Sull’essere
e la sostanza
2. Critica del concetto hegeliano
dell’essere.
Continuo qui il discorso sull’essere e la
sostanza. Si sta analizzando il rapporto
tra l’essere in quanto essere e il principio di non contraddizione, principio
che a un certo momento è apparso inevitabilmente sulla scena, scaturito per
intima necessità dalla constatazione che l’essere è e il non-essere non è. Critica della concezione hegeliana, secondo
la quale “l’essere in quanto essere” o “puro essere” è concetto astratto, la
cui indeterminatezza equiparerebbe l’essere al nulla: in tal modo Hegel ha cercato di invalidare il
principio di non contraddizione.
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Nel paragrafo
precedente (§ 1), qui sopra
pubblicato il 15 dicembre c.a., abbiamo concluso riflettendo sul fatto che il
principio di non contraddizione si costruisce già a partire dalla definizione
dell’essere in quanto tale, non ancora indagato nella sua sostanza,
nell’essenza o natura sua, di ente determinato.
In effetti il citato,
famosissimo dictum di Parmenide:
“l’essere è, il nulla non è”, non contiene forse una patente anche se
implicita dimostrazione del principio di non contraddizione? Se l’essere è per definizione ciò che è, ne
consegue che “il nulla” non è. La
contrapposizione è frontale, inconciliabile.
L’essere e il suo contrario, il nulla, che si può rappresentare anche
come non-essere, non possono essere
ossia esistere simultaneamente.
Sostenerlo, significherebbe voler imporre un’aperta contraddizione in
termini. Si deve pertanto affermare che
di nessuna realtà, quale che sia, si può pensare e dire che è e non è nello
stesso tempo. O è o non è. Tertium non datur.
E che sia così,
bisogna dirlo dell’essere in quanto essere, dell’essere in quanto tale, senza
ogni ulteriore determinazione.
La frase in corsivo
era tipica di H e g e l , ostilissimo
all’idea dell’essere, al quale contrapponeva il divenire. Al puro essere, Hegel attribuiva una
“indeterminata immediatezza”, che lo rendeva “uguale a se stesso e pure non
disuguale [nicht ungleich] rispetto all’Altro”, nel senso (interpreto)
che non lasciava percepire la sua differenza rispetto a quest’ultimo, al
non-essere; pertanto “privo di ogni differenza interiore ma anche verso
l’esterno”. In definitiva: “pura
indeterminatezza e vuoto”, da mettere sullo stesso piano del nulla. Perché?
Se avesse una qualche “determinazione o contenuto”, proseguiva Hegel,
differenziantisi al suo interno o che lo facessero apparire come differente
rispetto ad un altro da sé, “non potrebbe mantenersi nella sua purezza”. Ne consegue che “in esso non v’è nulla da
intuire, ammesso che si possa parlare qui di intuizione; oppure, è solamente questo
puro, vuoto intuire. Tanto meno c’è in
esso qualcosa che sia pensare, oppure è esso stesso questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminata immediatezza, è in
realtà il Nulla, e nient’altro che nulla”.
Ma l’audacia di Hegel
non finiva qui: egli descriveva allo
stesso modo il Nulla, inteso come “il puro Nulla”, attribuendogli la stessa indeterminatezza e
lo stesso vuoto del puro essere. In tal
modo il puro essere e il puro nulla
venivano posti sullo stesso piano, resi uguali dal punto di vista del
concetto: “Das reine Sein und
das reine Nichts ist also dasselbe”.
Dopodiche Hegel
passava a far dipendere il concetto del
v e r o dall’esser trapassati il
puro essere e il nulla l’uno nell’altro, onde la verità di entrambi risulterebbe in “questo movimento dello sparire
immediato dell’uno nell’altro: il divenire; un movimento nel quale
entrambi sono differenti ma tramite una differenza che si è per ciò stesso
immediatamente dissolta”[1].
