Leggi dalla traduzione del Critone
citata: 50-54; pp. 86-91.
[8] La
Repubblica, 433 b, in Platone, Opere, cit., II vol., p. 256. La traduzione è di Franco Sartori.
[10] Platone, La Repubblica, a cura di
Giuseppe Lozza, tr. it. con testo a fronte, Mondadori, 1990, pp. 317. L’originale greco è quello curato per Les
Belles Lettres da E. Chambry.