La realtà per Hegel si
pone come divenire, questo è il concetto fondamentale. L’essere in quanto essere (il “puro essere”)
viene ridotto a momento del divenire e per far ciò bisogna equipararlo al
nulla, sul piano dei concetti. Secondo Aristotele il divenire presuppone
l’essere. Secondo Hegel, esso
risulterebbe invece di una sintesi-superamento dell’essere e del nulla. Il divenire non è un modo dell’essere,
che resti sempre all’interno dell’essere dell’essere: è invece il superamento
dell’essere che scompare nel suo contrario, rappresentato dal nulla. E dal
nulla che scompare nell’essere che diviene. Il divenire poggia, quindi, non
solo sull’essere ma anche sul nulla, sul non-essere.
In questo primo
capitolo della Logica, Hegel fa poi seguire nutrite pagine di
approfondite Annotazioni ai suoi assunti preliminari, costituenti la
celebre triade essere-nulla-divenire posta a fondamento della sua
visione dialettica della realtà. Non lo
seguirò qui nel suo complesso argomentare.
Mi limiterò ad alcune osservazioni, in relazione al nostro tema, che è
quello dell’essere in quanto essere, indagato in tutta la possibile
ricchezza del suo concetto, visto che da esso si ricava, in sostanza, il
fondamentale principio di non contraddizione.
Se la proposizione
parmenidea “l’essere è, il nulla non è” è vera, essa impedisce a priori
un’equiparazione tra l’essere e il nulla come quella fatta da Hegel. Il quale,
dal canto suo, accusa Parmenide di porre il suo principio in modo “assolutamente
astratto”, sì da non cogliere l’effettivo nesso di essere e non-essere che
caratterizzerebbe la realtà[2]. Ma che vuol dire qui “astratto” e in un modo
“assoluto”? L’interpretazione più
attendibile sembra la seguente: astratto in modo assoluto è quel principio che
valga come pura opposizione sul piano logico, senza che gli corrisponda
alcuna opposizione sul piano della realtà. Che resti, quindi, sul piano puramente logico
senza potersi applicare a quello ontologico.
Ma già Aristotele ci
offre una serie di dimostrazioni del fatto che il principio non è astratto ma
“si fonda sulla impossibilità ontologica della coesistenza dei contrari”[3]. Per “coesistenza” si intende, ovviamente,
l’esser presente simultaneamente nel medesimo ente, nell’essere in quanto
essere; “ontologica”, che appartiene alla natura concreta dell’essere
(letteralmente dell’essente – ontos, in greco), alla cosa in sé, non
solamente al pensiero, in quanto tale distinto dall’essere, del quale è solo
una parte.
Una delle critiche più
radicali al concetto dell’essere di Hegel è stata, come è noto, quella di Adolf
Trendelenburg (1802-1872). Egli ha
scritto: “Alla prima astrazione
dell’essere puro non corrisponde infatti nella realtà alcunché. É una costruzione forzata del pensiero che
separa, e in nessun luogo si indica un diritto a trovare nel puro essere il
primo germe di uno svolgimento oggettivo”[4]. La
tesi di Trendelenburg è che la figura hegeliana del “puro essere”, che sarebbe
l’essere concepito nella sua astrazione di semplice o puro essere ancora
indeterminato, è a sua volta astratta, dato che essa non corrisponde a
nessuna realtà concreta. Si sta parlando,
aggiungo, dell’essere, che è il concetto della realtà nella sua concretezza
immediata e presente: come può Hegel
considerarlo, invece, il massimo dell’astrattezza, rispetto alla realtà? Per qual motivo il pensiero dovrebbe partire
dalla determinazione di un “puro essere” in sé del tutto indeterminato, vuoto?
Privo di ogni contenuto, quando invece l’è dell’essere esprime di per sé
il massimo del contenuto, quello dell’esistenza effettiva di ciò che è?
Inoltre, rifacendosi
ai rigorosi criteri della logica, come fissati già da Aristotele nella sua
dottrina del sillogismo, Trendelenburg dimostra che l’equiparazione di essere e
nulla, posta da Hegel alla base del suo concetto del divenire, contiene un
errore, dal punto di vista puramente logico.
“Nell’identità che
riconduce il concetto dato e il suo opposto all’unità di una più alta figura, è
possibile riconoscere la seconda figura della sillogistica aristotelica,
concludente però positivamente, cosa che la logica proibisce. Per esempio:
il puro essere è immediato, il nulla è immediato, dunque il nulla è puro
essere, oppure, se si scambiano le premesse, il puro essere è il nulla. La logica mette in guardia da tali
sillogismi, perché la seconda figura, se concludente in modo positivo, è quella
forma in cui si fa della X una U o della U una X (U è una lettera, X è una
lettera, allora X è U; come sopra). Per
la loro stessa natura i sillogismi della seconda figura che concludono
positivamente sono e rimangono fallaci e ingannevoli”[5].
In effetti,
dall’affermare che U è una lettera e che
X è una lettera, non si può dedurre che U e X siano lo stesso, come se
fossero l’identica lettera: essi restano
due lettere diverse e pertanto non possono esser considerati “lo stesso”. Allo stesso modo, dall’affermazione che il
puro essere è la semplice e astratta immediatezza priva di contenuto e che il
puro nulla è del pari la semplice e astratta immediatezza senza alcun
contenuto, non si può concludere che essi sono uguali, che l’uno sia “pertanto
in generale lo stesso” che l’altro.
Trendelenburg imputa a
Hegel anche un altro errore, sempre sul piano della logica.
“La logica dimostra
che non si deve invertire il giudizio universale affermativo semplicemente e
senza limitazioni. La dialettica del pensiero puro non ha timore di farlo. Nel suo primo movimento dice infatti
così: “Il nulla, in quanto
immediato e uguale a sé, è d’altra parte quello stesso che è l’essere”,
dopo che si era solo mostrato che il puro essere in quanto semplice immediato è
nulla. Dalla proposizione “il puro
essere è nulla” non segue che il nulla è inversamente quello stesso che è
l’essere e ciò non segue neanche dall’avere essere e nulla predicati uguali”[6].
Se osserviamo nel
dettaglio le argomentazioni di Hegel in questo suo famoso incipit della Scienza
della Logica, possiamo aggiungere le seguenti critiche:
a. Egli sostiene, come punto di partenza, che il
“puro essere”, in quanto “indeterminata immediatezza” non offre un concetto capace
di differenziarlo dall’altro da sé (gegen Anderes). Ma, se l’altro rispetto all’essere in
quanto essere è il nulla, questo “altro” non esiste, non è per
definizione e quindi l’essere non ha qui un “altro” da cui differenziarsi;
differenziarsi, voglio dire, in un modo diverso da quello per cui si
differenzia dal Nulla per il semplice fatto di esistere, di essere l’essere che
è. L’esistenza immediata
dell’essere è proprio ciò che, di per sé, lo differenzia dal nulla. È essa a
fare la differenza.
b. Come possono esistere un’intuizione o un
pensiero vuoto di contenuto, ossia privo di oggetto proprio? Si pensa sempre a qualcosa, il mio pensare ha
sempre un contenuto che ne costituisce l’oggetto specifico, quale esso
sia. Ma proprio questo Hegel afferma a
proposito del concetto del “puro essere”.
Nell’essere concepito in questo modo “non c’è qualcosa che sia pensare,
oppure è esso stesso questo vuoto pensare”.
In modo per lui caratteristico, Hegel pone sullo stesso piano il
contenuto del pensiero e il pensiero come attività, il pensato e il
pensare: il puro essere sarebbe
inconciliabile col pensiero, in esso si dà solo un “vuoto pensare”. Ma per l’appunto: “vuoto pensare” sembra un ossimoro, una
contraddizione in termini.
c. Tornando al rapporto tra l’essere e l’altro
(il non-essere), Hegel dice che il “puro essere”, a causa della sua
“immediatezza”, è “uguale a se stesso” e tuttavia “non disuguale rispetto
all’Altro”. L’uso del termine “non
disuguale” sembra creare una certa difficoltà.
Il punto di partenza del ragionamento è che l’essere in quanto essere o
“puro” è “uguale a se stesso”. Abbiamo
quindi, di fatto, una formulazione del principio d’identità (A = A), già
implicito del resto nel principio di non contraddizione (se A = A allora A non
è = B ed anzi non è tutto ciò che non è A, ragion per cui A non
può simultaneamente esser B o non-A).
Ora, per il solo fatto di esser “uguale a se stesso”, vale a dire di
esser ciò che è, il “puro essere” non si distingue forse da tutto ciò che
esso non è?
L’esser ciò che è, in
sé, implica quindi, per intrinseca necessità logica, la sua distinzione dal non
essere, inteso in senso assoluto, come Nulla, che è l’assenza di tutte le cose
ed anzi del Tutto stesso della realtà.
E questa distinzione, che si impone come logicamente ineludibile,
non rende forse l’essere una realtà di per sé già determinata dal suo
sempice esistere, che è appunto l’esistere dell’aristotelico “essere in quanto
essere”? Come può, quindi, Hegel
sostenere che l’esser uguale a se stesso dell’essere non lo distingua dall’Altro
da sé, tanto più se rappresentato dal non-essere che è il Nulla?
Si è visto che la
supposta mancanza di distinzione è posta da Hegel in modo singolare, come “non
disuguaglianza”. Ora, una “non
disuguaglianza”, come dobbiamo intenderla?
Se una cosa “non è disuguale” da un’altra, vorrà dire che sarà ad essa
uguale. Ma non è questo che sembra voler
qui dire Hegel. La sua idea è che
l’essere -- concepito come “puro essere”, poiché è quell’essere “solamente
uguale a se stesso” in preda ad una “indeterminata immediatezza”, in definitiva
all’immediatezza (termine che per ora non cerchiamo di spiegare) di ciò
che è irrelato a tutto il resto, all’Altro in generale -- non mostra alcuna
“differenza entro di sé” (infatti è “vuoto”) e per conseguenza nemmeno nei
confronti dell’Altro.
Ma poiché l’esser in
sé di ciò che è ossia l’esser-qui, l’esserci, l’esistere dell’essere, già lo
differenzia dal non essere, dal Nulla, non si comprende come il “puro essere”
possa considerarsi “non disuguale” (ossia uguale) a ciò che esso non è e quindi
al Nulla. Il principio di identità,
espresso nella dizione “esser uguale a se stesso” di tutto ciò che esiste,
impedisce che tutto ciò che esiste, l’essere in generale, possa esser posto sullo
stesso piano del Nulla, come se l’esistenza stessa delle cose fosse “non
disuguale” rispetto al suo contrario, rappresentato dal Nulla. L’insostenibilità dell’uso per così dire
dialettico del principio d’identità, fatto qui da Hegel, sembra pertanto
evidente. Il ragionamento di Hegel conduce
a questa assurda conclusione: che l’essere in quanto tale, il “puro essere”,
non mostrerebbe differenza alcuna nei confronti del Nulla. Ma, non mostrandola, dovrebbe essere lo
stesso del Nulla e pertanto non esistere, non essere: conclusione obbligata ma
manifestamente assurda.
d. Ci sarebbero poi molteplici riflessioni da
fare sul concetto della verità che qui compare. La verità consisterebbe
appunto nel divenire, concepito come risultato del rapporto tra l’essere
e il nulla. Ma ciò significa che il
concetto del vero in sé e per sé viene concepito all’insegna del divenire. Tradotto nelle categorie della filosofia
della storia hegeliana, ciò significa che il concetto del vero diventa figlio
del proprio tempo, escludendosi la possibilità di una verità sottratta alla
dialettica del divenire. È pur vero che
il divenire deve corrispondere alle categorie della dialettica dello Spirito
che si rivela nella storia, articolazione di tre immodificabili categorie: Spirito soggettivo, oggettivo, assoluto.
Esse mostrano di saper comprendere il processo storico come alternarsi di ascesa
e decadenza, e il significato delle epoche della storia umana, superando
l’unilateralità della filosofia della storia illuministica, erroneamente
convinta di un progresso lineare all’infinito della “ragione” contro le
supposte “tenebre” della religione e della tradizione. Ma resta comunque il fatto che l’unica verità
assoluta, per Hegel, non è più quella della Verità rivelata della religione
cristiana bensì quella dello Spirito che si rivela come autocoscienza dello
sviluppo storico, impersonata, questa autocoscienza, da un popolo o comunque
dalle forze che sembrino dominarlo. La
verità assoluta è quella posta dallo Spirito che riconosce se stesso nel farsi
della storia, in sostanza dalla coscienza del significato del proprio tempo
appresa speculativamente dagli individui che lo vivono.
Qui però entriamo in
un altro campo, che richiede ovviamente un discorso a parte.
Per tornare all’essere,
bisognerebbe ora vedere in che modo Aristotele abbia dimostrato la natura
ontologica e non semplicemente logica del principio di non contraddizione.
Come conclusione
provvisoria, possiamo dire che la concezione della realtà e della storia come divenire
sia tuttora predominante. Vi si sono innestati
altri elementi rispetto all’hegelismo: il marxismo, che da esso deriva, pur
rappresentandone nello stesso tempo una deviazione; l’evoluzionismo di origine
darwiniana, che ha fatto scadere la visione della storia come progresso ad una
sorta di biologismo a sfondo naturalistico.
Tuttavia la triade dialettica di “essere-nulla-divenire” sembra costituire
sempre in qualche modo l’archetipo o, se si preferisce, l’intelaiatura nascosta
del divenire nel quale mostra di credere l’uomo del nostro tempo.
Non si può certo
negare che la realtà del nostro mondo ed anzi del cosmo tutto sia
caratterizzata anche dal divenire.
Tuttavia, la sua comprensione non può esser disgiunta da quella
dell’essere: il divenire va ricondotto
entro l’essere, espungendo l’intrusione rappresentata dal concetto del Nulla,
che non può evidentemente rientrare in nessuna combinazione.
Paolo Pasqualucci
21 dicembre 2016
[1]
Tutti i passi di Hegel sono tratti dalla sua Logica: G.W.F.
Hegel, Wissenschaft der Logik, 1812 e 1831, ediz. di G. Lasson,
Meiner, Hamburg, 1963, rist. ediz. del 1934, pp. 66-67. Traduzione mia.
[2]
Hegel, Wissenschaft der Logik, cit., p. 68. La proposizione parmenidea esprimerebbe solo
“l’esaltazione del pensiero che si costituisce per la prima volta nella sua
assoluta astrazione”.
[3] La
frase è di Tricot, nel commento a Met., Γ 4 1005b, 35, dove Aristotele
rinnova l’attacco contro quelli che sostengono la stessa cosa essere e non
essere contemporaneamente: “il résulte
que, suivant Aristote, l’impossibilité logique d’affirmer et de nier en
même temps le prédicat du sujet, se fonde sur l’impossibilité ontologique
de la coexistence des contraires (3 1005 b 24)” (Arist, La Métaphysique.
cit., vol. I, p. 197, nota n. 2).
[4]
Friedrich Adolf Trendelenburg, Il metodo dialettico, tr. it. e
Introduzione di Marco Morselli, il Mulino, Bologna, MCMXC [1990], p. 82. Il saggio contiene il terzo capitolo delle
famose Ricerche Logiche di Trendelenburg (Logische Untersuchungen),
la cui prima edizione è del 1840. Il
capitolo contiene appunto la critica al concetto hegeliano dell’essere.
[5] Op.
cit., p. 95.
[6]
Op. cit., p. 97. Trendelenburg cita il
concetto hegeliano nella formulazione
datane dalla Encyclopädie dello stesso Hegel, ai parr. 87 e 88.